condominio minimo: si può decidere solo in due.

Lo stabilisce Cass.Civ. II sez. 2 marzo 2017 n. 5329.

Nel Condominio composto da due sole persone si applicano le norme sull’assemblea solo ove partecipino entrambi, se invece alla riunione si presenta  solo dei due condomini, costui non potrà decidere da solo ma dovrà rivolgersi al giudice ex art. 1105 cod.civ., per l’impossibilità di adottare decisioni indispensabili per la gestione della cosa comune.

La vicenda trova le sue origini in una opposizione a decreto ingiuntivo promossa dall’altro condomino che lamentava che la delibera in forza del quale era stato ottenuto il decreto fosse stata assunta solo dall’altro condomino e come, come tale, non potesse essere considerata una delibera.

Il Tribunale di Sanremo in riforma della sentenza emessa in primo grado dal Giudice di Pace aveva dichiarato nulla la delibera posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo.

In sede di legittimità il ricorrente osserva che: “ il Tribunale ha errato nel ritenere la delibera nulla o addirittura inesistente, avendo fatto confusione tra il concetto di unanimità e quello di totalità, che non sono assimilabili: rileva in particolare che l’unanimità richiesta dalla giurisprudenza ai fini della validità delle delibere del condominio minimo può validamente formarsi non solo nel caso di concordanza di opinioni espresse dai due partecipanti, ma anche nell’ipotesi – verificatasi in concreto nel caso di specie – di decisione assunta dall’unico condominio comparso all’assemblea regolarmente convocata (il R.B. , appunto). Ritiene che nel condominio minimo l’assemblea possa ritenersi validamente costituita anche nel caso in cui compaia uno solo dei partecipanti ed in tal caso la delibera debba ritenersi adottata all’unanimità degli intervenuti e nel rispetto del quorum richiesto dall’art. 1136 cc. In ogni caso, secondo la tesi del ricorrente, si tratterebbe al più di delibera annullabile perché affetta da vizi attinenti alla regolare costituzione dell’assemblea o adottata con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, con la conseguenza che in tale ipotesi, occorreva una tempestiva impugnazione della delibera nei termini di legge, nel caso di specie non proposta.”

La Cassazione è invece netta nel respingere la tesi, richiamando orientamento espresso nel 2006 dalle sezioni unite: “Il motivo è infondato. Le sezioni unite hanno affermato che la disciplina dettata dal codice civile per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, tanto con riguardo alle disposizioni che regolamentano la sua organizzazione interna, non rappresentando un ostacolo l’impossibilità di applicare, in tema di funzionamento dell’assemblea, il principio maggioritario, atteso che nessuna norma vieta che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso, nella specie all’unanimità, quanto, “a fortiori”, con riferimento alle norme che regolamentano le situazioni soggettive dei partecipanti, tra cui quella che disciplina il diritto al rimborso delle spese fatte per la conservazione delle cose comuni (Sez. U, Sentenza n. 2046 del 31/01/2006 Rv. 586562; v. anche Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 5288 del 03/04/2012).
Altra e più recente giurisprudenza ha ritenuto che nel caso di condominio c.d. minimo, non si applicano le norme sul funzionamento dell’assemblea condominiale, ma quelle relative all’amministrazione di beni oggetto di comunione in generale (v. Sez. 2, Sentenza n. 7457 del 14/04/2015 Rv. 635000 – 01 ma evidentemente sempre con riferimento all’ipotesi di mancanza di accordo tra le parti).
Da tali principi discende dunque che nel condominio cd. minimo (formato, cioè da due partecipanti con diritti di comproprietà sui beni comuni nella stessa proporzione) le regole codicistiche sul funzionamento dell’assemblea si applicano allorché l’assemblea si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione unanime, intendendosi con tale ultima espressione (decisione unanime) quella che sia frutto della partecipazione di entrambi i comproprietari alla discussione (essendo logicamente inconcepibile che la decisione adottata da un solo soggetto possa ritenersi presa all’unanimità).
Ed è proprio questo il senso della pronuncia delle sezioni unite n. 2046/2006 ove in motivazione testualmente si afferma: “nessuna norma impedisce che l’assemblea, nel caso di condominio formato da due soli condomini, si costituisca validamente con la presenza di tutti e due i condomini e all’unanimità decida validamente”. Si rivela così infondata la tesi formalistica del ricorrente secondo cui, se la Corte Suprema avesse voluto richiedere sempre la presenza di entrambi e la votazione unanime, avrebbe detto espressamente che in un condominio minimo ci vuole sempre il consenso di entrambi senza approfondire l’applicabilità dell’art. 1136 cc.
Nella diversa ipotesi in cui non si raggiunga l’unanimità e non si decida, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto diventa necessario ricorrere all’autorità giudiziaria, siccome previsto ai sensi del collegato disposto degli artt. 1105 e 1139 cod. civ. (v. sez. unite cit. in motivazione).
Volendo esemplificare, si tratta del caso in cui all’assemblea, pur essendo presenti entrambi i condomini, si decida in modo contrastante, oppure, a maggior ragione, del caso, verificatosi nella fattispecie in esame, in cui alla riunione – benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l’altro resti assente: per sbloccare la situazione di stallo venutasi di fatto a determinare, non resta che i) ricorso all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 1105 CC.
Ora, nel caso di specie, l’avvocato R.B. fu certamente diligente nel tentare la prima e più semplice soluzione, convocare la zia condomina per discutere dei lavori al fabbricato, ma avrebbe dovuto poi prendere atto, proprio perché si trattava di un “condominio minimo”, della impossibilità di costituire l’assemblea per assenza dell’altra partecipante e quindi per l’impossibilità di pervenire ad una decisione unanime (nel senso sopra inteso), condizione essenziale per la adozione di una valida delibera da poter poi mettere in esecuzione nelle forme di legge; e, posto di fronte ad una tale situazione di impasse, aveva l’onere di azionare il procedimento camerale previsto dall’art. 1105 cc. lasciando poi che fosse l’autorità giudiziaria a prendere i provvedimenti opportuni, non esclusa la nomina di un amministratore.
La diversa scelta di decidere da solo si risolve invece non in una delibera condominiale, ma in una mera manifestazione unilaterale di volontà proprio perché – lo si ripete – mancava l’unanimità della decisione e quindi la condizione essenziale per l’applicabilità al condominio minimo di (OMISSIS) delle regole codicistiche.
Non merita pertanto nessuna censura la sentenza impugnata che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ha rilevato di ufficio la nullità o addirittura l’inesistenza della delibera posta a fondamento del decreto stesso (v. al riguardo Sez. 2, Sentenza n. 305 del 12/01/2016 Rv. 638022).”

© massimo ginesi 6 marzo 2017

Trasformazione di cantina in garage da parte del singolo: è consentita se non lede statica e decoro dell’edificio.

Un condomino procede alla trasformazione della propria cantina in autorimessa e, a tale scopo, trasforma anche una finestra che si apre sul muro perimetrale in varco di accesso al  garage appena creato.

La vicenda giunge alla Suprema Corte, che con recente sentenza (Cass.Civ. II sez.  21 febbraio 2017, n. 4437 Rel. Giusti), ha occasione di riaffermare principi ormai consolidati.

