Il divieto di nomina dell’amministratore revocato vale solo per l’esercizio successivo

Lo afferma una pronuncia toscana (Trib. Prato 7.9.2023 n. 599) che, con condivisibili argomenti, chiarisce anche che il mero richiamo al compenso degli anni precedenti – dichiarato noto ma non espresso –  non vale ad evitare la nullità della nomina dell’amministratore (interessante anche il rilievo sulla procedibilità dell’accertamento della nullità, pur non dedotta in mediazione, e volta a respingere una bizzarra eccezione delle parti) .

si deve rilevare che, secondo il costante orientamento interpretativo della Corte di Cassazione, il divieto posto dal richiamato art. 1129, c. 13 c.c. a che l’assemblea dei condomini nomini nuovamente l’amministratore revocato giudizialmente è solo temporaneo (non comprimendo definitivamente il diritto dello stesso di ricevere l’incarico) in quanto riguarda soltanto la designazione assembleare immediatamente successiva al decreto di rimozione (cfr. tra le tante Cass. 02/02/2023, n. 3198).

L’attore ha quindi censurato la nullità della deliberazione in quanto asseritamente in violazione del disposto dell’art. 1129, c. 14 c.c. poiché non specifica l’importo dovuto a titolo di compenso. ..

L’art. 1129, c. 14 c.c. (ai sensi della quale “l’amministratore, all’atto dell’accettazione della nomina e del suo rinnovo, deve specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l’importo dovuto a titolo di compenso per l’attività svolta”) prevede un’ipotesi di nullità testuale della delibera di nomina dell’amministratore condominiale che non rechi (con le precisazioni che saranno di seguito effettuate) la specifica indicazione del suo compenso. Proprio perché la sanzione prevista è quella della nullità (e non dell’annullamento) la contestazione di tale profilo di censura non soggiace al termine decadenziale di 30 giorni, che l’art. 1137, c. 2 c.c. impone esclusivamente per la proposizione dell’azione di annullamento.

Orbene, né la disciplina del codice di procedura civile né tanto meno quella relativa alla mediazione prevede che il giudice che abbia sollevato d’ufficio un’eccezione in una controversia avente ad oggetto una materia per cui la mediazione è condizione di procedibilità, sia tenuto (a pena di improcedibilità del giudizio stesso) a far esperire alle parti un nuovo procedimento di mediazione, dovendo limitarsi ad assicurare che le parti possano prendere posizione su detto rilievo nel pieno rispetto del contraddittorio.

Ma se in caso di rilievo d’ufficio non sussiste alcun obbligo di esperire un nuovo ed ulteriore tentativo di mediazione, la previsione di una imposizione contraria ove il medesimo rilievo sia stato effettuato dalla parti non appare giustificato né giustificabile. Passando quindi al merito della censura, si rileva che a seguito della riforma introdotta con la L. n. 220/2012, la costituzione di un valido rapporto di amministrazione condominiale richiede la sussistenza di un documento, approvato dall’assemblea, che rechi l’importo dovuto a titolo di compenso; la Corte di Cassazione ha evidenziato che detto requisito formale può ritenersi soddisfatto anche in presenza di un richiamo ad un preventivo espressamente indicato come parte integrante del contenuto di esso (cfr. Cass. 22/04/2022, n. 12927). Tale previsione mira a garantire la massima trasparenza ai condomini e a renderli edotti delle singole voci di cui si compone l’emolumento dell’organo gestorio al momento del conferimento del mandato, è tassativa e non ammette equipollenti.

Nel caso di specie al punto 2 della delibera del febbraio 2022 si legge che “i condomini presenti all’unanimità respingono le dimissioni e riconfermano l’attuale amministratore confermando anche il preventivo di spese annuali di loro conoscenza”. Lo scrivente Tribunale non ritiene che detta dizione soddisfi i requisiti imposti dalla citata previsione legislativa in ragione della sua genericità; né tanto meno nella nomina del febbraio 2022 può leggersi alcun rinvio al preventivo allegato sub lett. A) alla delibera del 17/05/2021, posto che il dato testuale della delibera impugnata non offre alcun indizio della coincidenza tra il “preventivo di spese annuale” dalla stessa richiamato e il preventivo allegato alla delibera del maggio 2021.

Il fatto, poi, che l’importo richiesto dall’amministratore a titolo di compenso fosse uguale a quello degli anni precedenti non permette di ritenere sanata l’omessa indicazione dello stesso nella delibera di nomina.

l’amministratore che mente all’assemblea deve essere revocato, anche se si tratta di condotta episodica e dalla quale non deriva danno

E’ quanto è stabilito la Corte d’Appello di Torino in data 17.11.2022, confermando la decisione del Tribunale sabaudo, decisione che dunque assumere carattere di definitività non essendo ammesso – in tale procedimento – il ricorso in cassazione per i profili di merito 

Nel caso in questione l’amministratore ha falsamente riferito all’assemblea dell’esistenza di un’ordinanza sindacale che imponeva lavori urgenti di manutenzione alla facciata, provvedimento poi rivelatosi inesistente. La decisone della Corte piemontese è interessante, laddove si sofferma sulla rilevanza della condotta dell’amministratore, anche se la stessa non ha inciso sulle decisioni dell’assemblea, non ha cagionato danno e quell’amministratore fosse stato comunque confermato.

Osserva la Corte piemontese  che “Tuttavia, se per un verso può in effetti ritenersi non irrilevante che con tale diversa pronuncia sia stato escluso che la condotta de quo abbia avuto concreta incidenza sul deliberato assembleare, per altro verso deve notarsi che si tratta di questioni comunque diverse, e che la condotta dell’amministratore deve essere valutata, come già indicato, in relazione anche alle sue potenziali incidenze sulle decisioni da assumere, nonché sui doveri dell’amministratore nel rapporto fiduciario con i condomini.

Analoghe considerazioni valgono per l’assenza di danno: il fatto che, in concreto, non vi sia stata lesione di diritti o interessi dei condomini, non esclude che detta condotta potesse potenzialmente cagionare danni.

Così circoscritte le circostanze di fatto e in specie la condotta addebitata all’amministratore, che può ritenersi accertata nei termini di cui si è detto, occorre valutare se la stessa abbia integrato o meno una “grave irregolarità”, sia pur ulteriore e diversa rispetto a quelle tipicizzate, con un‘elencazione pacificamente da ritenersi non tassativa, dall’art. 1129 c.c., e se le decisioni della maggioranza dei condomini possano o meno avere rilievo in tale valutazione.

Il fatto che la maggioranza dei condomini non l’abbia ritenuta una condotta costituente ragione di revoca dell’amministratore, respingendo la domandaavanzata in questo senso da alcuni condomini e anzi poi rinnovando il mandato allo stesso amministratore, sia a immediato seguito dei fatti in causa, sia ulteriormente nel 2021, mentre, per converso, questa sarebbe la “terza causa nell’arco di un anno” instaurata contro l’amministratore da parte dei Ricorrenti (le due precedenti conclusesi con reiezione delle domande dagli stessi presentati), non può essere considerato di rilievo sul punto: la revoca giudiziaria è strumento che consente a ciascun condomino, anche se in minoranza o del tutto isolato rispetto alla diversa volontà degli altri condomini, di sottoporre a giudizio la ritenuta sussistenza di irregolarità di gestione.

L’incarico di amministratore di condominio è qualificabile come un mandato con rappresentanza, certo conferito collettivamente dall’assemblea dei condomini, con decisione maggioritaria, ma questo non esclude che ogni condomino mantenga individualmente il diritto, scaturente da tale rapporto di mandato, di cui comunque è parte, a che la gestione dei beni comuni avvenga in maniera pienamente corretta e regolare, sussistendo in capo a ciascun condomino/mandante un potere di controllo sull’esecuzione del mandato gestorio

Né l’antecedenza del fatto in causa rispetto alla successiva rinnovazione del mandato esclude la sua valutabilità, in specie considerando l’espressa previsione legislativa, contenuta nello stesso art. 1129 c.c., secondo la quale, in caso di revoca da parte dell’autorità giudiziaria, l’assemblea non può nominare nuovamente l’amministratore revocato, quantomeno in relazione all’esercizio immediatamente successivo alla revoca.

Dalla clausola generale prevista dall’art. 1129 c.c., che contempla la revoca giudiziaria dell’amministratore “in caso di gravi irregolarità”, deriva poi che debbono valutarsi a tal fine, oltre alle specifiche previsioni dell’art. 1129 c.c., tutte quelle condotte, commissive o omissive, che possono costituire inadempimento del mandato conferito all’amministratore di condominio.

Il riferire, nel corso di un’assemblea condominiale, un fatto non corrispondente al vero, in specie l’assunzione, da parte del Comune, di un’ordinanza al cui rispetto il Condominio sarebbe stato tenuto, in riferimento a una questione posta all’ordine del giorno e possibile oggetto di delibera assembleare, è condotta che, anche ove tenuta in una sola occasione e senza che dalla stessa ne siano derivati in concreto dei danni, risulta oggettivamente in contrasto, oltre che con il dovere di diligenza nell’adempimento del mandato, di cui agli artt. 1176 e 1710 c.c., richiamati dal Tribunale, anche con l’obbligo di comportarsi secondo le regole della correttezza, di cui all’art. 1175 c.c., e mina il rapporto fiduciario che deve sussistere fra condomini e amministratore.

