il lastrico solare conteso da luogo ad azione di rivendicazione.

La Cassazione ( Cass. civ. II sez. 18 gennaio 2017 n. 1210 rel. Scarpa) affronta un tema complesso e che tocca il cuore della disciplina dei diritti reali: come va qualificata l’azione di colui che agisce per vedersi riconosciuto proprietario di un bene e per far cessare attività di terzi che ne pregiudicano l’utilizzazione esclusiva ?

La vicenda riguarda un lastrico solare conteso fra più condomini: “Con citazione del 20 aprile 2004 F.G. e Bo.Ro. convenivano davanti al Tribunale di Milano B.S. e il Condominio di via (omissis) , chiedendo che fosse accertato il diritto di proprietà indivisa, in capo agli attori stessi ed al B. , della terrazza costituita dal lastrico solare, soprastante una porzione al piano terreno dello stabile condominiale, terrazza alla quale avevano accesso, attraverso le rispettive porte finestre, gli attori e il convenuto B. , proprietari di unità immobiliari ad essa adiacenti”

Osserva la corte che “F.G. e Bo.Ro. hanno invocato nel presente giudizio la loro qualità di comproprietari, insieme al convenuto B.S. , del terrazzo esistente tra le unità immobiliari di loro rispettiva titolarità esclusiva, comprese nell’edificio condominiale di via (omissis) . Su tale terrazzo gli attori hanno lamentato che il convenuto avesse costruito arbitrariamente un lucernaio che pregiudicava il loro utilizzo del bene comune, e perciò ne chiedevano la demolizione con il ripristino dell’originaria pavimentazione.”

in forza di tale qualificazione viene tratteggiato il principio di diritto applicabile. Pare che la Suprema Corte si orienti verso una disciplina probatoria unitaria (e restrittiva) per ogni azione che presupponga una controversia sul diritto di proprietà, sfumando pressoché completamente il labile confine fra accertamento e rivendica: “Secondo, quindi, l’orientamento di questa Corte, erroneamente ritenuto non applicabile nel caso di specie dalla Corte d’Appello di Milano, gli attori dovevano soggiacere all’onere di offrire la prova rigorosa prescritta in tema di azione di rivendica della proprietà ex art. 948 c.c., avendo agito per ottenere – previo accertamento della comunione – il recupero della piena utilizzazione della terrazza, mediante demolizione del lucernaio costruito dal convenuto che pregiudicava il loro utilizzo del bene comune e ripristino della situazione dei luoghi, ovvero allo scopo di conseguire un provvedimento che consentisse loro l’esercizio dei poteri spettanti ai comunisti nell’uso del bene e quindi disponesse la modifica dello stato di fatto (cfr. da ultimo Cass. 11 maggio 2016, n. 9656, non massimata; Cass. 24 febbraio 2004, n. 3648).
È stato effettivamente affermato in passato da questa Corte che colui il quale proponga un’azione di mero accertamento della proprietà di un bene non abbia l’onere della “probatio diabolica”, ma soltanto quello di allegare e provare il titolo del proprio acquisto, quando l’azione non miri alla modifica di uno stato di fatto, bensì unicamente all’eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l’attore è già investito (Cass. 14 aprile 2005, n. 7777; Cass. 9 giugno 2000, n. 7894; Cass. 4 dicembre 1997, n. 12300). In altre pronunce, viceversa, si è negata ogni attenuazione dell’onere probatorio del titolo del preteso dominio della proprietà, rispetto all’azione di rivendica, per chi proponga un’azione di accertamento della proprietà di un bene (Cass. 22 gennaio 2000, n. 696). Quest’ultima più rigorosa interpretazione potrebbe ora trovare corroborazione pure negli argomenti posti da Cass. sez. un. 28 marzo 2014, n. 7305, nel senso di non ammettere alcuna elusione dall’onere della probatio diabolica ogni qual volta sia proposta un’azione, quale appare pure quella di accertamento, che trovi il proprio fondamento comunque nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione.
Rimane comunque che F.G. e Bo.Ro. , sia perché chiedono l’accertamento della (com)proprietà del terrazzo, sia perché comunque mirano ad ottenere una modifica dello stato di compossesso del bene, con ordine al convenuto B. di demolire un manufatto da questo realizzato, essendo soggetti al medesimo onere probatorio prescritto per l’azione di rivendica, debbano dare la prova della proprietà del bene, risalendo, anche attraverso i propri danti causa, con la sequela degli acquisti a titolo derivativo (inter vivos o mortis causa) fino a chi abbia acquistato in via originaria (ovvero dimostrando il compimento dell’usucapione, mediante il cumulo dei successivi possessi uti dominus).”

© massimo ginesi 20 gennaio 2016

appalto e cantieri: il committente rimane responsabile dell’infortunio del dipendente dell’appaltatore.

