l’assemblea non può imporre ai condomini di pulire le scale condominiali: la delibera è nulla.

Un caso curioso (ma non così infrequente), che prende le mosse da Chiavari , ove in un condominio l’assemblea ha deliberato di dismettere il servizio di pulizia scale e stabilire che ciascun condomino provvederà a turno alla pulizia e, ove non intenda farlo, dovrà pagare qualcuno che  lo faccia in sua vece.

Il Tribunale di Chiavari aveva ritenuto nulla la delibera, che invece la Corte di Appello di Genova ha ritenuto corretta; la Corte di legittimità (Cass.Civ.  sez.VI-2 ord. 13 novembre 2018 n. 29220 rel. Scarpa) ha cassato la sentenza di secondo grado, poiché una simile decisione finisce per incidere sul criterio legale di ripartizione, certamente derogabile, ma solo mediante convenzione e non con delibera maggioritaria.

Osserva la corte: “deve ribadirsi che una deliberazione adottata a maggioranza di ripartizione degli oneri derivanti dalla manutenzione di parti comuni, in deroga ai criteri di proporzionalità fissati dagli artt. 1123 e ss. c.c., seppur limitata alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, va ritenuta nulla per impossibilità dell’oggetto, giacché tale statuizione, incidendo sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata dalla legge o per contratto, eccede le attribuzioni dell’assemblea e pertanto richiede, per la propria approvazione, l’accordo unanime di tutti i condomini, quale espressione della loro autonomia negoziale (Cass. Sez. 2, 16/02/2001, n. 2301; Cass. Sez. 2, 04/12/2013, n. 27233; Cass. Sez. 2, 04/08/2017, n. 19651).

Si ha riguardo, nella specie, a delibere assembleari che, essendo stato revocato l’appalto affidato dal condominio a terzi per la pulizia delle scale, hanno stabilito che tale incombenza spetti a turno ai singoli partecipanti, i quali, ove non intendano sobbarcarsi personalmente l’opera, possono farsi sostituire da terzi sopportandone i costi

Secondo l’interpretazione giurisprudenziale più recente, la ripartizione della spesa per la pulizia delle scale va effettuata in base al criterio proporzionale dell’altezza dal suolo di ciascun piano o porzione di piano a cui esse servono, in applicazione analogica, in parte qua, dell’art. 1124 c.c., il quale è espressione del principio generale posto dall’art. 1123, comma 2, c.c., e trova la propria ratio nella considerazione di fatto che i proprietari dei piani alti logorano le scale in misura maggiore rispetto ai proprietari dei piani bassi (Cass. Sez. 2, 12/01/2007, n. 432) .

Come tutti i criteri legali di ripartizione delle spese condominiali, anche quello inceente alle spese di pulizia e di illuminazione delle scale può essere derogato mediante convenzione modificatrice della disciplina codicistica contenuta o nel regolamento condominiale “di natura contrattuale”, o in una deliberazione dell’assemblea approvata all’unanimità da tutti i condomini (Cass. Sez. 2, 04/08/2016, n. 16321; Cass. Sez. 2, 23/12/2011, n. 28679; Cass. Sez. 2, 26/03/2010, n. 7300; Cass. Sez. 2, 17/01/2003, n. 641; Cass. Sez. 2, 19/03/2010, n. 6714; Cass. Sez. 2, 27/07/2006, n. 17101; Cass. Sez. 2, 08/01/2000, n. 126).

È in ogni caso necessario, perché sia giustificata l’applicazione di un criterio di ripartizione delle spese diverso da quello legale, commisurato alla quota di proprietà di ciascun condomino, che la deroga convenzionale sia prevista espressamente (Cass. Sez. 2, 29/01/2000, n. 1033).

La «diversa convenzione» ex art. 1123 c.c. può, peraltro, essere adottata anche in funzione non “normativa”, e cioè non per sostituire statutariamente il titolo negoziale a quello legale o regolamentare nella relativa disciplina, bensì con riguardo al riparto di una singola spesa o di una specifica gestione.

Tuttavia, poiché pure in tal caso la convenzione viene ad incidere sulla misura degli obblighi dei singoli partecipanti al condominio, essa non può essere rimessa all’espressione della regola collegiale sintetizzata dal principio di maggioranza, ma deve comunque fondarsi su una deliberazione unanime, non limitata ai presenti all’assemblea (Cass. Sez. 2, 23/05/1972, n. 1588).

