il cortile condominiale: un concetto ampio.

Il cortile quale bene identificato dall’art. 1117 cod.civ. è concetto decisamente più ampio della configurazione  che comunemente si intende per tale area.

Lo afferma Cass. civ. II sez. 31 gennaio 2017 2532 rel. Scalisi. “ il cortile, tecnicamente, è l’area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici,  che serve a dare luce e aria gli ambienti circostanti. Ma avuto riguardo alla ampia  portata della parola e, soprattutto, alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell’edificio – quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi – che, sebbene non menzionati espressamente nell’articolo 1117 codice civile, vanno ritenuti comuni a norma della suddetta disposizione (Cass. n. 7889 del 9/6/2000). La comunione condominiale di beni di cui all’articolo 1117 codice civile presunta e tale presunzione legale può essere superata dalla prova di un titolo contrario, che si identifica nella dimostrazione della proprietà esclusiva del bene in capo un soggetto diverso

© massimo ginesi 3 febbraio 2017

scale in supercondominio: di chi sono e a che titolo? quanti problemi…

Accade con frequenza che un immobile posto in un edificio complesso,  ascrivibile alla fattispecie del c.d. supercondominio (oggi espressamente disciplinata dall’art. 1117 bis. cod.civ. )  e munito di più ingressi  distinti da autonomi numeri civici,  sia servito dalle scale che si dipartono  sia dall’uno che dall’altro androne.

Le une servono un’ala dell’edificio e le altre la restante parte, tuttavia una specifica unità immobiliare si giova – per la sua conformazione – di entrambe e, poiché nel suo titolo di acquisto si specifica che su una delle scale ha “diritto di passo”, il titolare ritiene di essere esonerato dalle spese della scala su cui ritiene di transitare solo a titolo di servitù di passo.

Nel fabbricato, proprio per la sua complessità (e litigiosità), da tempo non si riescono ad approvare le tabelle millesimali e così le diverse spese – ivi comprese quelle per i lavori straordinari a detta scala – vengono ripartite, salvo conguaglio, in forza di una tabella provvisoria e  mai approvata, che tuttavia attribuisce anche a quel condomino i millesimi scale su entrambi i manufatti.

Costui impugna le delibere, assumendone l’illiceità e chiedendo al Tribunale – oltre alla cassazione dei deliberati –  che venga accertata che la proprietà della scala incriminata è da riconoscere solo  in capo ai condomini del numero civico X , che in suo favore sussiste su tale scala unicamente di una servitù di passo, con conseguente esonero dalle spese e – in via subordinata – che vengano adottate in via giudiziale  le tabelle millesimali che il condominio, nonostante diversi tentativi, non è mai riuscito ad approvare.

Il Tribunale di Massa, con sentenza parziale 5 dicembre 2016, si pronuncia sulle diverse domande, evidenziando diversi profili che possono risultare di interesse applicativo generale.

Il giudice di merito osserva che: “La domanda di parte attrice risulta fondata unicamente in ordine alla richiesta di determinazione dei millesimi in via definitiva e solo in tal senso dovrà e potrà essere accolta.
Risultano invece infondate le domande dell’attrice relative all’accertamento sulla proprietà altrui della scala cui accede alla propria unità dalla via R. A. 13, sull’assunto che ella sarebbe proprietaria unicamente della scala a proprio esclusivo servizio che affaccia sul civico 7 sempre della via R.A., godendo sull’altro manufatto unicamente di servitù di passo nonché  quelle conseguenti e relative alla impugnazione della delibera 18.7.2009. “

a) la titolarità delle scale,  bene tendenzialmente comune. 

Il Tribunale si sofferma preliminarmente sulla natura delle scale quale bene necessariamente comune, salvo diversa qualificazione del titolo o in base alla funzione eventualmente limitata   ad alcuni condomini  cui siano destinate, laddove la funzione principale e comune di mobilità e accesso all’interno del complesso edilizio sia assolta da altro manufatto.

“…non può non rilevarsi come il complesso edilizio denominato oggi Condominio C. debba essere ascritto al genus dei fabbricati edilizi complessi, disciplinati dall’art. 1117 bis cod.civ. (così come introdotto dalla legge 220/2012) fattispecie in precedenza delineata – con esiti pressoché coincidenti – dalla prevalente giurisprudenza.
Si tratta indubbiamente di fabbricato dalle caratteristiche peculiari, con parti destinate a fornire utilità maggiore (o esclusiva) ad alcuni dei condomini, ma tale ultimo aspetto ove esistente e rilevante dovrà essere risolto nell’ambito dell’art. 1123 III comma cod.civ., senza che possa fungere da  presupposto logico e necessario per affermare l’esistenza di condominii distinti.
Risulta infatti che l’intero complesso immobiliare, per ciò intendendo l’intero involucro edilizio cui si accede dai civici 7 e 13 della via R.A., seppure articolato su più corpi di fabbrica e con coperture parzialmente autonome, non si distingua in unità edilizie funzionalmente autonome e separate dalle altre ma comporti una commistione delle strutture murarie principali, delle falde di copertura, degli ingressi e delle parti comuni che risultano, di volta in volta, destinate a fornire una utilità indistinta all’intero complesso, cui – in forza della norma sopra richiamata – devono ritenersi comuni per funzione ex art. 1117 nn. 1 e 3 cod.civ. , ove ciò già non risulti dal titolo.
La stessa unità immobiliare della attrice risulta posizionata in maniera trasversale rispetto ai due civici contraddistinti dal 7 e dal 13, sicché può accedere da entrambi gli androni e fruire delle scale posizionate in ciascuno, così come – elemento che si rivela ulteriormente qualificante – si estende, seppure parzialmente, anche sotto la copertura della porzione di edificio riconducibile al civico 13 e servita dalla scala oggetto di contesa (poco importa se con verande o portici o stanze, rilevando a tal fine unicamente il perimetro della proprietà esclusiva servita dalle parti comuni).
Tali elementi sarebbero sufficienti a considerare l’immobile un organismo edilizio complesso (c.d. supercondominio), che vede in comune – a mente del disposto di cui agli artt. 1117 e 1117 bis cod.civ. – le parti comuni necessarie alla sua stessa sussistenza.
Non vi è dubbio che, fra queste, vi siano – per costante giurisprudenza – le scale, che non solo servono di accesso alle singole unità, ma sono ritenute elemento necessariamente comune negli edifici multipiano: “Le scale e i relativi pianerottoli, negli edifici in condominio, costituiscono strutture essenziali del fabbricato e rientrano, in assenza di una diversa disposizione, fra le parti comuni, anche se sono poste a servizio solo di alcuni proprietari dello stabile.” Cassazione civile, sez. VI, 09/03/2016,  n. 4664
Nel caso di specie non risultano titoli, anche alla luce di quanto si dirà in appresso, che attribuiscano le scale in proprietà specifica ad alcuni condomini, mentre esiste con ogni evidenza una destinazione funzionale delle scale oggetto di contesa ad accedere alla unità della attrice, nonchè al tetto che in parte la copre in quella porzione di fabbricato. Ad ulteriore connotazione della funzione collettiva dell’androne del civico 13 e delle scale che dallo stesso si dipartono, va osservato che diversi impianti funzionali all’unità della attrice trovano ivi allocazione.
Non potrà dunque non ritenersi comune anche a detta unità sia l’androne che le scale che hanno accesso dal civico 13 di via R.A. e che svolgono funzione comune all’interno del Condominio C. complessivamente inteso.”

