cappotto termico: quando la delibera è nulla

la decisione assembleare con la quale il Condominio decide di procedere all’installazione del c.d. cappotto termico può incorrere in vizi di nullità ove preveda una significativa incidenza dell’installazione sul decoro dell’edificio o una riduzione dello spazio utile dei balconi individuali.

in tal senso si è espressa di recente una pronuncia di merito (il Tribunale Sulmona 1.8.2023 n. 234) osservando che “nel caso di specie-, dall’analisi della documentazione fotografica e del progetto approvato per i lavo:ri di manutenzione, risuJta che i pannelli per l’istallazione del cappotto te:rmico verranno applicati sulla facciata modificandone completamente l’aspetto esteriore (in particolare eliminando la parete in pietra e quella con mattoni a vista). E’ evidente che l’intervento deliberato altera sensibilmente la fisionomia dell’intero edificio e della facciata stessa, ragion per cui modifica/altera in maniera evidente il decoro architettonico dell’edificio, rendendo la delibera, che lo approva solo a maggioranza dei condomini, nulla perché contraria all’art. 1120 c.c.

Osserva ancora il Tribunale che “anche volendo superare la questione dell’alterazione del decoro architettonico dell’edificio, in ogni caso la delibera, al punto 3 dell’ordine del giorno, è nulla in quanto approva un intervento che incide sulla proprietà esclusiva dei condomini senza che vi sia stato il loro consenso unanime.

Come evidenziato dai ricorrenti, infatti, l’intervento di istallazione del cappotto termico sopra descritto, oltre a modificare la facciata dell’edificio condominiale, comporta una riduzione considerevole della profondjtà del terrazzino di proprietà esclusiva dei condomini, con w1.a riduzione dello spazio da 62 cm a 46/47 cm oltre che una modifica della ringhiera attualmente presente.”

Nel senso della pronuncia in commento si  pongono diversi recenti arresti (Cass. civ. 17920/2023, Trib. Roma 11708/2023).

© MG 18.9.2023

interpretazione del regolamento contrattuale: la delibera del condominio non vincola il giudice.

Qualora nel condominio sia in vigore un regolamento di natura contrattuale,, il giudice è tenuto ad interpretarlo secondo le ordinarie regole ermeneutica in tema di contratti e non potrà limitarsi a recepire la lettura che di tali norme sia stata data in sede di successive delibere condominiali.

Nella fattispecie il regolamento vietava innovazioni lesive del decoro e il Condominio aveva  ritenuto conforme alla clausola un intervento di recupero del sottotetto effettuato da un condomino.

La Corte di legittimità ( Cass.civ. sez. II  ord. 27 maggio 2020 n. 9957), nel ribadire nozioni ormai consolidate in tema di decoro, rileva che il giudice di merito era tenuto a valutare se quell’intervento fosse effettivamente in contrasto con la clausola regolamentare, non potendo limitarsi a prendere atto del consenso espresso dalla maggioranza assembleare.

“Questa Corte ha affermato, con orientamento consolidato al quale il collegio intende dare continuità, che costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (Cassazione civile sez. II, 28/06/2018, n. 17102).
L’alterazione di tale decoro è integrata, quindi, da qualunque intervento che alteri in modo visibile e significativo la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono all’edificio una sua propria specifica identità (Cass. 1076/05 e Cass. 14455/09).

Ne consegue che, attesa la sostanziale identità della domanda basata sulla lesione del decoro architettonico o sull’art. 8 del regolamento condominiale, sia in relazione all’art. 1120 c.c., il motivo dedotto non è decisivo perché basato sui medesimi presupposti fattuali.

Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa interpretazione dell’art. 1362 c.c., in relazione al regolamento condominiale ed agli artt. 1120, 1137, 1138, 1350, 1372 e 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., commi 2 e 3, per avere la corte distrettuale interpretato il regolamento condominiale, facendo riferimento alla volontà dei condomini manifestata nella Delib. 25 febbraio 2003, con la quale i medesimi nulla obiettavano in ordine al progetto di modifica delle parti comuni; la corte di merito non avrebbe tenuto conto che, trattandosi di regolamento di natura contrattuale, non avrebbe potuto essere modificato a semplice maggioranza, ma con il consenso unanime dei condomini, in quando incidente sul decoro architettonico. Contestava, inoltre, che si fosse formato il giudicato per assenza di opposizione alla citata Delib. condominiale in quanto l’oggetto della Delib. era limitato al riconoscimento della legittimità degli interventi purché conformi al regolamento condominiale.

Il motivo è fondato sotto diversi profili.
È incontestato che il regolamento del Condominio (omissis) abbia natura contrattuale e che la domanda dal medesimo proposta fosse diretta alla declaratoria di illegittimità dei lavori eseguiti dai convenuti, consistenti nel recupero, ai fini abitativi, del sottotetto, perché lesivi del decoro architettonico.
Nell’interpretare il regolamento contrattuale, il giudice deve utilizzare i canoni ermeneutici previsti dal codice civile e quindi leggere le clausole complessivamente e non limitarsi alla singola disposizione (art. 1363 c.c.) e cercare di ricostruire la volontà e l’intenzione delle parti contraenti (art. 1362 c.c. (Cassazione civile sez. VI, 03/05/2018, n. 10478).

L’art. 1362 c.c., allorché nel comma 1, prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cassazione civile sez. II, 22/08/2019, n. 21576).

La corte di merito ha interpretato l’art. 8 del regolamento contrattuale e, in particolare della volontà delle parti, non sulla base dei citati criteri ermeneutici, ovvero tenendo conto del dato letterale e delle altre clausole contrattuali, ma sulla base del comportamento successivo, costituito dal contenuto della Delib. 22 maggio 2003, nella quale il condominio nulla obiettava in relazione al progetto di realizzazione del recupero dell’abitabilità dei sottotetti, secondo il progetto presentato.
Tale deliberazione , che non risulta essere stata adottata all’unanimità, non poteva costituire l’unico parametro interpretativo per l’individuazione della volontà dei condomini espressa nel regolamento contrattuale, nè era idonea a modificarlo perché attinente ad innovazioni incidenti sul decoro architettonico.
In tale ipotesi, infatti, esula dai poteri istituzionali dell’assemblea dei condomini la facoltà di deliberare o consentire opere lesive del decoro dello edificio condominiale, alla stregua dell’art. 1138 c.c., comma 4 (Cassazione civile sez. VI, 18/11/2019, n. 29924).
Ne consegue che l’interpretazione del regolamento contrattuale, erroneamente basato, sulla Delib. Condominiale 22 maggio 2003, non poteva avere autorità di giudicato.”