Due condomini non avevano gradito  l’intervento sul muro perimetrale e avevano fatto ricorso al Tribunale di Catania: “Premesso di essere condomini dello stabile sito in (omissis) , gli attori deducevano: che lo S. aveva provveduto alla trasformazione in autorimessa di un vano di sua proprietà, sito al piano terra dell’edificio condominiale; che tale innovazione era stata eseguita mediante l’allargamento di una finestra prospiciente la via (…), trasformata in porta carraia di accesso al garage; che le opere eseguite avevano determinato il parziale abbattimento del muro condominiale, pregiudicando la stabilità e la sicurezza dell’edificio e ledendo il decoro architettonico dello stabile. Lamentavano, inoltre, l’illegittima appropriazione, da parte dello S. , di parte del muro perimetrale. Esponendo di aver promosso ricorso ex art. 1172 cod. civ., accolto in sede di reclamo, chiedevano la condanna del convenuto a ripristinare la situazione preesistente, nonché al risarcimento dei danni subiti.”

Il Tribunale ritiene fondata la richiesta con riferimento alla lesione del decoro architettonico e accoglie la domanda degli attori, ma la sentenza è completamente ribaltata in appello: merita leggere compiutamente le argomentazioni del Giudice di secondo grado, poiché costituiscono ormai un orientamento stabile che tuttavia, ancora con troppa frequenza appare ignorato dai condomini.

 “Con sentenza depositata il 16 maggio 2013, la Corte d’appello di Catania, in accoglimento dell’appello proposto dallo S. , in parziale riforma della sentenza impugnata, ha rigettato la domanda formulata dai G. di condanna del convenuto ad eliminare le opere abusivamente realizzate obbligandolo a ripristinare la situazione preesistente all’effettuazione delle opere stesse, e li ha condannati a rifondere allo S. le spese di entrambi i gradi del giudizio.
La Corte territoriale ha rilevato che, pur ampliata l’originaria finestra (della larghezza di ml. 1,80) in passo carraio (della larghezza di ml. 2,80), leggermente più ampio rispetto al portone recante civico 193, e pur apparentemente modificata la sequenza “finestra-portone-finestra”, non sussiste alcuna significativa alterazione del decoro architettonico. La Corte territoriale ha evidenziato che la nuova apertura è stata munita di una porta con caratteristiche del tutto simili al vicino portone (con bugne, riquadri e colore del tutto simili) che, all’evidenza, richiama sotto il profilo estetico; che nessun deprezzamento può ritenersi sussistente, con riferimento all’intero fabbricato e alle singole unità immobiliari, avuto riguardo all’aspetto architettonico complessivo dello stabile (edificato nel 1947, e dotato di non particolare pregio) e al contesto nel quale esso è inserito (presenza di altri palazzi costruiti in aderenza, secondo lo stile di quello oggetto di causa, sede stradale di ordinarie dimensioni, zona estremamente appetibile per la strategica posizione centrale nella città di Catania), sicché non è dato notare in maniera significativa l’alterazione eseguita, e comunque essa non provoca un risultato esteticamente sgradevole, apparendo anzi immutato lo stile architettonico della facciata.
Infine, la Corte di Catania ha rilevato come tale alterazione si accompagni ad una utilità estremamente rilevante per lo S. , costituita dalla possibilità di usufruire di un garage in una zona trafficatissima, caratterizzata notoriamente da enormi difficoltà di parcheggio.”

Da sottolineare come una modesta modificazione delle linee complessive del prospetto sia ammissibile, laddove da ciò derivi  una rilevante utilità per chi ha posto in essere l’intervento, a fronte della modestissima compressione del diritto degli altri condomini (criterio che la Suprema Corte ha spesso espresso in tema di installazione di ascensore da parte del singolo, ove l’occupazione dell’androne e della tromba delle scale comuni è compensata dall’utilità che l’impianto apporta al singolo e – in prospettiva ex art. 1121 cod.civ. – all’intero fabbricato).

I condomini non si danno per vinti e ricorrono in cassazione, per veder accertata l’illegittimità dell’intervento sulla facciata. LA Corte, con motivazione puntuale, che costituisce ottima sintesi dei prinpci in tema di uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 cod.civ. ritiene il motivo di doglianza infondato:

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Cass., Sez. II, 25 settembre 1991, n. 10008; Cass., Sez. II, 26 gennaio 1987, n. 703; Cass., Sez. II, 27 ottobre 2003, n. 16097; Cass., Sez. VI-2, 14 novembre 2014, n. 24295), in tema di condominio, il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche all’apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro – ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi – e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilità ed il decoro architettonico del fabbricato condominiale.

Si è anche precisato (Cass., Sez. II, 29 aprile 1994, n. 4155; Cass., Sez. II, 26 marzo 2002, n. 4314) che l’apertura di varchi e l’installazione di porte o cancellate in un muro ricadente fra le parti comuni dell’edificio condominiale, eseguite da uno dei condomini per creare un nuovo ingresso all’unità immobiliare di sua proprietà esclusiva, non integrano, di massima, abuso della cosa comune suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando per costoro una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell’art. 1102, primo comma cod. civ., e rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro si correli non già alla necessità di ovviare ad una interclusione dell’unità immobiliare al cui servizio il detto accesso è stato creato, ma all’intento di conseguire una più comoda fruizione di tale unità immobiliare da parte del suo proprietario. Negli edifici in condominio, i proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti ad esse corrispondenti, sempre che l’esercizio di tale facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 cod. civ., non pregiudichi la stabilità e il decoro architettonico del fabbricato.
A tale principio si è correttamente attenuta la Corte di merito.
Invero, la Corte di Catania – nel giungere alla conclusione che l’allargamento dell’apertura da parte dello S. al fine di trasformare la finestra in accesso carraio ha semplicemente comportato un uso più intenso della cosa comune, come tale consentito dall’art. 1102 cod. civ., senza con questo alterare il rapporto di equilibrio con gli altri comproprietari – ha per un verso rilevato che lo S. era l’unico fra i condomini a poter usufruire, per le proprie esigenze, del varco in questione, siccome proprietario esclusivo dell’unità immobiliare comunicante con l’esterno; per l’altro ha sottolineato che il realizzato allargamento ha lasciato immutato lo stile architettonico della facciata, non comportando alcuna significativa alterazione del relativo decoro, e ciò considerando in concreto le linee e le strutture che connotano il fabbricato stesso.
La Corte territoriale ha compiuto un congruo accertamento di fatto nel quadro dei principi dettati da questa Corte regolatrice.”

Anche i timori circa la statica risultano infondati: “I ricorrenti finiscono con il sollecitare un diverso esame delle risultanze di causa e un differente apprezzamento di merito, il che fuoriesce dai limiti del sindacato devoluto alla Corte di cassazione.
Essi muovono dal presupposto che nella specie vi sia stato “l’abbattimento di un muro portante” dell’edificio, ma non considerano che nella specie si è avuta soltanto una riduzione del “maschio murario” (pilatro) in corrispondenza dell’allargamento della precedente apertura.
E prospettano l’esistenza di un pregiudizio attuale alla stabilità e alla sicurezza del fabbricato, ma non tengono conto della circostanza che già il Tribunale di Catania, definendo il primo grado di giudizio con la sentenza n. 4671 del 2009, ha affermato che il pregiudizio sismico – pur inizialmente sussistente per effetto dell’intervento effettuato dallo S. – era stato eliminato a seguito dell’effettuazione, da parte dello stesso convenuto, delle opere disposte in sede di reclamo cautelare; né dal testo del ricorso si ricava come la questione dell’attualità del rischio per la stabilità del fabbricato (pur dopo che lo S. aveva realizzato, ottemperando all’ordinanza resa in rese di reclamo cautelare, tutti gli interventi diretti all’eliminazione del pregiudizio sismico) sia stata riproposta dai G. in appello.”