b) eventuali ipotesi di titolarità parziale 

“Semmai, per quelle parti che risultino unicamente destinate a servire solo alcuni condomini, varrà l’esclusione in forza dell’art. 1123 III comma cod.civ. e della conseguente giurisprudenza che – in tal caso – ravvisa anche una proprietà limitata ai soli soggetti che se ne giovano: “Le scale danno accesso alle proprietà esclusive e per tale ragione sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo, essendo necessarie all’uso comune. Le obiettive caratteristiche strutturali, per cui dette scale servono in modo esclusivo all’uso o al godimento di una parte dell’immobile, ne fanno venire meno in questo caso il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene vince l’attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario.” Cassazione civile, sez. II, 19/04/2016,  n. 7704
In sede di redazione delle tabelle il tecnico dovrà dunque valutare se dette scale, in quanto inidonee a rendere una funzione per taluni dei condomini (anche solo potenziale per l’accesso ad una porzione di tetto che li riguarda), debbano ritenersi di proprietà solo di alcuni, così come dovrà valutare – ai fini della  caratura millesimale – l’effettiva entità della proprietà servita dalla parte comune (in ossequio ai principi stabiliti da Cass. 1451/2014).
Si tratta tuttavia di principi che attengono alla effettiva imputazione della spesa ai singoli condomini relativamente a parti comunque comuni e non già di circostanze che si rivelino idonee ad incidere sulla titolarità delle stesse.
Con la considerazione ulteriore che l’utilità deve essere valutata in senso ampio, astratto e potenziale, per quelle stesse ragioni che attribuiscono anche ai fondi che hanno accesso autonomo dalla strada le relative spese, seppure nella dimidiata misura di cui all’art. 1124 cod.civ. (Cass. n. 4419/2013; n. 15444/2007)
Non vi è dubbio, dunque, che ai fini del giudizio, la scala per cui è controversia risulti con certezza rendere una funzione nei confronti della attrice e debba pertanto essere ritenuta comune anche a costei.

C) il rilievo del titolo, proprietà o servitù?

“A superare tale qualificazione non valgono i titoli addotti dalla A., in forza dei quali l’attrice assumerebbe di essere mera titolare di una servitù di passo e di dover essere dunque esonerata dalle relative spese.
A tal proposito coglie nel segno la difesa della convenuta B., laddove ravvisa nell’atto notaio C. 1.7.1949 l’elemento costitutivo del Condominio C..
Con quella disposizione E.C.C., originaria unica proprietaria dell’intero complesso, cedeva per la prima volta ad un terzo – tal L. R. – una unità posta nel complesso immobiliare, creando così i presupposti per la nascita dell’edificio in condominio che sorge – senza necessità alcuna di atti costitutivi specifici o di regolamenti ad hoc – nel momento in cui almeno due unità immobiliari iniziano ad appartenere a soggetti diversi (Cass.Sez.II 19429/04).
In tale atto non emerge alcuna volontà della E.C.C. né di costituire servitù a favore della proprietà a lei rimasta (e che successivamente alienerà – in parte – al dante causa della odierna attrice) né tantomeno appare desumibile in alcun modo la volontà di dar luogo a più condominii separati, come afferma l’A., apparendo il richiamo al civico di accesso meramente descrittivo della unità effettivamente ceduta.
Non appare qualificante, in tal senso, neanche l’atto di vendita a C. – dante causa della odierna attrice e che acquista con atto notaio C.del 24.10.1953 – in cui il termine “diritto di passo” appare utilizzato in modo atecnico e meramente descrittivo, volto a qualificare unicamente la facoltà di accesso e uso dell’unità venduta anche dalla scala che diparte dal civico 13, che non a caso non è definita appartenete ad altro edificio ma semplicemente “secondaria”, ovvero intesa come manufatto appartenente al medesimo complesso immobiliare ma destinata, per funzione ed uso, a rendere utilità anche a quella specifica unità immobiliare compravenduta e, quindi, anche a lei comune, seppur in affiancamento ad altro accesso che si ritiene principale (rectius, personale).