Correttamente, pertanto, tale condotta è stata qualificata dal Tribunale come grave irregolarità di rilievo ex art. 1129 c.c.. 

Il presentato reclamo non può pertanto trovare accoglimento”

Decisamente curioso, infine, che destinatario di tale provvedimento sia soggetto che riveste carica apicale in notissima associazione di settore, come è facilmente verificabile con una breve ricerca sul web, ove la notizia ha avuto qualche eco di stampa.

© MG 2.10.2023

 

 

asilo in condominio:quando il regolamento lo vieta

La Corte di legittimità, con ampia ed interessante pronuncia (Cass.civ. sez. II 30.5.2023 n. 15222 rel. Scarpa) ha affrontato il complesso tema delle azioni esperibili contro il conduttore che violi il regolamento contrattuale del condominio, destinando l’immobile a lui locato ad attività di asilo, laddove la stessa debba intendersi vietata  dal testo regolamentare.

La pronuncia contiene numerose riflessioni attinenti al profilo sostanziale e processuale dell’azione, avuto riguardo alla legittimazione passiva del conduttore, al litisconsorzio necessario con il locatore condomino nonché all’eventuale azione del singolo volta a far accertare la nullità della clausola contrattuale (che vede  la legittimazione necessaria di tutti gli altri condomini): per l’ampiezza e finezza di analisi merita lettura integrale.

Sul tema specifico del divieto di destinazione ad asilo, la corte – che cassa con rinvio – suggerisce una lettura restrittiva delle clausole limitative, così che l’attività di asilo dovrà essere attentamente valutata dal giudice di merito con riguardo alle espressioni utilizzate nel testo regolamentare:

“Nella interpretazione, invece, del divieto di “destinare gli alloggi a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni”, occorre preservare il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, avendo riguardo alle limitazioni enunciate nel regolamento in modo chiaro ed esplicito, e cioè alla elencazione delle attività vietate risultanti dall’atto scritto, non potendosene desumere ulteriori e diverse in ragione delle possibili finalità pratiche perseguite dai condomini contraenti in rapporto ai pregiudizi che si aveva intenzione di evitare (quale, ad esempio, evitare tutte le attività parimenti “rumorose”).

3. Alla stregua dei principi enunciati, dovrà procedersi in sede di rinvio ad accertare se l’art. 9 del regolamento condominiale fosse opponibile alla condomina locatrice Talvera s.a.s. e se lo stesso rechi un divieto chiaro ed esplicito di destinare le unità immobiliari di proprietà esclusiva ad asilo nido.”

DA parte della giurisprudenza di merito si è altresì  ritenuto di recente (Trib. Bergamo 20 giugno 2023, n. 1326)  che, ove il regolamento  contrattuale vieti tout court usi diversi da quello di civile abitazione, debba ritenersi vietata anche la destinazione a home schooling: “Il regolamento condominiale vieta di adibire le unità immobiliari a destinazione diversa dall’abitazione.Tale regolamento, formato dal costruttore, ha natura contrattuale, essendo richiamato nei titoli di acquisto, ed è stato debitamente trascritto (do cc. 5 – 6 attore).L’attività di scuola parentale ricade indubbiamente nel divieto, trattandosi di una destinazione diversa da quella di civile abitazione.Non rileva che essa sia lecita dal punto di vista scolastico ed espletata a titolo gratuito, interessa soltanto l’aspetto condominiale.La previsione regolamentare è chiara ed esplicita, e non dà adito ad alcun dubbio o ince1tezza: essendo vietate tutte le attività diverse dall’uso abitativo, non pare necessaria l’elencazione analitica delle stesse. Infatti, è del tutto evidente l’intento di prevedere una destinazione esclusivamente abitativa delle unità collocate all’interno dell’edificio condominiale.

Non vi è, pertanto, la necessità di procedere ad un’interpretazione della norma, giacché in claris non fit interpretatio (arg. ex Cass. n. 21307/2022: “I divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti.”

Taluni interpreti hanno ritenuto che il giudice lombardo si sia discostato dalla recente pronuncia di legittimità, ma così non è, poiché le due statuizioni perseguono piani contigui ma non coincidenti: la pronuncia di legittimità esclude interpretazione estensive,  a fronte di una elencazione generica della clausola regolamentare che indichi le attività espressamente vietate; il giudice di merito si limita a rilevare che l’attività di asilo non può esser ricondotta all’uso di civile abitazione, unico ammesso in quel fabbricato  per accordo negoziale fra i condomini (si veda, in tema di  uso per civile  abitazione  niente bed & breakfast se il regolamento vieta attività commerciali ).

Cass_15222_2023

© MG 5.9.2023

 

il cappotto termico non è innovazione gravosa e voluttuaria ex art 1121 c.c.

E’ quanto afferma, con ampia motivazione, una recente ordinanza della Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  20 aprile 2021 n. 10371 rel. Scarpa), decisione  che contiene diversi altri interessanti argomenti  interpretativi che si rifanno a principi ormai  noti e consolidati e che, tuttavia, è sempre utile approfondire  nella chiara esposizione di questo provvedimento, con particolare riguardo alla natura costitutiva della delibera di approvazione della spesa  (relativamente all’obbligazione del singolo condomino) e alla natura del credito vantato dal fornitore nei confronti del Condominio.

La controversia nasce con l’impugnazione di “due deliberazioni assembleari del 10 aprile 2012 e del 2 agosto 2012, con cui erano state ripartite fra i condomini le spese straordinarie sostenute per la coibentazione dell’immobile condominiale (accollando agli attori l’importo pari ad €  13.648.42), all’accertamento dell’avvenuto pagamento ad opera di terzi e dell’indebita pretesa di contribuzione da parte del condominio, nonché alla restituzione di quanto già corrisposto a seguito di intimazione di decreto ingiuntivo”, impugnative respinte in primo e secondo grado dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Trento.

Osserva il Giudice di legittimità che “ Si ha riguardo, per quanto accertato in fatto, ad un intervento di miglioramento dell’efficienza energetica del fabbricato condominiale consistente nella realizzazione di un isolamento termico delle superfici che interessano l’involucro dell’edificio (cosiddetto “cappotto termico”), nonché nella esecuzione delle collegate opere accessorie e di ripristino della facciata, intervento variamente agevolato normativamente anche sotto il profilo fiscale (si vedano indicativamente l’art. 1120, comma 2, n. 2, c.c., come inserito dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220, e da ultimo l’art. 119, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, come sostituito dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77 e poi modificato dal d.l. 14 agosto 2020, n. 104, convertito dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126).

Parimenti è accertato in fatto che l’intervento di coibentazione era stato approvato con deliberazione approvata dall’assemblea del Condominio B. il 20 giugno 2011, mentre poi le delibere del 10 aprile 2012 e del 2 agosto 2012, impugnate ex art. 1137 nel presente giudizio, avevano provveduto alla ripartizione delle spese per l’innovazione precedentemente deliberata.”

SULLA NATURA DELL’INTERVENTO DI COIBENTAZIONE – a tal proposito la Cassazione rileva che “si intendono innovazioni voluttuarie, per le quali è consentito al singolo condomino, ai sensi dell’art. 1121 c.c., di sottrarsi alla relativa spesa, quelle nuove opere che incidono sull’entità sostanziale o sulla destinazione della cosa comune che sono tuttavia prive di oggettiva utilità, mentre sono innovazioni gravose quelle caratterizzate da una notevole onerosità rispetto alle particolari condizioni e all’importanza dell’edificio, e ciò sulla base di un accertamento di fatto devoluto al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua (Cass. Sez. 2, 18/01/1984, n. 428; Cass. Sez. 2, 23/04/1981, n. 2408).

In particolare, le innovazioni voluttuarie, consentite dal primo comma e vietate dal secondo comma dell’art. 1121 c.c., a seconda che consistano, o meno, in opere suscettibili di utilizzazione separata, sono quelle che, per la loro natura, estensione e modalità di realizzazione, esorbitino apprezzabilmente dai limiti della conservazione, del ripristino o del miglior godimento della cosa comune, per entrare nel campo del mero abbellimento e/o del superfluo (Cass. Sez. 2, 08/06/1995, n. 6496).

L’inapplicabilità della disciplina di cui all’art. 1121 c.c., nel caso in esame, discende altresì dall’essenziale considerazione che tale norma postula che il condomino che non voglia partecipare alle spese per una innovazione gravosa o voluttuaria, approfittando della eccezionale causa di esonero dalla obbligatorietà per tutti i partecipanti supposta dall’art. 1137, comma 1, c.c., manifesti il suo dissenso in assemblea o con la tempestiva impugnazione della deliberazione (Cass. Sez. 2, 17/04/1969, n. 1215 ), mentre la delibera del 20 giugno 2011 che approvò il preventivo dell’impresa appaltatrice fu approvata all’unanimità e non fu impugnata.