osserva infine la Corte che “nel giudizio di merito promosso una volta esaurito il procedimento cautelare, il Tribunale di Catania ha escluso il denunciato pregiudizio attuale alla stabilità dell’edificio, avendo dato atto della eliminazione della situazione di pericolo a seguito della effettuazione delle opere disposte in sede cautelare. Va ribadito che dal testo del ricorso per cassazione non risulta come – una volta che lo S. ha provveduto, mediante l’esecuzione degli opportuni interventi, a rimuovere l’originaria situazione di non conformità alle prescrizioni della normativa antisismica – la questione del pregiudizio attuale alla stabilità sia stata riproposta in appello dai G. “

LA vicenda ha anche avuto un risvolto non lieve sotto il profilo delle spese poiché la Corte ha  rilevato che, seppur il Tribunale di Catania avesse in sede cautelare riconosciuto al sussistenza di pregiudizio statico e dettato i rimedi  per ovviarvi, il condomino che stava procedendo aveva adempiuto a quanto previsto dal giudice mentre le fasi successive di merito lo avevano visto vittorioso;  l’esito complessivo della controversia non vedeva dunque un soccombente principale: per tale ragione il giudice di legittimità ha disposto integrale compensazione delle spese di tutti gradi di giudizio.

Quando litigare a lungo davvero non ha un senso…

© massimo ginesi 25 febbraio 2017 

condominio parziale e risarcimento danni: una sentenza assai particolare

Una bambina cade nel vano di corsa di un ascensore condominiale e riporta lesioni gravissime. La causa di risarcimento viene promossa contro il condominio, sebbene quell’ascensore serva solo una delle quattro scale che lo compongono: l’intero condominio viene condannato a pagare un risarcimento di diverse centinaia di migliaia di euro.

L’Amministratore del condominio ha resistito in giudizio senza mai dar conto della situazione di parzialità, sicché la condanna viene emessa nei confronti del condominio B. in persona dell’amministratore pro tempore.

I condomini che fanno parte delle altre scale, non servite dall’impianto e che dunque non ne sono proprietari, propongono opposizione di terzo, ritenendosi tali  rispetto alla pronuncia.

La vicenda approda in Cassazione, con esiti che meritano lettura.

Da un lato si richiama ancora una volta il concetto di ente di gestione, già assai criticato dalle sezioni unite 9148/2008, mentre dall’altro si suggerisce una rilevanza anche esterna della  norma di cui all’art. 1123 III comma cod.civ., che tuttavia doveva essere fatta valere dai condomini non proprietari dell’impianto – secondo il giudice di legittimità – tramite intervento nel giudizio e con gli ordinari mezzi di impugnazione: i  condomini estranei al condominio parziale dell’ascensore non sono comunque terzi rispetto al Condominio unitariamente inteso, ma sono semplicemente soggetti che – eventualmente – non sono tenuti a quella spesa.

Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 n. 4436 rel. Giusti: “ Rileva il collegio che, per costante giurisprudenza, la  legittimazione ad impugnare la sentenza con l’opposizione di terzo ordinaria (art. 404 I comma c.p.c.) presuppone in capo all’opponente la titolarità di un diritto autonomo, la cui tutela sia incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza pronunciata fra altre parti (Cass. 6179/2009, CAss. 8888/2010). Va inoltre ribadito che il giudicato formatosi all’esito di un processo in cui sia stato parte l’amministratore di un condominio, fa stato anche nei confronti dei singoli condomini, pure se non intervenuti in giudizio, atteso che il condominio è ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini (Cass. 12343/2002, 12911/2012). 

Deve pertanto essere esclusa in capo ai condomini istanti la legittimazione all’opposizione ordinaria ex articolo 404 c.p.c., non essendo essi terzi rispetto alla situazione giuridica affermata  con la sentenza passata in giudicato, la quale ha riconosciuto la responsabilità del condominio di via X al pagamento in favore di Y delle somme ad essa a dovute a titolo di risarcimento dei danni per le gravissime lesioni subite  per essere precipitata nel vano di cosa dell’ascensore condominiale”

I condomini opponenti sono parti originarie rispetto alla lite  conclusa con la sentenza impugnata con l’opposizione di terzo (cass. 10717/2011): infatti è stato citato in giudizio il condominio nella sua interezza ed unitarietà e si è costituito il relativo amministratore senza sollevare eccezioni in relazione alla carenza di legittimazione passiva di una parte dei condomini (i condomini appartenenti alle scale a, B e C), i quali non hanno ritenuto di intervenire in giudizio per eccepire la mancanza di ogni responsabilità a loro carico.

I condomini opponenti avrebbero dovuto intervenire nel giudizio in cui la difesa è stata assunta dall’amministratore o anche avvalersi, in via autonoma, dei mezzi di impugnazione dell’appello o del ricorso per cassazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti del condominio rappresentato dall’amministratore (cass. 10717/2011 cit, Cass. 16562/2015)”

© massimo ginesi 24 febbraio 2017 

 

art. 1135 cod.civ., appalto in condominio : anche le variazioni vanno approvate dalla assemblea

Una articolata sentenza della Cassazione fa il punto sul complesso tema dell’appalto e dei relativi poteri assembleari previsti  dall’art. 1135 cod.civ.

Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 . n. 4430 (rel. Scarpa): la causa nasce nel 2004 con una impugnazione di delibera con cui gli attori chiedono al Tribunale di Lanciano  di dichiarare invalida “la deliberazione dell’assemblea condominiale del 9 dicembre 2003, che aveva approvato il rendiconto dall’1.11.2002 al 31.10.2003 e la relativa ripartizione, comprensivi di un importo dei lavori di manutenzione della fogna per un importo di C 13.840,63, oltre I.V.A., maggiore di quello preventivato e pattuito con l’appaltatrice B.D. SRL, pari ad C 7.790,89. Gli attori avevano chiesto di dichiarare invalida la deliberazione dell’assemblea, per motivi inerenti alle carenze dell’ordine del giorno, al merito dei lavori effettivamente eseguiti dall’impresa ed alla ripartizione delle spese, effettuata sulla base di 986,42 millesimi anziché 1000 millesimi”

Osserva la corte, in primo luogo, che l’approvazione dell’appalto è materia di pertinenza dell’assemblea ai sensi dell’art. 1135 cod.civ. “E’ pacifico che occorra l’autorizzazione dell’assemblea (o, comunque, l’approvazione mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell’art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., e con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 4, c.c., per l’approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell’edificio condominiale (si veda indicativamente Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016).”

La decisione passa poi ad esaminare il contenuto della delibera di approvazione di contratto di appalto e il potere del sindacato del giudice, che non potrà mai estendersi al merito:  “Il contenutLa delibera assembleare in ordine alla manutenzione straordinaria deve determinare l’oggetto del contratto di appalto da stipulare con l’impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi ed il prezzo dei lavori, non necessariamente specificando tutti i particolari dell’opera, ma comunque fissandone gli elementi costruttivi fondamentali, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa.

Sono, peraltro, ammissibili successive integrazioni della delibera di approvazione dei lavori, pure inizialmente indeterminata, sulla base di accertamenti tecnici da compiersi. In ogni caso, l’autorizzazione assembleare di un’opera può reputarsi comprensiva di ogni altro lavoro intrinsecamente connesso nel preventivo approvato (arg. da Cass., Sez. 2, Sentenza n. 5889 del 20/04/2001). I condomini non possono, però, sollecitare il sindacato dell’autorità giudiziaria sulla delibera di approvazione dei lavori straordinari, censurando l’utilità dei lavori, l’adeguatezza tecnica dell’intervento manutentivo stabilito, o la scelta di un preventivo di spesa meno vantaggioso di quello contenuto in altra offerta. Il controllo del giudice sulle delibere delle assemblee condominiali è limitato al riscontro della legittimità, in base alle norme di legge o del regolamento condominiale, e giunge fino alla soglia dell’eccesso di potere, mentre non può mai estendersi alla valutazione del merito ed alla verifica delle modalità di esercizio del potere discrezionale spettante all’assemblea”.