Come già considerato, il dovere dei condomini di contribuire alle spese in proporzione al valore della rispettiva unità immobiliare o all’utilità che traggano del bene o dal servizio comune trova la sua fonte nel diritto dominicale di condominio, e perciò non può rientrare nelle attribuzioni dell’assemblea una potestà di deroga ai criteri legali di cui agli art. 1123 e ss. c.c.

A tali principi non si è uniformata l’impugnata sentenza, avendo essa incomprensibilmente ritenuto le delibere impugnate concernenti “le modalità di esecuzione delle spese di pulizia delle scale”, ovvero attinenti “all’organizzazione ed al funzionamento delle cose comuni”. Le delibere impugnate non rivelano, invece, una portata meramente organizzativa, concernente soltanto le modalità d’uso delle cose comuni, o la gestione ed il funzionamento dei servizi condominiali, materie certamente rientranti nelle competenze collegiali.

Va conclusivamente affermato che il diritto-dovere di ciascun condomino, ex art. 1118 c.c., di provvedere alla manutenzione delle cose comuni comporta certamente non solo l’obbligo di sostenere le spese, ma anche tutti gli obblighi di facere e di pati connessi alle modalità esecutive dell’attività manutentiva, rimanendo tuttavia affetta da nullità la delibera dell’assemblea condominiale con la quale, senza il consenso di tutti i condomini espresso in apposita convenzione, si modifichino a maggioranza i criteri legali o di regolamento contrattuale di riparto delle spese necessarie per la prestazione di servizi nell’interesse comune (quale quello di pulizia delle scale), venendo a incidere sui diritti individuali del singolo condomino attraverso l’imposizione, come nelle specie, di un obbligo di facere, ovvero di un comportamento personale, spettante in egual misura a ciascun partecipante e tale da esaurire il contenuto dell’obbligo di contribuzione”

© Massimo Ginesi 14 novembre 2018 

 

la convocazione inviata al marito si presume conosciuta anche dalla moglie

Lo ha stabilito il Tribunale di Grosseto con sentenza 8 marzo 2018 n. 249, aderendo ad orientamento già consolidato in sede di legittimità ( Cass.Civ.  sez. II 28 luglio 1990 n. 7630).

Il Giudice toscano osserva che “Quanto alla mancata convocazione alle assemblee al mancato invio dei relativi verbali il Condominio ha dimostrato mediante la produzione in giudizio che gli stessi sono stati recapitati a S.B., marito dell’opponente. Va altresì notato sul punto che l’opponente non espone in alcun modo le ragioni per cui non sarebbe stata sufficiente la convocazione rivolta al marito. Sussistono pertanto elementi presuntivi e indiziari che inducono a ritenere che la stessa M.G. conoscesse le convocazioni ed il contenuto dei verbali delle assemblee al pari del marito. In tal senso depone non solo il fatto che non fossero semplici proprietari, ma appunto coniugi, ma anche la circostanza che talvolta, ad esempio nel caso della nota 8 dicembre 2009, i due diedero atto congiuntamente della ricezione della lettera con la quale viene loro comunicata la “prossima convocazione di Assemblea Straordinaria del Condominio di via O.” preannunciando la propria mancata partecipazione.

Deve, infatti, osservarsi che i fatti per cui è causa sono antecedenti alla modifica disposta con legge 220/2013 (in vigore dal 18 giugno 2013) al 3° comma dell’art. 66 disp. att. c.c. che ha stabilito le modalità di effettuazione della convocazione all’assemblea condominiale.”

 

La sentenza è interessante anche per gli altri due aspetti affrontati, l’uno relativo alla rinuncia alla solidarietà passiva, convenuta fra condominio e appaltatore, che non esclude la legittimazione dell’amminisratore ad agire nei confronti dei morosi: Vale la pena osservare preliminarmente che il vincolo di esclusione della solidarietà passiva tra i condomini pattuito tra il Condominio e la società esecutrice dei lavori, non rileva in questa sede, atteso peraltro che il Condominio ha richiesto solo il pagamento delle spese di competenza di M.G. e non di altri condomini.