D) la costituzione di servitù in condominio dopo la sua nascita

Del resto alla possibilità di costituire servitù sulle parti comuni da parte di E. C. C., una volta che il Condominio aveva iniziato ad esistere con l’atto del 1949, osta la circostanza che l’imposizione di pesi reali su beni ormai comuni non è più consentita all’originario unico proprietario in assenza del consenso degli altri condomini (ovvero, nella fattispecie, del R.).

E) riparto provvisorio e approvazione delle tabelle

Alla riconosciuta proprietà comune della scala de quo, consegue l’infondatezza della impugnativa delle delibere azionata con la domanda principale, anche alla luce dei seguenti principi:

  • è sempre consentito al condominio disporre un riparto provvisorio delle spese, su base proporzionale, al fine di procedere alle necessarie opere di manutenzione
  • le tabelle millesimali e comunque i criteri di riparto provvisori non richiedono approvazione all’unanimità, laddove si ispirino a criteri proporzionali assimilabili al disposto di cui all’art. 1123 cod.civ. (o, nella fattispecie, di cui all’art. 1124 cod.civ. ) e possono essere approvai con la maggioranza prevista dall’art. 1136 II comma cod.civ. (Cass. SS.UU 18477/2010), nel caso ampiamente raggiunta.
  • tutte le delibere sono sempre state assunte in via provvisoria, in attesa di approvazione di tabella millesimale definitiva, ivi compresa quella del 27.5.2011 (come espressamente risulta dal relativo verbale), circostanza quest’ultima che rende priva di fondamento anche l’eccezione relativa a cessazione della materia del contendere sollevata dal convenuto condominio.

F) il titolare di servitù usa le scale gratis?

Non sarà inutile rilevare che, anche ove per ipotesi si fosse voluto riconoscere l’esistenza di servitù a favore della attrice, non muterebbero le conseguenze concrete in ordine alla imputazione delle spese, circostanza comunque dirimente in ordine alla legittimità delle delibere impugnate: a mente dell’art. 1069 III comma cod.civ. ove le opere giovino anche al fondo servente costui deve partecipare alle spese (App.-Genova 5.1.2011) ed è plausibile che nel caso peculiare la modalità dei rispettivi contributi debba e possa essere modulata sul disposto dell’art. 1124 cod.civ.

G) domande di accertamento di diritti reali e litisconsorzio 

Sussisteva indubitabilmente legittimazione necessaria dei singoli condomini in ordine alla domanda di accertamento relativa a diritti reali sulle parti comuni, mentre sussiste pacificamente legittimazione autosufficiente del condominio per il giudizio relativo alla impugnativa.

H) la richiesta di adozione dei millesimi

Parimenti sussiste interesse del singolo condomino a veder adottata una tabella millesimale definitiva, volta al riparto delle spese in accordo con i principi codicistici (Trib. PAlermo, 22 marzo 2011).

il Giudizio è dunque destinato a proseguire: nella sentenza parziale il Tribunale “Dichiara che le scale di accesso del Condominio C., con accesso dal civico 13 della via R. A., costituiscono bene condominiale ex art. 1117 cod.civ. e sono comuni anche alla attrice C. A. 
respinge le domande relative alla impugnativa della delibera 18.7.2009
Dispone la remissione della causa in istruttoria e statuisce in ordine alla prosecuzione del giudizio relativo alla formazione delle tabelle millesimali come da separata ordinanza”

© massimo ginesi 2 febbraio 2017 

l’accessione nel possesso, un termine difficile per una fattispecie semplice.

Il codice civile, all’art. 1140,  individua con precisione  la nozione di possesso : “il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale”.

A quella situazione di fatto, modellata ad immagine di un diritto,  la legge ricollega conseguenze giuridiche connesse al decorso del tempo, note con il nome di usucapione: ove quel potere si protragga per oltre venti anni (nei casi ordinari) il possessore acquista a titolo originario il corrispondente diritto. (art. 1158 cod.civ. “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”)

Colui che usa come se fosse proprio un bene altrui, nel disinteresse del titolare, ne diventa effettivamente proprietario dopo venti anni di possesso ininterrotto.

Il periodo di venti anni può anche essere calcolato su più situazioni soggettive, laddove inizi in capo ad alcuni soggetti e prosegua in capo ad altri, sicché l’ultimo dei possessori può giovarsi – in alcuni casi – del periodo di possesso esercitato dai suoi danti causa, sommandolo al proprio: prevede l’art. 1146 cod.civ. che “Il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione. Il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti”

La prima ipotesi è definita successione nel possesso (ad esempio alla morte del padre i figli continuano a godere del bene), la seconda è definita accessione nel possesso (il soggetto che esercita il potere di fatto sulla cosa cede ad altri il bene su cui quel potere si esercita trasferendogli il possesso).

La Cassazione ha avuto di recente occasione di chiarire – ribadendo orientamenti consolidati – i limiti e le modalità con cui passa darsi luogo ad accessione: non è sufficiente la trasmissione del mero potere di fatto sulla cosa fra due soggetti ma ciò deve avvenire in forza di un titolo astrattamente  idoneo a trasferire anche il diritto ad immagine del quale quel possesso si esercita.

