La Cassazione (II sezione civile, 10865/2016, rel. Scarpa) ritorna su due temi caldi.
Quanto alle diverse categorie di spesa e ai poteri dell’amministratore, osserva la Corte che “Vi si allega che l’appalto dei servizi di manutenzione del verde condominiale, nonche’ di derattizzazione e disinfestazione delle aree comuni, involgono contratti rientranti nella straordinaria amministrazione, e percio’ sarebbe illegittima la delibera che dava generico mandato all’amministratore al riguardo. La Corte d’Appello ha ritenuto che si trattasse di contratti che “rientrano chiaramente nell’ordinaria amministrazione, in quanto tendono alla conservazione delle cose comuni, e quindi nella competenza dell’amministratore”, sicche’ la deliberazione sarebbe valsa soltanto come “sollecitazione” a quest’ultimo a provvedere ad atti di sua competenza. E’ noto che i contratti conclusi dall’amministratore nell’esercizio delle sue funzioni ed inerenti alla manutenzione ordinaria dell’edificio ed ai servizi comuni essenziali, ovvero all’uso normale delle cose comuni, sono vincolanti per tutti i condomini in forza dell’articolo 1131 c.c., nel senso che giustificano il loro obbligo di contribuire alle spese, senza necessita’ di alcuna preventiva approvazione assembleare delle stesse, intervenendo poi tale approvazione utilmente in sede di consuntivo (Cass. 18 agosto 1986, n. 5068). L’elemento distintivo dell’ordinaria amministrazione dell’obbligazione assunta, come tale sottratta al presupposto autorizzativo dell’assemblea, risiede, pertanto, al pari di quanto si sostiene per le amministrazioni commerciali, nella normalita’ dell’atto di gestione condominiale rispetto allo scopo dell’utilizzazione e del godimento dei beni comuni. Mentre, solo laddove si verta in ipotesi di spese che, seppure dirette alla migliore utilizzazione di cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino per la loro particolarita’ e consistenza un onere economico rilevante, superiore a quello normalmente inerente alla gestione, l’iniziativa contrattuale dello stesso amministratore, senza la preventiva deliberazione dell’assemblea, non e’ sufficiente a fondare l’obbligo dei singoli condomini, salvo che non ricorra il presupposto dell’urgenza contemplato nella fattispecie di cui all’articolo 1135 c.c., comma 2. “
Quanto alla legittimazione processuale dell’amministratore, in linea con le Sezioni Unite del 2010 e con le modfiche apportate all’art. 1131 cod.civ. dalla novella del 2012, il Giudice di legittimità ribadisce che “deve conclusivamente affermarsi, quanto al primo motivo di ricorso, che l’amministratore di un condominio, per conferire procura al difensore al fine di costituirsi in giudizio nelle cause che non esorbitano dalle sue attribuzioni, agli effetti dell’articolo 1131 c.c., commi 2 e 3 (quale, nella specie, la resistenza all’impugnazione di una Delib. proposta da un condomino), non ha bisogno dell’autorizzazione dell’assemblea dei condomini, ed un’ eventuale Delib. sul punto avrebbe il significato di mero assenso alla scelta gia’ validamente effettuata dall’amministratore”
Si va sempre più affermando nella giurisprudenza di merito una interpretazione rigorosa ed estesa della mediazione quale strumento di risoluzione della controversia alternativa alla lite.
Accade così che i giudici si spingano a ritenere la mancata comparizione delle parti equivalente ad un tentativo di mediazione non esperito, così come affermano di ritenere la mancata e ingiustificata partecipazione della parte elemento qualificante della sua condotta procesuale, tanto da condurre alla condanna sia al pagamento della sanzione pari al contributo unificato in favore dell’Erario sia – ai sensi dell’art. art. 96 III comma c.p.c. – nei confronti della parte vittoriosa.
Lo ha deciso il Tribunale di Roma con sentenza del 23 giugno 2016, che merita di essere letta per intero.