La pronuncia non riguarda espressamente l’ambito del condominio, tuttavia  lo svolgimento di appalti e l’apertura di cantieri è vicenda di tale frequenza anche in ambito condominiale che i principi espressi meritano di essere conosciuti.

Cassazione Civile, Sez. Lav., 13 gennaio 2017, n. 798Ai sensi tanto dell’art. 2087 c.c. quanto dell’art. 7 d.lgs. n. 626/94 (applicabile ratione temporis all’infortunio in esame, occorso il 22.6.07), che disciplina l’affidamento di lavori in appalto all’interno dell’azienda, il committente nella cui disponibilità permanga l’ambiente di lavoro è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell’impresa appaltatrice, misure che consistono nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l’appaltatrice nell’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata, tanto più se caratterizzata dall’uso di macchinari pericolosi (cfr., ex aliis, Cass. n. 21694/11; Cass. n. 19494/09).

La responsabilità del committente è esclusa, a priori neanche da una condotta negligente del  soggetto infortunato ma solo da iniziative abnormi che – da sole – possano aver costituito antecedente causale unico dell’evento: “In tema di infortuni sul lavoro e di c.d. rischio elettivo, premesso che la ratio di ogni normativa antinfortunistica è proprio quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, destinatari della tutela, la responsabilità esclusiva del lavoratore sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, creando egli stesso condizioni di rischio estraneo a quello connesso alle normali modalità del lavoro da svolgere. In assenza di tale contegno da parte del lavoratore, l’eventuale suo coefficiente colposo nel determinare l’evento è irrilevante sia sotto il profilo causale sia sotto quello dell’entità dei risarcimento dovuto.

© massimo ginesi 19 gennaio 2017

L’erede che non comunica la propria qualità all’amministratore non può impugnare le delibere per vizio di convocazione

Una recente sentenza di merito  (Trib. Roma 2.12.2016 n. 22422) sancisce un principio che potrà rivelarsi assai interessante per l’amministratore.

I fatti sono tanto semplici semplici quanto di frequente accadimento.

Una condomina muore e le succedono i figli. Anni dopo viene notificato all’erede decreto ingiuntivo per quote condominiali scadute e non pagate,  ottenuto sulla scorta di consuntivi approvati negli anni antecedenti da assemblea cui l’ingiunto non era mai stato convocato.

Alla notifica del decreto costui impugna i deliberati, posti a fondamento della richiesta monitoria, assumendo che sussista vizio di convocazione.

Afferma il Tribunale che “Per quanto riguarda, poi, la doglianza concernente la mancata convocazione all’assemblea alle quali sono state approvate le delibere impugnate, il condominio convenuto a precisato che in quel periodo l’attore, in base all’anagrafe condominiale, non risultava appartenere al condominio, in quanto la titolarità dell’appartamento de quo risultava essere della signora X, madre dell’odierno attore; ne era pervenuta al condominio una comunicazione del decesso della signora e della successiva accettazione dell’eredità da parte degli eredi.

E poiché nel marzo 2008 il unità immobiliare della signora X facenti parte del patrimonio sottratto i creditori venivano sottoposto a sequestro conservativo dal tribunale civile di Roma, consegnate al custode giudiziario e, successivamente vendute all’asta, allo stesso custode giudiziario  era stato consegnato l’avviso di convocazione all’assemblea di cui trattasi.

Ciò posto, devesi osservare  che, a fronte di tale contestazione, era onere dell’attore fornire la prova di aver effettuato le dovute comunicazioni al condominio, circa il decesso della signora X e dell’accettazione della eredità con la conseguente assunzione dei diritti degli obblighi condominiali.

Tale prova non risulta fornita; ne risultano elementi dei quali si possa desumere che l’amministratore del condominio convenuto fosse a conoscenza del decesso della signora X. Deve ritenersi, pertanto, in sussistente il vizio di omessa convocazione lamentato da parte attrice”

La situazione all’esame del Tribunale capitolino è certamente peculiare, poichè all’epoca delle assemblee contestate  il compendio immobiliare era sottoposto a sequestro conservativo (certamente trascritto e a conoscenza dell’amministratore) e l’avviso di convocazione era stato correttamente inviato al custode.

Il principio affermato è tuttavia interessante laddove pone un onere di informazione in capo al condomino, pena l’impossibilità di dolersi della mancata convocazione.

La tesi affermata pone qualche dubbio di coordinamento – pur attenendo a diversa fattispecie – con l’orientamento di legittimità che, ormai oltre un decennio fa, ha spazzato via la tesi del condomino apparente, affermando l’onere del condominio di accertare l’effettiva titolarità del diritto in capo al singolo, trattandosi di posizioni giuridiche soggettive soggette a regime di pubblicità legale (da ultimo Cassazione civile, sez. II, 30/04/2015, n. 8824: “Nelle assemblee condominiali deve essere convocato il condomino, cioè il vero proprietario, e non chi si comporta come tale senza esserlo, non potendo invocare il principio dell’apparenza il condominio che abbia trascurato di accertare la realtà sui pubblici registri.” ).