Corte di Cassazione, sez. II Civile,  30 gennaio 2017, n. 2295 Relatore Scalisi: Secondo il costante orientamento di questa Corte, in tema di accessione nel possesso, di cui all’art. 1146 c.c., comma 2, affinché operi il trapasso del possesso dall’uno all’altro dei successivi possessori e il successore a titolo particolare possa unire al proprio, il possesso del dante causa, è necessario che il trasferimento trovi la propria giustificazione in un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà o altro diritto reale sul bene; dal che consegue, stante la tipicità dei negozi traslativi reali, che l’oggetto del trasferimento non può essere costituito dal trasferimento del mero potere di fatto sulla cosa (Cass. 16-3-2010 n. 6353; Cass. 22-4-2005 n. 8502).
L’accessione del possesso, di cui all’art. 1146 c.c., comma 2, pertanto, opera con riferimento e nei limiti del titolo traslativo (e non oltre lo stesso), e in tali limiti può avvenire la “traditio”: all’acquisto deve, infatti, seguire l’immissione di fatto nel possesso del bene con il passaggio del potere di agire liberamente sullo stesso, e da tale momento si verificano gli effetti dell’accessione (Cass. 12-9-2000 n. 12034; Cass. 23-6-1999 n.6382; Cass. 3-7-1998 n.6489; Cass. 12-11-1996 n.9884).
Questa Corte ha, altresì, avuto modo di chiarire che, nell’azione di regolamento di confini, qualora il convenuto eccepisca l’intervenuta usucapione invocando l’accessione del possesso, deve fornire la prova dell’avvenuta “traditio” in virtù di un contratto, comunque, volto (pur se invalido e proveniente “a non domino”) a trasferire la proprietà del bene oggetto del possesso (Cass. 12-9-2000 n. 12034).

© massimo ginesi 1 febbraio 2017 

beni costituiti in trust ed esecuzione immobiliare.

 

L’istituto del Trust è sempre più diffuso e anche il Condominio deve ormai rapportavisi con frequenza, sia per quel che attiene alle modalità di convocazione del trustee, sia – soprattutto – per quel che attiene alle modalità di esecuzione ove sorgano morosità relative a tali beni.

La Cassazione ( Cass. civ. III sez. 27 gennaio 2017 n. 2043) affronta il problema in maniera approfondita: Questa premessa consente di affrontare la tematica delle modalità del pignoramento di beni conferiti in trust alla stregua della giurisprudenza già consolidata di questa Corte in ordine alla natura di quest’ultimo e che non si vede alcun valido motivo di modificare: istituto che è ivi costantemente definito non già quale ente dotato di   personalità giuridica, ma quale semplice insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’Interesse di uno o più beneficiari, formalmente intestati al trustee.

Infatti, con il trust alcuni beni vengono posti sotto il controllo di un fiduciario, il trustee, nell’interesse di uno o più beneficiari e per un fine determinato. Secondo quanto prevede l’art. 2 della Convenzione dell’Aja dell’lluglio 1985, resa esecutiva in Italia con la legge 16 ottobre 1989, n. 364, il vincolo di destinazione mantiene i beni in trust distinti dal patrimonio del trustee, cui è demandato di ‘amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee’ ; benché il trust non abbia personalità giuridica, dunque, il trustee è l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone   in esclusiva   del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione” (Cass. 22 dicembre 2015,   n. 25800).

Di conseguenza, è il trustee l’unica persona di riferimento con i terzi e non quale legale rappresentante, ma quale soggetto che dispone del diritto (Cass. 18 dicembre 2015, n. 25478; Cass. 20 febbraio 2015, n. 3456): e ciò in quanto l’effetto proprio del trust non è quello di dare vita ad un nuovo soggetto di diritto, ma quello di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito (Cass. 9 maggio 2014, n. 10105), sulla base delle ampie argomentazioni sviluppate nel precedenti di questa Corte, ai quali stima il Collegio opportuno dare continuità mediante un mero richiamo

Quale ulteriore conseguenza, va escluso che possa ritenersi in alcun modo il trust titolare di diritti e tanto meno destinatario di un pignoramento che abbia ad oggetto i medesimi: e l’applicazione di tale pacifica conclusione della giurisprudenza di questa Corte al campo delle esecuzioni civili porta all’ulteriore corollario che i beni conferiti nel trust debbono essere pignorati nei confronti del trustee, perfino a prescindere dall’espressa spendita di tale qualità, relegando ad una valutazione di mera opportunità – e quindi di mera facoltatività – un’apposita menzione dell’appartenenza di quelli ad una massa separata o segregata, quale in genere viene ricostruito il patrimonio che il trust compone.

Al   contrario,   un   pignoramento   che   colpisca   beni   che si prospettano nella – formale e separata – titolarità di un trust prospetta una fattispecie giuridicamente impossibile secondo il vigente ordinamento interno e, quindi, insanabilmente nulla per impossibilità di identificare un soggetto esecutato giuridicamente possibile, siccome inesistente e quindi insuscettibile tanto di essere titolare di diritti che – soprattutto e per quanto rileva ai fini della proseguibilità del relativo processo esecutivo – di subire espropriazioni (cioè coattivi trasferimenti) del medesimi.”

Le argomentazione spese sulla pignorabilità dei beni forniscono anche chiara ed inequivocabile riposa su chi sia il soggetto legittimato a partecipare attivamente alla vita condominiale.

© massimo ginesi 30 gennaio 2017 

il singolo condomino può pagare direttamente il terzo creditore del condominio?

Girando per il web alla ricerca di aggiornamenti si incappa, con inquietante frequenza, in letture approssimative delle pronunce che riguardano la materia condominiale.

Commenti imprecisi che tuttavia ci danno spunto – alcune volte – per riflettere su temi di deciso rilievo.

In realtà la sentenza 199/2017 , a firma di illustre relatore, rappresenta un interessante passaggio del percorso interpretativo – che da CAss. SSUU 9148/2008 arriva ai giorni nostri – sul tema della parziarietà  dell’obbligazione condominiale, cui devono oggi essere applicati i temperamenti di cui all’art. 63 disp.att. cod.civ.;  non contiene affatto il principio che si legge nella intestazione del commento.

Accadeva, nel caso all’esame della Corte, che un condomino avesse versato l’intero importo dei lavori all’appaltatore e pretendesse poi di agire, in via di regresso nei confronti degli altri condomini; tale azione presuppone la sussistenza di un obbligo solidale che la Suprema Corte ritiene non potersi  individuare in condominio  in virtù dei principi affermati dalle Sezioni unite del 2008, specie per vicende che sono regolate – ratione temporis – dalle norme non ancora modificate dalla L. 220/2012.

