compete all’assemblea l’impiego dei saldi attivi di gestione del condominio

In un fabbricato condominiale i lastrici sommitali sono concessi in locazione a diverse compagnie telefoniche, che versano al Condominio il relativo canone.

L’assemblea, in sede di approvazione del consuntivo,  decide di utilizzare tali proventi quale posta per diminuire l’importo delle quote dovute da ciascun condomino.

La relativa controversia giunge all’esame della Suprema Corte che respinge il ricorso di coloro che avevano impugnato quel consuntivo (Cass.civ. sez. VI-2 ord. 9 febbraio 2021 n. 3043 rel. Scarpa) ed esprime il seguente principio di diritto: “in tema di condominio negli edifici, non è causa di invalidità della deliberazione assembleare di approvazione del rendiconto presentato dall’amministratore la circostanza che in essa si provveda all’impiego degli attivi di gestione, costituiti dai proventi che il Condominio trae dalla locazione a terzi di parti comuni, al fine di ridurre, per parziale compensazione, l’importo totale delle spese da ripartire tra i singoli condomini, con conseguente proporzionale incidenza sui conti individuali di questi ultimi e sulle quote dovute dagli stessi, non pregiudicando tale decisione, espressione del potere discrezionale dell’assemblea, né l’interesse dei codomini alla corretta gestione del Condominio, né il loro diritto patrimoniale all’accredito della proporzionale somma, perché compensata dal corrispondete minor addebito degli oneri di contribuzione alle spese».

© massimo ginesi 18 febbraio 2021

 

 

contributi pubblici per la ricostruzione: l’assemblea non ha titolo a deliberarne il riparto

I contributi pubblici erogati ai condomini (nella specie quelli di cui alla L. 61/1998, per la ricostruzione di edifici danneggiati da eventi sismici) attengono ad un rapporto diretto obbligatorio fra la P.A. e il singolo beneficiario, sì che riguardano materia sottratta alle competenze dell’assemblea di condominio, che non potrà deliberare sulla loro imputazione e ripartizione.

E’ quanto stabilito da una recente pronuncia (Cass. civ. II, ord. 28 agosto 2020 n. 18044 rel. Scarpa), che – nell’occasione – ripercorre anche la consolidata giurisprudenza in tema di deroga ai criteri di riparto (attualmente all’esame delle Sezioni Unite quanto alle conseguenze sulla nullità della delibera affetta da tale vizio).

La pronuncia pare interessante anche per la comprensione dei poteri assembleari in tutte quelle ipotesi in cui alla spesa deliberata dalla assemblea sia sotteso un beneficio fiscale in favore del singolo, quale da ultimo il c.d. bonus 110%

Nell’ipotesi all’esame della corte, un condomino aveva impugnato la delibera “che aveva determinato le quote di spettanza dei lavori di riparazione e miglioramento sismico dell’edificio, al netto del contributo statale, senza indicare i criteri di riparto, indicando nel consuntivo voci di spesa generiche e dal contenuto imprecisato” e aveva visto respinta la domanda in primo e secondo grado.

la Corte di legittimità osserva:“Il secondo motivo di ricorso è invece fondato nei limiti in cui prospetta una violazione dell’art. 1123 c.c. Ai fini della decisione su tale motivo non rileva decisivamente la questione rimessa alle Sezioni Unite in forza dell’ordinanza interlocutoria n. 24476 del 01/10/2019, circa la qualificazione in termini di nullità o di annullabilità della deliberazione maggioritaria dell’assemblea con la quale siano meramente disattesi, e non invece espressamente modificati, i criteri legali dettati negli artt. 1123 e ss. c.c.

La Corte d’appello di Perugia ha affermato che l’assemblea del Condominio N.  del 24 febbraio 2010 avesse esplicitamente ripartito le spese di riparazione e miglioramento sismico dell’edificio sulla base di una convenzione in deroga una tantum alle tabelle millesimali, riguardante anche i contributi pubblici erogati, cui hanno aderito i singoli condomini.

Così decidendo, la Corte d’appello non ha considerato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, se certamente i criteri di ripartizione delle spese condominiali, stabiliti dall’art. 1123 c.c., possono essere derogati, come prevede la stessa norma, la relativa convenzione modificatrice della disciplina legale di ripartizione può, tuttavia, essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si definisce “contrattuale”), oppure in una deliberazione dell’assemblea che venga approvata all’unanimità, e cioè col consenso di tutti i condomini (Cass. Sez. 2 , 24/02/2017, n. 4844; Cass. Sez. 2, 17/01/2003, n. 641; Cass. Sez. 2, 05/11/2001, n. 13631).

La natura delle disposizioni contenute negli artt. 1118, comma 1, e 1123 c.c. non preclude, infatti, l’adozione di discipline convenzionali che differenzino tra loro gli obblighi dei partecipanti di concorrere agli oneri di gestione del condominio, attribuendo gli stessi in proporzione maggiore o minore rispetto a quella scaturente dalla rispettiva quota individuale di proprietà.