Nel caso in commento , plausibilmente, all’epoca delle convocazioni contestate  non era ancora sussistente  un atto a regime pubblico (quale la denuncia di successione), da cui l’amministratore potesse desumere l’effettiva titolarità del bene (evidentemente poi accertata, posto che il decreto è stato correttamente indirizzato all’effettivo proprietario).

In ogni caso la pronuncia romana appare indiscutibile e ferrea applicazione del principio introdotto nell’art. 1130 cod.civ. dal legislatore del 2012: “:” Ogni variazione dei dati deve essere comunicata all’amministratore in forma scritta entro sessanta giorni. L’amministratore, in caso di inerzia, mancanza o incompletezza delle comunicazioni, richiede con lettera raccomandata le informazioni necessarie alla tenuta del registro di anagrafe. Decorsi trenta giorni, in caso di omessa o incompleta risposta, l’amministrazione acquisisce le informazioni necessarie, addebitandone il costo ai responsabili”.

© massimo ginesi 17 gennaio 2017  

il diritto di impugnare la delibera compete (quasi sempre) al condomino e non al conduttore

La Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile, 5 gennaio 2017, n. 151) esaminando un caso peculiare – in cui il Condominio aveva deliberato di disporre la chiusura dei cancelli di accesso all’area cortilizia interna per impedire il transito veicolare – ribadisce un prinpicio consolidato.

Salvo che per le materia in cui è chiamato a decidere il conduttore (riscaldamento), il diritto di impugnare la delibera compete unicamente al condomino locatore: “la Corte d’appello si è attenuta al principio di diritto ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui il potere di impugnare le deliberazioni condominiali compete, per il disposto dell’art. 1137 cod. civ., ai titolari di diritti reali sulle singole unità immobiliari, anche in caso di locazione dell’immobile, salvo che nella particolare materia dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d’aria, per la quale la decisione e, conseguentemente, la facoltà di ricorrere, sono attribuite ai conduttori (ex plurimis, Cass., sez. 2, sent. n. 869 del 2012).”

La premessa in fatto e diritto, con cui in sentenza è descritta la vicenda sostanziale e processuale,  è indispensabile per comprendere anche l’altro punto su cui si esprime la Cassazione, ovvero la legittimità della delibera con cui il condominio limita l’uso dell’area interna cortilizia: è legittima l’innovazione che limiti per tutti i condomini e per finalità di interesse collettivo l’uso di un determinato bene comune. 

Il Tribunale di Terni aveva parzialmente accolto la domanda proposta dai sigg. L. , M. , F. , T. e I. in qualità di conduttori i primi due, e di proprietari gli altri di unità immobiliari ad uso commerciale facenti parte del Condominio di (omissis) , e per l’effetto aveva dichiarato la nullità della delibera 7 ottobre 2004 nella parte in cui prevedeva la chiusura permanente dei cancelli e delle sbarre di accesso all’area privata interna per tutto l’arco della giornata.
La Corte d’appello, adita dal Condominio, ha rilevato il difetto di legittimazione delle sigg. L. e M. ad impugnare la delibera, in quanto soltanto conduttrici delle unità immobiliari, e nel merito ha rigettato la domanda di accertamento della nullità della delibera condominiale 7 ottobre 2004.  Secondo la Corte territoriale, la legittimità della delibera condominiale, che prevedeva il divieto di apertura del cancello salvo che per effettuare le operazioni di carico e scarico di merci, doveva essere valutata in riferimento al disposto dell’art. 1120 cod. civ., in materia di innovazioni relative all’uso della cosa comune, e non al disposto dell’art. 1102 cod. civ., come ritenuto dal Tribunale. In tale prospettiva, la disposta limitazione era coerente con la previsione contenuta nel Regolamento condominiale, nel quale era stabilito che “gli spazi di proprietà comune, durante le ore diurne, saranno luogo sicuro di ricreazione dei bimbi del condominio e quindi le auto dei condomini non dovranno sostare in dette aree, ad eccezione di brevi istanti per la salita e la discesa dagli automezzi”. In esecuzione del Regolamento, infatti, già con delibera condominiale del 4 marzo 1981 era stata decisa l’installazione del cancello scorrevole, con chiusura che permetteva l’accesso per le operazioni di carico e scarico delle merci presso i negozi situati nello stabile condominiale. Tale delibera era stata confermata con la successiva del 29 agosto 1991, la cui impugnazione era stata rigettata dal Tribunale ed era diventata definitiva, per assenza di gravame sul punto.
La Corte d’appello ha inoltre osservato che la delibera del 7 ottobre 2004, ancora oggetto di controversia, ribadiva il contenuto di precedente delibera del 7 maggio 2004, che aveva risolto il contrasto tra condomini proprietari degli appartamenti e condomini proprietari dei locali ad uso commerciale, confermando la necessità della chiusura permanente del cancello, con l’eccezione indicata. La delibera non aveva prodotto l’inservibilità dell’area comune per alcuni condomini, e in particolare per quelli che l’avevano impugnata, ma soltanto la riduzione dell’uso dell’area comune per tutti i condomini, e tale decisione rientrava a pieno titolo nelle facoltà rimesse all’assemblea condominiale.”