Ove intervengano significative varianti nel corso della esecuzione dell’opera, queste dovranno formare oggetto di ulteriore specifica approvazione assembleare: Quanto detto in ordine all’approvazione delle modalità costruttive ed al prezzo vale, ovviamente, anche per le varianti dell’opera di manutenzione straordinaria appaltata dal condominio, dovendo parimenti le variazioni alle originarie modalità convenute essere autorizzate dall’assemblea del condominio, sempre ex artt. 1135, comma 1, n. 4, e 1136, comma 4, c.c. E’ tuttavia certamente consentito all’assemblea di approvare successivamente le varianti delle opere di manutenzione straordinarie appaltate, comportanti un aumento delle spese medesime, disponendone il rimborso, trattandosi di delibera riconducibile fra le attribuzioni conferitele dall’art. 1135 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6896 del 04/06/1992; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016, in motivazione). L’assemblea può, infatti ratificare le spese straordinarie erogate dall’amministratore senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, e, di conseguenza, approvarle, surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva di delibera di esecuzione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18192 del 10/08/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2864 del 07/02/2008).”

Detta ratifica  ben potrà avvenire anche durante l’approvazione del rendiconto annuale, ove l’ordine del giorno sia sufficientemente esteso da poter comprendere tutti gli esborsi dell’esercizio (seppure, plausibilmente, la delibera sullo specifico punto sia da adottare con le diverse maggioranze richieste dalla materia straordinaria):  “Quanto detto in ordine all’approvazione delle modalità costruttive ed al prezzo vale, ovviamente, anche per le varianti dell’opera di manutenzione straordinaria appaltata dal condominio, dovendo parimenti le variazioni alle originarie modalità convenute essere autorizzate dall’assemblea del condominio, sempre ex artt. 1135, comma 1, n. 4, e 1136, comma 4, c.c. E’ tuttavia certamente consentito all’assemblea di approvare successivamente le varianti delle opere di manutenzione straordinarie appaltate, comportanti un aumento delle spese medesime, disponendone il rimborso, trattandosi di delibera riconducibile fra le attribuzioni conferitele dall’art. 1135 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6896 del 04/06/1992; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016, in motivazione). L’assemblea può, infatti ratificare le spese straordinarie erogate dall’amministratore senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, e, di conseguenza, approvarle, surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva di delibera di esecuzione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18192 del 10/08/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2864 del 07/02/2008).”

Da quella delibera sorge l’obbligo dei condomini di versare le proprie quote e non dalla stipulazione del contratto con l’appaltatore e, per le stesse ragioni,  non può darsi azione diretta del singolo condomino verso l’appaltatore: “Ritenuta la deliberazione dell’assemblea 9 dicembre 2003 utile ratifica dell’obbligo di spesa per i lavori di manutenzione della fogna nell’importo di C 13.840,63, oltre I.V.A., dovuto all’appaltatrice B. D. SRL, è da essa (salvi gli effetti invalidanti dell’impugnazione ex art. 1137 c.c.), e non dal rapporto contrattuale con l’appaltatrice, che discende l’obbligo dei singoli condomini di partecipare agli esborsi derivanti dall’esecuzione delle opere. Ponendosi il condominio (e non ciascun condomino) come committente nei confronti dell’appaltatrice (giacché unitario è l’interesse sottostante alla posizione dei singoli partecipanti al condominio, espresso nell’atto collegiale), la tutela del singolo condomino, riguardo agli effetti pregiudizievoli derivanti dalle obbligazioni assunte nei confronti della stessa appaltatrice, può concepirsi soltanto nell’ambito dell’impugnazione della deliberazione dell’assemblea di approvazione, e non sotto il profilo dei rimedi contrattuali.

E’ perciò sostanzialmente corretto quanto deciso dalla Corte d’Appello dell’Aquila, dichiarando inammissibile la pretesa dei condomini D.D.V. e M. P. di agire in via diretta verso l’appaltatrice per accertare il minor compenso spettante a quest’ultima.”

Il ricorso al Giudice di legittimità trova invece fondamento sulla ripartizione millesimale errata, che comporta rinvio al giudice di merito: “D.D.V. e M. P. avevano impugnato con specifico motivo la sentenza del Tribunale di Lanciano anche riproponendo la domanda di annullamento della deliberazione dell’assemblea condominiale del 9 dicembre 2003, perché il riparto era stato effettuato sulla base di 986,42 millesimi anziché 1000 millesimi, in quanto domanda su cui il primo giudice non aveva deciso. Su tale motivo di appello la Corte di L’Aquila ha omesso di pronunciarsi. Si impone pertanto la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, richiedendo la decisione nel merito accertamenti di fatto in ordine alla sussistenza nella deliberazione di ripartizione della spesa del valore delle unità immobiliari, espresso in millesimi, ragguagliato a quello dell’intero edificio.”

L’impugnazione risulta fondata anche per quel che attiene al tema delle spese, sullo spinoso problema della compensazione, soluzione con troppa frequenza adottata dai Tribunali (e su cui gli ultimi interventi legislativi hanno opportunamente posto qualche limite applicativo): “La Corte di L’Aquila ha altresì omesso di pronunciare sul motivo di impugnazione attinente all’omessa compensazione ed all’entità della liquidazione delle spese di primo grado operata in favore dei convenuti. Il giudice di appello, in presenza di una censura che investe la pronunzia del giudice di primo grado sulle spese, specificamente indicando giusti motivi di compensazione o un’eccessiva liquidazione di esse, ha il dovere di apprezzare, anche nel contesto di ogni altro elemento, la consistenza ed importanza dei fatti dedotti e di precisare, così, la ragione per la quale egli ritenga di condividere la decisione di primo grado (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9758 del 10/05/2005).”

© massimo ginesi 23 febbraio 2017

1125 cod.civ.: cosa è comune? la lettura della Cassazione.

Un caso decisamente singolare quello affrontato da Cass. civ. II sez. 14 febbraio 2017 n. 3893.

Un condomino procede alla ristrutturazione del proprio appartamento e sostituisce la vecchia soletta, costituita da travi in legno, che rimanevano a vista nella unità sottostante.

La nuova soletta,  in laterocemento, viene posta al livello del limite inferiore dei preesistenti travi in legno ed il condomino del piano inferiore si duole che gli sia stato sottratto lo spazio vuoto fra i travi.