Inoltre, la stipula di un simile accordo non priva in alcun modo il Condominio, in persona del proprio amministratore pro tempore del potere/dovere di attivarsi per il recupero delle spese condominiali. È evidente come l’adesione ad una diversa opzione interpretativa finirebbe per porre a carico esclusivo della società che ha eseguito i lavori l’onere di attivarsi contro i condomini morosi. Sotto altro profilo deve altresì che già all’epoca di instaurazione del presente giudizio era ormai pacifica la natura parziaria delle obbligazioni condominiali (SS.UU. 9148/2008) la cui affermazione, peraltro, non ha mai avuto l’effetto di elidere la legittimazione del Condominio a far valere la pretesa creditoria”

Il giudice osserva infine che è ormai pacifico che si approvino a maggioranza le tabelle millesimali che non deroghino ai prinpci di cui agli art 1123 e s.s. cod.civ. : “è approdo ormai consolidato in giurisprudenza che relativamente all’approvazione delle tabelle millesimali, la deliberazione assembleare non ha natura negoziale e non è pertanto necessaria, contrariamente a quanto sostenuto dall’opponente l’unanimità, essendo sufficiente la maggioranza semplice (SS.UU. n. 18477/18478 del 2010).”

  © massimo ginesi 13 aprile 2018 

tabelle millesimali, riscaldamento e maggioranze

Cass.civ. sez. II  4 agosto 2017 n. 19651 rel. Scarpa

Tabelle riscaldamento, nulla la deroga …idiano del Condominio – Il Sole 24 Ore

TabelleRiscaldamentoSentenza19651an

una sentenza estiva di grande rilievo ed interesse

© massimo ginesi 9 agosto 2017 

nel condominio minimo sono ammesse solo delibere unanimi.

La Cassazione ( Cass.civ. sez. II 7 luglio 2017, n. 16901 rel. Giusti)  ribadisce un  principio consolidato: ove il condominio sia composto da due soli partecipanti si applicano le norme sul condominio ma le decisioni – non potendo operare per ovvie ragioni numeriche il disposto dell’art. 1136 cod.civ. – possono essere  assunte solo con il voto  favorevole di entrambi i condomini.

“nel condominio c.d. minimo (formato, cioè, da due partecipanti con diritti di comproprietà paritari sui beni comuni), le regole codicistiche sul funzionamento dell’assemblea si applicano allorché quest’ultima si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione “unanime”, tale dovendosi intendere quella che sia frutto della partecipazione di ambedue i comproprietari;

ove, invece, non si raggiunga l’unanimità, o perché l’assemblea, in presenza di entrambi i condomini, decida in modo contrastante, oppure perché, come nella specie, alla riunione benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l’altro resti assente, è necessario adire l’autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 cod. civ., non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (Cass., Sez. II, 2 marzo 2017, n. 5329).”

© massimo ginesi 12 luglio 2017

Tribunale di Milano e terrazze a tasca: una pronuncia che fa acqua da tutte le parti.

Il problema dalla realizzazione di una  terrazza a tasca sul manto di copertura condominiale, da parte del condomino proprietario del sottotetto,   ha avuto una costante interpretazione  sfavorevole della giurisprudenza di legittimità sino al 2012.

Sino a quell’anno la giurisprudenza della Cassazione era stata costante nell’affermare che la creazione  di una terrazza a tasca da parte del singolo, in luogo del tetto originario, costituisse alterazione della cosa comune che sottraeva agli altri condomini una porzione del tetto e, come tale, travalicava  i limiti di cui all’art. 1102 cod.civ.; richiedeva  quindi – per la sua realizzazione – il consenso unanime dei condomini: “trasformando il tetto dell’edificio condominiale in terrazza adibita al servizio esclusivo della sua proprietà singola, il ricorrente aveva alterato la destinazione della cosa comune, sottraendola in tal modo al godimento collettivo: il diritto riconosciuto al proprietario dell’ultimo piano di sopraelevare (art. 1127 cod.civ.) era comunque subordinato ai limiti sanciti dagli artt. 1102 e 1120 cod.civ.  in materia di uso e godimento dei beni comuni.” (Cassazione civile, sez. II, 28/01/2005,  n. 1737; Cassazione civile, sez. II, 20/05/1997,  n. 4466″