Tuttavia il problema del condomino che invece di versare all’amministratore la quota millesimale di propria competenza per alcuni lavori di manutenzione svolti nel condominio, la versi direttamente all’appaltatore – che ha svolto le opere e che vanta il relativo credito nei conforti del condominio – è stato espressamente affrontato dalla suprema corte in tempi non lontani.

La giurisprudenza non ha peraltro mai evidenziato un divieto quanto, semmai, l’inidoneità di quel pagamento a liberare il singolo.

Cassazione civile, sez. VI, 17/02/2014, n. 3636 ha affermato “Il condominio si pone, verso i terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei condomini, attinenti alle parti comuni, sicché l’amministratore è rappresentante necessario della collettività dei partecipanti, sia quale assuntore degli obblighi per la conservazione delle cose comuni, sia quale referente dei relativi pagamenti. Ne consegue che non è idoneo ad estinguere il debito “pro quota” il pagamento eseguito dal condomino direttamente a mani del creditore del condominio, se tale creditore non è munito di titolo esecutivo verso lo stesso singolo partecipante”.

Sul punto si è soffermato con interessanti riflessioni critiche, anche A. Scarpa in uno scritto del 2015 “Sempre la giurisprudenza (v. Cass., 17 febbraio 2014, n. 3636) ha affermato il principio secondo il quale, ponendosi il condominio, nei confronti dei terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini attinenti alle parti comuni, l’amministratore di esso assume la qualità di necessario rappresentante della collettività dei condomini, e ciò sia nella fase di assunzione degli obblighi verso i terzi per la conservazione delle cose comuni, sia, all’interno della medesima collettività condominiale, in quanto unico referente dei pagamenti ad essi relativi; se ne è fatta discendere la conclusione secondo cui il pagamento diretto eseguito dal singolo partecipante a mani del creditore del condominio non è idoneo ad estinguere il debito pro quota dello stesso relativo ai contributi ex art. 1123 c.c., a meno che il terzo creditore non si sia già munito di titolo esecutivo nei confronti del singolo condomino. Se allora il pagamento al terzo creditore deve indispensabilmente avvenire per il tramite dell’amministratore, dovrebbe per minima coerenza negarsi che il singolo condomino sia immediato debitore di quello, facendosi salva l’ipotesi in cui il terzo si sia ormai premunito di un titolo esecutivo verso quel determinato partecipante. Ove si ritenesse ancora che ciascun condomino sia direttamente obbligato verso il creditore della gestione condominiale, non si potrebbe obliterare l’interesse di quel debitore ad adempiere spontaneamente pro quota nelle mani del terzo, in modo da procurarsi la liberazione dal vincolo anche invito creditore, senza dover attendere, per assurdo, che questi consegua dapprima un titolo esecutivo, con modificazione aggravativa del debito (in relazione alla maturazione degli accessori), contrasto con il principio di correttezza e buona fede, nonché lesione del principio costituzionale del giusto processo, traducendosi l’ineliminabile soggezione del condomino alla domanda giudiziale del terzo, diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria, in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte pur sempre nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.” Quaderni SSM febbraio 2015  

anticipazioni effettuate dall’amministratore uscente: contro chi va promossa l’azione per il recupero?

E’ noto che la buona prassi amministrativa (e oggi anche i principi geniali sottesi alla L. 220/2012) sconsigliano l’amministratore dalla effettuazione di anticipazioni nell’interesse del Condominio.

Può tuttavia accadere, per ragioni assolutamente lecite, che al termine dell’incarico  risulti un credito dell’amministratore uscente nei confronti del Condominio.

E’ nota la giurisprudenza più recente (Cassazione n. 10153/2011) in cui si è osservato  che la differenza negativa risultante dal rendiconto non costituisce automaticamente prova dell’anticipazione da parte dell’amministratore, sicché costui dovrà dare prova piena degli esborsi sostenuti sia relativamente all’an che al quantum.