Sembrerebbe una delle tante questioni capziose che quotidianamente assediano le aule di giustizia ed invece la doglianza è fondata.

come questa Corte ha già affermato, il solaio esistente fra i piani sovrapposti di un edificio è oggetto di comunione fra i rispettivi proprietari per la parte strutturale che, incorporata ai muri perimetrali, assolve alla duplice funzione di sostegno del piano superiore e di copertura di quello inferiore, mentre gli spazi pieni o vuoti che accedono al soffitto od al pavimento, e non sono essenziali all’indicata struttura rimangono esclusi dalla comunione e sono utilizzabili rispettivamente da ciascun proprietario nell’esercizio del suo pieno ed esclusivo diritto dominicale (Cass. 2868/1978).
Deve dunque escludersi che la comunione si estenda oltre che alle travi, aventi funzione di sostegno del solaio e che, pacificamente, fanno parte di detta struttura portante (Cass., 13606/2000), allo spazio esistente tra le stesse, integrante volumetria di esclusiva utilizzazione da parte del proprietario del piano sottostante. Ed invero, come dal solaio deve essere distinto il pavimento che poggia su di esso, che appartiene esclusivamente al proprietario dell’abitazione sovrastante e che può essere, quindi, da questo liberamente rimosso o sostituito secondo la sua utilità e convenienza (Cass. 7464/1994), cosi pure dev’essere distinto il volume esistente tra le travi, che costituisce il soffitto dell’appartamento sottostante ed è dunque liberamente utilizzabile dal proprietario di questo”

Ne deriva che la sostituzione della soletta così effettuata risulta illegittima e fonte di danno per il condomino sottostante: “dall’accertata riduzione della cubatura utilizzabile nell’appartamento sottostante a quello in cui sono stati eseguiti i lavori di sostituzione del solaio, discende ex se (quale danno conseguenza), l’esistenza di un danno per la riduzione del godimento del bene quale conseguenza del restringimento della cubatura, nonchè per riduzione del valore commerciale del locale (Cass. 3178/1991), indipendentemente dal fatto che, prima dell’abbassamento del soffitto, detto locale possedesse o meno l’altezza minima sufficiente ai fini dell’abitabilità.
Risulta inoltre, avuto riguardo alla determinazione della misura dell’abbassamento del soffitto del ricorrente in conseguenza dei lavori effettuati sul solaio, che la sentenza impugnata abbia omesso di prendere specificamente in esame le risultanze della ctu, al fine di determinare, sulla base dei relativi rilievi, l’altezza iniziale del soffitto del ricorrente. In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio, anche per la regolazione delle spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Campobasso, in diversa composizione, che farà applicazione del seguente principio di diritto:
“nel caso di solaio sostenuto da travi che fanno parte della struttura portante del solaio stesso, la comunione tra i proprietari dei rispettivi appartamenti non si estende allo spazio esistente tra le travi che costituisce volumetria di esclusiva utilizzazione da parte del proprietario del piano sottostante.
Di conseguenza, la ristrutturazione del solaio che comprometta l’utilizzo di detto spazio (e l’abbassamento sino all’intradosso delle travi) determina un pregiudizio in capo al proprietario del vano sottostante che è ex se risarcibile”

La sentenza contiene anche un altro principio interessante: ove il CTu compia qualche attività in violazione del contraddittorio fra le parti, tali condotte non comportano automaticamente nullità ove non abbiano avuto riflessi determinati nella stesura finale della relazione: “sulla validità della relazione del consulente tecnico d’ufficio non incide l’eventuale nullità di alcune rilevazioni od accertamenti compiuti dal consulente medesimo, per violazione del principio del contraddittorio e conseguente pregiudizio del diritto di difesa delle parti, ove tali rilevazioni od accertamenti non abbiano spiegato alcun effetto sul contenuto della consulenza e sulle relative conclusioni finali (Cass. 4981/1977).”

© massimo ginesi 21 febbraio 2017 

nelle cause su materie ex art. 1130 cod.civ. l’amministratore impugna senza necessità di delibera.

Cass. civ. II sez. 16 febbraio 2017 n. 4183. La Corte si trova ad affrontare un caso decisamente interessante, ovvero l’individuazione del criterio di riparto delle spese da adottare per gli esborsi relativi ad una terrazza che in parte svolge funzione di copertura (terrazza a livello)  ed in parte costituisce  terrazza aggettante.

I rari precedenti giurisprudenziali si sono orientati sulla funzione preminente fra le due, che determinerebbe  il criterio applicabile.

Putroppo però la vicenda processuale non consente una statuzione su tale principio, poichè la corte riconosce applicabile la disciplina convenzionale dettata nel regolamento.

Nel pervenire a tali concluioni è però chiamata a statuire su una eccezione di inammissibilità dell’impugnativa per non aver il condominio, a detta del ricorrente, espressamente deliberato sul punto ed avendo l’amministratore agito in via autonoma.

La corte chiarisce che “in base al disposto degli artt. 1130 e 1131 codice civile, l’amministratore del condominio è legittimato ad agire in giudizio per l’esecuzione di una deliberazione assembleare o per resistere alla impugnazione della delibera stessa da parte del condomino senza necessità di una specifica autorizzazione assembleare, trattandosi di una controversia che rientra nelle sue normali attribuzioni, con la conseguenza che in tali casi egli neppure deve premunirsi di alcuna autorizzazione dell’assembela per proporre le impugnazioni nel caso di soccombenza del condominio (cass. 15.5.1998 n. 4900, CAss. 20.4.2005 n. 8286). A questa conclusione non è di ostacolo il principio, enunciato dalle Sezioni Unite (sentenza 6 agosto 2010 n. 18331) , secondo cui l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni ma essendo tenuto a dare senza indugio notizia alla assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131 commi 2 e 3, ben può costituirsi in giudizio e impugnare sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzaizone dell’assembela, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte della assemblea stessa, per evitare pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione.

L’ambito applicativo del dictum delle Sezioni Unite – con la regola, da esse esplicitata, della necessità dell’autorizzazione assembleare, sia pure in sede di successiva ratifica – si riferisce, espressamente, a quesi giudizi che esorbitano dai poteri dell’amministratore ai sensi dell’art. 1131 commi 2 e 3 cod.civ. Ma non è questo il caso, posto che eseguire le deliberazioni dell’assemblea e difiendere le stesse dalle impugnative giudiziali del singolo condomino rientra nelle attribuzioni proprie dell’amminsitratore.

Il Collegio ricorda che esiste qualche pronuncia di segno contrario anche successiva alle Sezioni Unite del 2010, ma se ne allontana allineandosi ai principi espressi dalla adunanza plenaria .

“Il collegio è invece  dell’avviso che, nella propria sfera di competenza (ordinarie o incrementate dalla assemblea), l’amministratore è munito di poteri di rappresentanza processuale ad agire e resistere senza necessità di alcuna autorizzazione. Sarebbe, infatti, veramente defatigatorio, nell’ottica di un assurdo “iperassembelarismo”, che l’amministratore fosse costretto a convocare ogni volta i condomini al fine di ottenere il nulla osta, ad esempio, per agire o resistere al monitorio sul pagamento degli oneri condominiali, o al giudizio per far osservare il regolamento, o all’impugnativa di una statuizione assembleare, oppure al fine di sperare nella ratifica riguardo ad un procedimento cautelare volto a conservare le parti comuni dello stabile (v. in termini Cass. 23.1.2014 n. 1451). “

© massimo ginesi 20 febbraio 2017

 

in assenza di rendiconto e di corretta tenuta della contabilità l’amministratore non ha diritto a compenso

Un principio importante, del tutto in linea con la disciplina del mandato, quello stabilito da Cass. civ.  II sez. 14 febbraio 2017, n. 3892.

Davanti al Giudice di legittimità è censurata una statuizione della Corte di appello di Roma: “La Corte, per quanto qui ancora interessa, avuto riguardo alla reiezione della domanda, avanzata dal ricorrente in qualità di amministratore del condominio su menzionato, di pagamento del proprio compenso, ha affermato che dalla espletata ctu era risultata la mancanza di un giornale di contabilità che avesse registrato cronologicamente le operazioni riguardanti il condominio, consentendo in modo puntuale la verifica dei documenti giustificativi, onde non era possibile ricostruire l’andamento delle uscite e dei pagamenti effettuati, per fatto imputabile all’amministratore, tra i cui doveri rientrava quello di corretta tenuta della contabilità.”