Viene, tuttavia, imposta, a pena di radicale nullità l’approvazione di tutti i condomini per le delibere dell’assemblea di condominio con le quali siano stabiliti i criteri di ripartizione delle spese in deroga a quelli dettati dall’art. 1123 c.c., oppure siano modificati i criteri fissati in precedenza in un regolamento “contrattuale” (Cass. Sez. 2, 19/03/2010, n. 6714; Cass. Sez. 2, 27/07/2006, n. 17101; Cass. Sez. 2, 08/01/2000, n. 126).

Come chiarito da Cass. civ. III, n. . Sez. U, 09/08/2010, n. 18477, mentre, allora, la deliberazione che approva le tabelle nnillesimali, non ponendosi come fonte diretta dell’obbligo contributivo del condomino, non deve essere approvata con il consenso unanime dei condomini, rivela, viceversa, natura contrattuale la tabella da cui risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese, ovvero approvare quella «diversa convenzione», di cui all’art. 1123, comma 1, c.c.

La sostanza di tale «diversa convenzione» è, pertanto, quella di una dichiarazione negoziale, espressione di autonomia privata.

Né rileva, come si legge nella sentenza impugnata, che la deroga alle tabelle millesimali sia stata disposta dall’assemblea una tantum, in quanto la “diversa convenzione” richiamata dall’art 1123 c.c., quale titolo derogatorio della norma dispositiva sul criterio legale di ripartizione proporzionale delle spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni di un edificio in condominio, può anche essere adottata non in funzione normativa (e cioè per sostituire, nella disciplina relativa, al titolo legale o regolamentare quello convenzionale), bensì con riguardo al riparto di una singola spesa o di una specifica gestione.

Poiché essa comunque incide comunque sulla misura degli obblighi dei singoli partecipanti al condominio, non può fondarsi che su una deliberazione unanime, non limitata ai presenti all’assemblea (Cass. Sez. 2, 23/05/1972, n. 1588).

Nel caso in esame, tanto meno poteva ritenersi consentito all’assemblea del 24 febbraio 2010 di ripartire a maggioranza i lavori di manutenzione dell’edificio, redistribuendo anche i contributi per la riparazione ed il miglioramento sismico attribuiti ai proprietari degli immobili distrutti o danneggiati ai sensi delle legge 30 marzo 1998, n. 61 (recante interventi urgenti in favore delle zone terremotate delle regioni Marche e Umbria), atteso che tali contributi derivano da rapporti obbligatori individuali tra il comune ed i singoli proprietari di ciascuna unità immobiliare, ognuno dei quali subordinato alle condizioni soggettive ed oggettive previste dalla legge citata e sottoposte a separato accertamento (arg. da Cass. Sez. 1, 12/07/2013, n. 17260), sicché essi rimangono sottratti alle attribuzioni deliberative dell’assemblea, la quale, giacché destinata ad esprimere la volontà collettiva dei partecipanti nelle materia di interesse comune, non può comunque adottare provvedimenti volti a perseguire una finalità extracondominiale o a regolamentare diritti ed obblighi appartenenti in via esclusiva ai singoli condomini.”

© massimo ginesi 31 agosto 2020

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legittimazione processuale amministratore. Quando la causa esula dalle sue competenze: un caso particolare e una significativa sentenza della Cassazione.

 

La corte di legittimità (Cass.Civ. sez. II 21 maggio 2018, n. 12525 rel. Scarpa) torna su un tema tormentato e complesso, che – sotto il profilo dei principi – ha trovato una definitiva consacrazione nelle sezioni unite 18331/2010 e che, tuttavia, continua a manifestare una complessità applicativa che non sempre consente all’amministratore o ai condomini di percepire la correttezza del loro operato.

La Corte – coordinando due pronunce a sezioni unite – esprime un concetto di significativo e pericoloso rilievo per il condominio: il criterio  espresso dalle sezioni unite del 2010,  ovvero la possibilità che – per le controversie che esulano dalla competenza dell’amministratore e in assenza di delibera – venga assegnato un termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c. per munirsi della ratifica assembleare vale anche in sede di legittimità, ma solo ove  il rilievo della carenza di legittimazione autonoma sia compiuto dal Giudice, poichè ove sia eccepito dalla controparte la sussistenza del potere rappresentativo processuale dovrà essere immediatamente giustificata dall’amministratore.

Nè si può ritenere, afferma la corte, che l’opposizione a decreto ingiuntivo rientri di per sé nei poteri dell’amministratore, poichè anche tali controversie vedranno una legittimazione autonoma di tale figura ratione materiae, ovvero secondo le  attribuzioni previste dall’art 1130 c.c.