D’altro canto, la realizzazione di un “cappotto termico” sulle superfici esterne dell’edificio condominiale, in quanto volta a migliorare l’efficienza energetica dello stesso, non dà luogo ad opera che possa ritenersi suscettibile di utilizzazionseparata, agli effetti dell’art. 1121, comma 1, c.c., né, una volta eseguita, configura una cosa che è destinata a servire i condomini in misura diversa, oppure solo una parte dell’intero fabbricato, sicché le relative spese possano intendersi da ripartire in proporzione dell’uso o da porre a carico del solo gruppo dei condomini che ne trae utilità.

Gli artt. 1120 e 1121, da una parte, e 1123, dall’altra, riguardano fattispecie diverse: le prime due norme regolano il momento dell’approvazione collegiale delle opere di trasformazione che incidono sull’essenza della cosa comune, individuando i presupposti e i limiti del potere assembleare, mentre l’art. 1123 c.c. regola la ripartizione delle spese necessarie, oltre che per la conservazione ed il godimento delle parti comuni e per la prestazione dei servizi di interesse comune, anche proprio per le innovazioni validamente deliberate dalla maggioranza. Se l’innovazione che l’assemblea intende approvare è destinata a servire solo una parte dell’edificio condominiale, e perciò la relativa spesa deve far carico esclusivamente al gruppo di condomini che ne trae utilità, lo stesso computo delle maggioranze indicate dall’art. 1120 c.c. deve operarsi con riferimento ai soli condomini interessati, ossia a quelli facenti parte di detto gruppo (cfr. Cass. Sez. 2, 08/06/1995, n. 6496).

il  “cappotto termico” da realizzare sulle facciate dell’edificio condominiale, al fine di migliorarne l’efficienza energetica, non è opera destinata all’utilità o al servizio esclusivo dei condomini titolari di unità immobiliare site nella parte non interrata del fabbricato, come sostengono i ricorrenti (proprietari di locali interrati serviti da autonomo ingresso).

Le opere, gli impianti o manufatti che, come il “cappotto” sovrapposto sui muri esterni dell’edificio, sono finalizzati alla coibentazione del fabbricato in funzione di protezione dagli agenti termici, vanno ricompresi tra quelli destinati al vantaggio comune e goduti dall’intera collettività condominiale (art. 1117, n. 3, c.c.), inclusi i proprietari dei locali terranei, e non sono perciò riconducibili fra quelle parti suscettibili di destinazione al servizio dei condomini in misura diversa, ovvero al godimento di alcuni condomini e non di altri, di cui all’art. 1123, commi 2 e 3, c.c. Ne consegue che, ove la realizzazione del cappotto termico sia deliberata dall’assemblea, trova applicazione l’art. 1123, comma 1, c.c., per il quale le spese sono sostenute da tutti i condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno (arg. da Cass. Sez. 2, 25/09/2018, n. 22720; Cass. Sez. 2, 15/02/2008, n. 3854; Cass. Sez. 2, 04/05/1999, n. 4403; Cass. Sez. 2, 17/03/1999, n. 2395; Cass. Sez. 2, 23/12/1992, n. 13655).”

SULA NATURA COSTITUTIVA DELLA DELIBERA CHE APPROVA LA SPESA E DICHIARATIVA DI QUELLA CHE LA RIPARTISCE – “La dottrina ravvisa un duplice oggetto della deliberazione assembleare che approvi un intervento di ristrutturazione delle parti comuni: 1) l’approvazione della spesa, che significa che l’assemblea ha riconosciuto la necessità di quella spesa in quella misura; 2) la ripartizione della spesa tra i condomini, con riguardo alla quale la misura del contributo dipende dal valore della proprietà di ciascuno o dall’uso che ciascuno può fare della cosa

Se, allora, l’approvazione assembleare dell’intervento, ove si tratti di innovazioni o di lavori di manutenzione straordinaria, ha valore costitutivo della obbligazione di contribuzione alle relative spese, la ripartizione, che indica il contributo di ciascuno, ha valore puramente dichiarativo, in quanto serve solo ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore, secondo i criteri di calcolo stabiliti dalla legge (o da un’eventuale convenzione) (arg. da Cass. Sez. U, 09/08/2010, n. 18477; Cass. Sez. 2, 03/12/1999, n. 13505; Cass. Sez. 2, 15/03/1994, n. 2452; Cass. Sez. U, 05/05/1980, n. 2928).

SULL’OBBLIGAZIONE DEL CONDOMINO E DEL CONDOMINIO – Il sesto motivo di ricorso trascura l’oggettiva diversità del fondamento dell’obbligazione dei condomini ricorrenti di contribuire alle spese condominiali derivanti dall’innovazione approvata dall’assemblea del Condominio Beta (obbligazione di cui, in realtà, si discute in questo giudizio) con l’obbligazione che invece lega il medesimo Condominio all’impresa Postai esecutrice dei lavori, invocando la fattispecie e gli effetti dell’adempimento del terzo ex art. 1180 c.c. sul presupposto che gli altri condomini avevano provveduto al pagamento del corrispettivo in favore dell’appaltatrice.

 Secondo consolidata interpretazione giurisprudenziale (si veda indicativamente Cass. Sez. U, 08/04/2008, n. 9148), il credito che il terzo creditore, in forza di contratto concluso dall’amministratore nell’ambito delle sue attribuzioni, può far valere anche direttamente nei confronti del singolo condomino, in proporzione della rispettiva quota millesimale, è cosa giuridicamente diversa (seppur economicamente coincidente) rispetto al credito per la riscossione dei contributi condominiali che può far valere l’amministratore di condominio.

Il primo credito ha, invero, natura di prestazione sinallagmatica e trova causa nel rapporto contrattuale col terzo approvato dall’assemblea e concluso daLL’amministratore in rappresentanza di tutti i partecipanti al condominio. L’obbligo di pagamento degli oneri condominiali da parte del singolo partecipante ha, per contro, causa immediata nella disciplina del condominio, e cioè nelle norme di cui agli artt. 1118 e 1123 ss. c.c., che fondano il regime di contribuzione alle spese per le cose comuni.

Questa Corte ha già affermato che l’obbligo del singolo partecipante di pagare al condominio le spese dovute e le vicende debitorie del condominio verso i suoi appaltatori o fornitori rimangono del tutto indipendenti, tant’è che il condomino non può ritardare il pagamento delle rate di spesa in attesa dell’evolvere delle relazioni contrattuali tra condominio e soggetti creditori di quest’ultimo, né può utilmente opporre all’amministratore che il pagamento sia stato da lui effettuato direttamente al terzo, in quanto, si è detto, ciò altererebbe la gestione complessiva del condominio: sicché il singolo deve sempre e comunque pagare all’amministratore, salva l’insorgenza, in sede di bilancio consuntivo, di un credito da rimborso per gli avanzi di cassa residuati (Cass. Sez. 2, 29/01/2013, n. 2049).

E’ stato anche detto che, ponendosi il condominio, nei confronti dei terzi, come “soggetto di gestione” dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini attinenti alle parti comuni, l’amministratore di esso assume la qualità di necessario rappresentante della collettività dei condomini, e ciò sia nella fase di assunzione degli obblighi verso i terzi per la conservazione delle cose comuni, sia, all’interno della medesima collettività condominiale, in quanto unico referente dei pagamenti ad essi relativi; con la conclusione che il pagamento diretto eseguito dal singolo partecipante a mani del creditore del condominio non sarebbe comunque idoneo ad estinguere il debito “pro quota” dello stesso relativo ai contributi ex art. 1123 c.c. (Cass. Sez. – 2, 17/02/2014, n. 3636).

Appare dunque evidente in giurisprudenza la diversità tra le attribuzioni dell’assemblea a ripartire le spese e dell’amministratore a riscuotere i contributi condominiali (artt. 1135, 1130 n. 3 c.c. e 63, comma 1, disp. att. c.c.), e la pretesa di pagamento del corrispettivo contrattuale spettante al terzo creditore verso il singolo condomino sul presupposto della riferibilità diretta dei debiti condominiali ai singoli membri del gruppo…

E’, cioè, cosa estranea a quella oggetto della presente lite la qualificazione della pretesa spettante semmai al condomino, il quale abbia versato al terzo creditore anche la parte dovuta dai morosi e voglia poi ottenere da costoro il rimborso di quanto da loro (su questo cfr. Cass. Sez. 2, del 20/05/2019, n. 13505).”

© massimo ginesi 21 aprile 2021

 

vizi della delibera e gravi irregolarità non sempre coincidono

Una recente e corposa ordinanza della Corte di legittimità (Cass.civ. sez. II  5 novembre 2020 n. 24761 rel. Scarpa) affronta un tema peculiare e di significativo interesse: non sempre ciò che da luogo a gravi irregolarità comporta necessariamente anche vizio della delibera che approvi i rendiconti, poiché taluni profili hanno rilevanza ex art 1129 c.c. per l’eventuale richiesta di revoca giudiziale dell’amministratore ed altri possono invece essere censurati ex art 1137 c.c. come vizio della delibera.