La Suprema Corte, chiamata a censurare tale aspetto, afferma: “i ricorrenti evidenziano che la chiusura del cancello costituiva innovazione vietata, poiché aveva determinato una sensibile menomazione dell’utilità che in precedenza gli stessi ricorrenti traevano dal bene comune (è richiamata Cass., sez. 2, sentenza n. 20639 del 2005), sotto il profilo della visibilità e dell’accesso, anche potenziale della clientela, e che erroneamente la Corte d’appello aveva ritenuto che la verifica della legittimità della delibera dovesse essere condotta alla stregua soltanto dell’art. 1120 cod. civ.. La disciplina dell’uso del cancello doveva essere valutata, invece, anche in relazione al principio del pari godimento della cosa comune.
Le doglianze, che possono essere esaminate congiuntamente perché connesse, sono infondate.
La ratio decidendi della sentenza impugnata è duplice: la Corte d’appello ha ritenuto, da un lato, che la delibera impugnata fosse meramente confermativa di precedente delibera, coerente con la destinazione dell’area risultante dal regolamento condominiale e con la già avvenuta installazione del cancello automatico, e, dall’altro lato, ha evidenziato che si trattava di delibera rispettosa della regola prevista dall’art. 1120 cod. civ., in quanto non aveva reso inservibile l’area ad alcuno dei condomini. La prima ratio è contestata con il terzo motivo, che tuttavia si risolve nella prospettazione di una interpretazione del contenuto della delibera difforme da quella operata dalla Corte di merito, vale a dire in un apprezzamento in fatto alternativo a quello e ciò, in sede di legittimità, non è consentito (ex plurimis, e, Cass. 15185 del 2001) in assenza di errori di diritto e vizi logici.
Rimanendo integra la prima ratio decidendi, la doglianza proposta con il quarto motivo risulta priva di decisività in quanto inidonea a condurre alla cassazione della sentenza, e come tale inammissibile (ex plurimis, Sez. U, sent. 15185 del 2001).”

© massimo ginesi 16 gennaio 2017

la revoca dell’amministratore non incide sul suo rendiconto già approvato dall’assemblea.

Corte di Cassazione, sez. II Civile,  11 gennaio 2017, n. 454  Relatore Scarpa

una sentenza che affronta un tema  inusuale e che denota quanto possa essere complessa la materia condominiale (e articolata la fantasia giudiziale dei condomini).

Il giudice territoriale  aveva respinto la domanda di impugnativa della delibera di approvazione del  consuntivo predisposto dall’amministratore successivamente revocato:  i ricorrenti lamentano che ” la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto del fatto che i due precedenti amministratori del Condominio erano stati revocati per le irregolarità compiute”.

Osserva a tal proposito la Suprema Corte ” è priva di decisività la circostanza che i bilanci consuntivi approvati con la delibera oggetto di impugnazione fossero stati predisposti da amministratori di seguito revocati giudizialmente.
Il provvedimento in camera di consiglio, statuente la revoca dello amministratore del condominio, ha efficacia, ai sensi dell’art. 741 c.p.c., dalla data dell’inutile spirare del termine per il reclamo avverso di esso, sì che gli atti compiuti dall’amministratore in data anteriore a quella d’inizio dell’efficacia del provvedimento camerale dispositivo della sua revoca non sono viziati da alcuna automatica invalidità e continuano a produrre effetti e ad essere giuridicamente vincolanti nei confronti del condominio (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 666 del 01/02/1990).”

La Cassazione sottolinea che, poiché  la revoca giudiziale dell’amministratore  ha efficacia da quando il relativo provvedimento diviene “definitivo”, gli atti da costui compiuti sino a quel momento devono ritenersi validi, salvo specifici motivi di censura che non possono essere ricondotti in via automatica al solo fatto che la condotta dell’amministratore sia stata affetta da irregolarità che ne hanno determinato la successiva revoca .

La sentenza, ritenuto infondato il primo peculiare motivo di ricorso, esamina anche le altre censure, ritornando su principi ormai consolidati, seppur espressi con una  sfumatura di novità dovuta alla particolarità dell’impugnativa.