© massimo ginesi 3 giugno 2020

balconi ed estetica dell’edificio: i singoli non possono alterarla

 

La Cassazione (Cass.civ. sez. VI-2 ord. 24 febbraio 2020 n. 4909 rel. Scarpa)  ribadisce alcuni orientamenti consolidati in tema di balconi, di prospetto dell’edificio e di facoltà dei singoli di effettuare interventi ex art 1102 c.c., che sono ammessi ove  non alterino  il decoro dell’edificio.

La vicenda attiene allo spostamento di alcune ringhiere di balconi  verso l’esterno, con annessione alla superficie di calpestio individuale di porzione del cornicione comune e con immediato riflesso sul prospetto dell’edificio.

i fatti ed il processo:Con atto di citazione notificato in data 23 febbraio 2012, il Condominio di via Cimabue n. 15 convenne, dinanzi al Giudice di pace di Milano, G.P. e B.I., chiedendo l’accertamento della illegittimità degli interventi da questi ultimi effettuati sul terrazzo dell’immobile di loro proprietà (nella specie, dell’avanzamento del terrazzo a filo del muro perimetrale di facciata, con annessione del cornicione e della parte di gronda che lo attraversa), sito nello stabile di (OMISSIS), poichè eseguiti in violazione degli artt. 1102 e 1120 c.c. e del regolamento condominiale, in assenza di alcuna autorizzazione; chiesero, inoltre, una pronuncia di condanna al ripristino dello stato dei luoghi originario, con contestuale autorizzazione rilasciata al Condominio per intervenire direttamente nell’esecuzione delle relative opere, in caso di inerzia dei convenuti, nonchè la vittoria di spese del giudizio.

Con sentenza n. 109241/2013, depositata il 27 giugno 2013, il Giudice di pace rigettò la domanda, con compensazione delle spese processuali, rilevando come “dalla documentazione prodotta in atti e dall’istruttoria esperita gli interventi eseguiti sulle parti comuni non abbiano violato l’art. 1102 c.c. o l’art. 1120 c.c. non essendo dimostrato che i suddetti interventi abbiano alterato la destinazione della cosa comune o che abbiano impedito agli altri partecipanti di farne parimenti uso”.

in secondo grado la pronuncia viene totalmente ribaltata: “Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 3740/2018, depositata in data 3 aprile 2018, ha riformato integralmente la sentenza di primo grado, rigettato l’appello incidentale e condannato G.P. e B.I. a rifondere al Condominio le spese di giudizio di entrambi i gradi del giudizio. In particolare, il Tribunale, “accertata l’illegittimità delle opere realizzate sul terrazzo dell’appartamento di proprietà” degli odierni ricorrenti, ha condannato i medesimi “al ripristino dello stato dei luoghi originario autorizzando il Condominio, in caso di inerzia protratta oltre sessanta giorni dalla sentenza, a provvedere a tali opere direttamente”.

i principi richiamati dal giudice di legittimità: solo il giudice di merito può valutare la sussistenza dei presupposti di fatto cui all’art. 1102 c.c.,   “ la realizzazione da parte di un condomino di una modifica nella sua proprietà esclusiva (nella specie, dell’avanzamento del terrazzo con annessione del cornicione e della parte di gronda che lo attraversa), ai fini dell’utilizzo delle parti comuni, rimane sottoposta, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al divieto di alterare la destinazione della cosa comune, nonchè a quello di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; e l‘accertamento se l’opera del singolo condomino, mirante ad una intensificazione del proprio godimento della cosa comune, sia conforme o meno alla destinazione della parte condominiale, è compito del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (nella specie, il Tribunale di Milano ha spiegato, a pag. 5 della sentenza, le ragioni per cui la realizzazione delle opere in questione abbia alterato la destinazione e impedito agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto)…

Sulla funzione estetica del balcone: “Come spiegato dal Tribunale, “il parapetto del balcone (interessato dall’esecuzione delle opere da parte di G.P. e B.I.) costituisce parte della facciata dello stabile, in ragione della sua prevalente funzione estetica per l’edificio, così da divenire elemento decorativo ed ornamentale essenziali della facciata”. La decisione del Tribunale di Milano si uniforma all’interpretazione di questa Corte. Se i balconi di un edificio condominiale non rientrano, infatti, tra le parti comuni, ai sensi dell’art. 1117 c.c., non essendo necessari per l’esistenza del fabbricato, nè essendo destinati all’uso o al servizio di esso, il rivestimento del parapetto e della soletta devono, invece, essere considerati beni comuni se svolgono una prevalente funzione estetica per l’edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole (Cass. Sez. 2, 14/12/2017, n. 30071).E qualora il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale esegua opere sui propri beni facendo uso anche di beni comuni, indipendentemente dall’applicabilità della disciplina sulle distanze, è necessario che, in qualità di condomino, utilizzi le parti comuni dell’immobile nei limiti consentiti dall’art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, 28/02/2017, n. 5196, relativa proprio a domanda di riduzione in pristino di un balcone sul quale erano state eseguite opere in violazione dell’art. 1102 c.c.).

La precisazione in fatto su cui insistono i ricorrenti, avvertendo che la parte interessata ai lavori consistesse in una ringhiera metallica, rimane del tutto priva di decisività, giacchè la natura di parte comune dei rivestimenti e degli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore di un balcone, che contribuiscano a rendere l’edificio condominiale esteticamente gradevole, può essere ravvisata con riguardo tanto a parapetti, quanto a balaustre, ringhiere e simili.

Costituisce peraltro innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio. La relativa valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, ove non presenti vizi ex art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. Sez. 2, 11/05/2011, n. 10350), non potendosi attribuire, tra l’altro, decisiva, ai fini della tutela prevista dall’art. 1120 c.c., al grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell’edificio, ovvero alla presenza di altre pregresse modifiche non autorizzate (Cass. Sez. 2, 16/01/2007, n. 851).