I fatti: “Il Condominio (omissis) ha proposto ricorso in cassazione articolato in sette motivi avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 2921/2013, depositata il 21 maggio 2013.
Resiste con controricorso R.S. , il quale propone ricorso incidentale in unico motivo, dal quale a sua volta si difende con controricorso il Condominio (omissis) .
La Corte d’Appello accolse il gravame di R.S. contro la sentenza del Tribunale di Rieti n.576/2005 e rigettò perciò l’opposizione proposta dal Condominio (omissis) contro il decreto ingiuntivo per la somma di Euro 11.298,33, emesso il 25 febbraio 2002 su domanda del R. , ex amministratore condominiale, a titolo di compenso aggiuntivo per la cura dei lavori straordinari. La Corte di Roma superò l’eccezione del difetto di legittimazione del Condominio a proporre l’opposizione a decreto ingiuntivo, stanti i tempi ristretti per proporre la stessa. Quanto però al merito, i giudici di appello ritennero che dal verbale di assemblea del 14 marzo 1999 emergessero un riconoscimento del debito del Condominio in favore del R. di Lire 22.000.000, nonché una riduzione transattiva dell’importo del 50%, quale “gesto di collaboratrice sensibilità” dell’ex amministratore, con l’impegno del Condominio stesso di accreditare la somma nelle future quote “a copertura” del debito viceversa gravante sul R. . Questo accordo transattivo contenuto nel verbale del 14 marzo 1999 non poteva perciò essere modificato dall’assemblea nell’adunanza del 1 maggio 1999, che invece deliberò una riduzione della somma da accordare al R. , liquidata in Lire 8.000.000. Avendo poi il Condominio (omissis) azionato decreto ingiuntivo contro il R. , questo, a dire della Corte di Roma, ritenne “correttamente annullato l’accordo transattivo”, e perciò richiese a sua volta in via monitoria l’intera somma oggetto di riconoscimento nel verbale 14 marzo 1999.”

Le parti hanno articolato diversi motivi di censura in sede di legittimità, tuttavia: “Il Collegio antepone tuttavia una valutazione di tipo pregiudiziale.

Secondo l’insegnamento reso da Cass. Sez. U, 06/08/2010, n. 18331, l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni, ed essendo però tenuto a dare senza indugio notizia all’assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131, commi 2 e 3, c.c., può costituirsi in giudizio ed impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione.

Nel ricostruire la portata dell’art. 1131, comma 2, c.c., Cass., sez. un., 6 agosto 2010, n. 18331, ha invero affermato che, ferma la possibilità dell’immediata costituzione in giudizio dell’amministratore convenuto, ovvero della tempestiva impugnazione dell’amministratore soccombente (e ciò nel quadro generale di tutela urgente di quell’interesse comune che è alla base della sua qualifica e della legittimazione passiva di cui è investito), non di meno l’operato dell’amministratore deve poi essere sempre ratificato dall’assemblea, in quanto unica titolare del relativo potere. La ratifica assembleare vale a sanare retroattivamente la costituzione processuale dell’amministratore sprovvisto di autorizzazione dell’assemblea, e perciò vanifica ogni avversa eccezione di inammissibilità, ovvero ottempera al rilievo ufficioso del giudice che abbia all’uopo assegnato il termine ex art. 182 c.p.c. per regolarizzare il difetto di rappresentanza.

La regolarizzazione ai sensi dell’art. 182 c.p.c., in favore dell’amministratore privo della preventiva autorizzazione assembleare, come della ratifica, può operare in qualsiasi fase e grado del giudizio, con effetti “ex tunc” (Cass. Sez. 6 – 2, 16/11/2017, n. 27236).

Peraltro, come di seguito ribadito da Cass. Sez. 2, 23 gennaio 2014, n. 1451, e da Cass. Sez. 2, 25/05/2016, n. 10865, la necessità dell’autorizzazione o della ratifica assembleare per la costituzione in giudizio dell’amministratore va riferita soltanto alle cause che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1131, commi 2 e 3, c.c.

Non può dunque sostenersi, come fatto dalla Corte d’Appello di Roma sul presupposto dell’urgenza dell’opposizione, che, poiché l’opponente a decreto ingiuntivo ha la posizione processuale di convenuto e così di legittimato passivo rispetto alla pretesa azionata con il ricorso monitorio, e tale posizione non muta nei successivi gradi del giudizio, indipendentemente dall’iniziativa dei mezzi di gravame adoperati, l’amministratore di un condominio che proceda a siffatta opposizione, nonché alla successiva impugnazione della pronuncia che l’abbia decisa, non ha, per ciò solo, necessità dell’autorizzazione dell’assemblea condominiale, a termini del secondo comma dell’art. 1131 c.c.

Piuttosto, l’amministratore di condominio può proporre opposizione a decreto ingiuntivo, e altresì impugnare la relativa decisione del giudice di primo grado, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea, ad esempio, nella controversia avente ad oggetto il pagamento preteso nei confronti del condominio dal terzo creditore in adempimento di obbligazione assunta dal medesimo amministratore nell’esercizio delle sue attribuzioni in rappresentanza dei partecipanti, ovvero dando esecuzione a deliberazione dell’assemblea o erogando le spese occorrenti per la manutenzione delle parti comuni o per l’esercizio dei servizi condominiali, e quindi nei limiti di cui all’art. 1130 c.c. (così Cass. Sez. 2, 03/08/2016, n. 16260).