I ricorrenti si dolgono che le spese approvate a consuntivo dall’assemblea non siano state oggetto di precedente approvazione a preventivo,   avevano inoltre  proposto al giudice territoriale una censura nel merito di dette spese, chiedendo che ne venisse accertata la superfluità.

La Suprema Corte, nel ribadire che compete all’autorità giudiziaria unicamente un sindacato di legittimità sulle delibere condominiali e che il giudice non può entrare nel merito della spesa discrezionalmente deliberata dell’assemblea, compie una esaustiva e interessante disamina in diritto sulle facoltà  dell’assemblea in tema di approvazione della spesa e sui poteri dell’amministratore relativamente alla ordinaria gestione.

Va poi considerato che, secondo consolidato orientamento di questa Corte, per la validità della delibera di approvazione del bilancio condominiale non è necessario che la relativa contabilità sia tenuta dall’amministratore con rigorose forme analoghe a quelle previste per i bilanci delle società, essendo, invece, sufficiente che essa sia idonea a rendere intellegibile ai condomini le voci di entrata e di spesa, con le quote di ripartizione; né si richiede che queste voci siano trascritte nel verbale assembleare, ovvero siano oggetto di analitico dibattito ed esame alla stregua della documentazione giustificativa, in quanto rientra nei poteri dell’organo deliberativo la facoltà di procedere sinteticamente all’approvazione stessa, prestando fede ai dati forniti dall’amministratore alla stregua della documentazione giustificativa (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1405 del 23/01/2007; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9099 del 07/07/2000).

Spetta, comunque, all’assemblea dei condomini approvare il conto consuntivo, come confrontarlo con il preventivo ovvero valutare l’opportunità delle spese affrontate d’iniziativa dell’amministratore (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8498 del 28/05/2012). Com’è noto, il sindacato dell’autorità giudiziaria sulle delibere delle assemblee condominiali non può estendersi alla valutazione del merito ed al controllo del potere discrezionale che l’assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma deve limitarsi al riscontro della legittimità. Ne consegue che non è suscettibile di controllo da parte del giudice, attraverso l’impugnativa di cui all’art. 1137 c.c., l’operato dell’assemblea condominiale in relazione alla questione inerente alla approvazione in sede di rendiconto di spese che si assumano superflue. “

Rileva ancora la Corte che, una volta provare legittimamente le spese a consuntivo, non può avere alcun rilievo che le stesse non avessero ricevuto una preventiva deliberazione, atteso che la facoltà di erogare le spese ordinarie rientra fra i poteri dell’amministratore e che a legittimare tale attività è più che sufficiente l’approvazione del rendiconto: ” Infine, è funzione tipica del consuntivo proprio l’approvazione della erogazione delle spese di manutenzione ordinaria e di quelle relative ai servizi comuni essenziali, le quali non richiedono la preventiva approvazione dell’assemblea dei condomini, in quanto trattasi di esborsi ai quali l’amministratore provvede in base ai suoi poteri e non come esecutore delle delibere dell’assemblea.

L’approvazione di dette spese è richiesta soltanto in sede di consuntivo, giacché con questo poi si accertano le spese e si approva lo stato di ripartizione definitivo che legittima lo amministratore ad agire contro i condomini per il recupero delle quote poste a loro carico (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5068 del 18/08/1986).
Nella specie, la Corte di Roma ha accertato, con motivazione logica e perciò non emendabile, che le voci di spesa e di entrata erano intelligibili e non estranee alla gestione del condominio. Con specifico riguardo ai lavori di impermeabilizzazione la Corte di Appello di Roma ha ritenuto, inoltre, che, per la loro natura e consistenza, avessero natura di opere di ordinaria manutenzione destinate alla conservazione della cosa comune e che rientrassero, perciò, nelle attribuzioni dell’amministratore “

© massimo ginesi 13 gennaio 2017 

l’obbligazione condominiale è retta dal principio della parziarietà

La Cassazione torna sul regime dell’obbligazione condominiale, escludendo che possa ritenersi applicabile il principio della solidarietà.

La vicenda affonda le radici in tempi antecedenti la novella del 2012, la sentenza dunque  non affronta ex professo l’incidenza dell’art. 63 disp.att. cod.civ. nella formulazione introdotta dalla riforma, tuttavia i principi espressi su materia complessa –  ricca di conseguenze ed implicazioni – sono di utile orientamento nella lettura delle vicende patrimoniali all’interno della compagine condominiale.

L’illustre relatore condensa con mirabile sintesi i principi cardine della vicenda, sicché è opportuno riportare integralmente la motivazione della decisione.