Nel 2012 la Corte di legittimità, con una pronuncia innovativa,  ha mutato orientamento in maniera drastica (e discutibile) affermando che: “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene“. Cassazione civile, sez. II, 03/08/2012,  n. 14107

La sentenza vede immediata conferma poco dopo, con altra pronuncia della stessa corte (Cassazione civile, sez. II, 03/08/2012,  n. 14109) e recepisce  una lettura dinamica e socialmente orientata dell’art. 1102 cod.civ., introdotta dalla Cassazione nello stesso anno in tema di ascensore installato dal singolo (Cassazione civile, sez. II, 14/02/2012,  n. 2156).

Se, tuttavia, in tema di abbattimento delle barriere architettoniche, la compressione dei diritti dei condomini vede un contraltare importante nelle ragioni di solidarietà sociale che impone l’art. 42 Costituzione, in tema di terrazze a tasca tali presupposti paiono difettare e la compressione del diritto dei singoli si confronta  unicamente con la utilitas materiale che  dall’intervento trae il proprietario del sottotetto.

La Corte afferma che “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune, può effettuare la trasformazione di una parte del tetto dell’edificio in terrazza ad uso esclusivo proprio, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene.

La Corte, con ampia motivazione, ha richiamato  principi solidaristici per superare la ristretta lettura dell’art. 1102 cod.civ. sino ad allora forniti: “Muovendo da questi principi, che contengono pertinenti richiami al principio solidaristico, si impone una rilettura delle applicazioni dell’istituto di cui all’art. 1102 c.c., che sia quanto più favorevole possibile allo sviluppo delle esigenze abitative.

Questo sviluppo si ripercuote favorevolmente sulla valorizzazione della proprietà del singolo, ma mira soprattutto a moderare le istanze egoistiche che sono sovente alla base degli ostacoli frapposti a modifiche delle parti comuni come quella in esame. In una visione del regime condominiale tesa a depotenziare i poteri preclusivi dei singoli e a favorire la correntezza dei rapporti (si pensi a Cass. SU 4806/05 in tema di deliberazioni nulle o annullabili) non è coerente, nè credibile, intendere la clausola del “pari uso della cosa comune” come veicolo per giustificare impedimenti all’estrinsecarsi delle potenzialità di godimento del singolo.

Qualora non siano specificamente individuabili i sacrifici in concreto imposti al condomino che si oppone, non si può proibire la modifica che costituisca uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche in assenza di un beneficio collettivo derivante dalla modificazione.

Non lo si può chiedere in funzione di un’astratta o velleitaria possibilità di alternativo uso della cosa comune o di un suo ipotetico depotenziamento (cfr Cass. 4617/07), ma solo ove sia in concreto ravvisabile che l’uso privato toglierebbe reali possibilità di uso della cosa comune agli altri potenziali condomini-utenti”

La motivazione non è priva di suggestione e si attaglia comunque a modifiche di limitata portata che non stravolgano la funzione essenziale della copertura: “La destinazione della cosa, di cui è vietata l’alterazione, è da intendere in una prospettiva dinamica del bene considerato. La possibilità, dianzi ricordata, di applicare finestre da tetto con notevole efficacia coibente e gradevoli esteticamente contribuisce senz’altro a far ritenere compatibile tale utilizzo con il rispetto della destinazione del bene.

Altrettanto può valere per la realizzazione di piccole terrazze che sostituiscano efficacemente il tetto spiovente nella funzione di copertura dell’edificio.

Non è funzionalmente alterata la destinazione del tetto, se alla falda si sostituisce un’opera di isolamento e coibentazione inserita nel piano di calpestio.

Rimane da chiedersi se la materiale soppressione di una porzione limitata della falda sia di per sè alterazione della destinazione della cosa.

La risposta deve essere negativa, perchè per destinazione della cosa si intende la complessiva destinazione di essa, che deve essere salva in relazione alla funzione del bene e non alla sua immodificabile consistenza materiale.

Pertanto la soppressione di una piccola parte del tetto, se viene salvaguardata diversamente la funzione di copertura e si realizza nel contempo un uso più intenso da parte del condomino, non può esser intesa come alterazione della destinazione, comunque assolta dal bene nel suo complesso.