La pronuncia coglie anche lo spunto per ribadire alcuni orientamenti, ormai consolidati, in tema di redazione del bilancio, di diritto di accesso ai documenti da parte dei condomini, poteri del giudice in ordine alla valutazione di legittimità della delibera.

Nel caso in esame  il condomino ricorrente (che già si sera visto respingere la domanda in appello e condannare per lite temeraria ex art 96 c.p.c.), sostiene in cassazione “ la violazione dell’art. 1129 c.c., comma 7, dell’art. 263 c.p.c. e dell’art. 1713 c.c. gli artt. 112 e 345 c.p.c. e dell’art. 1136 c.c. Con la censura si contesta la regolarità contabile del bilancio condominiale approvato con la Delib. 12 aprile 2012, richiamando le critiche svolte in primo grado ed in appello dal ricorrente (gestione del conto corrente, ammontare del saldo di cassa, mancata consegna della documentazione).
Il terzo motivo di ricorso deduce la “sparizione della portineria condominiale, dell’alloggio del portiere nonché della indebita proprietà dei locali ad uso della società dell’amministratore condominiale R.W. , OPE.RA. s.r.l.”, quali violazioni dell’art. 1129 c.c., art. 1130 c.c., comma 6, in riferimento agli artt. 832, 2621 e 2622 c.c.”.

La Corte preliminarmente osserva un difetto di applicabilità delle norme ratione temporis, poiché gli artt. 1129 e 1130 c.c. nella formulazione attuale sono entrati in vigore nel 2013 e non possono essere fatti valere per censurare una deliberazione assunta nel 2012.

Nel merito la corte osserva che “Le censure introdotte col secondo motivo sono anche contrarie ai consolidati orientamenti di questa Corte sulle questioni di diritto decise (avendosi riguardo, in relazione alla data di approvazione dell’impugnata delibera, alla disciplina condominiale antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 220 del 2012), senza offrire elementi che inducano a mutare tali orientamenti, e ciò agli effetti dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1. Per il disposto degli artt. 1135 e 1137 c.c., la deliberazione dell’assemblea condominiale che approva il rendiconto annuale dell’amministratore può essere impugnata dai condomini assenti e dissenzienti, nel termine stabilito dall’art. 1137 c.c., non per ragioni di merito, ma solo per ragioni di legittimità, restando perciò escluso ogni sindacato giudiziale sulla consistenza degli esborsi o sulla convenienza delle scelte gestionali (Cass. II, 4 marzo 2011, n. 5254; Cass. II, 20 aprile 1994, n. 3747; Cass. VI-2, 17 agosto 2017, n. 20135; Cass. II, 27 gennaio 1988, n. 731).
È poi certo nell’interpretazione giurisprudenziale che, se ciascun comproprietario ha la facoltà (di richiedere e) di ottenere dall’amministratore del condominio l’esibizione dei documenti contabili in qualsiasi tempo (e, non soltanto, in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea), senza neppure l’onere di specificare le ragioni della richiesta (finalizzata a prendere visione o estrarre copia dai documenti), l’esercizio di tale facoltà non deve risultare di ostacolo all’attività di amministrazione, nè rivelarsi contraria ai principi di correttezza (Cass. II, 21 settembre 2011, n. 19210; Cass. 29 novembre 2001, n. 15159; Cass. II, 26 agosto 1998, n. 8460).

È altrettanto consolidato l’orientamento giurisprudenziale che precisa come per la validità della deliberazione  di approvazione del bilancio condominiale non è necessario che la relativa contabilità sia tenuta dall’amministratore con rigorose forme analoghe a quelle previste per i bilanci delle società; è invero sufficiente che essa sia idonea a rendere intellegibile ai condomini le voci di entrata e di uscita, con le relative quote di ripartizione, fornendo la prova, attraverso i corrispondenti documenti giustificativi, non solo della qualità e quantità dei frutti percetti e delle somme incassate, nonché dell’entità e causale degli esborsi fatti, ma anche di tutti gli elementi di fatto che consentono di individuare e vagliare le modalità con cui l’incarico è stato eseguito e di stabilire se l’operato di chi rende il conto sia adeguato a criteri di buona amministrazione, e ciò comunque alla stregua di valutazione di fatto che spetta al giudice di merito e che non è denunciabile per cassazione alla stregua dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Neppure si richiede che le voci di spesa siano trascritte nel verbale assembleare, ovvero siano oggetto di analitico dibattito ed esame alla stregua della documentazione giustificativa, in quanto rientra nei poteri dell’organo deliberativo la facoltà di procedere sinteticamente all’approvazione stessa, prestando fede ai dati forniti dall’amministratore alla stregua della documentazione giustificativa (Cass. II, 23 gennaio 2007, n. 1405; Cass. II 7 febbraio 2000, n. 9099; Cass. II, 20 aprile 1994, n. 3747).

Il ricorrente, col secondo motivo, auspica che la Corte di cassazione tragga dalle risultanze istruttorie un apprezzamento di fatto difforme da quello espresso dai giudici del merito, rivalutando le stesse nel senso più favorevole alle sue tesi difensive, il che suppone un accesso diretto agli atti e una loro immediata delibazione, attività non consentita in sede di legittimità.”

La Corte osserva inoltre  che, una volta che il condomino abbia impugnato la delibera deducendo un determinato vizio, non è consentito al giudice discostarsi dalla domanda e pervenire all’annullamento epr motivi diversi da quelli espressamente dedotti dalla parte: “la domanda di declaratoria dell’invalidità di una delibera dell’assemblea dei condomini per un determinato motivo non consente al giudice, nel rispetto del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, l’annullamento della medesima delibera per qualsiasi altra ragione attinente a quella questione nè, tantomeno, l’annullamento, sia pure per la stessa ragione esplicitata con riferimento alla deliberazione specificamente impugnata, delle altre delibere adottate nella stessa adunanza ma non ritualmente opposte in quanto, ancorché sia redatto un unico processo verbale per l’intera adunanza, l’assemblea pone in essere tante deliberazioni ontologicamente distinte ed autonome fra loro, quante siano le diverse questioni e materie in discussione, con la conseguente astratta configurabilità di separate ragioni di invalidità attinenti all’una o all’altra (Cass. Sez. 6 – 2, 25/06/2018, n. 16675). Un conto è allora domandare l’invalidità della deliberazione assembleare che non abbia individuato e riprodotto nel relativo verbale i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, nonché i valori delle rispettive quote millesimali, come il M. assume di aver prospettato in primo grado, altro conto è denunciare l’annullabilità della delibera per violazione delle maggioranze prescritte dall’art. 1136 c.c. con riferimento all’elemento reale ed all’elemento personale (domanda che correttamente, perciò, la Corte d’appello di Torino afferma non proposta tempestivamente dal ricorrente).”

© massimo ginesi 11 novembre 2020

 

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niente bed & breakfast se il regolamento vieta attività commerciali

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  ord. 7 ottobre 2020 n. 21562), con pronuncia particolare  e che pare apparentemente porsi in contrasto con precedente orientamento, afferma che l’attività di affittacamere deve ritenersi vietata nel condominio in cui il regolamento di natura contrattuale vieti la destinazione di unità immobiliari ad esercizio commerciale.

La pronuncia trae spunto dalla peculiare motivazione con cui il giudice di merito aveva accolto la domanda e – per le motivazioni addotte – pare in realtà assai più convincente delle precedenti che riconducevano l’attività al perimetro della civile abitazione, consentendone l’esercizio anche in quei fabbricati in cui era vietata la destinazione degli appartamenti ad esercizi commerciali: non vi è dubbio che tale attività ricettiva finisca per introdurre nel contesto condominiali parametri di frequentazione del tutto diversi dalla civile abitazione e decisamente assimilabili, ormai, per estensione e diffusione nelle località turistiche, a quelle delle attività alberghiere.

-la corte d’appello ha riconosciuto che l’attività svolta nell’unità immobiliare era contraria alla previsione del regolamento condominiale alla stregua di una valutazione oggettiva, condotta esclusivamente in base al confronto fra la stessa attività e la previsione regolamentare;
– è evidente che la teorica conformità al regolamento condominiale dell’uso dichiarato nel contratto di locazione non esclude che il regolamento possa poi essere di fatto ugualmente violato;

..