Cass. sez. II Civile, 9 gennaio 2017, n. 199 Relatore Scarpa: ” Nel caso in esame, secondo quando dato per accertato dal Tribunale di Napoli, si ha riguardo ad obbligazione per l’esecuzione dei lavori di rifacimento del solaio di un lastrico solare di proprietà esclusiva assunta dall’amministratore del condominio, o comunque, nell’interesse del condominio, nei confronti dell’appaltatore. Come insegnato da Cass. Sez. U, Sentenza n. 9148 del 08/04/2008 (con principio che va integralmente confermato, non trovando qui applicazione, ratione temporis, neppure il meccanismo di garanzia ex art. 63, comma 2, disp. att. c.c., introdotto dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), in difetto di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità per il corrispettivo contrattuale preteso dall’appaltatore, incombente su chi abbia l’uso esclusivo del lastrico e sui condomini della parte dell’edificio cui il lastrico serve, è retta dal criterio della parziarietà, per cui l’obbligazione assunta nell’interesse del condominio si imputa ai singoli componenti nelle proporzioni stabilite dall’art. 1126 c.c., essendo tale norma non limitata a regolare il mero aspetto interno della ripartizione delle spese.”

Dovendosi negare che l’obbligo di contribuzione alle spese di rifacimento del terrazzo di copertura si connotasse verso l’appaltatore, terzo creditore, come rapporto unico con più debitori, ovvero come obbligazione solidale per l’intero in senso proprio e quindi ad interesse comune, alla T. , quale condomina (in particolare, titolare della proprietà esclusiva del terrazzo) che aveva adempiuto nelle mani dell’appaltatore al pagamento dell’intero prezzo dei lavori, non poteva accordarsi un diritto di regresso nei confronti degli altri condomini, sia pur limitatamente alla quota millesimale dovuta da ciascuno di essi, ex art. 1299 c.c.. Il regresso, che ha per oggetto il rimborso di quanto sia stato pagato a titolo di capitale, interessi e spese, consiste in un diritto che sorge per la prima volta in capo al condebitore adempiente sulla base del c.d. aspetto interno dell’obbligazione plurisoggettiva. Né, smentito il debito solidale dei condomini, al condomino che abbia versato al terzo creditore anche la parte dovuta dai restanti condomini, allo scopo di ottenere da costoro il rimborso di quanto da lui corrisposto, può consentirsi di avvalersi della surrogazione legale in forza dell’art. 1203, n. 3, c.c., giacché essa – implicando il subentrare del condebitore adempiente nell’originario diritto del creditore soddisfatto in forza di una vicenda successoria – ha luogo a vantaggio di colui che, essendo tenuto con altri o per altri al pagamento del debito, aveva interesse a soddisfarlo. Dunque, il pagamento da parte della condomina T. delle quote del corrispettivo d’appalto dei lavori di rifacimento del terrazzo a livello dovute dai restanti condomini poteva al più legittimare la stessa ad agire, come pure prospetta il Tribunale, per ottenere l’indennizzo da ingiustificato arricchimento, stante il vantaggio economico ricevuto dagli altri condomini (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 9946 del 29/04/2009).
Correttamente, poi, il Tribunale ha negato l’applicabilità nel caso in esame tanto dell’art. 1110 che dell’art. 1134 c.c.. Queste due norme recano, invero, una diversa disciplina in materia di rimborso delle spese sostenute dal partecipante per la conservazione della cosa comune, rispettivamente, nella comunione e nel condominio di edifici, disciplina che condiziona il relativo diritto, in un caso, a mera trascuranza degli altri partecipanti e, nell’altro caso, al diverso e più stringente presupposto dell’urgenza. Il Tribunale di Napoli ha osservato come i lavori di rifacimento del terrazzo fossero stati comunque commissionati dall’amministrazione condorniniale, e non derivassero, quindi, da iniziative di gestione prese dal singolo partecipante. D’altro canto, si ha riguardo, nella specie, a spese non inerenti una cosa comune (come postulato dagli artt. 1110 e 1134 c.c.), quanto un lastrico o terrazzo di proprietà esclusiva, sicché il dovere di contribuire ai costi di manutenzione rinviene la sua ragione, ex art. 1126 c.c., nell’utilità che i condomini sottostanti traggono dal bene.

© massimo ginesi 11 gennaio 2017

accesso al conto corrente: anche il condomino ne ha diritto?

La novella del 2012 ha modificato l’art. 1129 cod.civ. introducendo, al settimo comma della norma, la previsione che “L’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio; ciascun condomino, per il tramite dell’amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica

Che i condomini avessero diritto di visionare l’estratto conto era principio che in alcune occasioni era stato affermato dai giudici di merito (Tribunale di Salerno 30/07/2007,  “ogni condomino, in quanto “cliente” deve aver diritto di ottenere direttamente dall’istituto bancario la consegna di copia degli estratti conto”. principio consolidato in giurisprudenza”)

La riforma sembrava tuttavia aver superato tali orientamenti, introducendo l’espressione “tramite l’amministratore” nell’art. 1129 cod.civ., sicché da parte di molti interpreti si è ritenuto che la facoltà di accesso del singolo possa esplicarsi solo attraverso una richiesta all’amministratore.