Afferma la Cassazione: “non è controversa la mancanza di una contabilità regolare che registrasse cronologicamente le operazioni riguardanti la vita del condominio e che quindi consentisse la verifica dei documenti e dunque la giustificazione delle entrate ed uscite della gestione dell’ente condominiale, né risulta che sia mai stata adottata, negli anni in contestazione, la delibera di approvazione del rendiconto dell’amministratore da parte dell’assemblea dei condomini ex art. 1130 c.c..
La contabilità presentata dall’amministratore del condominio, seppure non dev’essere redatta con forme rigorose, analoghe a quelle prescritte per i bilanci delle società, deve però essere idonea a rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di uscita, con le relative quote di ripartizione, e cioè tale da fornire la prova, attraverso i corrispondenti documenti giustificativi dell’entità e causale degli esborsi fatti, e di tutti gli elementi di fatto che consentono di individuare e vagliare le modalità con cui l’incarico è stato eseguito, nonché di stabilire se l’operato di chi rende il conto sia uniformato a criteri di buona amministrazione (Cass. 9099/2000 e 1405/2007).
In assenza di tale adempimento, il credito dell’amministratore non può ritenersi provato.

Nell’ipotesi di mandato oneroso, infatti, il diritto del mandatario al compenso ed al rimborso delle anticipazioni e spese sostenute è condizionato alla presentazione al mandante del rendiconto del proprio operato, che deve necessariamente comprendere la specificazione dei dati contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale (Cass. 3596/1990).
Ed invero, solo la deliberazione dell’assemblea di condominio che procede all’approvazione del rendiconto consuntivo emesso dall’amministratore ha valore di riconoscimento di debito in relazione alle poste passive specificamente indicate (Cass. 10153/2011), così come dalla delibera dell’assemblea condominiale di approvazione del rendiconto devono risultare le somme anticipate dall’amministratore nell’interesse del condominio (Cass. 1286/1997) non potendo in caso contrario ritenersi provato il relativo credito.
Attesa dunque la situazione di mancanza di una contabilità regolare e della stessa predisposizione ed approvazione del rendiconto annuale di gestione dell’amministratore, la ricostruzione ex post da parte del Ctu, sulla base di una verifica documentale a campione, non appare idonea a fondare la prova del credito del ricorrente, che può essere desunta in modo attendibile dalla sola determinazione dell’ammontare complessivo dei versamenti effettuati dai condomini e dalle uscite per spese condominiali, con relativi documenti giustificativi.

Non è inoltre pertinente il riferimento del ricorrente al principio secondo il quale, in sede di responsabilità contrattuale, il creditore deve soltanto provare la fonte dell’obbligazione, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, atteso che in materia di condominio, sulla base della disposizione dell’art. 1130 c.c., il credito dell’amministratore, come del resto ogni posta passiva, deve risultare dal rendiconto (redatto secondo il principio della specificità delle partite ex artt. 263 e 264 cpc) approvato dall’assemblea, sulla base di una regolare tenuta della contabilità, sì da rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di spesa e di valutare in modo consapevole l’operato dell’amministratore.”

Attenzione dunque che il mancato adempimento di quanto previsto dagli art. 1129, 1130 e 1130 bis cod.civ. non solo può dar luogo a responsabilità nei confronti del condominio, con conseguente revoca per gravi irregolarità, ma può  pregiudicare anche il diritto a percepire il compenso (non solo sotto il profilo dell’inadempimento del mandatario ma anche solo sotto il profilo della prova, come afferma la sentenza in commento).

© massimo ginesi 16 febbraio 2017

Abbattimento barriere architettoniche e condominio: una interessante pronuncia del Consiglio di Stato.

Un soggetto, portatore  di handicap, intende realizzare un varco di accesso su un muro perimetrale del fabbricato condominiale e presenta a tal fine  DIA  alla pubblica amministrazione: ne nasce una complessa vicenda dapprima amministrativa e poi giudiziale in cui il TAR “Ravvisò l’assenza del titolo di legittimazione a richiedere la DIA per le opere di straordinaria manutenzione in mancanza del nulla osta condominiale”.

Dopo due passaggi dinanzi la Tribunale amministrativo regionale la vicenda finisce dinanzi al Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, sez. IV, 27/01/2017, n. 353) che ha occasione di sottolineare due importanti principi.

Non occorre il consenso degli altri condomini per l’ottenimento di titolo amministrativo volto alla realizzazione di opere riconducibili alla L. 13/1989: “se è vero che nella DIA manca ogni esplicito richiamo alla legge n. 13 del 1989, è innegabile che altrettanto esplicitamente la richiesta è effettuata da un condòmino invalido al 100% per risolvere il problema dell’accesso con l’auto alla sua abitazione. Inoltre, è innegabile che la sentenza del 2013, che aveva condannato l’amministrazione a concludere la verifica dell’istanza presentata dal privato, aveva espressamente chiesto di fare la verifica alla luce della disciplina “di portata derogatoria ed ispirata ad inequivoco favor nei confronti dei soggetti portatori di handicap”, di cui alla legge in argomento.
Dalla erronea mancata riconduzione dell’intervento alla legge di favore è derivata, poi, l’illegittimità erroneamente ravvisata per non avere il provvedimento verificato la disponibilità dell’immobile in capo al richiedente mediante l’esibizione dei nulla osta rilasciati dai due condomìni. Infatti, se – all’esito della valutazione della documentazione presentata dal privato da parte della Amministrazione -l’intervento rientrava nell’ambito delle opere che non sono sottoposte a titolo abilitativo (art. 6, comma 1, lett. b, TUE, nella versione applicabile ratione temporis), ogni verifica della disponibilità dell’immobile in capo all’istante sotto il profilo del nulla osta dei condomìni A e B al fine di avanzare istanza per il rilascio del titolo abilitativo è superflua e, correttamente, pertanto, l’Amministrazione non l’ha compiuta.
Comunque, in presenza di un’istanza all’Amministrazione era sufficiente verificare – come è stato fatto richiamando la qualità di condòmino con disabilità al 100% – l’esistenza di una posizione qualificata con la cosa, idonea – fermi restando i diritti dei terzi – a legittimare il portatore di handicap, proprietario dell’appartamento di cui fa parte il condominio, ad avanzare una richiesta per lavori volti ad eliminare barriere architettoniche. Posizione qualificata sicuramente esistente per una richiesta di titolo abilitativo non necessario (art. 6 cit.), se si considera che, ai sensi di legge (art. 78, comma 2, TUE, riproduttivo dell’art. 2 della l. n. 13 del 1989), il portatore di handicap può financo realizzare a proprie spese alcune opere per le quali il titolo abilitativo sia richiesto (es. allargamento porta di accesso all’immobile) se non ottiene il nulla osta del condominio.
Resta da precisare che le opere in argomento, per l’identificazione delle quali non vi è discussione tra le parti, consistono nella realizzazione di un varco di accesso con cancello scorrevole nel muro perimetrale comune. Esse rientrano, all’evidenza, tra quelle di edilizia libera si cui all’art. 6 in argomento, nella formulazione applicabile ratione temporis, essendo escluse dalle opere libere solo quelle che comportano la realizzazione di rampe, di ascensori esterni, di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio.
Né vi è nella specie alterazione della sagoma dell’edificio. Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata, la sagoma è la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (ex plurimis, C.d.S, VI, n. 1564 del 2013); conseguente è l’esclusione dell’alterazione della sagoma in caso di aperture che, come nel caso di specie, non prevedano superfici sporgenti (Cass. pen., n. 19034 del 2004)”.