Interessante anche la disamina sotto il profilo processuale, relativa ai motivi su cui si fonda la decisione della Corte milanese:  “Il Tribunale di Milano ha ritenuto assorbito il secondo motivo di appello dedotto dal Condominio relativo all’erronea applicazione dell’art. 8 del regolamento condominiale (di cui si era dibattuto anche dinanzi al giudice di pace), essendo il primo motivo sufficiente all’accoglimento dell’appello. La sentenza impugnata ha peraltro poi comunque valutato l’astratta fondatezza di tale doglianza, sostenendo come il regolamento introducesse un divieto alla realizzazione sulle proprietà individuali di ogni opera esterna che “modifichi l’architettura, l’estetica o la simmetria dell’edificio” ed imponesse una preventiva autorizzazione scritta in caso di realizzazione di modifiche interne ai locali di proprietà esclusiva. I ricorrenti non hanno tuttavia alcun interesse a dolersi della pronuncia resa dal Tribunale su un motivo di appello formulato dalla loro controparte e pregiudizialmente dichiarato assorbito dal medesimo giudice, il quale, dopo aver dichiarato fondato un primo motivo di gravame, distinto ed autonomo, giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, abbia non di meno esaminato l’astratta fondatezza di una ulteriore censura rimasta assorbita. L’esame del quarto motivo di ricorso non si rivelerebbe in nessun caso idoneo a determinare l’annullamento della sentenza del Tribunale di Milano impugnata, risultando comunque consolidata l’autonoma motivazione oggetto della prima censura assorbente accolta.”

© massimo ginesi 30 marzo 2020 

 

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lesione del decoro del fabbricato: quando il giudice si discosta dalle valutazione del CTU

Una recente sentenza del Tribunale di Roma (Trib. Roma sez. V, 24/06/2019,  n.13287 est. Ghiron) ripercorre orientamenti consolidati in tema di decoro del fabbricato e rgiunge a ritenere illecito l’accorpamento di più balconi in uno solo, discostandosi motivatamente da quanto invece aveva suggerito il CTU:

Parte attrice contesta le opere realizzate dalla convenuta assumendo che le stesse avrebbero violato i limiti imposti, nell’uso delle cose comune, dall’art. 1102 cc e che, in particolare, avrebbero violato il decoro e la statica dell’edificio, alterando altresì la destinazione della facciata.

Quanto alla lamentata violazione del decoro dell’edificio si osserva invero che, per -decoro architettonico’, deve intendersi l’estetica data dall’insieme delle linee e delle strutture architettoniche che connotano il fabbricato e che gli imprimono una determinata, armonica fisionomia. E l’alterazione di tale decoro può ben correlarsi alla realizzazione di opere che modifichino l’originario aspetto soltanto di singoli elementi o punti dell’edificio tutte le volte che l’immutazione sia suscettibile di riflettersi sull’insieme dell’aspetto del fabbricato (v. Cass. 17398/04, Cass. 8174/12). E non occorre ulteriormente che il fabbricato, nel quale il decoro si assuma violato, abbia un particolare pregio artistico (Cass. 27551/09) né rileva che il decoro sia stato alterato da precedenti interventi sull’immobile (Cass. 14455/09 e Cass. 21835/07) ma è sufficiente che vengano alterate in modo visibile e significativo la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono all’edificio una sua propria specifica identità (Cass. 1076/05 e Cass. 14455/09).

Orbene, nel caso in esame, l’ausiliario ha rappresentato la non incidenza in senso negativo dell’opera (costituita dall’accorpamento di alcuni balconi di proprietà esclusiva dell’attrice in un unico balcone, al quale si accede attraverso tre porte-finestre dall’appartamento della convenuta, balcone munito di una -pesante’ ringhiera mediante modifica del cornicione) sotto tale profilo.

L’assunto, peraltro frutto di una mera convinzione personale, non è condivisibile in particolare in quanto l’ausiliario è giunto alla suddetta conclusione erroneamente comparando la situazione dell’edificio oggetto di causa con altri limitrofi laddove la valutazione deve essere effettuata esaminando esclusivamente il fabbricato oggetto degli interventi.

Dall’esame delle fotografie prodotte e dei rilievi effettuati dal ctu è emerso, invece, che tale modifica ha alterato, in senso peggiorativo, il prospetto della facciata (su strada) dell’edificio (v. fotografie allegate alla ctu) trasformando quella che era una mera piccola falda a protezione della facciata in passerella di collegamento fra i precedenti piccoli balconi, accorpati in uno solo munito di una pesante ringhiera che stride con il resto della facciata. Ciò in un fabbricato da ritenersi di pregio ubicato in zona Prati. Le opere realizzate (trasformazione della falda, accorpamento dei balconi, installazione di ringhiera, ecc.) hanno invero modificato, in senso peggiorativo, una facciata di pregio connotata (v. ctu pag. 13) architettonicamente dalla presenza di -vuoti’ fra le finestre oggi riempiti dalla balaustra.

Donde l’accoglimento, in parte qua, della domanda di rimozione”

© massimo ginesi 15 luglio 2019 

non vi è legittimazione passiva dell’amministratore per atti illeciti compiuti dai singoli condomini

Parrebbe un principio pacifico ma così non deve essere parso alle parti della causa, se la vicenda è dovuta arrivare sino in Cassazione.

Se alcuni condomini pongono in essere interventi lesivi del decoro dell’edificio, la legittimazione passiva per la relativa azione di ripristino compete unicamente a costoro e non può, a tal fine, essere evocato in giudizio direttamente l’amministratore, al quale, semmai, si può rimproverare un autonomo e diverso titolo di responsabilità per l’eventuale inerzia nel reagire all’atto illecito, sotto il profilo della inosservanza del dovere di compiere atti conservativi ex art. 1130 cod.civ.

Lo afferma Cass.Civ. sez.II ord. 20 novembre 2018, n. 29905, che rigetta il ricorso di un condomino assai poco lungimirante, che aveva visto respinta la domanda in primo grado e respinto l’appello ex art 348 bis e tre c.p.c..

I fatti:” il condominio dell’(omissis) evocava in giudizio innanzi il Tribunale di Messina L.R. , proprietaria di un appartamento sito all’interno dello stabile in condominio, per sentirla condannare alla rimozione della chiusura in metallo e vetro realizzata sul balcone prospiciente la via pubblica, nonché al risarcimento del danno derivante dalla lesione del decoro architettonico dell’edificio.
Si costituiva la convenuta allegando la natura precaria della chiusura del balcone e dichiarando di non opporsi alla sua eliminazione, a condizione che anche gli altri condomini avessero eliminato i diversi manufatti (caldaie, armadi e condizionatori) da loro installati sul prospetto condominiale o sui balconi, sul presupposto che anche detti manufatti fossero lesivi del decoro architettonico dell’edificio, spiegando domanda riconvenzionale sul punto.
All’esito di C.T.U. il Tribunale accoglieva la domanda principale, sul presupposto che la convenuta ne avesse riconosciuto la fondatezza, mentre respingeva la riconvenzionale per carenza di legittimazione passiva del condominio.”

la motivazione della pronuncia di legittimità: “La censura non è fondata. Le ipotetiche lesioni del decoro della facciata lamentate dalla ricorrente sono infatti state compiute da altri condomini e quindi la predetta avrebbe dovuto evocare direttamente in giudizio, come comproprietaria del bene comune pregiudicato, i singoli responsabili delle violazioni.