Alcuni mesi orsono sulla questione si è pronunciato l’Arbitro Bancario Finanziario, collegio di Roma, che con decisione 16.9.2016 n. 7960 ha chiarito che sussiste invece un preventivo obbligo del condomino di rivolgersi all’amministratore per ottenere copia dell’estratto conto ma che, in caso di inerzia di costui, non possa essere negato al singolo il diritto di accesso alla documentazione bancaria.

“Parte ricorrente, dopo aver ripetutamente richiesto invano all’amministratore di condomino la documentazione relativa agli estratti conto condominiali, ha rivolto la medesima istanza alla resistente, che, tuttavia, ha riferito di non poter evadere la richiesta della ricorrente per mancanza dei presupposti di legittimazione attiva (essendo l’amministratore l’unico legittimato a richiedere la documentazione in parola).”

La controversia ha per oggetto la pretesa della ricorrente che, in qualità di condomina, domanda di poter avere copia degli estratti conto relativi al rapporto di conto corrente che il condominio intrattiene con l’intermediario resistente.


L’intermediario pone a base del rifiuto l’art. 1129, settimo comma, cod. civ., a norma del quale “L’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio; ciascun condomino, per il tramite dell’amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica”.

Sul punto il Collegio di Roma ha avuto modo, in più occasioni, di rilevare che “una interpretazione sistematica porta ad escludere che “per il tramite dell’amministratore” possa significare “solo attraverso l’amministratore”, posto che , in tal modo intesa, essa implicherebbe, fra l’altro, l’implicita abrogazione, per i condomini, del loro diritto di accesso, ex art. 119, IV c. TUB, alla documentazione stessa, senza considerare che tale norma, ancorché anteriore alla riforma del condominio, ha carattere speciale ed è destinata a prevalere e ad essere applicata. Ne consegue, quindi che la nuova disciplina non prescrive un obbligo, in capo al condomino, di esclusiva richiesta all’amministratore, unico legittimato a richiedere la documentazione, quanto, piuttosto, di preventiva richiesta all’amministratore stesso” (così, dec. 8817/2015. Cfr., anche, dec. 691/2015).

Nella specie, essendo stato inutilmente assolto tale obbligo di preventiva richiesta all’amministratore, il ricorso appare meritevole di accoglimento con conseguente condanna dell’intermediario al rilascio, a spese del richiedente e nei limiti di cui all’art. 119, comma 4, T.U.B., di copia della documentazione relativa al conto corrente del condominio richiesta.”

Va osservato che anteriormente alla riforma l’orientamento dell’arbitro bancario era stato, in alcune occasioni, di riconoscere libero accesso al singolo condomino (“La banca presso la quale è acceso il conto corrente intestato a un condominio è tenuta a fornire copia degli estratti conto al singolo condomino che li richieda” Arbitro bancario finanziario Milano, 19/04/2011, n. 814).

L’Arbitro Bancario è istituzione deputata alla risoluzione alternativa e stragiudiziale delle controversie in tale materia e dunque emette  decisioni  che non hanno attitudine a creare orientamento giurisprudenziale, i prinpici espressi paiono comunque meritevoli di conoscenza.

© massimo ginesi 11 gennaio 2017

lastrico solare e parapetto: non è veduta

La Suprema Corte ribadisce un principio consolidato: l’assenza di parapetto su un lastrico solare normalmente praticabile e dal quale è possibile affacciarsi sul fondo del vicino non è di per se indice dell’esistenza di un diritto di veduta ma,  semmai,  comporta  la sussistenza  di una luce irregolare, in ordine alla quale il proprietario del fondo confinante  può sempre chiedere che venga ricondotta ai parametri previsti dall’art. 901 cod.civ., sì che sia  impossibile  l’affaccio.

E’ quanto afferma Cass. Civ. II sez. 4 gennaio 2017 n. 113 (rel. A. Scarpa).

La sentenza merita lettura integrale per la puntuale e rigorosa motivazione sia sul  diritto di veduta dal lastrico in condominio, sia relativamente alla costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia.

© massimo ginesi 5 gennaio 2017 

divieto di parcheggio in cortile, regolamento nullo e art. 1102 cod.civ.

Cass. civ.  II sez. 27 dicembre 2016 n. 27043.

La Suprema Corte, sul finire dell’anno, si pronuncia  su una interessante questione: il regolamento di condominio contiene una clausola che vieta il parcheggio delle auto nel cortile condominiale, uno dei condomini lo impugna per difetto relativi al quorum deliberativo,  il Condominio ed i condomini, singolarmente costituiti, chiedono in via riconvenzionale di dichiarare comunque – ove il regolamento venga travolto dalla pronuncia – l’illegittimità del parcheggio per contrarietà all’art. 1102 cod.civ.