Diversa è la causa, quale quella in esame, in cui il precedente amministratore, cessato dall’incarico, agisca in sede monitoria nei confronti del nuovo amministratore del condominio per ottenerne la condanna al pagamento del compenso suppletivo inerente all’attività svolta con riguardo all’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell’edificio. Si tratta di controversia non rientrante tra quelle per le quali l’amministratore è autonomamente legittimato ad agire ai sensi dell’art. 1130 e 1131 c.c., sicché, ai fini della sua costituzione in giudizio come della proposizione delle impugnazioni, gli occorre l’autorizzazione assembleare, eventualmente richiesta anche in via di ratifica del suo operato (cfr. per analoga fattispecie Cass. Sez. 2, 31/01/2011, n. 2179).

Il Collegio ritiene tuttavia, per ciò che segue, di discostarsi da quanto disposto nell’ordinanza interlocutoria del 27 settembre 2017, e così di revocare la stessa, ai sensi dell’art. 177 c.p.c., norma applicabile anche al giudizio di cassazione (cfr. Cass. Sez. 2, 11/02/2011, n. 3409; Cass. Sez. L, 26/03/1999, n. 2911; Cass. Sez. U, 25/03/1988, n. 251).

Secondo quanto stabilito da Cass. Sez. U, 04/03/2016, n. 4248, il difetto di rappresentanza o autorizzazione può essere sanato ex art. 182 c.p.c. (come nella specie) in sede di legittimità, dando prova della sussistenza del potere rappresentativo o del rilascio dell’autorizzazione, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., sempre che il rilievo del vizio nel giudizio di cassazione sia officioso, e non provenga dalla controparte, come invece appunto qui fatto dal controricorrente R.S. , giacché, in tal caso, l’onere di sanatoria sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine da parte del giudice (a meno che lo stesso non sia motivatamente richiesto, il che neppure risulta avvenuto, nella specie), in quanto sul rilievo di parte l’avversario è chiamato prima ancora a contraddire (si veda già Cass. Sez. 2, 31/01/2011, n. 2179).

IV. Deve perciò essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dall’amministratore del Condominio (omissis) senza l’autorizzazione assembleare, trattandosi di controversia riguardante un credito per compenso straordinario preteso dal precedente amministratore cessato dall’incarico, e perciò non rientrante tra quelle per le quali l’amministratore è autonomamente legittimato ai sensi degli artt. 1130 e 1131 c.c.; né può essere concesso il termine per la regolarizzazione ai sensi dell’art. 182 c.p.c., atteso che il rilievo del vizio in sede di legittimità è stato operato dalla controparte nel suo controricorso, e non d’ufficio, sicché l’onere di sanatoria dell’amministratore ricorrente doveva intendersi sorto immediatamente.

Il ricorso incidentale di R.S. , giacché proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, e relativo a questioni preliminari di merito e pregiudiziali di rito (quale, nella specie, il difetto di legittimazione processuale del condominio e la carenza dei poteri rappresentativi del nuovo amministratore), oggetto di decisione esplicita da parte della Corte d’Appello, ha natura di ricorso condizionato all’accoglimento del ricorso principale, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte. Ne consegue che, attesa l’inammissibilità del ricorso principale, il ricorso incidentale rimane assorbito per difetto di attualità dell’interesse.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza (con condanna del Condominio (omissis) , e non dell’amministratore personalmente, ex art. 94 c.p.c., avendo comunque l’assemblea, sia pure tardivamente agli effetti dell’ammissibilità del ricorso, ratificato l’operato dell’amministratore stesso) e vengono liquidate come in dispositivo in favore del controricorrente R.S. .”

© massimo ginesi 23 maggio 2018 

 

art. 844 cod.civ., un tema caldo: ancora due pronunce estive della Cassazione

La seconda sezione della Suprema Corte torna  sul tema dell’art. 844 cod.civ., già affrontato pochi giorni orsono, con due pronunce che chiariscono l’estensione dei poteri di valutazione del giudice sulla tollerabilità  e la necessaria “personalizzazione” dell’apprezzamento, a seconda della  natura e destinazione degli immobili coinvolti.