L’amministratore, invece, non ha alcuna legittimazione passiva a rispondere degli effetti pregiudizievoli derivati all’edificio da interventi realizzati da singoli condomini.

Al massimo, il rappresentante dell’ente di gestione sarebbe stato passivamente legittimato in relazione all’azione volta all’accertamento dell’illiceità della sua inerzia nell’agire a tutela del decoro dell’edificio, ma la ricorrente non ha proposto simile domanda, avendo ella – piuttosto – invocato direttamente nei confronti dell’amministratore del condominio l’eliminazione dei manufatti ritenuti lesivi del decoro della facciata dell’edificio.”

© massimo ginesi 4 dicembre 2018

canna fumaria in facciata: la cassazione ribadisce principi ormai consolidati

Cass.Civ. sez.II ord. 23 novembre 2018 n. 30462  ribadisce alcuni dati ormai acquisiti in tema di decoro architettonico e di pari utilizzo del bene comune ai sensi dell’art. 1102 cod.civ. : “La Corte distrettuale ha ordinato la rimozione della canna fumaria, ritenendo che essa costituisse costruzione ai sensi della normativa sulle distanze legali (e segnatamente dell’art. 907 c.c.) e che ledesse il decoro architettonico dell’edificio, poiché, per i materiali da cui era composta, per le sue dimensioni e per la sua innegabile evidenza, non si inseriva nell’aspetto armonico della facciata, producendo un “risultato esteticamente sgradevole” (cfr. sentenza pag. 10 e 11).

Pur considerando che l’opera era stata impiantata su un prospetto secondario del fabbricato, ha però stabilito che ne alterava la sagoma modificando l’aspetto del muro condominiale in violazione dell’art. 1120 c.c., essendo inoltre in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico locale, che vietava l’apposizione di canne fumarie esterne alle murature.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale sostanzia una modifica della cosa comune conforme alla sua destinazione, che ciascun condomino – pertanto – può apportare a sue cure e spese, ma a condizione che non impedisca l’uso paritario delle parti comuni, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro architettonico, ipotesi – quest’ultima – che si verifica non già quando si mutano le originali linee architettoniche, ma quando la nuova opera si rifletta negativamente sull’insieme dell’aspetto armonico dello stabile (Cass. 17072/2015; Cass. 18350/2013; Cass. 6341/2000).

Non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall’innovazione, abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale decoro sia stato già compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano pregiudicate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità (Cass. 10350/2011; Cass. 14455/2009; Cass. 8830/2008; Cass. 27551/2005; Cass. 6496/1995).

Non esclude l’illegittimità dell’opera il fatto che essa sia stata apposta su una parete retrostante o in modo non visibile dalla strada principale, venendo in rilievo la violazione oggettiva dell’estetica del fabbricato data dall’insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile e gli imprimono una determinata fisionomia ed una specifica identità, mentre il rilievo da attribuire al grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell’edificio, muta da caso a caso, e non esclude di per sé la violazione, configurabile anche riguardo ad opere interne al fabbricato, fermo che il relativo apprezzamento è rimesso al giudice di merito ed è sindacabile solo per vizi di motivazione (Cass. 1718/2016; Cass. 851/2007; Cass. 10350/2011).

Infine, la circostanza che l’opera fosse stata autorizzata dall’amministrazione comunale non ne impediva la demolizione, poiché la regolarità dell’opera da punto di vista urbanistico non poteva incidere negativamente sui diritti degli altri condomini (Cass. 20985/2014; Cass. 1936/1977).

Non sussistendo quindi la denunciata violazione di legge e risultando l’opera comunque illegittima riguardo alla lesione del decoro architettonico, è superfluo stabilire se potesse operare in ambito condominiale la disciplina di cui all’artt. 907 c.c., così come ritenuto dalla decisione impugnata, non potendone comunque conseguire la cassazione di detta pronuncia.”

© Massimo Ginesi 28 novembre 2018 

art. 1127 cod.civ.: sopraelevazione e aspetto architettonico.

La corte di legittimità (Cass.Civ.  sez.VI-2 ord. 12 settembre 2018 n. 22156 rel. Scarpa)   ritorna sui differenti concetti di aspetto e decoro architettonico, cod.civ. riguardo alla tutela  accordata dal codice in caso di sopraelevazione: il nuovo corpo  – per essere lecito – deve  rispettare le linee estetiche del fabbricato, inserendosi armonicamente nel suo aspetto complessivo.

La vicenda riguarda la demolizione di una veranda in vetro e alluminio  realizzata sulla terrazza sommitale di un fabbricato romano, ritenuta dai giudici di merito illecita in quanto destinata ad alterare l’aspetto complessivo dell’edificio, pronuncia che ha resistito al vaglio della Cassazione, che ha osservato:

E’ noto come l’art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell’edificio che non la consentono, ovvero dall’aspetto architettonico dell’edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti.

L’aspetto architettonico, cui si riferisce l’art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l’intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.

Il giudizio relativo all’impatto della sopraelevazione sull’aspetto architettonico dell’edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile condominiale, e verificando l’esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato (cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2, 15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048; Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865;    Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).

D’altro canto, questa Corte ha anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l’una dall’altra, sicché anche l’intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. Sez. 6 – 2, 25/08/2016, n. 17350).

Ora, perché rilevi la tutela dell’aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell’art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che l’edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia.

Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento.

Ciò premesso, è agevole osservare che la Corte di Roma, riconoscendo — in conformità ai principi sopra ricordati – il carattere lesivo dell’aspetto architettonico della veranda realizzata da N. T., ha fornito una motivazione adeguata e pienamente condivisibile alla stregua del comune senso estetico, sottolineando come il manufatto disperda quella uniformità che attribuisce all’edificio un aspetto ancora ordinato e dignitoso.