Ovviamente il giudizio sul punto andrà formulato caso per caso, in relazione alle circostanze peculiari e si risolve in un giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità solo avendo riguardo alla motivazione.”

Non sono mancate, successivamente, letture restrittive della giurisprudenza di merito, rimasta ancorata all’orientamento ante 2012: Tribunale Todi, 22/04/2014,  n. 771All’uopo, si è anche evidenziato come la modifica di una parte del tetto condominiale in una terrazza deve ritenersi illecita, non potendosi invocare l’art. 1102 c.c., poiché non si è in presenza di una modifica finalizzata al miglior godimento della res comune, bensì nell’appropriazione di una parte di questa che viene definitivamente sottratta a ogni possibilità di futuro godimento da parte degli altri, non avendo rilevanza il fatto che la parte di tetto sostituita continui a svolgere una funzione di copertura dell’immobile.”

La realizzazione di terrazze a tasca è generalmente malvista dai restanti condomini del fabbricato che, da un lato, temono che l’intervento possa arrecare pregiudizio alla funzionalità e durata della copertura, dall’altro vivono come un sopruso l’attività del singolo che utilizza in via esclusiva il bene comune e tendono a riconnettere a tale iniziativa un obbligo patrimoniale, che pretendono spesso di imporre al condomino che realizza la modifica.

Va a tal proposito osservato che, se l’intervento si pone nel rispetto dei canoni indicati dalla Corte nel 2012, va ascritto alle previsioni dell’art. 1102 cod.civ. e che pertanto costituisce facoltà del singolo, cui non è preordinata alcuna autorizzazione assembleare e a cui gli altri condomini potranno eventualmente opporsi – anche giudizialmente – adducendo motivi  di lesione del decoro, della statica o dei propri diritti individuali.

Il novellato art. 1122 cod.civ. prevede oggi che il singolo comunichi all’amministratore le proprie intenzioni, cosicché questi possa riferirne in assemblea, non già per sollecitare una delibera di approvazione (ove sussistessero lesioni dei limiti sopra evidenziati, nessuna decisione a maggioranza potrebbe porvi rimedio) ma semplicemente per facilitare il controllo e l’eventuale attivazione dell’amministratore o dei singoli condomini, ove l’intervento si preannunci illegittimo per modalità e contenuti.

Va ancora osservato che una lettura difforme dall’orientamento del 2012 pare invece essere fornita dalla Cassazione in una recente pronuncia in tema di altane.

Non vi è però dubbio che, se un ripensamento deve intervenire sulla realizzazione delle terrazze a tasca, questo non possa che passare attraverso una rivisitazione della lettura dell’art. 1102 cod.civ.

In questo contesto interviene invece la sentenza  Tribunale di Milano 7.4.2017 n. 4049 che  trae i propri argomenti circa l’illiceità della realizzazione di terrazze a tasca da una lettura poco  condivisibile sotto il profilo sistematico, poiché appare amalgamare  in maniera  inammissibile la portata dell’art. 1102 cod.civ. – che attiene agli interventi effettuati dai singoli sulle cose comuni – e quella dell’art. 1120 cod.civ. – che attiene alle innovazioni decise dalla maggioranza su parti comuni e nell’interesse della collettività – pervenendo alla inaccettabile conclusione che la terrazza a tasca,  realizzata dal singolo, debba essere approvata dalla assemblea con le maggioranze di cui all’art. 1120 cod.civ.

Giova osservare che si tratta di pronuncia di primo grado che, plausibilmente, potrebbe non reggere al vaglio dell’appello o, comunque, dell’eventuale giudizio di legittimità e che pare opportuno evitare di utilizzare come punto di riferimento interpretativo.

Il Giudice milanese afferma che: “l’intervento operato dalla società convenuta sulla falda del tetto condominiale è da ritenersi illegittimo , trattandosi di innovazione non autorizzata dall’assemblea condominiale. A norma dell’art. 1120 c.c., le innovazioni alla cosa comune sono consentite solo previa approvazione assembleare e sono comunque vietate qualora pregiudichino la sicurezza o la stabilità del fabbricato e ne alterino il decoro architettonico o rendano alcune parti comuni inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.”