Ammesso che tale prova sia fornita, è interessante ripercorrere i limiti e le modalità del recupero, così come delineate in una recente sentenza di merito (Trib. Massa  25/11/2016 n. 1095) : “il credito per le somme anticipate nell’interesse del Condominio dall’amministratore trae origine da un rapporto di “mandato” che intercorre con i condomini (cfr. per tutte: Cass. civile, sez. II, 04 ottobre 2005, n. 19348; Cass. civile, sez. II, 16 agosto 2000, n. 10815).
Precisamente, l’amministratore di condominio – nel quale non è ravvisabile un ente fornito di autonomia patrimoniale, bensì la gestione collegiale di interessi individuali, con sottrazione o compressione dell’autonomia individuale – configura un “ufficio di diritto privato” oggettivamente orientato alla tutela del complesso dei suindicati interessi e realizzante una cooperazione, in ragione di autonomia, con i condomini, singolarmente considerati, che è assimilabile, pur con tratti distintivi in ordine alle modalità di costituzione ed al contenuto ‘sociale’ della gestione, al “mandato con rappresentanza”, con la conseguente applicabilità, nei rapporti tra amministratore ed ognuno dei condomini, dell’art. 1720 comma 1 c.c., secondo cui il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni fatte nell’esecuzione dell’incarico: norma che, peraltro, esprime un principio comune nella disciplina dei rapporti di cooperazione, indipendentemente dalla loro peculiarità (cfr. in tal senso: Cass. civile, sez. II, 12 febbraio 1997, n. 1286; Cass. civile, sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530).
Tuttavia, l’amministratore di condominio non ha – salvo quanto previsto dagli artt. 1130 e 1135 c.c. in tema di lavori urgenti – un generale potere di spesa, in quanto spetta all’assemblea condominiale il compito generale non solo di approvare il conto consuntivo, ma anche di valutare l’opportunità delle spese sostenute dall’amministratore; ne consegue che, in assenza di una deliberazione dell’assemblea, l’amministratore non può esigere il rimborso delle anticipazioni da lui sostenute, perchè, pur essendo il rapporto tra l’amministratore ed i condomini inquadrabile nella figura del mandato, il principio dell’art. 1720 c.c. – secondo cui il mandante è tenuto a rimborsare le spese anticipate dal mandatario – deve essere coordinato con quelli in materia di condominio, secondo i quali il credito dell’amministratore non può considerarsi liquido ne’ esigibile senza un preventivo controllo da parte dell’assemblea (Cass., Sez. 2, 27 giugno 2011, n. 14197).
In particolare, si deve osservare che, nascendo l’obbligazione restitutoria a carico dei singoli condomini nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione legittima e per diretto effetto di essa, la situazione non muta in conseguenza della cessazione dell’anticipante dall’incarico di amministratore, con la conseguenza che la domanda dell’amministratore cessato dall’incarico diretta ad ottenere il rimborso di somme anticipate nell’interesse della gestione condominiale può essere proposta, oltre che nei confronti del condominio, anche nei confronti del singolo condomino inadempiente all’obbligo di pagare la propria quota (cfr. in tal senso la citata Cass. civile, sez. II, 12 febbraio 1997, n. 1286 in Giust. civ. Mass. 1997, 227 ed in Vita not. 1997, 190).
In conclusione, l’amministratore cessato dall’incarico può chiedere il rimborso delle somme da lui anticipate per la gestione condominiale sia nei confronti del condominio legalmente rappresentato dal nuovo amministratore (dovendosi considerare attinente alle cose, ai servizi ed agli impianti comuni anche ogni azione nascente dall’espletamento del mandato, che, appunto, riflette la gestione e la conservazione di quelle cose, servizi o impianti) sia, cumulativamente, nei confronti di ogni singolo condomino, la cui obbligazione di rimborsare all’amministratore, mandatario, le anticipazioni da questo fatte nell’esecuzione dell’incarico deve considerarsi sorta nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione e per effetto di essa e non può considerarsi estinta dalla nomina del nuovo amministratore, che amplia la legittimazione processuale passiva senza eliminare quelle originali, sostanziali e processuali (cfr. in tal senso: Cass. civile, sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530).”

© massimo ginesi 24 gennaio 2017 

 

 

la Cassazione ritorna sul rumore. l’accertamento della intollerabilità e il risarcimento del danno.

Abbiamo segnalato ieri una serie di pronunce sull’art. 844 cod.civ. in condominio e oggi se ne aggiunge un’altra, sempre in tema di immissioni.

La vicenda attiene ad una complessa controversia fra  parenti, proprietari di due unità immobiliari vicine, in una delle quali viene svolta attività di fabbro che – sostengono gli altri – arreca grave pregiudizio alla vita quotidiana.

Cass. civ. II sez. 20 gennaio 2017 n. 1606 rel. Scarpa  traccia i limiti probatori riguardo al giudizio relativo all’accertamento della tollerabilità: “Vertendosi in giudizio relativo ad immissioni (nella specie di rumori ed esalazioni provocati dallo svolgimento di attività di officina fabbrile), i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall’art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza tecnica d’ufficio con funzione “percipiente”, in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l’intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone. Mentre, in tale materia, la prova testimoniale rimane ammissibile soltanto quando verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, e non si riveli espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai testi: cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1245 del 04/03/1981; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2166 del 31/01/2006).”

Quanto alla intensità delle immissioni la Corte ribadisce un orientamento ormai consolidato, sulla  rilevanza degli accertamenti sotto il profilo civilistico e pubblicistico, chiarendo con motivazione ineccepibile la larga autonomia di giudizio del Giudice chiamato a valutare nel merito la intollerabilità delle immissioni fra privati: “in tema, appunto, di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o all’intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art. 844 c.c., e non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell’art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6223 del 29/04/2002; Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 2319 del 01/02/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10735 del 03/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5697 del 18/04/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 939 del 17/01/2011).

I criteri dettati dal d.m. 16 marzo 1998 attengono, piuttosto, al superamento dei valori limite differenziali di immissione di rumore nell’esercizio o nell’impiego di sorgente di emissioni sonore, di cui all’art. 6, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, e sono volti a proteggere la salute pubblica mediante predisposizione di apposito illecito amministrativo (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28386 del 22/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26738 del 13/12/2006).

Perciò la Corte d’Appello di Venezia ha definito irrilevante accertare per quante ore al giorno venissero utilizzati gli strumenti da lavoro rumorosi, ed ha invece stimato decisiva la verifica, confortata dalle risultanze peritali, che ogni singola macchina adoperata nell’officina fabbrile cagionasse un rumore percepito nell’abitazione dei vicini come eccedente di 3 db rispetto al rumore ambientale di fondo. La sentenza impugnata ha correttamente considerato, in sostanza, prive di significatività le disposizioni ministeriali sulle modalità di rilevamento dei rumori cosiddetti “a tempo parziale”, valutando comunque illecite le immissioni sulla base di un giudizio di tollerabilità formulato ai sensi dell’art. 844 c.c., tenendo presente, fra l’altro, la vicinanza dei luoghi e i possibili effetti dannosi per la salute delle immissioni. Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c, diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale. Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa, supponendo tale accertamento un’indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame l’intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17051 del 05/08/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3438 del 12/02/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/08/2005).”

La corte affronta poi il tema del risarcimento al danneggiato per le  immissioni pregiudizievoli che il Giudice di merito abbia ritenuto sussistenti: “il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi a seguito della cd. “comunitarizzazione” della Cedu (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20927 del 16/10/2015; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26899 del 19/12/2014). La Corte di Venezia ha proprio affermato l’esistenza di un pregiudizio alla libera e normale esplicazione della personalità ed alla qualità della vita di B.P., M. Z., G. P.  e A. P., pregiudizio riconducibile allo stress ed al grave disagio provocato dalle immissioni sonore provenienti dalla vicina officina e percepibili nell’abitazione di quelli.”