La preesistenza di una veranda, oggetto di precedente giudizio, è stata correttamente ritenuta non determinante dalla Corte d’appello, perché essa non rende certamente ininfluenti gli ulteriori fatti lesivi e, quindi, non ne può costituire valida giustificazione.”

© massimo ginesi 14 settembre 2018 

abbattimento barriere architettoniche e tutela del diritto di proprietà

L’abbattimento delle barriere architettoniche è attività favorita dalla legge anche in condominio, dapprima con a L. 13/1989 e poi con una lettura giurisprudenziale che ha a lungo sottolineato come tali iniziative siano volte ad attuare la funzione sociale della proprietà prevista dall’art. 42 Cost.

In realtà tale favore (che il legislatore del 2012 nel novellare l’art. 1120 cod.civ. ha ridotto, aumentando i relativi quorum deliberativi) va contemperato con la tutela del diritto dei proprietari (ergo, dei condomini), che hanno comunque diritto di precludere l’installazione ove la stessa violi il disposto dell’art. 1120 u.c. cod.civ.

Ne deriva che se da un lato il diritto di proprietà  potrà subire una compressione  a fronte di uno scopo nobile come l’abbattimento delle barriere architettoniche, non sussiste affatto un diritto assoluto del disabile all’installazione di strumenti atti a migliorare la sua mobilità, sì che il giudice è tenuto a contemperare le due esigenze contrapposte con una lettura costituzionalmente orientata

E’ quanto emerge da un recente provvedimento Trib. Massa 6 giugno 2018 reso a conclusione di un procedimento ex art 702 bis c.p.c.

A scioglimento della riserva assunta all’udienza del 27 marzo 2018

Ritenuto che, con riguardo al petitum principale di cui al ricorso introduttivo, sia cessata la materia di contesa per ammissione della stessa attrice, posto che il condominio ha deliberato – in data successiva alla introduzione della causa – di non frapporre ostacoli all’installazione dell’ascensore.

Ritenuto tuttavia che debbano essere respinte le altre domande avanzate da parte attrice, per le ragioni che seguono.

Quanto alla richiesta di risarcimento del danno ex art 2043 e 2059 c.c., essa appare del tutto nuova ed avanzata solo all’udienza del 27 marzo 2018, come tale tardiva e inammissibile, posto che la sommarietà del rito non vale a mutare i principi generali delineati dall’art. 163 c.p.c., espressamente richiamato dall’art. 702 bis c.p.c.,di talchè si dovrà comunque ritenere vietata la mutatio libelli; a tal proposito il combinato disposto dagli artt. 702 bis e 702 ter c.p.c. indica un iter procedurale che non prevede momenti ulteriori, rispetto alla introduzione della domanda, in cui si possano o debbano precisare le conclusioni, posto che per la natura del rito e l’assenza di necessità istruttorie, la causa va in decisione (salvo la sussistenza di domande riconvenzionali e chiamateincausa)sugliassuntiinizialidelleparti;l’informalità individuata dall’art. 703 comma V c.p.c., che appare riferirsi unicamente al rito e alle attività istruttorie, appare inidonea a superare i parametri preclusivi che valgono nel rito ordinario circa l’integrazione e la modifica delle domande.

Allo stesso modo appare del tutto inammissibile la richiesta di condanna ex art 96 I comma c.p.c. poiché non è dato ravvisare alcuna posizione processuale ostativa o temeraria in colui che non si è costituito in giudizio, mentre – in forza di quanto si esporrà di seguito – non paiono ravvisabili neanche i presupposti per irrogare la condanna (ascrivibile ai c.d. indennizzi punitivi) ex art 96 III comma c.p.c.

Cessata la materia del contendere sulla installazione dell’ascensore, la ricorrente chiede di valutare la soccombenza virtuale del convenuto, onde ottenere condanna dello stesso alla refusione delle spese di questo giudizio, sull’assunto di una condotta ostativa del condominio che avrebbe gravemente violato e compromesso diritti costituzionalmente garantiti.

Tuttavia tale raffigurazione non può essere condivisa, così come non può ritenersi – dalla disamina delle delibere condominiali prodotte dalla stessa ricorrente – che la condotta del condominio abbia assunto valenza meramente ostruzionistica e defatigatoria.

Va infatti rilevato che, se da un lato i principi costituzionali espressi dagli artt. 32 e42 della carta fondamentale tutelano la salute e sottolineano la funzione sociale della proprietà, lo stabilire i modi in cui tale funzione potrà essere assolta è stato demandato dal legislatore costituzionale alla legge.

Al riguardo il testo di riferimento è senza dubbio la L. 13/1989 e, assai meno, il novellato art. 1120 c.c. che – rispetto a principi di rilevanza costituzionale, quali la tutela della salute e la solidarietà sociale, dei quali l’abbattimento delle barriere architettoniche rappresenta certamente un aspetto rilevante – ha inopinatamente innalzato nuovamente i quorum deliberativi per le innovazioni che perseguono tali fini, con ciò evidenziando una concorrente e rinnovata tutela anche del diritto dominicale.

Con riferimento all’odierno contendere non può inoltre dimenticarsi che – pur adottando una lettura ampia e guardando con maggior favore alle iniziative volte a predisporre meccanismi agevolativi per i disabili – lo stesso legislatore del 1989 ha finito per porre un limite assai prosaico ai dichiarati e perseguiti scopi sociali, mantenendo ferma l’applicabilità dell’art. 1120 comma IV c.c. con riferimento alle innovazioni vietate, sì che – infine – le esigenze di tutela sociale delle persone svantaggiate sotto il profilo motorio finisce per doversi confrontare sullo stesso piano con i parametri di tutela della proprietà (decoro architettonico dell’edificio, pari uso dei condomini, inviolabilità del diritto dominicale dei singoli), cedendo il passo ove tali valori – assolutamente privatistici e scevri di ogni connotazione solidaristica – ne risultino lesi.

Di talché non sussiste affatto un diritto assoluto e preminente del disabile ad installare in condominio strumenti di ausilio, sussistendo eventualmente una pretesa, da valutare in ottica ampia e alla luce dei principi costituzionali e primari sopra ricordati, e da raffrontare con i parimenti legittimi diritti (anch’essi costituzionalmente garantiti) dei singoli condomini titolari dei correlativi diritti reali.