La tesi, assolutamente bizzarra, contrasta con il costante orientamento giurisprudenziale che distingue le innovazioni (art. 1120 cod.civ.) dall’uso della cosa comune da parte del singolo (art. 1102 cod.civ.); tale netta distinzione  è stata reiteratamente affermata in ordine a diversi interventi:

terrazza a tasca –  “Una terrazza a tasca non può essere considerata innovazione che, ai sensi dell’art. 1120 c.c., rende talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e godimento anche di un solo condomino. Come tale può essere realizzata dai condomini stessi. Ciò perché esulano dalla nozione di innovazione, quelle modificazioni eseguite dal singolo che si sostanziano in funzione di un più intenso e migliore uso della cosa comune e non conducano ad una totale o parziale alterazione che ecceda il limite della conservazione.” Tribunale Firenze, sez. III, 09/05/2005

apertura muro comune – “Aprire un vano nel muro perimetrale comune ad opera di un condomino, di una o più finestre o porte del suo appartamento, anche ampliando le finestre già esistenti a livello del suo appartamento, non importa una innovazione della cosa comune, a norma dell’art. 1120 c.c., bensì soltanto quell’uso individuale della cosa comune il cui ambito ed i cui limiti sono disciplinati dagli art. 1102 e 1122 c.c..” Tribunale Salerno, sez. II, 08/01/2016,  n. 67

canna fumaria – “In materia condominiale costituisce opera lecita l’installazione di una canna fumaria sulla facciata comune, consentita ai sensi dell’art. 1102 c.c. Per costante orientamento della giurisprudenza, infatti, l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale, integra una modifica della cosa che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese, sempre che non impedisca l’altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro architettonico. L’esecuzione di tale opera non costituisce innovazione ma una modifica lecita finalizzata all’uso migliore e più intenso previsto dall’art. 1102 c.c., conforme alla destinazione del muro perimetrale che ciascun condomino può legittimamente apportare a sue spese, se non impedisce agli altri condomini di farne un pari uso, non pregiudichi la stabilità e la sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro.” Tribunale Trento, 16/05/2013,  n. 432

© massimo ginesi 24 maggio 2017

condominio minimo: si può decidere solo in due.

Lo stabilisce Cass.Civ. II sez. 2 marzo 2017 n. 5329.

Nel Condominio composto da due sole persone si applicano le norme sull’assemblea solo ove partecipino entrambi, se invece alla riunione si presenta  solo dei due condomini, costui non potrà decidere da solo ma dovrà rivolgersi al giudice ex art. 1105 cod.civ., per l’impossibilità di adottare decisioni indispensabili per la gestione della cosa comune.

La vicenda trova le sue origini in una opposizione a decreto ingiuntivo promossa dall’altro condomino che lamentava che la delibera in forza del quale era stato ottenuto il decreto fosse stata assunta solo dall’altro condomino e come, come tale, non potesse essere considerata una delibera.

Il Tribunale di Sanremo in riforma della sentenza emessa in primo grado dal Giudice di Pace aveva dichiarato nulla la delibera posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo.

In sede di legittimità il ricorrente osserva che: “ il Tribunale ha errato nel ritenere la delibera nulla o addirittura inesistente, avendo fatto confusione tra il concetto di unanimità e quello di totalità, che non sono assimilabili: rileva in particolare che l’unanimità richiesta dalla giurisprudenza ai fini della validità delle delibere del condominio minimo può validamente formarsi non solo nel caso di concordanza di opinioni espresse dai due partecipanti, ma anche nell’ipotesi – verificatasi in concreto nel caso di specie – di decisione assunta dall’unico condominio comparso all’assemblea regolarmente convocata (il R.B. , appunto). Ritiene che nel condominio minimo l’assemblea possa ritenersi validamente costituita anche nel caso in cui compaia uno solo dei partecipanti ed in tal caso la delibera debba ritenersi adottata all’unanimità degli intervenuti e nel rispetto del quorum richiesto dall’art. 1136 cc. In ogni caso, secondo la tesi del ricorrente, si tratterebbe al più di delibera annullabile perché affetta da vizi attinenti alla regolare costituzione dell’assemblea o adottata con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, con la conseguenza che in tale ipotesi, occorreva una tempestiva impugnazione della delibera nei termini di legge, nel caso di specie non proposta.”