-l’art. 28 del regolamento Condominiale dispone: “gli appartamenti potranno essere destinati esclusivamente a civili abitazioni, studi o gabinetti professionali, restando espressamente vietati destinazioni e uso ad esercizio o ufficio industriale o commerciale, a uffici pubblici, dispensari sanatori, case di salute di qualsiasi genere, gabinetti per cure di malattie infettive, contagiose o ripugnanti, ad agenzie di qualunque specie, a ufficio depositi di pompe funebri, a ufficio di collocamento, ristoranti, cinematografi, magazzini, scuole di qualunque specie, chiese, accademie (..).”;
– la ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la destinazione per civile abitazione prevista dalla norma regolamentare è pienamente compatibile con l’attività di affittacamere, costituendone anzi un suo presupposto (Cass. n. 24707/2014; n. 16972/2015);
– il rilievo non tiene conto che la corte d’appello ha riconosciuto la violazione del regolamento condominiale anche in base a un argomento diverso e ulteriore rispetto a quello addotto dal giudice di primo grado;
– secondo il tribunale il riferimento all’espressione “uso abitativo” sottintendeva l’utilizzo dell’immobile come dimora stabile e abituale, con esclusione della prestazione di alloggio per periodi più o meno brevi in vista del soddisfacimento di esigenze abitative di carattere transitorio;
– la corte d’appello ha seguito una logica diversa;
-ciò che rende l’attività ricompresa fra le attività vietate è il suo caratterizzarsi quale attività commerciale, assimilabile a quella alberghiera, “esplicantesi a scopo di lucro da parte di società di capitali mediante la prestazione sul mercato di alloggio dietro corrispettivo per periodi più o meno brevi”;
-una simile attività, secondo la corte d’appello, è in contrasto con l’art. 28, “essendo tale destinazione commerciale incompatibile con l’uso abitativo ed espressamente vietata”;
– la ricorrente pretende di riferire il divieto di svolgere attività commerciali a quelle attività espressamente vietate dalla norma del regolamento;
-secondo la ricorrente, il “divieto di destinazioni e uso ad esercizio o ufficio industriale o commerciale” non avrebbe quindi alcuna autonomia, ma introdurrebbe l’esemplificazione proposta di seguito dalla norma regolamentare, mentre ogni altra e diversa attività commerciale dovrebbe ritenersi lecita;
– così identificato l’autentico significato della censura è chiaro che il problema che si pone nel caso in esame è un problema squisitamente interpretativo della previsione regolamentare, laddove fa divieto di destinare gli appartamenti “ad esercizio o ufficio industriali o commerciale”;
– è pacifico che l’interpretazione del regolamento condominiale integra un giudizio di fatto, rimesso alla competenza esclusiva del giudice di merito; – al pari di qualsiasi giudizio di fatto è soggetto, in sede di cassazione, a controllo, e quindi a censura, non per la sua sostanziale esattezza o erroneità, da verificarsi in base a rinnovata interpretazione della dichiarazione considerata, bensì soltanto per ciò che attiene alla sua legittimità, e cioè alla conformità a legge dei criteri ai quali è adeguato e alla compiutezza, coerenza e conformità a legge della giustificazione datavi (Cass. n. 5393/1999; n. 9355/2000; n. 20712/2017);
– la corte di merito ha riconosciuto che il divieto di svolgere attività commerciali, posto dal regolamento, si riferiva alle attività suscettibili di essere considerati tali secondo il significato giuridico della espressione, così attribuendo al divieto un ambito di applicazione specifico e autonomo e non meramente introduttivo della susseguente elencazione di specifiche attività vietate;
-tale rilievo, di per sé, non rileva errori giuridici o vizi logici, tenuto conto che il divieto di attività commerciali e i divieti susseguenti sono posti letteralmente sullo stesso piano (restando espressamente vietati destinazioni e uso ad esercizio o ufficio industriale o commerciale, a uffici pubblici, dispensari sanatori, case di salute di qualsiasi genere (…)) e che, fra le specifiche attività oggetto di espresso divieto, ve ne sono alcune che non hanno certamente carattere commerciale: uffici pubblici, uffici di collocamento, chiese, accademie;
-d’altronde il ricorrente censura tale interpretazione ma non indica il canone ermeneutico in concreto violato, risolvendosi la censura nella proposta di una diversa interpretazione del regolamento, inammissibile in questa sede (Cass. n. 641/2003; n. 11613/2004);
-ciò posto la seconda considerazione da farsi è che la assimilazione dell’attività di affittacamere a quella imprenditoriale alberghiera, proposta dalla corte d’appello, è coerente con la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale “tale attività, pur differenziandosi da quella alberghiera per sue modeste dimensioni, presenta natura a quest’ultima analoga, comportando, non diversamente da un albergo, un’attività imprenditoriale, un’azienda ed il contatto diretto con il pubblico”;
-essa, infatti, richiede non solo la cessione in godimento del locale ammobiliato e provvisto delle necessarie somministrazioni (luce, acqua, ecc.), ma anche la prestazione di servizi personali, quali il riassetto del locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da bagno (Cass. n. 704/2015);
– il ricorrente richiama il Regolamento n. 8 della Regione Lazio del 7 agosto 2015, in base al quale gli appartamenti da destinare a affittacamere non sono soggetti a cambio di destinazione d’uso a fini urbanistici;
– neanche tale richiamo è idoneo a rilevare un errore della corte d’appello nella riconduzione dell’attività svolta dalla conduttrice a quelle commerciali vietate dal regolamento, posto che la stessa previsione regionale, invocata dalla ricorrente, definisce l’affittacamere come “strutture gestite in forma imprenditoriale” (art. 4);
– insomma, rinterpretazione del regolamento contrattuale di condominio, operata nel caso di specie da parte del giudice del merito, non rileva nel suo complesso errori giuridici o vizi logici: essa è perciò insindacabile in questa sede (Cass. n- 17893/2009; n. 1306/2007)”

© massimo ginesi 13 ottobre 2020

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art. 1102 c.c. e facoltà di uso della cosa comune: un interessante excursus della Cassazione

E’ noto che l’art. 1102 c.c., applicabile al condominio in virtù del rinvio disposto dall’art. 1139 c.c., consente ai singoli di trarre maggiori utilità dal bene comune, purché sia rispettata la facoltà di pari uso degli altri condomini e non sia mutata la destinazione del bene.

Una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  28 agosto 2020 n. 18038 rel. Scarpa) affronta il tema in maniera esaustiva, con riguardo alla apposizione di alcune vetrine da parte di singoli condomini titolari di fondi commerciali nell’androne condominiale, m chiedendo come la valutazione circa il “pari uso” debba essere dinamica e come non sia consentita la determinazione giudiziale delle facoltà di godimento dei singoli, ma solo il rimedio negativo del divieto di uso non conforme al dettato della norma.

I fatti e il processo: “La Corte d’appello di Salerno, accogliendo il gravame avanzato in via principale contro la sentenza resa in primo grado in data 6 agosto 2008 dal Tribunale di Salerno, ha accolto le domande proposte da D.M.M., A.P. e A.F. (eredi di A.P.), S.M., S.S. e S.C., riconoscendo a costoro il diritto di utilizzare i muri dell’androne di ingresso del Condominio (OMISSIS), Salerno, e dichiarando illegittima, agli effetti dell’art. 1102 c.c., l’utilizzazione fatta di tale androne dalle condomine S.A. ed S.A.P., le quali si erano impossessate degli spazi dei muri più appetibili a fini commerciali. La Corte d’appello ha poi proceduto a determinare le superfici dell’androne di cui le parti in causa (tutte proprietarie di terranei ubicati all’interno del cortile condominiale, adibiti ad esercizio commerciale) possono disporre in ragione del valore millesimali delle rispettive proprietà. La Corte di Salerno ha altresì accolto in parte le domande di rimozione delle vetrine apposte sui muri dell’androne da S.A. ed S.A.P. e condannato le stesse al risarcimento dei danni in favore di ciascuno degli appellanti. E’ stata pure accolta la domanda di garanzia svolta da S.A.P. nei confronti di G.M., amministratrice della L’Ago Incantato s.r.l., in forza della scrittura privata inter partes del 31 marzo 1997.”

i principi espressi dalla Corte di legittimità “La prima domanda va ricondotta all’art. 1102 c.c.. La Corte d’appello di Salerno ha ritenuto che i muri condominiali posti nell’androne costituiscono parti comuni di sicura utilità per i locali terranei destinati ad esercizi commerciali siti nel cortile, sicchè essi non possono essere utilizzati solo da alcuni condomini con esclusione di altri. I giudici di secondo grado non hanno però dimostrato in motivazione se il principio, esattamente tratto a livello di proclamazione astratta, sia stato applicato ad una fattispecie concreta che effettivamente risulti in esso sussumibile.

Questa Corte ha più volte affermato che la nozione di pari uso della cosa comune, cui fa riferimento l’art. 1102 c.c., non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione.

Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto.

Pertanto, si è chiarito in giurisprudenza, con particolare riguardo, appunto, al muro perimetrale dell’edificio – anche in considerazione delle sue funzioni accessorie di appoggio di tubi, fili, condutture, targhe e altri oggetti analoghi -, che l’apposizione di una vetrina da esposizione o mostra sul detto muro da parte di un condomino, in corrispondenza del proprio locale destinato all’esercizio di attività commerciale, non costituisca di per sè abuso della cosa comune idoneo a ledere il compossesso del muro comune che fa capo come “jus possidendi” a tutti i condomini, se effettuata nel rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, 12/02/1998, n. 1499; Cass. Sez. 2, 20/02/1997, n. 1554; Cass. Sez. 2, 08/05/1971, n. 1309).