In una lettura del diritto di proprietà costituzionalmente orientata, ai sensi dell’art. 42 Cost., volta a contemperare il diritto soggettivo dei singoli condomini con la funzione sociale che i loro beni sono chiamati a svolgere, i giudici di legittimità hanno sempre dato interpretazione ampia alle facoltà del singolo di comprimere il diritto di  godimento al fine di realizzare opere volte all’abbattimento delle barriere architettoniche, dovendosi tuttavia tale facoltà arrestare ove quella compressione si traduca in una lesione della effettiva possibilità di utilizzo del bene comune o individuale, lesione che può essere integrata anche da una significativa compromissione estetico/funzionale (Cass.civ. sez. VI-2 ord. 14 settembre 2017 n. 2133)

Il fatto che la ricorrente intendesse procedere in via autonoma all’installazione dell’ascensore, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ, non sottrae il suo operato alla valutazione testè menzionata, che la giurisprudenza ha delineato per gli interventi innovativi decisi dalla maggioranza, mutando – ove proceda il singolo – solo l’imputazione della spesa ma non i criteri generali che sovraintendono alla esecuzione dell’opera.

In tal senso è infatti orientato l’art. 1122 cod.civ., specie dopo l’intervento del legislatore del 2012, che è volto proprio a consentire al condominio e ai condomini di conoscere tali modalità onde attivarsi tempestivamente per farvi fronte ove le ritengano lesive dei diritti comuni o dei singoli; non è infatti prevista la necessità di alcuna autorizzazione assembleare per intervenire ai sensi dell’art. 1102 c.c,  restando tuttavia salva la possibilità dell’amministratore o dei singoli di reagire ad eventuali iniziative che ritengano vietate o comunque illecite.

A tale attività di valutazione e comparazione pare essere improntata la condotta del condominio, poiché dalle delibere (in particolare 1.7.2017 e 23.9.2017) emerge una ampia dialettica fra le parti, volta non già ad impedire alla R. di installare l’impianto quanto a salvaguardare il decoro e la fruibilità dell’edificio condominiale e delle parti comuni soggette alla installazione.

Dalla documentazione prodotta dalla ricorrente non emerge una volontà prettamente ostruzionistica del condominio, quanto piuttosto un’attenzione della compagine condominiale a rendere l’intervento meno invasivo possibile, suggerendo eventuali soluzioni alternative quali il servoscala (anche interno, come prospettato alla assemblea del 23.9.2017, rifiutato dalla ricorrente per generiche ragioni di salute).

A tal proposito non può essere ritenuta esaustiva e dirimente né la documentazione prodotta dalla ricorrente che rimane mero atto di parte (tanto più che la stessa non ha neanche ritenuto di allegare gli elaborati grafici e progettuali dei propri tecnici), posto che era comunque pieno diritto del condominio valutare se non sussistessero alternative ugualmente soddisfacenti delle necessità della ricorrente: non appare infatti necessario – per assolvere al superamento delle barriere architettoniche – l’installazione della miglior soluzione possibile, potendo essere utilmente adottabile anche soluzioni alternative che siano volte “quantomeno ad attenuare e non necessariamente ad eliminare – le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione” (Cass. Civ. sez. II 6 giugno 2018 n.14500).

Né appare convincente e del tutto pertinente la certificazione medica che sconsiglia l’uso di servoscala, in quanto da una parte generica e sfornita di qualunque motivazione (certificato Dr. C 18.1.2018) e, dall’altra, sorretta da valutazione del tutto ipotetica, che peraltro non spiega per quale ragione l’ascensore sarebbe di diversa utilità e di maggior protezione rispetto al montascale (certificato dr. M 12.1.2018).

Va rilevato che la certificazione allegata dalla stessa ricorrente indica patologie ed esiti diagnostici che paiono presupporre un costante accompagnamento, sì che non si comprende quale aggravamento del rischio porterebbe l’adozione di un servoscala, mentre alcuna valenza possono avere i maggiori costi di manutenzione e la più rapida deteriorabilità di tale impianto, lamentati dalla R, ove lo stesso risulti idoneo adassolvere all’ausilio per la mobilità e, al contempo, salvaguardi maggiormente i beni e diritti comuni.

Ancora meno convincenti appaiono le osservazioni della difesa di parte attrice relative a problemi atmosferici per l’utilizzo del montascale, posto che – come si è già rilevato – laricorrentepareaverrifiutatoanchequello internoechein ogni caso la stessa afferma di trascorrere “ i mesi caldi da aprile a settembre presso l’appartamento di cui trattasi”, periodo in cui l’eventualità di avversità atmosferiche appare tendenzialmente di scarsa rilevanza ed incidenza.

Dai documenti allegati al ricorso non si evince dunque la volontà meramente ostruzionistica né la totale infondatezza delle obiezioni del condominio, che paiono invece rispondere al legittimo esercizio di un diritto derivante dal combinato disposto dagli artt. 1102 e 1122 c.c., sì che le ragioni in forza delle quali oggi la ricorrente richiede la condanna del condominio appaiono fondate su mere e unilaterali affermazioni di parte, così come mere allegazioni di parte inidonee a costituire prova, appaiono le osservazioni tecniche (doc.20) prodotte che, in assenza dei relativi progetti, rendono in questa sede impossibile qualunque valutazione oggettiva sulla incidenza dell’impianto.

L’onere della prova circa i fatti costitutivi della pretesa azionata incombeva comunque alla ricorrente, anche ai soli fini della valutazione circa la soccombenza virtuale, onere che non si può ritenere assolto.

Il deliberato finale del condominio in data 10.3.2018 non potrà, come invece pretende l’attrice, essere ritenuto indicativo di alcun riconoscimento o della fondatezza della domanda, poiché quella decisione assembleare appare piuttosto una ponderata scelta che oscilla fra valutazioni di carattere patrimoniale sulla prosecuzione del contenzioso e ragioni di opportunità e disponibilità nell’ambito dei normali rapporti interpersonali  e condominiali, laddove si riconosce “ a malincuore” e per “la volontà di chiudere definitivamente l’annosa questione” la possibilità di procedere alla installazione secondo una delle soluzioni indicate, con materiali a minor impatto esteticopossibile.