L’amministratore di condominio – a fronte di tale giurisprundenza – potrà dunque rappresentare all’assemblea, chiamata a decidere ai sensi dell’art. 71 quater disp. att. cod.civ., l’opportunità di partecipare comunque alla prima comparizione dinanzi al mediatore, onde non incorrere in conseguenze processuali che potrebbero essere assai spiacevoli, fatta salva comunque la possibilità di esporre in quella sede le ragioni per cui si ritiene inutile procedere oltre.
La questione di costituzionalità dell’art. 96 III comma c.p.c. non è fondata: lo ha stabilito la Corte Costituzionale con sentenza 1 – 23 giugno 2016, n. 152.
Il Tribunale di Firenze ne aveva prospettato l’illegittimità laddove alla funzione sanzionatoria della norma ricollega la condanna in favore della parte vittoriosa piuttosto che dell’Erario.
La Corte Costituzionale, pur accedendo ad alcuni rilievi critici mossi dal rimettente, ritiene che la norma sia comunque compatibile con l’architettura normativa del nostro ordinamento.
Osserva la Corte che: “La ragionevolezza della soluzione auspicata dal rimettente non comporta, però, la irragionevolezza della diversa soluzione adottata dal legislatore del 2009, e tantomeno ne evidenzia quel livello di manifesta irragionevolezza od arbitrarietà che unicamente consente il sindacato di legittimità costituzionale in ordine all’esercizio della discrezionalità legislativa in tema di disciplina di istituti processuali (ex plurimis, ordinanze n. 138 del 2012, n. 141 del 2011). La motivazione, che ha indotto i redattori della novella a porre «a favore della controparte» l’introdotta previsione di condanna della parte soccombente al «pagamento della somma» in questione, è, infatti, plausibilmente ricollegabile – e non è mancato, in dottrina, chi l’ha così ricollegata – all’obiettivo di assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna, sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico. L’istituto così modulato è suscettibile di rispondere, peraltro, anche ad una concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata anch’essa da una temeraria, o comunque ingiustificata, chiamata in giudizio) nelle, non infrequenti, ipotesi in cui sia per essa difficile provare l’an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento di cui ai primi due commi dell’art. 96 cod. proc. civ.”
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 9 dicembre 2015 – 27 gennaio 2016, n. 1548
Una sentenza non dell’ultima ora, ma che contiene alcuni principi interessanti e vale la pena commentare.
I fatti: il Condominio richiede ed ottiene decreto ingiuntivo sulla scorta di una delibera che approva un rendiconto e l’attribuzione dello stesso per quote ai condomini, pur in assenza di una tabella millesimale legittimamente approvata. A tale decreto propone opposizione il condomino ingiunto, sostenendone l’illegittima emissione.
La Suprema corte detta alcuni principi essenziali, legati alla prioritaria esigenza di funzionamento della compagine condominiale, all’obbligo di ciascuno di contribuire in forza dei parametri stabiliti dalla legge anche una senza di tabelle, al potere del giudice di stabilire anche d’ufficio e con riferimento alle norme di cui agli artt. 1123 e s.s. cod.civ. l’onere per ciascuno e alla idoneità della sola delibera a consentire l’emissione del provvedimento monitorio.