La destinazione della cosa comune – che, a norma dell’art. 1102 c.c., ciascun partecipante alla comunione non può alterare, divenendo altrimenti illecito l’uso del bene – dev’essere determinata attraverso elementi economici, quali gli interessi collettivi appagabili con l’uso della cosa, elementi giuridici, quali le norme tutelanti quegli interessi, ed elementi di fatto, quali le caratteristiche della cosa.

In mancanza di accordo unanime o di deliberazione maggioritaria che contenga norme circa l’uso delle parti comuni, la destinazione di queste ultime, rilevante ai fini del divieto di alterazione posto dall’art. 1102 c.c., può risultare anche dalla pratica costante e senza contrasti dei condomini, e cioè dall’uso ultimo voluto e realizzato dai partecipanti alla comunione, che il giudice di merito deve accertare (cfr. Cass. Sez. 2, 18/07/1984, n. 4195).

La Corte d’appello di Salerno non ha, allora, preso in considerazione le circostanze attestanti l’uso di fatto pregresso dei muri dell’androne ad opera delle condomine S., circostanze essenzialmente risultanti dai dati processuali richiamati nel secondo motivo del ricorso di S.A.P. e nel terzo motivo del ricorso di S.A., ed ha così valutato soltanto in astratto la conformità della installazione delle vetrine nell’androne alla destinazione della cosa stessa. Tali circostanze sull’uso praticato dell’androne, stando alle allegazioni delle ricorrenti, deporrebbero per la configurabilità di una servitù a carico dei muri comuni ed a vantaggio delle proprietà esclusive S., ove la risalente utilità tratta dall’apposizione delle vetrine apparisse diversa da quella normalmente derivante dalla destinazione impressa alla parte condominiale fruita da tutti i comproprietari; ove, invece, la medesima utilità procurata dalle vetrine alle proprietà S. derivasse unicamente dalla natura e dalla pregressa destinazione pratica dei muri comuni, queste ultime si porrebbero quali parametri di riferimento della disciplina, propria della comunione, di cui all’art. 1102 c.c..

E’ invece inammissibile la determinazione giudiziale in sede contenziosa delle superfici dell’androne utilizzabili dai condomini proprietari dei locali terranei del Condominio (OMISSIS), cui la Corte d’appello ha proceduto, peraltro, senza che al giudizio partecipassero nemmeno i restanti condomini, essendo l’androne di un edificio oggetto di proprietà comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., per tutti i partecipanti che ne traggano utilità.

L’accertamento, da parte del giudice, che l’uso del bene comune, fatto da uno dei partecipanti alla comunione, renda impossibile o menomi l’esercizio del diritto degli altri comproprietari, agli effetti dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c., legittima ciascuno dei condomini a chiedere la rimozione delle opere che alterino e sconvolgano il rapporto di equilibrio della comunione, al fine di veder tutelato il loro diritto reale sulla cosa comune e di impedire il consolidarsi di una situazione illegittima, oltre che a pretendere l’eventuale risarcimento del danno, così verificando, in negativo, un limite all’esercizio del potere del singolo di servirsi della res, ma non consente una pronuncia conformativa che contenga le norme circa l’uso futuro della cosa stessa.

Al di là del passaggio contenuto in Cass. Sez. 2, 01/02/1993, n. 1218, che in realtà riguardava l’efficacia da riconoscere ai regolamenti condominiali comunque adottati in virtù di sentenza, merita, piuttosto, conferma l’orientamento, espresso da Cass. Sez. 2, 07/06/2011, n. 12291, secondo cui il regolamento di condominio è, in ogni caso, atto di produzione essenzialmente privata anche nei suoi effetti tipicamente organizzativi, incidenti, cioè, sulle sole modalità di godimento delle parti comuni dell’edificio. Ne consegue che – come si ritiene in dottrina – il giudice può eventualmente decidere sulla impugnazione ex art. 1137 c.c. della delibera che abbia rifiutato di approvare il regolamento, quando esso deve essere obbligatoriamente formato a norma dell’art. 1138 c.c., comma 1, ovvero annullare la norma regolamentare che sia stata impugnata a norma dell’art. 1107 c.c., ma non può modificare quest’ultima nel senso di dettare una diversa regola in sostituzione di quella annullata.

A differenza di quanto sostenuto dalla Corte d’appello di Salerno (per la quale la domanda di determinazione delle modalità di utilizzazione dei muri dell’androne era ammissibile, non essendo “perseguibile la diversa via di cui all’art. 1105 c.c., u.c.”, poichè “nel caso in esame… non vi erano provvedimenti da adottare per l’amministrazione della cosa comune…”), deve invece ribadirsi che i condomini possono:

1)convenire il giudizio il condominio, in persona dell’amministratore, per ottenere la sola determinazione in millesimi del valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare, agli effetti degli artt. 68 e 69 disp. att. c.c.; 2) oppure ricorrere all’intervento sostitutivo dell’autorità giudiziaria nell’interesse della res, ai sensi dell’art. 1105 c.c., comma 4 (dettato in materia di comunione, ma applicabile anche al condominio degli edifici per il rinvio posto dall’art. 1139 c.c.), se intendono evitare il pregiudizio che possa derivare alla cosa comune in presenza di una paralisi gestionale, perchè non si prendono i “provvedimenti necessari per l’amministrazione” della stessa o non si forma una maggioranza, ovvero perchè la deliberazione adottata non viene eseguita.

La previsione, ad opera del medesimo art. 1105 c.c., comma 4, dello specifico rimedio del ricorso, da parte di ciascun partecipante, all’autorità giudiziaria perchè adotti gli opportuni provvedimenti in sede di volontaria giurisdizione (ivi compresi gli atti di conservazione), preclude, dunque, al singolo partecipante alla comunione di rivolgersi al giudice in sede contenziosa per ottenere provvedimenti di gestione della res, ai fini della sua amministrazione nei rapporti interni tra i comunisti (così Cass. Sez. 3, 08/09/1998, n. 8876; Cass. Sez. U, 19/07/1982, n. 4213).

Non è, tuttavia, altrimenti consentito ricorrere al giudice per ottenere determinazioni finalizzate al “migliore godimento” delle cose comuni, ovvero (come nella specie fatto dalla Corte d’appello di Salerno, che ha dettato le quote di superficie spettanti ai proprietari dei locali terranei per l’uso frazionato dell’androne) l’imposizione di un regolamento contenente norme circa l’uso delle stesse, spettando unicamente al gruppo l’espressione delle volontà associativa di autorganizzazione contenente i futuri criteri di comportamento vincolanti per i partecipanti della comunione.”

© massimo ginesi 7 settembre 2020 

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mediazione, opposizione a decreto ingiuntivo e legittimazione dell’amministratore

Una recente sentenza del tribunale apuano (Trib. Massa 27 luglio 2020 n. 379) affronta il complesso tema della legittimazione processuale dell’amministratore, sia con riguardo all’opposizione a decreto ingiuntivo promossa nei confronti dell’ex amministratore (che agiva per il pagamento di propri corrispettivi e anticipazioni) che al successivo procedimento di mediazione, promosso per ordine del giudice, trattandosi di materia sottoposta a condizione di procedibilità obbligatoria ex art 5 bis D.lgs 28/2010.

La decisione  trae spunto dalla recente pronuncia di legittimità (Cass. civ. III, n. . 6 giugno 2020 n. 10846 rel. Scarpa) che ha affrontato in maniera netta la portata dell’art. 71 quater disp.att. cod.civ., chiarendo che – per accedere alla mediazione – l’amministratore non si giova di alcuna legittimazione autonoma per le materie previste dall’ art 1130 c.c. ma deve sempre munirsi di delibera assembleare.

Il giudice apuano osserva che  “ il Condominio ha proposto opposizione contro il decreto ingiuntivo ottenuto dal precedente amministratore, per il pagamento di pregresse competenze, e – in quella sede – ha avanzato domanda riconvenzionale di restituzione somme e risarcimento danni nei confronti di costui. 

Trattandosi di materia sottoposta a mediazione obbligatoria ex art 5 bis D.Lgs 28/2010 le parti – su ordine del giudice – hanno  dato corso, non appena statuito sulle richieste di provvisoria esecutorietà del decreto, a procedimento di mediazione, concluso con verbale negativo del 25.9.2018. 

Il nuovo difensore dell’convenuto opposto, costituito con comparsa 8.1.2020 ha eccepito che nessuna di queste attività fosse stata assistita da idonea delibera assembleare e che l’amministratore le abbia poste in essere in piena autonomia. 

L’eccezione circa la legittimazione dell’amministratore a partecipare al procedimento di mediazione su disposizione del giudice nelle cause che, per materia, prevedono tale adempimento come condizione di procedibilità  appare ontologicamente diverso dalla eccezione di improcedibilità per mancato esperimento, che si ritiene temporalmente limitata – a pena di decadenza – alla prima udienza di trattazione, sia per il giudice che per le parti (Cass. 32797/2019).