La Corte si sofferma infine sulla rilevanza della riconoscibilità della situazione a fattispecie di rilevanza penale, ai fini del risarcimento del danno a norma dell’art. 2059 cod.civ. “Al riguardo, la Corte di Venezia ha ritenuto nella specie ravvisabili gli estremi del reato di cui all’art. 659 c.p. (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone), sussistendo la potenzialità del rumore ad investire tutti coloro che ne sono a contatto, mentre ha escluso la configurabilità dell’art. 674 c.p. (Getto pericoloso di cose), non essendo verificata l’attitudine del materiale per la verniciatura utilizzato da E. P. a creare offesa o molestia. Il sesto motivo del ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale sono infondati in quanto quel che rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale a norma dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 185 c.p., non è che il fatto illecito integri, in concreto, un reato piuttosto che un altro, né occorre una condanna penale passata in giudicato, ma è sufficiente che il fatto stesso sia soltanto astrattamente previsto come reato, sicché è sufficiente a tal fine l’accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza, secondo la legge penale, degli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13085 del 24/06/2015; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22020 del 19/10/2007).”

© massimo ginesi 21 gennaio 2017

rumori in condominio: un tema caldo nelle pronunce recentissime della cassazione.

La Cassazione affronta, in breve lasso di tempo, il tema delle immissioni rumorose in diverse pronunce, dettando  principi che è opportuno conoscere per azionare correttamente le tutele contro attività disturbanti.

  1. tutela pubblica e privata non coincidono –   la Suprema Corte (Cass. civ.  VI sez.   18 gennaio 2017, n. 1069 – Rel. Scalisi) afferma  che tutto ciò che supera i limiti pubblici del rumore deve ritenersi civilisticamente illecito a mente dell’art. 844 cod.civ., ma non tutto ciò che rientra in quei limiti è necessariamente consentito anche sotto il profilo nella norma codicistica, che invece richiede singola indagine di fatto da svolgere di volta in volta da parte del giudice di merito: “Va qui premesso che sussistono due livelli di tutela di fronte all’immissione rumorosa, da una parte il regime amministrativo deputato alla P.A. (disciplinato dalla Legge n. 447 del 1995, e dal D.P.C.M. del 1991 con successive modifiche ed integrazioni) e dall’altro vigono i principi civilistici che regolano i rapporti tra privati riconducibili nell’ambito del codice agli articoli 844 e 2043 c.c., dotati di fondamento costituzionale e comunitario.
    Tuttavia, come ha avuto modo di affermare questa Corte in altra occasione (cfr. sent. n. 1151del 2003; n. 5697 del 2001), il superamento dei livelli massimi di tollerabilità determinati da leggi e regolamenti integrano senz’altro gli estremi di un illecito anche se l’eventuale non superamento non può considerarsi senz’altro lecito, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità essere effettuato alla stregua dei principi stabiliti dall’art. 844 cod. civ..
    Tale principio, nella sua prima parte, si basa sull’evidente considerazione che, se le emissioni acustiche superano, la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela di interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione le stesse, ove si risolvano in immissioni nell’ambito della proprietà del vicino, ancor più esposto degli altri, in ragione della vicinanza, ai loro effetti dannosi, devono per ciò solo considerarsi intollerabili, ai sensi dell’art. 844 c.c. e, pertanto, illecite anche sotto il profilo civilistico. Tanto non è stato considerato dal giudice di merito, che, pur avendo rilevato che il livello di rumorosità, di cui si dice, in alcuni spazi temporali (ore notturne, a finestre aperte e con uso dello scarico del WC), superava il valore previsto dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1 Marzo 1991, quale livello massimo, tuttavia, ha ritenuto che quell’inquinamento acustico fosse “modestissimo” e non superasse la normale tollerabilità.”
  2. il danno da rumore non è in re ipsa – una volta accertato che sussistono immissioni illecite ex art. 844 cod.civ. non consegue automaticamente un diritto al risarcimento del danno nei confronti della parte che le lamenta. Incombe infatti a costei l’onere di provarne la sussistenza e l’ammontare. Lo afferma in maniera ellittica la Suprema Corte in una recentissima pronuncia (Cass. civ. II sez. 18 gennaio 2017 n. 1363 rel. Giusti ), che in realtà risolve in rito l’impugnazione: “Non sussiste la  lamentata contraddittorietà, perché ben  può il giudice del merito, senza con ciò incorrere in  alcun vizio logico, rigettare la proposta domanda ex articolo 844 codice civile, per la cospirante  convergenza di una duplice ragione giustificativa, sia perché i rumori e le missioni non raggiungono il limite della intollerabilita, sia perché manca la prova sull’esistenza del patito danno“.
  3. niente risarcimento se il danno è ascrivibile allo stato ansioso del danneggiato: pur sussistendo immissioni illecite dall’appartamento del custode, che superano la normale tollerabilità ex art. 844 cod.civ. , ed essendo pertanto tenuto il condominio a fare cessare mediante insonorizzazione, non può essere riconosciuto risarcimento a chi quelle immissioni ha subito se lo stato ansioso in cui versa è ascrivibile ad una sua patologia ansiosa piuttosto che all’evento rumoroso, poiché in tal caso viene meno il nesso causale fra l’evento e il danno lamentato. Così ha statuito Cass. civ. II sez. 12 gennaio 2017 n. 667 rel. Giusti : “La corte di Milano ha ritenuto che dalle risultanze processuali emerge che la X e il Y pur non essendo soggetti  psicotici affetti da altre malattie diagnosticabili secondo la nosografia psichiatrica, sono individui dalla personalità disturbata, con difficoltà nelle relazioni interpersonali che sono la causa di una reazione abnorme a modeste sollecitazioni disturbanti, quali lo scorrere dell’acqua dei sanitari o le immissioni acustiche provenienti dal televisore delle persone presenti nell’appartamento adiacente, e non certo l’effetto di questi fattori ambientali, fermo restando che ove le imimissioni rumorose fossero state prodotte attraverso comportamenti emulativi,  la tutela risarcitoria avrebbe dovuto essere evocata non contro l’incolpevole condominio ma contro gli autori delle specifiche condotte illecite disturbanti. ” La sentenza, per l’ampia disamina della decisione di merito impugnata e le argomentazioni svolte, merita integrale lettura.