La motivazione è stringata ma efficace: “Tanto attesa la particolarità della vicenda in esame contrassegnata dalla pacifica assenza di una valida ed approvata tabella millesimale di ripartizione delle spese deliberate dall’assemblea condominiale. Nell’ipotesi la delibera alla cui stregua venivano ripartite le spese (idonea di per sé alla valida emissione dell’opposto D.I.) ben poteva ritenersi non adeguatamente idonea a comprovare nel giudizio di opposizione la pretesa creditoria del Condominio. Tanto in dipendenza dell’accennata inesistenza di valide tabelle eccepita dall’opponente. In tal caso, tuttavia (e anche al fine di evitare comunque una sorta di esenzione generalizzata del pagamento a carico del debitore) incombeva comunque al Giudice un onere. E tutto ciò alla stregua, anche per effetto del principio di seguito affermato, di una corretta applicazione delle norme invocate con il primo motivo del ricorso in esame. In particolare vi era un obbligo di verifica dell’esistenza, validità ed efficacia della delibera in conformità del valore delle singole posizioni condominiali anche in assenza tabelle regolari. Ed, ancora, se la pretesa del Condominio era o meno conforme a criteri di ripartizione. Giova, specificamente e con precipuo riferimento al secondo motivo del ricorso, raffermare il principio già affermato da questa Corte, secondo cui “in tema di riparto di spese condominiali, qualora non possa farsi riferimento ad una tabella millesimale approvata da tutti i condomini, il condomino non può sottrarsi al pagamento della quota, spettando al giudice di stabilire se la pretesa del condominio nei confronti del singolo condomino sia conforme ai criteri di ripartizione che, con riguardo ai valori delle singole quote di proprietà sono stabiliti dalla legge in “subiecta materia”, determinando egli stesso in via incidentale, anche in assenza di specifica richiesta al riguardo, i valori di piano o di porzioni di piano espressi in millesimi” (Cass. civ., Sez. Seconda, Sent. 30 luglio 1992, n. 9107). L’esposto, condiviso e qui ribadito principio rinviene la sua evidente ratio nella necessità di assicurare comunque le condizioni di corretta continuità gestionale dell’ente condominiale, atteso che – in assenza di una valida approvata tabella ed al cospetto dell’opposizione di un condominio- non potrebbe comunque crearsi e legittimarsi una situazione di totale sottrazione all’obbligo di contribuire alle spese comuni e, quindi, di paralisi del condominio stesso.”
Lo ha affermato la Cassazione in un recente sentenza Cass. 10870/2016.
Ove l’uso del bene risulti impossibile a causa delle infiltrazioni, il Condominio potrebbe essere chiamato a rispondere del danno conseguente che il giudice, in applicazione di normali principi interpretativi e di giustizia, può commisurare anche al canone di locazione medio per immobile di analoghe caratteristiche, atteso che fra le modalità di godimento del bene rientra anche quella mediata di concederlo in locazione a terzi.
In tal senso non sussiste preciso e vincolante onere della prova da parte dell’attore, atteso che rientra fra le facoltà del Giudice effettuare tale valutazione a fronte di un proprietario che non si sia palesemente disinteressato delle sorti del proprio bene.
Nel caso di specie per il danno è poi stata ravvisata una responsabilità dell’appaltatore, ritenuta sussistente la garanzia relativa alle opere da cui era emerso il vizio che provocava le infiltrazioni, a fronte della domanda in tal senso avanzata dal Condominio.
La Corte ha rimesso ad altra sezione della corte d’appello affinché provveda a statuire nei conforti di tutte le parti in ordine all’entità del dovuto risarcimento.
Interessante pronuncia della Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 26 gennaio – 22 giugno 2016, n. 12980 ), sulla mai abbastanza chiarita questione della presunzione di condominialità e sulle condotte idonee al suo superamento.
L’originario unico proprietario dell’edificio ben potrà destinare determinati beni (nella fattispecie alcuni locali destinati a stireria e lavanderia) a svolgere una funzione autonoma e non strumentale all’utilizzo delle altre porzione del fabbricato.
Se tuttavia si vorrà che tale destinazione, che contrasta con la usuale destinazione di tali beni ad una funzione comune, sia opponibile ai condomini una volta che l’edificio – per la cessione a terzi delle unità esclusive – sia divenuto un condominio, tale circostanza dovrà risultare negli atti di acquisto, che rappresentano l’unico titolo idoneo a superare le presunzioni dettate dall’art. 1117 cod.civ. ove già non risulti dalle caratteristiche intrinseche al bene.
Al medesimo risultato non potrà invece pervenire una delibera succesiva, atteso che si tratta di atto dispositivo che ha natura negoziale e che è dunque sottratto al meccanismo deliberativo a maggioranza.