* La prima sentenza (Cass.civ. sez. II  30 agosto 2017 n. 20553 rel. Scarpa) attiene ad una controversia sorta per a i rumori prodotti dalla autoclave a servizio di una unità immobiliare in condominio: “L’avvocato M., usufruttuario dell’appartamento sito in Roma, via F.,  convenne, nel febbraio 2003, innanzi al Giudice di Pace di Roma, A. G., proprietario di altro appartamento compreso nello stesso fabbricato, nonché il Condominio di Via F., lamentando immissioni sonore provenienti dal locale “cabina idrica” condominiale, riferibili all’installazione, da parte del G., di un “impianto idrico elettrico al fine di potenziare la fornitura idrica al suo appartamento…”. Il M. chiedeva di “ritenere e dichiarare il dott. A.G. e il Condominio di via F. di Roma responsabili delle immissioni di rumore superiore ai limiti di decibel di tolleranza”, con condanna di entrambi “a cessare da ogni comportamento da cui possa derivare immissione di rumori oltre la normale tollerabilità”

Il Giudice di Pace di Roma accoglieva la domanda e “ inibiva l’uso del locale ex cassoni del quinto piano quale sede per l’installazione dell’impianto idrico di cui è causa, ovvero di qualsivoglia altro impianto idrico dotato di pompa; ordinava la messa in atto di tutti i suggerimenti indicati dall’ingegnere Balestra, nominato C.T.U., ed in particolare la rimozione dell’autoclave dall’attuale sede e la sua ricollocazione sopra al sesto piano, dove si trovava in precedenza, o addirittura al piano terra; dichiarava tanto il condomino G. quanto l’Amministratore del Condominio di Via F responsabili, per comportamenti commissivi o omissivi, dei danni subiti dall’attore nei cinque anni decorsi, danni da accertarsi e valutarsi in separato giudizio“.

La pronuncia ha trovato conferma in grado di appello, ove il Tribunale di Roma ha respinto l’impugnazione promossa dai convenuti; costoro  ricorrono in cassazione, ove lamentano anche che il giudice di merito abbia ecceduto quanto richiesto dall’attore.

La suprema Corte respinge il ricorso ed osserva che “La domanda di cessazione delle immissioni che superino la normale tollerabilità (nella specie, volta ad ottenere la condanna di un condomino a cessare da ogni comportamento da cui possa derivare immissione di rumori ed a rimuovere l’impianto idrico elettrico causa delle stesse) non vincola necessariamente il giudice ad adottare una misura determinata, ben potendo egli ordinare l’attuazione di quegli accorgimenti che siano concretamente idonei ad eliminare la situazione pregiudizievole.

Non viola, pertanto, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sotto il profilo del limite costituito dal divieto di immutazione degli effetti giuridici che la parte intende conseguire, il giudice che, decidendo su una domanda di cessazione delle immissioni, ordini tanto la rimozione del manufatto, da cui le immissioni provengono, quanto l’adozione di misure inibitorie implicanti l’attuazione di accorgimenti che evitino il ripetersi della situazione pregiudizievole (nella specie, l’uso di uno spazio condominiale quale sede di impianti idrici a pompa, per la contiguità di tale spazio con un appartamento di proprietà esclusiva) (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, 17/01/2011, n. 887 ; Cass. Sez. 2, 05/08/1977, n. 3547).

Quanto alla intollerabilità delle immissioni, accertata dal giudice di prime cure, la Corte di legittimità  sottolinea come “ in giudizio relativo ad immissioni, i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall’art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza tecnica d’ufficio con funzione “percipiente”, in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l’intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone (cfr. Cass. Sez. 2, 20/01/2017, n. 1606; Cass. Sez. 2, 04/03/1981, n. 1245).

E’ del pari consolidato l’orientamento di questa Corte, ribadito dal Tribunale, secondo cui, in tema, appunto, di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o all’intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art. 844 c.c., e non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell’art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse.

Il Tribunale di Roma ha valutato comunque illecite le immissioni sulla base di un giudizio di tollerabilità formulato ai sensi dell’art. 844 c.c., tenendo presente, fra l’altro, la vicinanza del locale condominiale dove era stata allocata la pompa e l’unità immobiliare abitativa del M.

Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c., diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale.

Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa, supponendo tale accertamento un’indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame l’intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2, 05/08/2011, n. 17051; Cass. Sez. 2, 12/02/2010, n. 3438).

 

** La seconda pronuncia (Cass.civ. sez. II  30 agosto 2017 n. 20555 rel. Scarpa) riguarda un caso in cui una condomina lamentava, fra l’altro,  immissioni provenienti dalle caldaie poste a servizio degli appartamenti sottostanti, in cui il giudice di legittimità richiama gli stessi principi, seppur riferiti a diversa situazione di fatto.

“il Tribunale di Pesaro aveva rigettato tutte le domande per assenza di prova dei vizi lamentati, essendo risultato, in particolare: che le caldaie fossero conformi alla normativa esistente all’epoca della loro installazione, quando non era ancora vigente il d.P.R. n. 412/1993; che lo sfiato fosse correttamente collocato sulla copertura del tetto e non ne provenissero miasmi intollerabili; che, una volta riparato il filtro dello scarico di raccolta delle acque, il deflusso delle stesse fosse ritornato regolare; che non era stata allegata, né comunque provata, l’intollerabilità delle immissioni di gas di scarico derivanti dalle caldaie, come anche delle esalazioni provenienti dalla fossa biologica. 