Ai fini della valutazione della condotta delle parti non appare significativa neanche l’offerta della ricorrente – dalla stessa più volte indicata quale mero atto di disponibilità personale – di far subentrare in futuro eventuali condomini che desiderassero utilizzare l’impianto, essendo ciò specifico obbligo previsto dall’art. 1121 III commac.c

E’ di intuitiva evidenza, infine, che la scelta del Condominio di non resistere in giudizio non significa necessariamente che lo stesso si sia riconosciuto ex ante soccombente né vale ad invertire alcun onere della prova, rimanendo la contumacia  condotta  a valenza neutra (Cass. Civ. sez. VI 24 febbraio 2017 n. 4871), tanto più alla luce della natura della domanda proposta dalla attrice, che presuppone “un’azione di accertamento del … diritto di servirsi della cosa comune nei limiti consentitidall’art. 1102 C.C.; e nella causa da loro promossa legittimi contraddittori potevano essere soltanto quei condomini che tale diritto avevano contestato, e non necessariamente tutti i condomini o il condominio” (Cass. Civ. sez. II 12 febbraio 1993 n. 1781)

Non paiono dunque sussistenti, neanche a livello virtuale, le ragioni che possono condurre ex art. 91 c.p.c. ad una condanna alle spese del convenuto, in assenza di prova da parte del ricorrente dei fatti costituitivi della propria pretesa iniziale P.Q.M. Visti gli artt. 702 bis e segg. c.p.c. Dichiara cessata la materia del contendere sulla domanda principale relativa alla installazione dell’ascensore. Respinge ogni altra domanda della ricorrente.”

sul tema possono essere ancora interessanti  e non superate le riflessioni di approfondimento svolte in un ormai lontano convegno presso  il Politecnico di Torino.

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© massimo ginesi 15 giugno 2018

canna fumaria in facciata: non occorre autorizzazione del condominio, che neanche può opporsi sic et simpliciter

L’uso del bene  comune facciata da parte dei singoli condomini è consentito ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., così che costoro potranno anche utilizzarlo per collocarvi una canna fumaria, purché non alterino il decoro dell’edificio,  non impediscano agli condomini di farne parimenti uso oppure non ledano i diritti soggettivi dei singoli condomini (violazione, quest’ultima,  che sono legittimati a far valere solo gli interessati).

Tale utilizzo del bene comune non è soggetto ad alcuna autorizzazione assembleare ma, ove siano rispettati i presupposti dell’art. 1102 cod.civ., avvieneiure proprio da parte del singolo; tuttavia il condomino che intende intervenire in tal modo è tenuto a comunicare all’amministratore le modalità di realizzazione, ai sensi del novellato art. 1122 cod.civ., non già per ottenere una non prevista autorizzazione, quanto per cosentire – eventualmente – al condominio di approntare le opportune contestazioni e tutele.

A tali principi, consolidati in giurisprudenza eppure non sempre chiari alle compagini condominiali, si rifà una recente sentenza del Tribunale Arezzo 7.3.2018 n.279 .  

Il Tribunale toscano osserva che: “E’ quindi evidente che negare a priori ed in via anticipatoria l’attività del condomino appare un eccesso di potere non consentito all’assemblea e che determina la nullità della specifica determinazione assunta.

… Anche la delibera riguardante l’apposizione della canna fumaria a servizio dell’immobile della G.Z. appare affetta dai medesimi motivi di nullità.

Ricordiamo infatti come la giurisprudenza è ormai unanime nel ritenere che l’apposizione di una canna fumaria sull’esterno delle mura condominiali rappresenti una mera esplicazione del potere del singolo proprietario di uso del bene comune ai sensi dell’art. 1102 c.c., soggetto quindi solo (ove non sussistano limitazioni dettate da un regolamento contrattuale) ai limiti posti dal medesimo è infatti mero uso della cosa comune l’installazione di una canna fumaria in aderenza al muro comune (C. Cassazione 16 maggio 2000 n. 6341) tanto che la Suprema Corte ha precisato che “l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale individua una modifica della cosa comune conforme alla destinazione della stessa, che ciascun condomino – pertanto – può apportare a sue cure e spese, sempre che non impedisca l’altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell’edificio, e non ne alteri il decoro architettonico“.

Ebbene, sussistendo da parte del condominio come unica contestazione quella relativa al decoro architettonico, appare utile e sufficiente far riferimento alla consulenza redatta dall’arch. L., le cui conclusioni di carattere tecnico debbono considerarsi integralmente accolte e trascritte.

Il consulente ha precisato che “l’esecuzione del manufatto non lederebbe il decoro architettonico del condominio” ed ha individuato le modalità costruttive idonee ad evitare il più possibile di turbare le linee costruttive del condominio, costruendo l’opera in una posizione e con modalità esecutive tali che la stessa risulti solo marginalmente visibile e con accorgimenti formali atti ad integrarla nel tessuto murario esistente.

Si ribadisce poi, ai fini della condanna alle spese, che il condominio non aveva provveduto a richiedere al condomino un progetto ma si era limitato a negare sic ed simpliciter l’autorizzazione (autorizzazione peraltro non dovuta).

© massimo ginesi 18 aprile 2018

canna fumaria installata dal singolo: se lede l’estetica, sanatoria possibile solo con l’unanimità.

E’ quanto ha stabilito il TAR Bolzano sez. I 22 febbraio 2018 n. 62: ove il singolo proceda ad installare – senza titolo urbanistico – sulla facciata condominiale una canna fumaria a servizio della propria unità che, per tipologia e dimensioni esca dai parametri previsti dall’art. 1102 cod.civ., potrà ottenere sanatoria solo ove alleghi il consenso di tutti i condomini.

Ritenendo che la canna fumaria, realizzata sulla facciata dell’edificio, costituisse un intervento impattante sull’estetica dell’immobile p.ed. (omissis), il Comune, nel richiedere con lettera dd. 5.3.2015, n. prot. 16887 l’integrazione della documentazione prodotta, chiedeva anche la produzione del consenso unanime dei condomini proprietari dell’edificio in argomento.

A tale richiesta l’interessata forniva risposta con lettera dd. 30.3.2015, dando dimostrazione del consenso da parte dei condomini proprietari nella percentuale, su base millesimale, dei 2/3 dell’intera proprietà della p.ed. (omissis) anziché, come richiesto dal Comune, del consenso unanime degli stessi.

In carenza di un tanto, il Comune, con lettera dd. 13.04.2015, n. prot. 19669, comunicava alla R. G. S.r.l. i motivi ostativi al rilascio della concessione in sanatoria”

“Osserva il Collegio che l’impugnato provvedimento di rigetto si fonda sul presupposto che “L’installazione della canna fumaria per dimensioni e struttura, risulta essere intervento in facciata lesivo del decoro architettonico dell’edificio, necessitando del consenso condominiale all’unanimità dei comproprietari, non prodotto. La modifica dell’utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale, che vede nell’installazione di un impianto tecnico e soprattutto, per quanto qui rilevante, di una canna fumaria un presupposto indispensabile, è conseguentemente respinta. Parimenti e per le stesse motivazioni respinta l’istanza di scissione del procedimento con rilascio di concessione edilizia parziale per la modifica di utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale”.