Osserva la Corte “In sintesi, la ricorrente deduce l’erroneità dell’accertamento svolto dal giudice d’appello, il quale, pur avendo correttamente indicato l’art. 1117 c. c. quale fonte di una presunzione iuris tantum della destinazione condominiale dei beni indicati al secondo comma della medesima norma, avrebbe indebitamente escluso dal novero degli “atti contrari” idonei a superare tale presunzione l’atto di destinazione unilaterale posto in essere dal proprietario esclusivo di un immobile indiviso, ritenendo invece necessario che tale volontà sia esplicitata nell’ambito del titolo costitutivo del condominio, ossia nel primo negozio di trasferimento delle portoni dell’immobile”.
“La questione riguarda dunque l’idoneità della deliberazione del 9 dicembre 1977 a escludere i locali occupati alla ricorrente dall’insieme dei beni condominiali, dovendosi altrimenti presumere, in virtù dell’aut. 1117, secondo comma, c c. – fondato sul rilievo esperienziale secondo cui determinati beni risultano normalmente connessi da un vincolo di destinatone strumentale alle porzioni di proprietà esclusiva dei singoli condomini – la natura comune degli stessi.”
“Di certo, appare evidente che non può disconoscersi la facoltà dell’unico proprietario dell’immobile di destinare, nell’ambito dell’uso esclusivo dell’edificio, singole frazioni dello stesso a un fine particolare, ma perché tale volontà unilaterale possa imporsi agli eventuali acquirenti delle portoni dello stabile, ossia ai futuri condomini, è necessario che l’elisione del nesso pertinenziale tra la res principale e la res secondaria, laddove non esplicitato in forma chiara nell’atto pubblico di trasferimento, costitutivo del condominio, emerga quantomeno sul piano oggettivo, alla luce dei connotati strutturali o della particolare collocazione del singolo bene la cui natura è controversa.“
“Tale principio, frutto di un approccio ermeneutico attento sia alle prerogative del proprietario sia alle esigenze di tutela degli acquirenti delle porzioni condominiali, trova conferma in numerosi precedenti di questa Corte, atti a tracciare un orientamento giurisprudenziale oggi dominante, in base al quale, laddove la genesi di un condominio avvenga mediante il successivo smembramento di una precedente proprietà individuale, la volontà dei contraenti di attribuire in via esclusiva la proprietà di un bene che, per sua struttura e ubicazione, dovrebbe considerarsi comune ai condomini, deve emergere in maniera chiara e trasparente dall’atto bilaterale di trasferimento delle singole frazioni condominiali.
Del resto, in assenza di un esplicita manifestazione della volontà delle parti, all’atto meramente unilaterale dell’originario proprietario non potrebbe riconoscersi alcuna efficacia costitutiva o probatoria, potendosi al più rilevare l’esistenza di circostanze oggettive tali da escludere ragionevolmente la natura condominiale del bene, qualora i connotati strutturali o la collocazione dello stesso rendano evidente, al momento della compravendita, la destinazione nell’interesse esclusivo del proprietario originario o di un numero limitato di condomini (in tal senso, Cass., nn. 26766 del 2014; 3257 del 2004; 16292 del 2002; 11877 del 2002; 2670 del 2001; 5442 del 1999; 9221 del 1994; 9062 del 1994; 6103 del 1993; 3679 del 1987; 1806 dei 1984). Pertanto, guardando alle peculiarità del caso di specie, appare doveroso riconoscere che il giudice di secondo grado ha fatto buona applicazione dei suddetti principi rilevando che le caratteristiche strutturali dei locali contestati ne evidenziano l’obiettiva destinazione condominiale, atteso che il lavatoio e lo stenditoio non appaiono strutturalmente separati dalle altre superfici condominiali, costituendo, peraltro, ricovero per il serbatoio comune dell’acqua e per la comune caldaia. Ne è derivata, pertanto, l’esclusione de/l’assenta proprietà esclusiva della ricorrente, non potendosi la stessa dedurre né dal tenore degli atti di trasferimento succedutisi nel tempo, i quali operano una distinzione ristretta ai soli locali destinati al servizio di portineria, né dalla delibera richiamata, il cui contenuto non ha trovato eco nei negozi traslativi delle singole frazioni condominiali (v. pag. 5 della sentenza impugnata).”