La Corte d’Appello di Ancona, dopo aver richiesto chiarimenti al CTU sulla questione dei fumi provenienti dalle caldaie, ha parimenti negato difetti di manutenzione delle caldaie, o violazioni delle norme tecniche che rendessero intollerabili le immissioni; come anche la sussistenza dei miasmi provenienti dallo sfiato posto sulla copertura dell’edificio imputabili a difetti tecnici dell’impianto condominiale”

La suprema Corte, nel respingere il ricorso che lamentava anche violazioni relative alle distanze cui le caldaie erano situate, coglie l’occasione per una significativa ricostruzione delle peculiarità insite nella realtà condominiale e della conseguente necessità che l’applicazione delle norme in tema di proprità venga dal giudice armonizzata con tali  profili caratteristici: “si consideri, comunque, l’orientamento di questa Corte, secondo il quale, negli edifici condominiali, la disciplina in tema di distanze legali nei rapporti fra proprietà singole non opera nell’ipotesi dell’installazione di impianti che devono considerarsi indispensabili ai fini di una completa e reale abitabilità dell’appartamento, intesa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l’apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui (Cass. Sez. 2, 15/07/1995, n. 7752; Cass. Sez. 2, 18/06/1991, n. 6885; Cass. Sez. 2, 05/12/1990, n. 11695).

Quanto al resto, la Corte d’Appello di Ancona, recependo le indicazioni del CTU, ha negato che l’intervento di manutenzione straordinaria eseguito dopo l’ottobre 1995 rendesse le caldaie soggette all’art. 5 del d.P.R. n. 412/1993, e, valutata l’entità dei fumi da essere provenienti, ha considerato i valori nella norma, tali da non arrecare alcun pregiudizio all’ambiente, ed ha poi definito gli impianti conformi alle vigenti prescrizioni tecniche.

Come da questa Corte già chiarito, d’altro canto, la disposizione dell’art. 844 c.c. è applicabile anche negli edifici in condominio nell’ipotesi in cui un condomino, nel godimento della propria unità immobiliare o delle parti comuni, dia luogo ad immissioni moleste o dannose nella proprietà di altri condomini.

Nell’applicazione della norma deve aversi riguardo, tuttavia, per desumerne il criterio di valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, alla peculiarità dei rapporti condominiali e alla destinazione assegnata all’edificio dalle disposizioni urbanistiche o, in mancanza, dai proprietari.

Dalla convivenza nell’edificio, tendenzialmente perpetua (come si argomenta dall’art. 1119 c.c.), scaturisce talvolta la necessità di tollerare propagazioni intollerabili da parte dei proprietari dei fondi vicini; per contro, la stessa convivenza suggerisce di considerare in altre situazioni non tollerabili le immissioni, che i proprietari dei fondi vicini sono tenuti a sopportare.

Il principio, dunque, va precisato in considerazione delle condizioni di fatto, del tutto peculiari, consistenti nei confini in senso orizzontale e verticale tra le unità abitative.

In particolare, nel caso in cui il fabbricato non adempia ad una funzione uniforme e le unità immobiliari siano soggette a destinazioni differenti, ad un tempo ad abitazione ed ad esercizio commerciale, il criterio dell’utilità sociale, cui è informato l’art. 844 cit., impone di graduare le esigenze in rapporto alle istanze di natura personale ed economica dei condomini, privilegiando, alla luce dei principi costituzionali (artt. 14, 31, 47 Cost.) le esigenze personali di vita connesse all’abitazione, rispetto alle utilità meramente economiche inerenti all’esercizio di attività commerciali (Cass. Sez. 2, 15/03/1993, n. 3090).

In tema, poi, di immissioni di fumo o di calore, le disposizioni dettate, con riguardo, nella specie, all’installazione degli impianti termici degli edifici ai fini del contenimento dei consumi di energia o della tutela dall’inquinamento ambientale (disposizioni che attengono a rapporti di natura pubblicistica tra la P.A., preposta alla tutela dell’interesse collettivo della salvaguardia della salute in generale, ed i privati, prescindendo da qualunque collegamento con la proprietà fondiaria) non regolano direttamente i rapporti tra i proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell’art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (arg. da Cass. Sez. 2, 25/08/2005, n. 17281; Cass. Sez. 2, 29/04/2002, n. 6223; Cass. Sez. 6 – 2, 01/02/2011, n. 2319; Cass. Sez. 2, 17/01/2011, n. 939).

Si vuol quindi dire che non hanno decisività le censure svolte dalla ricorrente avendo riguardo ai parametri fissati dalla normativa speciale in tema di requisiti e dimensionamento degli impianti termici negli edifici (in quanto diretti alla protezione di esigenze della collettività di rilevanza pubblicistica), pur potendo gli stessi essere considerati come criteri minimali di partenza, al fine di stabilire l’intollerabilità delle emissioni che li eccedano.