Il giudice amministrativo non può effettuare valutazioni sulla lesività della innovazione: “il giudice ha omesso di fermarsi al confine della valutazione del rapporto privato/amministrazione, l’unico rilevante nell’ottica del giudizio di annullamento di un atto emanato all’esito della conclusione del procedimento di verifica delle condizioni della DIA. Invece, ha invaso il campo, riservato al giudice civile, dei rapporti tra privati, soffermandosi sull’art. 1120, ultimo comma c.c., in riferimento al divieto, anche per il portatore di handicap, di opere su bene comune che limitino l’uso comune degli altri condomini. Quindi, quanto il giudice dice circa l’oggettiva impossibilità di utilizzo a favore di tutti i condomini (sia del varco, sia della parte retrostante al varco), con conseguente divieto dell’opera ex art. 1120 c.c., non poteva essere oggetto di esame, essendo il giudice amministrativo chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’atto che qualifica di edilizia libera le opere per le quali era stato richiesto un inutile titolo abilitativo. Se il condominio ritiene che le opere realizzate ledano l’uso comune di parti comuni agli altri condòmini, potrà, eventualmente, rivolgersi al giudice civile.”

© massimo ginesi 14 febbraio 2017

tabelle millesimali: valgono le condizioni del fabbricato al momento della loro adozione.

Le tabelle millesimali rappresentano un infinito territorio di disputa, con particolare riguardo alla possibilità di modifica in caso di variazioni o di errore.

La Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile,  9 febbraio 2017, n. 3516) torna, ancora un volta, sul tema per ribadire principi ormai consolidati.

La Corte è chiamata a valutare se l’omessa realizzazione di un garage, ancora in sede progettuale all’epoca  di compilazione delle tabelle e mai realizzato, consenta oggi di chiedere la revisione dei valori millesimali.

La pronuncia fa ancora riferimento alle frazioni di notevole valore, applicando (ratione temporis) l’art. 69 disp.att. cod.civ. nella sua formulazione ante legge 220/2012, per cui oggi si avrà riguardo a variazioni superiori ad un quinto; il criterio espresso mantiene comunque la sua rilevanza a fronte della norma attualmente vigente.

L’omessa realizzazione di un manufatto (in ispecie il garage) non può comportare automaticamente la revisione delle tabelle millesimali.
La mancata realizzazione del manufatto medesimo “imputabile (secondo la Corte di merito) all’inerzia dei titolari” non solo non può dar luogo “al ricadere delle conseguenze sugli altri condomini”, ma deve, innanzitutto (e al di là di quanto affermato dalla gravata decisione), comportare una adeguata e comprovata modificazione rispetto a quella in origine valutata alla fine della composizione delle tabelle millesimali.
Inoltre, ancora, solo una notevole alterazione dell’originario rapporto fra le parti dell’edificio potrebbe comportare – ex art. 69, n. 2) Disp. Att. c.c.) – la revisione tabellare.
Al riguardo, giova ancora evidenziare, la Corte di merito ha deciso conformemente al principio già enunciato da questa Corte (Cass. 10 febbraio 2010, n. 3001) e parti ricorrenti non allegano. idonee argomenti atti a mutare il suddetto applicato orientamento.”

La sentenza del 2010 richiamata dalla Corte completa  la chiave di lettura “momento normativo di individuazione dei valori delle unita’ immobiliari di proprieta’ esclusiva ai singoli condomini, e del loro proporzionale ragguaglio in millesimi a quello dell’edificio, e’ quello di adozione del regolamento e che la tabella che li esprime e’ soggetta ad emenda soltanto in relazione ad errori, di fatto o di diritto, che attengano alla determinazione degli elementi necessari al calcolo del valore delle singole unita’ immobiliari, ovvero a circostanze sopravvenute attinenti alla consistenza dell’edificio o delle sue porzioni, che incidano in modo rilevante sull’originaria proporzione dei valori.
In ragione dell’esigenza di certezza dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini, fissati dalle tabelle millesimali, sono escluse, dunque, sia la revisione che la modifica delle tabelle tanto per errori nella determinazione del valore, che non siano indotti da quelli sugli elementi necessari al suo calcolo, quanto per mutamenti successivi dei criteri di stima della proprieta’ immobiliare, quand’anche abbiano comportato una rivalutazione disomogenea delle singole unita’ dell’edificio od alterato, comunque, il rapporto originario tra il valore delle singole unita’ del condominio e tra queste e l’edificio. Nel caso in cui venga chiesta la revisione delle tabelle, l’errore o gli errori lamentati devono, dunque, oltre che essere causa di una divergenza apprezzabile tra i valori posti a base della redazione delle tabelle e quello allora effettivo, risultare anche oggettivamente verificabili in base agli elementi sui quali il valore in quel momento doveva essere calcolato (cfr.: Cass. civ., sez. un., sent. 24 gennaio 1997, n. 6222).”

© massimo ginesi 13 febbraio 2017

mutamento di destinazione d’uso e regolamento contrattuale: due giri in cassazione.

Una vicenda davvero particolare, se non altro per il tortuoso iter processuale, quella affrontata da Corte di Cassazione, sez. I Civile  7 febbraio 2017, n. 3221.

Un soggetto trasforma dei vani tecnici posti in condominio in unità abitative,   tale attività viene ritenuta dal Condominio contraria al regolamento contrattuale che vieta il mutamento di destinazione in talune ipotesi.

La vicenda processuale ha inizio nel lontanissimo 1992 e  oggi ritorna ancora una volta, dopo 25 anni, al giudice di merito che dovrà nuovamente pronunciarsi.

“Con citazione notificata il 5 ottobre 1992, il Condominio dello stabile di via (…), lotti (…), di (omissis) , denominato “(omissis) “, costituito da due edifici per civile abitazione con sottostante zona adibita a parcheggio, conveniva dinanzi al tribunale di Bari il costruttore del fabbricato, signor A.M. , lamentando come costui avesse modificato talune porzioni immobiliari ad uso non abitativo rimaste in sua proprietà – e precisamente dieci piccole cantine (o “cantinole”) al piano seminterrato e due volumi tecnici sul lastrico solare – trasformandole in appartamentini ammobiliati, corredati da servizi igienici collegati all’impianto idrico e fognario del complesso condominiale; il Condominio chiedeva, quindi, che l’A. fosse condannato alla demolizione delle opere abusivamente eseguite e, in subordine, che gli fosse vietato di adibire ad abitazione i menzionati locali scantinati e volumi tecnici, con condanna del medesimo convenuto al risarcimento dei danni conseguenti all’uso illegittimo dí detti locali.