Osserva la corte che “Come chiarito dalle due sentenze di merito la declaratoria di nullità del regolamento condominiale approvato il 13.05.2002, per difetto deliberativo, non impediva il  vaglio della domanda riconvenzionale, con la quale i convenuti avevano  chiesto dichiararsi illegittima la pretesa dell’odierno ricorrente di posteggiare l’automobile nel cortile condominiale, in quanto in contrasto con gli articoli 1101, 1102, 1118 e 1120 codice civile. Invero, non si rinviene  il lamentato difetto di interesse in capo alla controparte, la quale, caducato il regolamento, il quale poneva il divieto, astratto e  generale, trova soddisfazione nell’affermazione che il cortile condominiale, a cagione suo modo di essere, non consentiva, in concreto, parcheggio, in quanto violava per articolo 1102 codice civile. Ovviamente, e specularmente, non si configura il giudicato prospettato, né la incompatibilità logica denunziata, trattandosi di aree decisorie  non sovrapponibili neppure in parte.”

In sostanza, rileva la Corte, una volta venuto meno il divieto astratto e generale di parcheggio stabilito dal regolamento caducato, nulla vieta che il Giudice possa comunque valutare  (e decidere, sulla scorta della domanda riconvenzionale avanzata a tal proposito) che il parcheggio, per le concrete modalità con cui viene effettuato, risulti comunque lesivo dei diritti degli altri condomini e quindi ritenerlo comunque non consentito.

Come si è cercato di spiegare, in assenza di preclusione di sorta, davanti alla domanda dell’attore, diretta ad ottenere l’invalidazione del regolamento condominiale, il condominio e gli altri condomini, nel caso in cui quella pretesa fosse stata giudicata fondata (evenienza in concreto poi verificatasi), avevano inteso perseguire la negazione dell’uso a  parcheggio, previo accertamento dell’incompatibilità dello stesso con il modo d’essere in concreto del predetto cortile. In altri termini, nel mentre il regolamento stabiliva  una regola tassativa, sganciata da qualsivoglia situazione di fatto che la investisse anche di sola mera opportunità, il divieto giudiziale si fonda su ben altri presupposti”

Per le stesse ragioni non può condividersi  che con una tale pronunzia il giudice si sia illegittimamente surrogato il potere deliberativo dell’assemblea: esattamente al contrario, qui il giudice si è limitato a vietare una data utilizzazione della cosa comune in quanto incompatibile con i diritti degli altri condomini”

Quanto all’applicabilità del principe di cui all’art. 1102 cod.civ. : “... Non resta da osservare che la statuizione, i cui  presupposti (implicanti accertamento di merito) non sono in questa sede censurabili, attraverso la fonte di sapere derivante dalla svolta c.t.u., ha ritenuto che l’uso a posteggio, anche di una sola autovettura, del piccolo cortile era  tale da impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (articolo 1102 codice civile) in specie rendendo particolarmente disagevole l’ingresso di mezzi all’interno delle esistenti private autorimesse.

Il collegio condivide, siccome recentemente chiarito (sezione due numero 7467 del 14.04.2015) che la nozione di pari uso della cosa comune, gli effetti dell’articolo 1102 codice civile, non va intesa nei termini  di assoluta identità dell’utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario, in quanto l’identità nel tempo e nello spazio di tale uso comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi  del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio, pure laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento dell’oggetto della comunione. Tuttavia, nel caso al vaglio, la pretesa di utilizzare l’angusto cortile per posteggiare la propria autovettura, non solo impedirebbe l’uso paritario da parte degli altri condomini, ma renderebbe oltre modo difficoltosa l’utilizzazione dei garage di loro esclusiva proprietà, così immutando la destinazione del cortile. Peraltro il criterio dell’uso promiscuo della cosa comune, desumibile dall’articolo 1102 codice civile, richiede che ciascun partecipante abbia diritto di utilizzare la cosa comune come può (nel caso passandovi o stazionandovi a piedi o con l’ausilio di mezzi diversi e meno ingombrante di un’automobile) e non in qualunque modo voglia, atteso il duplice limite derivante dal rispetto della destinazione della cosa e della pari  facoltà di godimento degli altri comunisti.”

Spiace infine rilevare come, sempre più spesso, i giudici siano costretti  a censurare non già le ragioni di diritto ma il materiale confezionamento degli atti, come si legge in apertura di motivazioni, non certo un inno di lode per l’avvocatura: “La corte non può fare a meno di rilevare la mancanza di rigore formale e logico nell’esposizione delle doglianze, inquinata da ripetizioni, accorpamenti e promiscuità, tali da porre ai limiti dell’ammissibilità il ricorso.”

© massimo ginesi 2 gennaio 2017