La Cassazione è invece netta nel respingere la tesi, richiamando orientamento espresso nel 2006 dalle sezioni unite: “Il motivo è infondato. Le sezioni unite hanno affermato che la disciplina dettata dal codice civile per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, tanto con riguardo alle disposizioni che regolamentano la sua organizzazione interna, non rappresentando un ostacolo l’impossibilità di applicare, in tema di funzionamento dell’assemblea, il principio maggioritario, atteso che nessuna norma vieta che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso, nella specie all’unanimità, quanto, “a fortiori”, con riferimento alle norme che regolamentano le situazioni soggettive dei partecipanti, tra cui quella che disciplina il diritto al rimborso delle spese fatte per la conservazione delle cose comuni (Sez. U, Sentenza n. 2046 del 31/01/2006 Rv. 586562; v. anche Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 5288 del 03/04/2012).
Altra e più recente giurisprudenza ha ritenuto che nel caso di condominio c.d. minimo, non si applicano le norme sul funzionamento dell’assemblea condominiale, ma quelle relative all’amministrazione di beni oggetto di comunione in generale (v. Sez. 2, Sentenza n. 7457 del 14/04/2015 Rv. 635000 – 01 ma evidentemente sempre con riferimento all’ipotesi di mancanza di accordo tra le parti).
Da tali principi discende dunque che nel condominio cd. minimo (formato, cioè da due partecipanti con diritti di comproprietà sui beni comuni nella stessa proporzione) le regole codicistiche sul funzionamento dell’assemblea si applicano allorché l’assemblea si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione unanime, intendendosi con tale ultima espressione (decisione unanime) quella che sia frutto della partecipazione di entrambi i comproprietari alla discussione (essendo logicamente inconcepibile che la decisione adottata da un solo soggetto possa ritenersi presa all’unanimità).
Ed è proprio questo il senso della pronuncia delle sezioni unite n. 2046/2006 ove in motivazione testualmente si afferma: “nessuna norma impedisce che l’assemblea, nel caso di condominio formato da due soli condomini, si costituisca validamente con la presenza di tutti e due i condomini e all’unanimità decida validamente”. Si rivela così infondata la tesi formalistica del ricorrente secondo cui, se la Corte Suprema avesse voluto richiedere sempre la presenza di entrambi e la votazione unanime, avrebbe detto espressamente che in un condominio minimo ci vuole sempre il consenso di entrambi senza approfondire l’applicabilità dell’art. 1136 cc.
Nella diversa ipotesi in cui non si raggiunga l’unanimità e non si decida, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto diventa necessario ricorrere all’autorità giudiziaria, siccome previsto ai sensi del collegato disposto degli artt. 1105 e 1139 cod. civ. (v. sez. unite cit. in motivazione).
Volendo esemplificare, si tratta del caso in cui all’assemblea, pur essendo presenti entrambi i condomini, si decida in modo contrastante, oppure, a maggior ragione, del caso, verificatosi nella fattispecie in esame, in cui alla riunione – benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l’altro resti assente: per sbloccare la situazione di stallo venutasi di fatto a determinare, non resta che i) ricorso all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 1105 CC.
Ora, nel caso di specie, l’avvocato R.B. fu certamente diligente nel tentare la prima e più semplice soluzione, convocare la zia condomina per discutere dei lavori al fabbricato, ma avrebbe dovuto poi prendere atto, proprio perché si trattava di un “condominio minimo”, della impossibilità di costituire l’assemblea per assenza dell’altra partecipante e quindi per l’impossibilità di pervenire ad una decisione unanime (nel senso sopra inteso), condizione essenziale per la adozione di una valida delibera da poter poi mettere in esecuzione nelle forme di legge; e, posto di fronte ad una tale situazione di impasse, aveva l’onere di azionare il procedimento camerale previsto dall’art. 1105 cc. lasciando poi che fosse l’autorità giudiziaria a prendere i provvedimenti opportuni, non esclusa la nomina di un amministratore.
La diversa scelta di decidere da solo si risolve invece non in una delibera condominiale, ma in una mera manifestazione unilaterale di volontà proprio perché – lo si ripete – mancava l’unanimità della decisione e quindi la condizione essenziale per l’applicabilità al condominio minimo di (OMISSIS) delle regole codicistiche.
Non merita pertanto nessuna censura la sentenza impugnata che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ha rilevato di ufficio la nullità o addirittura l’inesistenza della delibera posta a fondamento del decreto stesso (v. al riguardo Sez. 2, Sentenza n. 305 del 12/01/2016 Rv. 638022).”