un importante principio espresso da una recentissima sentenza della Suprema Corte (Cass.civ. III sez. 22 giugno 2016 n. 18277)
“le spese necessarie alla conservazione stessa dell’immobile pignorato e cioè le spese indissolubilmente finalizzate al mantenimento in fisica e giuridica esistenza dell’immobile pignorato (con esclusione quindi delle spese che non abbiano un’immediata funzione conservativa dell’integrità del bene, quali le spese dirette alla manutenzione ordinaria o straordinaria o gli oneri di gestione condominiale) in quanto strumentali al perseguimento del risultato fisiologico della procedura di espropriazione forzata essendo intese a evitarne la chiusura anticipata, sono comprese tra le spese per gli atti necessari al possesso che ai sensi dell’articolo 8 del Dpr 30 maggio 2002 n. 115, il giudice dell’esecuzione può porre in via di anticipazione a carico del creditore procedente. Tali spese dovranno essere rimborsate come spese privilegiate ex articolo 2770 cc al creditore che le abbia corrisposte in via di anticipazione, ottemperando al provvedimento del giudice dell’esecuzione che ne abbia disposto l’onere a suo carico”
Non certo una buona notizia per quei condominii che, avviata l’azione esecutiva contro il condomino inadempiente, si vedranno costretti a gravarsi delle spese in corso di procedura.
E’ pur vero che per le spese straordinarie dovrebbe essere costituito il fondo speciale previsto dall’art. 1135 cod.civ.; è tuttavia noto che le vicende di tale fondo, a fronte della inopponibilità della sua destinazione a terzi e della pacifica pignorabilità del conto riconosciuta da molti giudici della esecuzione, non sempre e non con matematica certezza garantiscono il condominio da amare sorprese.
L’ISTITUTO DEL CONDOMINIO PARZIALE AFFRONTATO IN UNA RECENTISSIMA PRONUNCIA DELLA CASSAZIONE
Cassazione civile II sezione civile 17 giugno 2016 n. 12641
La seconda Sezione civile della Cassazione affronta il tema del condominio parziale con una sentenza il cui relatore è un noto ed illustre cultore della materia condominiale.
I FATTI: il titolare di un esercizio commerciale in Genova subisce danno dal crollo di un muro che fa parte del vicino caseggiato, composto dal tre distinti numeri civici e cita in giudizio il numero 13, assumendo che a tale porzione si riferisca il manufatto oggetto di danno. Si costituisce l’amministratore di tale numero civico unicamente per far valere il difetto di legittimazione passiva, affermando che il muro crollato è di pertinenza del civico 15.
I giudici di merito di primo e secondo grado (Tribunale e Corte di Appello di Genova) accolgono l’eccezione e respingono la domanda, così che il danneggiato ricorre in Cassazione.
Assai interessante appare già la ricostruzione dei fatti effettuata dal giudice di legittimità: “E’ pacifico che la domanda di risarcimento dei danni fosse stata portata da G. B. con la citazione del 26 giugno 2001 nei confronti del condominio di via B. I. n. 13″. L’attore esponeva che nell’edificio di tale condominio erano in corso lavori di ristrutturazione, nel corso dei quali si era verificato un crollo che aveva cagionato gravi danni all’esercizio commerciale da lui condotto. Era stato quindi proprio il B. a prospettare in domanda una legittimazione passiva del Condominio di via B. I. n. 13, agendo nei confronti dello stesso a titolo di responsabilità extracontrattuale quale custode e proprietario del muro crollato. Com’è stato autorevolmente chiarito da Cass. sez. un. 16 febbraio 2016, n. 2951, ai fini di valutare la sussistenza della legittimazione a contraddire, ciò che rileva è la prospettazione contenuta nella domanda, la quale individua un soggetto come titolare dell’obbligo o della diversa situazione soggettiva passiva dedotta in giudizio. La legittimazione passiva manca, allora, solo allorchè dalla stessa prospettazione della domanda emerga che il dovere o l’obbligo azionato non appartiene al convenuto. Nel caso in esame, pertanto, impropriamente si è discusso di difetto di legittimazione passiva del Condominio di via B. I. 13. Questo era il reale destinatario della pretesa risarcitoria intentata dal B., e questo si era costituito davanti al Tribunale di Genova per eccepire che il muro crollato sul Bar S. di proprietà dell’attore appartenesse al vicino edificio ed a diverso condominio edilizio. 