Nel 2000 Il Tribunale di Bari “ accoglieva la domanda subordinata del Condominio e, per l’effetto, inibiva all’A. di destinare le dieci cantinette interrate e i due volumi tecnici insistenti sul lastrico solare ad uso diverso da quello proprio di deposito, quanto alle prime, e di sede per impianti di interesse generale, quanto ai secondi”, sentenza confermata dalla Corte di Appello di Bari che osservava “la concessione in sanatoria ottenuta dall’A. concerneva solo il rapporto con la pubblica amministrazione e quindi era ininfluente nel rapporto fra í condomini, nel quale trovavano applicazione le disposizioni del codice civile e delle leggi speciali in materia di edilizia – argomentava che il cambio di destinazione delle dieci cantinette e dei due vani insistenti sul lastrico solare contrastava con le disposizioni del regolamento condominiale di natura contrattuale e, per altro verso, aggravava le servitù a carico degli impianti condominiali”

Si perviene una prima volta a giudizio di Cassazione, che ritiene le pronunce infondate e nel 2012, con sentenza n. 16119/12, la Suprema Corte rinvia al giudice di merito  affinché pronunci nuovamente, attendendosi ai criteri dettati in sede di legittimità e che vale la pena riportare, poiché costituiscono significativa disamina della rilevanza del regolamento contrattuale che – ad avviso di tale giurisprudenza – deve essere interpretato in senso restrittivo e puntuale: “In tale situazione regolamentare, dunque, la Corte d’appello, lungi dal potersi limitare ad una mera elencazione di disposizioni regolamentari, avrebbe dovuto indicare le ragioni per le quali dal regolamento condominiale potesse desumersi il divieto di mutamento di destinazione delle cantinole e dei volumi tecnici sul lastrico solare. Ciò tanto più sarebbe stato necessario in presenza di una disposizione regolamentare, quale quella di cui all’art. 13, che, sotto la rubrica Osservanze, divieti e limitazioni, individua specifici divieti di mutamenti di destinazione sia per gli appartamenti che per il locale seminterrato stabilendo che: È vietato ai Condomini ed eventuali locatori: a) di destinare gli appartamenti ad uso di laboratorio, officine di qualsiasi azienda industriale o commerciale, anche se artigiana, di ambulatori o gabinetti per la cura di malattie infettive o contagiose, casa di salute di qualsiasi specie, dispensari, sanatori, magazzini, scuole di musica, di canto o di ballo, ed in genere a qualsiasi altro uso che possa turbare la tranquillità del Condominio e sia contrario all’igiene, alla decenza, o a buon nome del fabbricato; b) di destinare il locale seminterrato o anche parte di esso ad industrie rumorose o emananti esalazioni sgradevoli o nocive, ad opifici e stabilimenti In funzionamento notturno, a deposito di polveri piriche o di altri materiali facilmente infiammabili e comunque a qualsiasi destinazione che turbi il pacifico godimento singolo o collettivo degli appartamenti.”La Corte d’appello avrebbe quindi dovuto specificare le ragioni in base alle quali la disposizione relativa al locale seminterrato poteva ritenersi significativa nel senso del divieto di mutamento di destinazione dello stesso ad abitazione, espressamente non contemplato, e non dovesse piuttosto essere interpretata in un senso non preclusivo di un siffatto mutamento di destinazione, secondo un canone ermeneutico restrittivo che, come prima ricordato, deve ispirare l’interprete in considerazione della diretta incidenza delle norme regolamentari sul diritto di proprietà esclusiva dei singoli condomini interessati. Ed ancora, la Corte d’appello avrebbe dovuto chiarire se la destinazione in concreto data al locale seminterrato e ai volumi tecnici integrasse una destinazione idonea a turbare il pacifico godimento singolo o collettivo degli appartamenti, ovvero ancora se una siffatta destinazione potesse turbare la tranquillità del Condominio o fosse contraria all’igiene, alla decenza e al buon nome del fabbricato. Ma tali valutazioni sono del tutto assenti nella sentenza impugnata, non potendosi ritenere che le stesse siano state assorbite dal riferimento alla violazione della norma regolamentare in tema di servitù, attesa la non pertinenza della stessa rispetto alla questione oggetto del giudizio.
La Corte d’appello avrebbe inoltre dovuto illustrare le ragioni per le quali dalle singole norme richiamate in motivazione, quand’anche esaminate nel loro complesso e le une per mezzo delle altre, si poteva pervenire alla conclusione della esistenza, nel regolamento condominiale, del divieto di mutamento di destinazione dei locali di proprietà esclusiva dell’A. in abitazioni

Sostanzialmente, afferma la Corte, i divieti contenuti nel regolamento contrattuale devono essere interpretati in maniera restrittiva, onde non comprimere il diritto dominicale dei singoli in misura superiore a quanto il patto regolamentare  effettivamente esprime  e, soprattutto, in assenza di una previsione specifica sul mutamento dei fondi in abitazione, il giudice deve espressamente indicare le ragioni che lo inducono a ravvisare tale limitazione nella disposizione contrattuale.

Il giudizio perviene ad una nuova sentenza della Corte d’appello di Bari nel 2015, che nuovamente ritiene sussistente tale divieto, sulla scorta di nuove argomentazioni, che tuttavia attengono unicamente alla legittimità urbanistica dei beni trasformati: “a) Le “cantinole” ed i volumi tecnici adibiti ad abitazione non avevano ottenuto – né, per le loro caratteristiche, avrebbero potuto ottenere – la certificazione di abitabilità di cui all’articolo 221 del testo unico delle leggi sanitarie, vigente all’epoca dei fatti e successivamente sostituito dall’articolo 24 del d.p.r. 380/01. In proposito la corte barese evidenzia, sulla scorta dei rilievi del consulente tecnico di ufficio, come tali unità immobiliari difettino dei requisiti fissati dal decreto ministeriale 5/7/75 in ordine alle caratteristiche dimensionali e, quanto alle cantinette, in ordine alla presenza di finestre apribili. Nella sentenza gravata si argomenta altresì che il mancato rilascio del certificato di abitabilità non risulta superato dal rilascio della concessione in sanatoria, giacché tale concessione consentirebbe di derogare solo ai requisiti abitabilità o agibilità fissati da norme regolamentari e non, quindi, al requisito della salubrità fissato dall’articolo 221 del testo unico delle leggi sanitarie.
b) Il pregiudizio per l’igiene dei singoli appartamenti si rifletterebbe inevitabilmente, negativamente, sul profilo dell’igiene dell’intero condominio, determinando il peggioramento delle condizioni di igiene e salubrità dello stabile, per il maggior carico umano imprevisto e per il sovraccarico, fra l’altro, dell’impianto fognario.”

Nuovo giro in Cassazione che, ancora una volta, cassa con rinvio anche tale pronuncia; fra i diversi motivi di ricorso la Corte ritiene fondato il quarto” La corte barese argomenta, in primo luogo, che le “cantinole”, in quanto interrate, sarebbero prive di finestre e, in secondo luogo, che tutte le unità immobiliari in questione, ossia le cantinole e gli appartamentini sul lastrico, risulterebbero difformi dalle prescrizioni del D.M. 5/7/75 sotto il “profilo concernente il numero massimo di abitanti”.
L’affermazione della corte territoriale secondo cui il mancato rispetto dei requisiti fissati dal D.M. 5/7/75 implicherebbe non solo l’insalubrità delle unità immobiliari in questione, ma anche un pregiudizio per l’igiene dell’intero fabbricato, contiene effettivamente un salto logico, in quanto sovrappone la nozione di salubrità di una unità immobiliare con la nozione, che è quella rilevante ai fini dell’articolo 13 del regolamento condominiale, di contrarietà all’igiene dell’attività a cui l’unità immobiliare venga destinata (si veda l’elenco esemplificativo di tali attività contenuto nel detto articolo 13: “laboratorio, officine…, ambulatori o gabinetti…, casa di salute…, dispensari, sanatori, magazzini, scuole di musica, di canto o di ballo”)”.

LA suprema Corte “cassa la sentenza gravata e rinvia dunque alla corte d’appello di Bari, altra sezione, che regolerà anche le spese del giudizio di cassazione”.

Che al terzo giro di rinvio le sezioni del giudice di appello pugliese comincino a scarseggiare?

© massimo ginesi 9 febbraio 2017