© massimo ginesi 6 marzo 2017

le tabelle millesimali si modificano a maggioranza solo in caso di errore o variazioni dell’edificio

La Cassazione (Cass. civ. 14 dicembre 2016 n. 25790)  esprime un principio ovvio e del tutto lineare in tema di tabelle millesimali.

La pronuncia è  riferita al testo previgente dell’art. 69 disp.att. cod.civ., può tuttavia essere di indubbio interesse anche per comprendere  la portata di detta norma dopo la riforma del 2012.

Il caso origina  dalla impugnativa di una delibera con cui il Condominio aveva approvato nuove tabelle rispetto a quelle sino a quel momento vigenti.

Alcuni condomini si dolgono che non fossero stati dedotti errori o variazioni significative e che pertanto l’adozione di quelle tabelle, a maggioranza, fosse del tutto arbitraria e non consentita.

Assai singolarmente il Tribunale di Messina, e poi la Corte d’Appello della stessa città,  avevano dato ragione al Condominio, osservando

– che le doglianze degli appellanti risultavano sfornite di prova perché non era stata dimostrata la violazione dell’art. 69 disp. att. cc nel testo previgente (applicabile alla fattispecie ratione temporis) e l’avvenuta approvazione delle nuove previsioni in assenza delle condizioni di legge;
– che parimenti la dedotta erroneità delle nuove tabelle non risultava supportata a alcun elemento di prova perché le censure risultavano generiche per mancata indicazione dei parametri da applicare e per mancanza di precisazioni sulla dedotta arbitrarietà e discrezionalità dei coefficienti utilizzati dal tecnico;
– che la censura sulla omessa misurazione delle unità immobiliari trovava smentita nei chiarimenti resi dal tecnico sulla determinazione dei valori effettuata sulla scorta delle planimetrie catastali previa verifica della correttezza delle misure direttamente sui luoghi.”

La Corte di legittimità, assai opportunamente, cassa la sentenza di secondo grado  con rinvio ad altra sezione della corte di merito, stabilendo un ovvio principe sostanziale e processuale:

L’articolo 69 delle norme di attuazione del codice civile, nella versione vigente ratione temporis, stabilisce che “i valori proporzionali dei vari piani o porzioni di piano possono essere riveduti o modificati, anche nell’interesse di un solo condomino, nei seguenti casi:
1) quando risulta che sono conseguenza di un errore;
2) quando, per le mutate condizioni di una parte dell’edificio, in conseguenza della sopraelevazione di nuovi piani, di espropriazione parziale o di innovazioni di vasta
portata, è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano”.
La chiara formulazione della disposizione sta a significare che il diritto di chiedere la revisione delle tabelle millesimali è condizionato dall’esistenza di uno o di entrambi i presupposti indicati (1- errore; 2- alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano).
Logico corollario è che, in base alla regola generale dell’onere probatorio (art. 2697 cc), la prova della sussistenza delle condizioni che legittimano la modifica incombe su chi intende modificare le tabelle, quanto meno con riferimento agli errori oggettivamente verificabili (v. Sez. 2, Sentenza n. 21950 del 25/09/2013 Rv. 629207).
La Corte d’Appello di Messina si è però discostata da tale principio perché – esonerando del tutto il Condominio (che aveva deliberato la revisione) – ha addossato ai condomini la prova di fatti negativi (e cioè mancanza di errori nelle precedenti tabelle o assenza di alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano) mentre invece, a fronte della contestazione sulla legittimità della revisione, avrebbe dovuto fare onere al Condominio che aveva deliberato la revisione di dimostrare la sussistenza delle condizioni che la giustificavano. “

Ne deriva che, anche alla luce della attuale disciplina, appaia confermata l’ipotesi di possibile revisione e modifica a maggioranza solo in presenza di errori o variazioni qualificanti (essendo invece sempre consentita all’unanimità).

© massimo ginesi 15 dicembre 2016