Viceversa l’accertamento della sussistenza delle condizioni che consentono l’avveramento di quella condizione, ove l’accesso alla mediazione sia stato disposto per ordine giudiziale, attiene alla verifica dei requisiti che consentono la legittima prosecuzione del giudizio, ove le parti abbiano correttamente adempiuto ad instaurare nei termini il procedimento di ADR. 

In particolare, nell’ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo, questo Giudice ritiene – in linea con parte della giurisprudenza di legittimità e di merito – che competa all’opponente dar attuazione all’ordine del giudice, instaurando legittimamente il procedimento, a pena di improcedibilità della opposizione (in forza delle ragioni espresse da Cass. 23003/2019 e in attesa che sul punto si pronuncino le Sezioni Unite sulla scorta di Cass. 18741/2019).

Era dunque onere del Condominio opponente procedere alla instaurazione del procedimento, adempimento cui l’amministratore ha dato corso come da produzioni effettuate il 29/8/2018.

A seguito dell’eccezione sollevata dall’opposto, è emerso che l’amministratore abbia agito non sorretto da alcuna delibera in proposito, non potendo rilevare a tal fine (e neanche a quelli successivi di cui si dirà, relativi alla fase giudiziale) la circostanza che costui all’assemblea 13.7.2018  abbia informato i presenti della avvenuta notifica del decreto da parte del precedente amministratore e della proposizione della opposizione, trattandosi di mera informativa cui non è conseguita alcuna delibera dell’organo collegiale.

Con riguardo poi, al procedimento di ADR, non potrà non rilevarsi quanto statuito dall’art. 71 quaterdisp.att.c.c. e assai di recente chiarito dalla suprema Corte: “L’art. 71 quater disp. att. c.c., comma 3, lettera, porta, allora, a concludere, identicamente a quanto sostenuto dal Tribunale di Roma, che la condizione di procedibilità della “controversie in materia di condominio” non possa dirsi realizzata allorchè, come avvenuto nel caso in esame, all’incontro davanti al mediatore l’amministratore partecipi sprovvisto della previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all’art. 1136 c.c. comma 2, non essendo in tal caso “possibile” iniziare la procedura di mediazione e procedere con lo svolgimento della stessa, come suppone il D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, art. 8, comma 1. Non rileva nel senso di escludere la necessità della delibera assembleare ex art. 71 quater disp. att. c.c., comma 3, il fatto che si tratti, nella specie, di controversia che altrimenti rientra nell’ambito delle attribuzioni dell’amministratore, in forza dell’art. 1130 c.c., e con riguardo alla quale perciò sussiste la legittimazione processuale di quest’ultimo ai sensi dell’art. 1131 c.c., senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea. Pur in relazione alle cause inerenti all’ambito della rappresentanza istituzionale dell’amministratore, questi non può partecipare alle attività di mediazione privo della delibera dell’assemblea, in quanto l’amministratore, senza apposito mandato conferitogli con la maggioranza di cui all’art. 1136 c.c., comma 2, è altrimenti comunque sprovvisto del potere di disporre dei diritti sostanziali che sono rimessi alla mediazione, e, dunque, privo del potere occorrente per la soluzione della controversia (arg. da Cass. Sez. 3, 27/03/2019, n. 8473). Tale evenienza non corrisponde, dunque, all’ipotesi contemplata dal D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, art. 5, comma 2 bis, il quale dispone che “quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”, in quanto, ancor prima che mancato, qui l’accordo amichevole di definizione della controversia è privo di giuridica possibilità. Spetta infatti all’assemblea (e non all’amministratore) il “potere” di approvare una transazione riguardante spese d’interesse comune, ovvero di delegare l’amministratore a transigere, fissando gli eventuali limiti dell’attività dispositiva negoziale affidatagli (cfr. Cass. Sez. 2, 16/01/2014, n. 821; Cass. Sez. 2, 25/03/1980, n. 1994).” (Cass. 10846/2020 e, fra le pronunce di merito, Trib. Romasez. V 10.9.2018 n. 17024)

Non potrà non rilevarsi che l’instaurazione del procedimento e la partecipazione al primo incontro di mediazione,  in assenza di espresso mandato assembleare, appare tamquam non esset (ed insuscettibile di ratifica, aldilà del tempo in cui tale ratifica interviene), poiché in quella sede l’amministratore che agisca iure proprio è privo del potere di disporre dei diritti sostanziali in contesa e, dunque, di introdurre l’istanza e di partecipare all’incontro volto alla transazione su quei diritti.

Né si potrà ritenere quel potere suscettibile di ratifica, una volta concluso il procedimento e venuta meno la condizione di procedibilità (anche non voler considerare, poiché aspetti rilevabili ad istanza di parte, che la delibera 29.1.2020 è stata assunta su argomento non all’ordine del giorno e con maggioranze inidonee), così come – a fronte di erronea introduzione del procedimento per negligenza dell’istante – non si potrà ritenere reiterabile la concessione del termine (Trib. Massa 20 luglio 2018 n. 546).

Il disposto attuativo di cui all’art. 71 quater disp. att. c.c. prevede pertanto la necessità che l’assemblea conferisca all’amministratore il potere di partecipare (e, a maggior ragione, di dar inizio ) al procedimento di mediazione per ogni controversia, anche quelle che ai sensi del combinato disposto dagli artt.  1130  e 1131 c.c. rientrerebbero nella sua sfera di legittimazione autonoma, anche se merita rilevare che  l’odierna controversia , sia per gli aspetti volti a paralizzare la domanda monitoria, sia per quelli azionati in via riconvenzionale (competenze del precedente amministratore e domanda di risarcimento dei danni da costui provocati) non rientrerebbe comunque nelle materie per cui all’amministratore può essere riconosciuto un autonomo potere di gestione della lite (arg. da CAss. 12525/2018).

Da quanto sin qui argomentato, consegue l’improcedibilità dell’opposizione e delle domande riconvenzionali con la stessa avanzate.

Va peraltro rilevato che le ragioni sin qui evidenziate pregiudicherebbero anche l’ammissibilità della domanda giudiziale, posto che si tratta di controversia che esula dai poteri dell’amministratore, che la carenza di legittimazione può essere rilevata d’ufficio o eccepita in qualunque fase e grado, che l’eccezione è stata svolta in comparsa di costituzione di nuovo difensore depositata in data 8.1.2020, che in data 27.1.2020 si è tenuta udienza di discussione (all’esito della quale la causa è stata rimessa in istruttoria) e che la delibera con cui l’assemblea ratifica l’operato dell’amministratore è stata assunta il 29.1.2020: poiché l’eccezione è stata sollevata dal convenuto era onere della parte produrre immediatamente la delibera di ratifica, sì che quella assunta in data posteriore alla udienza successiva alla sollevata eccezione deve ritenersi tardiva (arg. da Cass. 12525/2018 e CAss. 2179/2011.”

© massimo ginesi 4 agosto 2020

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convocazione dell’erede: gli oneri dell’amministratore

Una recente pronuncia del Tribunale capitolino (Trib. Roma Sez.V 4 maggio 2020 n. 6847) appare interessante per l’amministratore che si trovi a gestire mutamenti nella compagine condominiale: il Giudice romano afferma che l’amministratore è tenuto a convocare i soggetti che risultano dai registri di anagrafe tenuti debitamente aggiornati, senza necessità di compiere ogni volta particolari ricerche immobiliari ed essendo onere dei condomini interessati comunicare eventuali mutamenti di titolarità. 

è stato più volte sostenuto, in giurisprudenza, che, nell’ipotesi di subingresso nella titolarità di una porzione particolare di edificio condominiale, affinché il nuovo proprietario si legittimi, di fronte al condominio, quale avente diritto a partecipare alle assemblee, occorre almeno, pur nel silenzio della legge al riguardo, una qualche iniziativa, esclusiva dell’avente causa o concorrente con quella del dante causa, che, in forma adeguata, renda noto al condominio detto mutamento di titolarità.

È ben vero, tuttavia, che (secondo il perspicuo chiarimento fornito da Cass., 30 aprile 2015, n. 8824): «come è stato affermato in più occasioni da questa Corte (sent. n. 7849 del 2001, n. 2616 del 2005, in coerenza con il principio enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 5032 del 2002), alle assemblee condominiali devono essere convocati solo i condòmini, cioè i veri proprietari e non coloro che si comportano come tali senza esserlo. Nei rapporti tra il condominio e i singoli partecipanti allo stesso, infatti, mancano le condizioni per l’operatività del principio dell’apparenza del diritto, volto, essenzialmente, alla tutela dei terzi di buona fede; e terzi, rispetto al condominio non possono essere ritenuti i condomini.