Il rigetto viene dunque motivato in ragione del non comprovato consenso unanime dei proprietari della p.ed. (omissis)in ordine all’istanza di sanatoria della canna fumaria di espulsione all’esterno dei fumi prodotti nel locale interrato p.m. 12, trattandosi di intervento in facciata lesivo del decoro architettonico dell’edificio.

Ravvisando un rapporto di pregiudizialità della sanatoria della canna fumaria rispetto alla sanatoria della modifica dell’utilizzazione della p.m. 12 da accessorio (cantine) a principale (locale ricettivo ad uso principale, id est sala da pranzo e cucina), il Comune ha conseguentemente denegato anche la seconda e non ha accolto l’istanza di scissione del procedimento.

La ricorrente contesta la richiesta del Comune di allegare il consenso “unanime” dei condomini ed invoca la previsione di cui al primo comma dell’art. 1102 cc che stabilisce che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”, deducendo che la maggioranza di 2/3 dei millesimi dei proprietari della p.ed. (omissis) (“Condominio (omissis)”) ha autorizzato il signor Ma. Ti. “al mantenimento dell’installazione del condotto di espulsione fumi ( ….. ) della cucina dell’attività ristorativa svolta nei locali ubicati nelle porzioni materiali n. 3 e n. 12 di proprietà dello stesso, in conformità alle prescrizioni dettate dall’Ufficio Igiene” (cfr. allegato al doc. n. 7).

Nel caso di specie, come dettagliatamente motivato nel contestato provvedimento, il Comune ritiene che la canna fumaria in argomento rechi pregiudizio al “decoro architettonico” dell’edificio p.ed. (omissis), trattandosi, diversamente dalle canne fumarie tradizionali, di un condotto di forma rettangolare avente le apprezzabili dimensioni di 700 x 350 mm. (con l’eventuale mascheratura proposta dalla ricorrente assumerebbe le maggiori dimensioni di 850 x 450 mm.), che si estende per un’altezza complessiva di 14,5 metri lineari.

Il suddetto condotto di espulsione fumi è stato realizzato “nell’angolo sud – est della facciata sud dell’edificio in p.ed(omissis), con fuoriuscita del condotto dalla p.m. 3 e con collegamento interno con la p.m. 12, p.ed. (omissis), (omissis), risp. nell’angolo nord – est della terrazza sulla p.ed. (omissis), tutte CC Merano” senza titolo abilitativo (cfr. doc. n. 4 del Comune).

Orbene, in base alla pacifica giurisprudenza, per “decoro architettonico” deve intendersi l’estetica dell’edificio, costituita dall’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico (cfr. Cass. Civ. 1718/2016; 10350/11; 27551/05), e per innovazione lesiva del decoro architettonico si intende non solo quella che alteri le linee architettoniche dell’edificio, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (cfr. Cass. Civ. n. 20985/2014).

In ordine alla collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio la giurisprudenza amministrativa afferma che “l’art. 1102 c.c., relativo all’uso della cosa comune, va interpretato (per altro conformemente al costante orientamento del giudice civile) nel senso che il singolo condomino può apportare al muro perimetrale tutte le modificazioni che consentano di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compreso l’inserimento nel muro di elementi estranei e posti al servizio esclusivo della sua porzione”, tuttavia non senza precisare “purché (un tanto n.d.r.) non impedisca agli altri condomini l’uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità” (cfr., Cassazione civ., 16.5.2000, n. 6341; Cons. Stato, V, n. 11/2006; TAR Veneto, Sez. II, n. 1540/2012; TAR Lazio – Latina, Sez. I, n. 413/2012; TAR Firenze, Sez. III, 28.10.2015, n. 1475).

Nel caso di specie, l’intervento in sanatoria, riferentesi alla canna fumaria, non consiste nella mera sostituzione, sic et sempliciter, di una canna di espulsione fumi già esistente in passato, bensì nella realizzazione di un nuovo manufatto, che si differenzia decisamente, per dimensioni ed estensione, dal precedente, e tale da assumere rilevanza sia per la vastità dell’intervento, sia per l’impatto sull’aspetto esteriore dell’edificio p.ed. (omissis).

Si tratta, pertanto, di un manufatto che, invero, coinvolge gli interessi e i diritti degli altri condomini sia perché pregiudica l’armonia e il decoro della facciata dell’edificio p.ed. (omissis) (cfr. TAR Ancona, 9.1.2015, n. 10), sia perché la funzione della canna di espulsione – che è quella di convogliare verso l’esterno fumi, vapori e odori vari derivanti, nel caso di specie, dall’utilizzo della cucina ubicata al piano interrato – incide sugli interessi e diritti dei condomini circostanti (TRGA Bolzano, 26.2.2015, n. 57).

È del resto pacifico che l’intervento edilizio richiesto in sanatoria dalla ricorrente coinvolge la proprietà comune, insistendo anche sulla facciata della p.ed. (omissis), che, per l’appunto, è comune ai proprietari delle singole unità immobiliari (art. 1117, comma 1, n. 1 cc).

Come affermato dalla giurisprudenza, la necessità di acquisire il previo assenso dei condomini risponde (anche) all’esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie (cfr. TAR Reggio Calabria, 6.2.2017, n. 85).

In riferimento alla relativa censura, osserva il collegio che la dimostrazione della disponibilità del consenso unanime dei condomini rientra, invero, nell’ambito dell’istruttoria preliminare tesa alla verifica della sussistenza, in capo al richiedente, della necessaria legittimazione ad ottenere il titolo edilizio (è opportuno precisare, per inciso, che si tratta di un’attività che, conformemente all’insegnamento della giurisprudenza, non ha comportato, nel caso di specie, alcun onere istruttorio eccessivo a carico dell’amministrazione).

Pertanto tale attività, riguardando la mera regolarità formale dell’istanza di concessione edilizia (nel caso di specie in sanatoria), si distingue da quelle elencate all’art. 70 L.U.P., soggette ex lege al parere della commissione edilizia comunale, cui spetta esprimersi riguardo agli aspetti urbanistici, edilizi e architettonici del progetto presentato dall’istante.”

© massimo ginesi 19 marzo 2018