Il giudice civile non è infatti necessariamente vincolato dalla normativa tecnica prescritta per limitare l’inquinamento ed i consumi energetici, e, nello stabilire la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell’ambito privatistico, può anche discostarsene, pervenendo motivatamente al giudizio di intollerabilità, ex art. 844 c.c., sulla scorta di un prudente apprezzamento di fatto che consideri la particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica, e che rimane, in quanto tale, insindacabile in sede di legittimità.

Spetta, quindi, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa, supponendo tale accertamento un’indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di cassazione di prendere direttamente in esame l’intensità o la nocività delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità.”

© massimo ginesi 31 agosto 2017

 

la revoca dell’amministratore non incide sul suo rendiconto già approvato dall’assemblea.

Corte di Cassazione, sez. II Civile,  11 gennaio 2017, n. 454  Relatore Scarpa

una sentenza che affronta un tema  inusuale e che denota quanto possa essere complessa la materia condominiale (e articolata la fantasia giudiziale dei condomini).

Il giudice territoriale  aveva respinto la domanda di impugnativa della delibera di approvazione del  consuntivo predisposto dall’amministratore successivamente revocato:  i ricorrenti lamentano che ” la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto del fatto che i due precedenti amministratori del Condominio erano stati revocati per le irregolarità compiute”.

Osserva a tal proposito la Suprema Corte ” è priva di decisività la circostanza che i bilanci consuntivi approvati con la delibera oggetto di impugnazione fossero stati predisposti da amministratori di seguito revocati giudizialmente.
Il provvedimento in camera di consiglio, statuente la revoca dello amministratore del condominio, ha efficacia, ai sensi dell’art. 741 c.p.c., dalla data dell’inutile spirare del termine per il reclamo avverso di esso, sì che gli atti compiuti dall’amministratore in data anteriore a quella d’inizio dell’efficacia del provvedimento camerale dispositivo della sua revoca non sono viziati da alcuna automatica invalidità e continuano a produrre effetti e ad essere giuridicamente vincolanti nei confronti del condominio (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 666 del 01/02/1990).”

La Cassazione sottolinea che, poiché  la revoca giudiziale dell’amministratore  ha efficacia da quando il relativo provvedimento diviene “definitivo”, gli atti da costui compiuti sino a quel momento devono ritenersi validi, salvo specifici motivi di censura che non possono essere ricondotti in via automatica al solo fatto che la condotta dell’amministratore sia stata affetta da irregolarità che ne hanno determinato la successiva revoca .

La sentenza, ritenuto infondato il primo peculiare motivo di ricorso, esamina anche le altre censure, ritornando su principi ormai consolidati, seppur espressi con una  sfumatura di novità dovuta alla particolarità dell’impugnativa.

I ricorrenti si dolgono che le spese approvate a consuntivo dall’assemblea non siano state oggetto di precedente approvazione a preventivo,   avevano inoltre  proposto al giudice territoriale una censura nel merito di dette spese, chiedendo che ne venisse accertata la superfluità.

La Suprema Corte, nel ribadire che compete all’autorità giudiziaria unicamente un sindacato di legittimità sulle delibere condominiali e che il giudice non può entrare nel merito della spesa discrezionalmente deliberata dell’assemblea, compie una esaustiva e interessante disamina in diritto sulle facoltà  dell’assemblea in tema di approvazione della spesa e sui poteri dell’amministratore relativamente alla ordinaria gestione.

Va poi considerato che, secondo consolidato orientamento di questa Corte, per la validità della delibera di approvazione del bilancio condominiale non è necessario che la relativa contabilità sia tenuta dall’amministratore con rigorose forme analoghe a quelle previste per i bilanci delle società, essendo, invece, sufficiente che essa sia idonea a rendere intellegibile ai condomini le voci di entrata e di spesa, con le quote di ripartizione; né si richiede che queste voci siano trascritte nel verbale assembleare, ovvero siano oggetto di analitico dibattito ed esame alla stregua della documentazione giustificativa, in quanto rientra nei poteri dell’organo deliberativo la facoltà di procedere sinteticamente all’approvazione stessa, prestando fede ai dati forniti dall’amministratore alla stregua della documentazione giustificativa (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1405 del 23/01/2007; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9099 del 07/07/2000).