© massimo ginesi 20 gennaio 2017

l’amministratore è una s.a.s.: chi firma l’avviso di convocazione?

La Cassazione affronta un tema curioso e che – ancora una volta – denota la complessa e articolata litigiosità di alcuni condomini: se l’amministratore del condominio non è persona fisica ma società in accomandita semplice, e l’avviso di convocazione è firmato dal socio accomandante e non dal socio accomandatario, potrà ritenersi quell’avviso idoneo ex art. 66 disp.att. cod.civ. a convocare ritualmente i condomini?

Che il ruolo di amministratore potesse essere svolto da soggetti collettivi oltre che da persone fisiche è facoltà da tempo  riconosciuta dalla giurisprudenza e formalmente consacrata dall’art.  71 bis III comma disp.att. cod.civ. introdotto dalla L. 220/2012: “Possono svolgere l’incarico di amministratore di condominio anche società di cui al titolo v del libro v del codice. In tal caso, i requisiti devono essere posseduti dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione dei condominii a favore dei quali la società presta i servizi.”

I fatti ed il processo: “Con atto di citazione dell’8 maggio 2008 la signora EB condomina dello stabile sito in Trieste Via XX, impugnava davanti al Tribunale di Trieste la delibera assunta dall’assemblea del condominio in data 27.3.2008; a fondamento dell’impugnativa la signora EB deduceva  invalidità dell’avviso di convocazione dell’assemblea (alla quale ella  non aveva partecipato) in quanto sottoscritto da persona diversa dall’amministratore e, precisamente dal sig. LB,  socio accomandante della SE Sas, all’epoca amministratrice del citato condominio, anziché da GB, socio  accomandatario”

Il condominio si costituiva eccependo la tardività dell’impugnazione e l’infondatezza della domanda: in particolare il convenuto rilevava che la convocazione era stata fatta utilizzando carta intestata della SE Sas di GB&C ed era sottoscritta con la dicitura prestampata “SE Sas”, solo materialmente siglata da LB, socio accomandante della società, nonché consulente della stessa. 

La convocazione inoltre era  completa dell’indicazione dell’ordine del giorno e ad essa era  allegato il bilancio preventivo e consuntivo, ragion per cui non vi erano dubbi sull’effettiva provenienza dell’avviso di convocazione dalla società che amministrava il condominio

in primo grado il Tribunale di Trieste accoglieva le tesi del condominio e rigettava l’impugnazione della delibera, ritenendola tardiva, mentre la Corte di appello di Trieste riformava la sentenza annullando la delibera e condannando il condominio alle spese, sull’assunto che unico titolare del potere di convocazione era l’amministratore (oltre ai condomini nei casi previsti) e che pertanto quell’avviso non poteva a lui ricondursi, in quanto sottoscritto da soggetto non legittimato a spendere il nome della società.

Cass. civ. II sez. 10 gennaio 2017 n. 335 afferma il seguente principio: “In proposito va sottolineato che, come puntualmente sottolineato dal Procuratore Generale, nella presente causa non viene in questione il principio, richiamato dei ricorrenti (e reiteratamente affermato da questa Corte, confrontare sentenze numero 138/98, 1206/96, 1033/95, 2450/94), che la comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea di condominio può essere data con qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo e può essere provata anche da univoci elementi dai quali risulti che ciascun condomino ha, in concreto, ricevuta la notizia; qui, infatti, non si tratta di stabilire se l’avviso di convocazione abbia raggiunto il proprio scopo di rendere edotti i condomini della data, dell’ora e dell’ordine del giorno dell’assemblea, ma si tratta di stabilire se la convocazione dell’assemblea provenga dall’amministratore condominiale, vale a dire dall’unico soggetto, oltre ai singoli condomini, titolare del potere di convocazione ai sensi dell’art.  66 disp.att. cod.civ. “

Ancora va premesso, il linea di diritto, che all’accomandante è consentito il compimento di atti di amministrazione e di operazioni gestorie, purché ciò avvenga nel quadro di un rapporto di subordinazione con l’accomandatario o in base a procura speciale rilasciata per singoli affari (Cass. 4824/86).

Ciò posto, dalla stessa sentenza gravata emerge che l’avviso di convocazione dell’assemblea era redatto  su carta intestata della società SE Sas, cosicché la corte territoriale non poteva fermarsi al mero rilievo che sottoscrittore dell’avviso non era il rappresentante legale di tale società, ma avrebbe dovuto valutare se dall’uso della carta intestata della società (e dalla circostanza – la cui  omessa considerazione viene lamentata con il secondo mezzo di gravame – che la firma è stata apposta sopra la dicitura “SE sas”” posta in calce all’avviso di convocazione) Non emergenze che la persona fisica che aveva sottoscritto l’avviso avessi speso il nome della società amministratrice; così che a tale società andasse giuridicamente imputata la provenienza dell’avviso di convocazione secondo il meccanismo della rappresentanza volontaria”

La sentenza viene cassata e rinviata ad altra sezione della stessa corte di appello affinché valuti  nel merito l’imputabilità dell’avviso alla società,  attendendosi al principio  di diritto enunciato.

© massimo ginesi 16 gennaio 2017 .