61. Il Condominio di via B. I. 13 aveva, quindi, disconosciuto, stricto sensu, non la propria legittimazione passiva quanto la riferibilità ad esso della titolarità della posizione soggettiva passiva dedotta in giudizio a sostegno della richiesta di danni. La relativa questione attiene, pertanto, al merito della causa e non alla legittimazione: ovvero, se il muro crollato nel corso dei lavori di ristrutturazione rientrasse tra i beni comuni ex art. 1117 e.e. appartenenti al Condominio di via B. I. 13. All’esito del giudizio di merito, Tribunale e Corte d’Appello hanno dato per accertato che la parte crollata sull’immobile del B. durante i lavori eseguiti dalla I.G.C. rientrasse nella proprietà del diverso Condominio di via B. I. 15, e quindi che la parte convenuta non fosse titolare dell’obbligo risarcitorio che l’attore aveva prospettato come suo”
La Corte rileva anche il mutamento della domanda avanzata dall’attore: “Mutando la sua iniziale strategia difensiva, l’attore aveva quindi dedotto che, in realtà, la citazione si dovesse intendere rivolta all’unico Condominio di via B. I. 13, 15 e 17, trattandosi di complesso edilizio unitario.”
Da tale ricostruzione la Corte trae una lunga, articolata e interessante ricostruzione del fenomeno “condominio parziale”, che attiene ad aspetti sostanziali e processuali e che trascendono il mero aspetto della ripartizione della spesa individuato dall’art. 1123 III comma cod.civ.: “E’ noto come il nesso di condominialità, presupposto dalla regola di attribuzione di cui all’art. 1117 cod.civ., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive, sia estese in senso verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente, purché le diverse parti siano dotati di strutture portanti e di impianti essenziali comuni, come appunto quelle res che sono esemplificativamente elencate nell’art. 1117 cod.civ., con la riserva “se il contrario non risulta dal titolo”. Anzi, la “condominialità” si reputa non di meno sussistente pur ove sia verificabile un insieme di edifici “indipendenti”, e cioè manchi un così stretto nesso strutturale, materiale e funzionale, ciò ricavandosi dagli artt. 61 e 62 disp. att. cod.civ. , che consentono lo scioglimento del condominio nel caso in cui “un gruppo di edifici … si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi”, sempre che “restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dell’articolo 1117 del codice”. Può, pertanto, ravvisarsi un autonomo condominio dei proprietari di uno o alcuni dei beni già comuni dell’originario intero edificio solo nel rispetto della disposizione eccezionale di cui all’art. 61 disp.att. cod.civ., la quale prevede la possibilità di scissione, in base a deliberazione assembleare adottata con la maggioranza ex art. 1136, comma 2, e.e., dell’unico condominio originario in più condomini, mediante atto ricognitivo postulante che le diverse parti del complesso edilizio presentino i connotati di strutture autonome e distinte. La natura eccezionale dell’art. 61 disp.att. cod.civ. discende dalla constatazione che essa deroga al principio secondo il quale la divisione può essere attuata solo con il consenso unanime dei partecipanti alla comunione. E’ dunque agevole ipotizzare come possano esservi, nell’ambito dell’edificio condominiale, delle parti comuni, quali, ad esempio, il tetto, o l’area di sedime, o i muri maestri, o le scale, o l’ascensore, o il cortile, che risultino destinati al servizio o al godimento di una parte soltanto del fabbricato. Secondo la giurisprudenza, è in siffatte ipotesi automaticamente configurabile la fattispecie del condominio parziale “ex lege”: tutte le volte, cioè, in cui un bene, come detto, risulti, per le sue obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato al servizio e/o al godimento, in modo esclusivo, di una parte soltanto dell’edificio in condominio, esso rimane oggetto di un autonomo diritto di proprietà, venendo in tal caso meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene (Cass. 24 novembre 2010, n. 23851).