Spetta, comunque, all’assemblea dei condomini approvare il conto consuntivo, come confrontarlo con il preventivo ovvero valutare l’opportunità delle spese affrontate d’iniziativa dell’amministratore (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8498 del 28/05/2012). Com’è noto, il sindacato dell’autorità giudiziaria sulle delibere delle assemblee condominiali non può estendersi alla valutazione del merito ed al controllo del potere discrezionale che l’assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma deve limitarsi al riscontro della legittimità. Ne consegue che non è suscettibile di controllo da parte del giudice, attraverso l’impugnativa di cui all’art. 1137 c.c., l’operato dell’assemblea condominiale in relazione alla questione inerente alla approvazione in sede di rendiconto di spese che si assumano superflue. “

Rileva ancora la Corte che, una volta provare legittimamente le spese a consuntivo, non può avere alcun rilievo che le stesse non avessero ricevuto una preventiva deliberazione, atteso che la facoltà di erogare le spese ordinarie rientra fra i poteri dell’amministratore e che a legittimare tale attività è più che sufficiente l’approvazione del rendiconto: ” Infine, è funzione tipica del consuntivo proprio l’approvazione della erogazione delle spese di manutenzione ordinaria e di quelle relative ai servizi comuni essenziali, le quali non richiedono la preventiva approvazione dell’assemblea dei condomini, in quanto trattasi di esborsi ai quali l’amministratore provvede in base ai suoi poteri e non come esecutore delle delibere dell’assemblea.

L’approvazione di dette spese è richiesta soltanto in sede di consuntivo, giacché con questo poi si accertano le spese e si approva lo stato di ripartizione definitivo che legittima lo amministratore ad agire contro i condomini per il recupero delle quote poste a loro carico (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5068 del 18/08/1986).
Nella specie, la Corte di Roma ha accertato, con motivazione logica e perciò non emendabile, che le voci di spesa e di entrata erano intelligibili e non estranee alla gestione del condominio. Con specifico riguardo ai lavori di impermeabilizzazione la Corte di Appello di Roma ha ritenuto, inoltre, che, per la loro natura e consistenza, avessero natura di opere di ordinaria manutenzione destinate alla conservazione della cosa comune e che rientrassero, perciò, nelle attribuzioni dell’amministratore “

© massimo ginesi 13 gennaio 2017 

Le spese ordinarie e straordinarie in condominio

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La Cassazione  (II sezione civile, 10865/2016, rel. Scarpa) ritorna su due temi caldi.

Quanto alle diverse categorie di spesa e ai poteri  dell’amministratore, osserva la Corte che “Vi si allega che l’appalto dei servizi di manutenzione del verde condominiale, nonche’ di derattizzazione e disinfestazione delle aree comuni, involgono contratti rientranti nella straordinaria amministrazione, e percio’ sarebbe illegittima la delibera  che dava generico mandato all’amministratore al riguardo. La Corte d’Appello ha ritenuto che si trattasse di contratti che “rientrano chiaramente nell’ordinaria amministrazione, in quanto tendono alla conservazione delle cose comuni, e quindi nella competenza dell’amministratore”, sicche’ la deliberazione  sarebbe valsa soltanto come “sollecitazione” a quest’ultimo a provvedere ad atti di sua competenza. E’ noto che i contratti conclusi dall’amministratore nell’esercizio delle sue funzioni ed inerenti alla manutenzione ordinaria dell’edificio ed ai servizi comuni essenziali, ovvero all’uso normale delle cose comuni, sono vincolanti per tutti i condomini in forza dell’articolo 1131 c.c., nel senso che giustificano il loro obbligo di contribuire alle spese, senza necessita’ di alcuna preventiva approvazione assembleare delle stesse, intervenendo poi tale approvazione utilmente in sede di consuntivo (Cass. 18 agosto 1986, n. 5068). L’elemento distintivo dell’ordinaria amministrazione dell’obbligazione assunta, come tale sottratta al presupposto autorizzativo dell’assemblea, risiede, pertanto, al pari di quanto si sostiene per le amministrazioni commerciali, nella normalita’ dell’atto di gestione condominiale rispetto allo scopo dell’utilizzazione e del godimento dei beni comuni. Mentre, solo laddove si verta in ipotesi di spese che, seppure dirette alla migliore utilizzazione di cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino per la loro particolarita’ e consistenza un onere economico rilevante, superiore a quello normalmente inerente alla gestione, l’iniziativa contrattuale dello stesso amministratore, senza la preventiva deliberazione  dell’assemblea, non e’ sufficiente a fondare l’obbligo dei singoli condomini, salvo che non ricorra il presupposto dell’urgenza contemplato nella fattispecie di cui all’articolo 1135 c.c., comma 2. “

Quanto alla legittimazione processuale dell’amministratore, in linea con le Sezioni Unite del 2010 e con le modfiche apportate all’art. 1131 cod.civ. dalla novella del 2012, il Giudice di legittimità ribadisce che “deve conclusivamente affermarsi, quanto al primo motivo di ricorso, che l’amministratore di un condominio, per conferire procura al difensore al fine di costituirsi in giudizio nelle cause che non esorbitano dalle sue attribuzioni, agli effetti dell’articolo 1131 c.c., commi 2 e 3 (quale, nella specie, la resistenza all’impugnazione di una Delib. proposta da un condomino), non ha bisogno dell’autorizzazione dell’assemblea dei condomini, ed un’ eventuale Delib. sul punto avrebbe il significato di mero assenso alla scelta gia’ validamente effettuata dall’amministratore”

© massimo ginesi giugno 2016