D’altra parte, e in generale, la tutela dell’apparenza del diritto non può essere invocata da parte del soggetto (nel nostro caso dal Condominio) che abbia trascurato di accertare l’effettiva realtà sui pubblici registri, contro ogni regola di prudenza. Del resto, il regime giuridico di pubblicità rappresenta un limite invalicabile all’operatività del principio dell’apparenza: pubblicità e apparenza sono, infatti, istituti che si completano l’un l’altro, rispondendo alle medesime finalità di tutela dei terzi di buona fede; ma, proprio per ciò, stesso alternativi. La tutela dell’apparenza non può tradursi in un indebito vantaggio per chi abbia colpevolmente trascurato di accertarsi della realtà delle cose, pur avendone la concreta possibilità». Orbene, quantunque non si possano, certamente, intendere i menzionati precedenti nel senso di affermare l’esistenza (fin quando non vi sia un’adeguata comunicazione dell’avvenuto mutamento di titolarità) di una legittimazione sostitutiva giustificata dall’apparenza (tale, cioè, che l’“ex” proprietario, da un lato, possa, a buon diritto, continuare a reclamare per sé lo status di condomino – con le annesse prerogative in ordine alla convocazione e alla partecipazione alle assemblee –; dall’altro, possa continuare a essere perseguito, anche giudizialmente, dall’amministratore per il pagamento dei contributi condominiali), nondimeno il “nuovo”, che (e fin tanto che) abbia omesso di assolvere l’onere di segnalare il proprio subingresso nella posizione dominicale, non può pretendere il riconoscimento della sua qualità dal Condominio e, soprattutto, dolersi di non essere stato invitato a partecipare all’assemblea ordinaria, impugnandone – soltanto se e quando gliene venga data formalmente “notizia” – le deliberazioni in merito alle spese condominiali (cfr. Cass., 29 maggio 1998, n. 5307).

L’attore ex art. 1137 cod. civ., infatti, ha pur sempre l’onere di dimostrare il vizio di cosostituzione: nel senso, però, non già di non aver materialmente ricevuto la comunicazione cui aveva senz’altro diritto (perché sarebbe, semmai, il condominio a dover provare di avergliela inviata – cfr., e pluribus, Cass. ord., 14 settembre 2017, n. 21311; Cass., 21 ottobre 2014, n. 22685 – e di averla recapitata al suo indirizzo – cfr. Cass., 25 marzo 2019, n. 8275 –), ma di essere egli effettivamente tra coloro che (a norma dell’art. 1136, 6° comma, cod. civ.) deve constare siano stati regolarmente invitati alla riunione, poiché il compito istituzionale dell’amministratore, da un lato, può considerarsi assolto e il procedimento di convocazione dell’assemblea, dall’altro, può considerarsi corretto, allorché l’invito alla partecipazione sia stato rivolto a tutti coloro (non già che siano stati individuati – in vista di ogni assemblea – con una puntuale ed esaustiva consultazione dei registri immobiliari, ma) che risultano nel registro anagrafico dei condòmini, adeguatamente tenuto e regolarmente aggiornato secondo le variazioni, di volta in volta, comunicate da chi ne abbia il titolo e l’onere ovvero, comunque, acquisite, con l’uso della normale diligenza, da chi lo gestisce e ne ha la custodia.

Nel caso particolare, poi, del decesso del condomino, poiché, fra l’altro, non sarebbero sufficienti (per l’individuazione dei chiamati e – men che meno – degli eredi) neanche la notizia dell’apertura della successione o l’esame della relativa denunzia (che non implica accettazione della delazione ex lege o ex testamento) né si può ritenere sussistente, in capo all’amministratore, un dovere di provocare la nomina di un curatore dell’eredità giacente, è onere di chi sia subentrato, mortis causa, nella qualità di condomino in luogo del defunto (con la conseguente assunzione dei diritti e obblighi correlativi) darne idonea comunicazione, in mancanza della quale, pertanto, egli non può denunziare il vizio di costituzione dell’assemblea condominiale, così come convocata dall’amministratore sulla base dei dati in suo possesso (costui, anzi – secondo Cass., 22 marzo 2007, n. 6926 –, pur essendo «a conoscenza del decesso di un condomino, fino a quando gli eredi non gli manifesteranno la loro qualità, non avendo utili elementi di riferimento e non essendo obbligato a fare alcuna particolare ricerca, non sarà tenuto a inviare alcun avviso» ovvero – così la più risalente Cass., 29 luglio 1978, n. 3798 – invierà «l’avviso all’ultimo domicilio» noto, dove si possa verosimilmente trovare qualcuno – successore oppure no – in grado di portare l’avviso a conoscenza degli interessati, «sincerandosi, quindi, della [avvenuta] ricezione dell’avviso» medesimo «da parte di persona addetta a quel domicilio», senza che poi rilevi che la persona consegnataria lo recapiti effettivamente agli eredi)

La pronuncia affronta anche il tema della irrilevanza dei vizi di annullabilità della delibera, non tempestivamente impugnata nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, tema contiguo a quello più controverso  della rilevabilità d’ufficio della nullità della delibera in quella sede e del possibile contrasto di giudicati fra relativo al giudizio di opposizione a decreto e di impugnazione della delibera, questioni  rimesse alla valutazione delle Sezioni Unite nello scorso autunno.

L’ampia rassegna giurisprudenziale, richiamata dal Tribunale romano sul primo aspetto, può rendere interessante la lettura dell’intero provvedimento.

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© massimo ginesi 11 maggio 2020 

 

locazione abitativa e termine di grazia: si pronuncia la Corte Costituzionale

La Consulta (Corte Cost. 24 aprile 2020 n. 79) dichiara non fondate due questioni di costituzionalità dell’art. 55 L. 392/1978,  sollevate dal Tribunale di Modena, che riteneva incompatibile con la Carta suprema la disposizione normativa, laddove prevede che al giudice non sia consentito valutare l’entità dell’inadempimento all’esito della concessione del termine, di talchè – anche ove il conduttore abbia adempiuto quasi per intero ed abbia omesso solo una piccola quota del canone o le spese processuali liquidate – è obbligato a convalidare lo sfratto.

Ad avviso del giudice remittente si tratterebbe di disposizione che tratta in maniera identica situazioni che possono avere rilievo ed impatto sulla sfera giuridica del locatore completamente diverse, poiché sia l’inadempimento totale di quanto stabilito dal giudice che una modestissima mancanza finirebbero per provocare identica conseguenza, pregiudicando un diritto rilevante come quello all’abitazione, con violazione da un lato dell’art. 3 Cost. e dall’altro dell’art.111 Cost., sul giusto processo, che non può comportare conseguenze manifestamente sproporzionate rispetto alla reale condotta delle parti.

La Consulta, con una articolata analisi, ripercorre l’intera elaborazione giurisprudenziale sull’art. 55 L. 392/1978, ritenendo che la norma non sia in contrasto con i prinpici costituzionali.

Viene infatti evidenziato come  l’intero meccanismo del rito sommario locatizio sia già stato ritenuto dalla Corte, con precedenti pronunce, del tutto conforme al diritti costituzionali, posto che al conduttore sono  concesse  possibilità di difesa esaustive e complete, poiché proponendo opposizione può accedere ad un ordinario giudizio contenzioso ove il contraddittorio fra le parti potrà avere pieno sviluppo.

L’istituto della sanatoria giudiziale rappresenta, invece, un ulteriore vantaggio e possibilità, per il conduttore che non intenda opporsi e voglia conservare il proprio diritto personale di godimento; un opzione processuale che sfugge a censure poiché rappresenta una mera ulteriore possibilità favorevole, che appare legittima anche in assenza di graduazioni.

In sostanza, il meccanismo processuale configurato per le locazioni ad uso abitativo dall’art. 55 della legge n. 392 del 1978, consentendo al conduttore in difficoltà di accedere alla speciale sanatoria in sede giudiziale entro il termine di grazia concesso dal giudice alla prima udienza, è di per sé frutto di un bilanciamento discrezionale degli interessi da parte del legislatore, allo scopo di accordare una particolare tutela al conduttore ove venga in rilievo il diritto all’abitazione, che questa Corte, anche recentemente, ha definito «bene di primaria importanza» (sentenza n. 44 del 2020); conduttore che, in mancanza di questo speciale istituto, sarebbe irrimediabilmente esposto vuoi alla convalida dell’intimazione di sfratto nel procedimento monitorio, vuoi alla risoluzione contrattuale nel rito ordinario.
È legittimo che il legislatore, in presenza di una finalità meritevole di tutela, preveda una disciplina speciale in bonam partem per il conduttore, senza che possa considerarsi irragionevole la mancata estensione di tale regime, già di carattere eccezionale, a ipotesi ulteriori come quelle indicate dalle ordinanze di rimessione…

“Il legislatore ha incluso le spese processuali nell’importo complessivo perché operi, in favore del conduttore, la speciale sanatoria in sede giudiziale del quinto comma dell’art. 55, nel contesto di un bilanciamento complessivo delle posizioni delle parti e in considerazione del “sacrificio” richiesto al locatore che non ottiene, alla prima udienza, la convalida dell’intimazione di sfratto, pur persistendo in quel momento la morosità e mancando l’opposizione dell’intimato.”

La sentenza merita lettura per intero, quantomeno per l’ampio inquadramento sistematico della disciplina locatizia.

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© massimo ginesi 6 maggio 2020

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