Mancano i presupposti per l’attribuzione, ex art. 1117 cod.civ., della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali, appaiano necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero siano destinati all’uso o al servizio non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Di per sé, il condominio parziale non esige un fatto o atto costitutivo a sé, ma insorge ope legis, in presenza della condizione materiale o funzionale giuridicamente rilevante, finendo per coesistere nell’edificio con la più vasta organizzazione configurata dal condominio.
Può, tuttavia, ipotizzarsi pure un’apposita clausola del regolamento volta ad attribuire soltanto ad un gruppo di condomini la proprietà di un bene o di un impianto, ovvero ad accertarne la titolarità esclusiva in forza della destinazione oggettiva della cosa stessa, dando conto delle conseguenze gestionali di tale situazione di condominio parziale. Nessuna modifica relativa al regime delle cose comuni può, infatti, derivare da una delibera di istituzione di uno o più condomini parziali nell’ambito del fabbricato: la volontà della maggioranza assembleare non potrebbe validamente modificare le relazioni di comproprietà tra i singoli condomini e le parti comuni dell’edificio, néincidere sulla legittimazione dei partecipanti a decidere in ordine alla loro gestione.
Il fondamento normativo, che limita in tal senso la proprietà di cose, servizi ed impianti dell’edificio, si rinviene nell ‘ art. 1123, comma 3, cod.civ. Il primo comma dello stesso art. 1123 cod.civ. elabora il principio generale secondo cui l’obbligazione di contribuire alle spese per la conservazione e per il godimento delle parti comuni si suddivide in proporzione alle quote di ciascuno; il terzo comma consente allora di aggiungere che l’obbligazione di contribuire alle spese per la conservazione ed il godimento grava, invece, soltanto su taluni condomini, come conseguenza della delimitazione della loro appartenenza. A tale parziale attribuzione della titolarità delle parti comuni corrispondono conseguenze di rilievo per quanto attiene alla gestione, nonché all’imputazione delle spese. Relativamente alle cose, di cui non hanno la titolarità per i partecipanti al gruppo non sussiste il diritto di partecipare all’assemblea, dal che deriva che la composizione del collegio e delle maggioranze si modifica in relazione alla titolarità delle specifiche parti oggetto della concreta delibera da adottare. A carico dei medesimi condomini privi di contitolarità con riguardo a quel dato bene, neppure ovviamente si pone un problema di contribuire alle spese. (Cass. 17 febbraio 2012, n. 2363, peraltro, ha del tutto convincentemente negato una legittimazione processuale del condominio parziale, tale da poter sostituire il condominio dell’intero edificio, dichiarando inammissibile il ricorso proposto dal “Condominio della Scala D” avverso una sentenza pronunciata al culmine di un giudizio di merito del quale era stato in precedenza parte il Condominio globalmente inteso, e altresì specificando l ‘irrilevanza del fatto che l’amministratore del medesimo condominio parziale della singola scala fosse la stessa persona fisica investita di tale ufficio nel condominio dell’intero edificio). La negazione di un’ipotetica legittimazione e capacità processuale autonoma o sostitutiva del condominio parziale rispetto al condomino dell’intero edificio, ovvero della facoltà dello stesso di agire mediante un proprio distinto rappresentante a difesa dei diritti comuni inerenti alle parti oggetto della più limitata contitolarità di cui all’art. 1123, comma 3, cod.civ. , è corroborata dalla considerazione che i criteri di ripartizione delle spese necessarie per provvedere alla manutenzione delle parti comuni, stabiliti dagli artt. 1123, 1124, 1125 e 1126 cod.civ., non possono mai influire sulla legittimazione del condominio nella sua interezza, né sulla rappresentanza del suo amministratore estesa a tutti i condomini.”
La premessa in diritto consente di risolvere il caso all’esame della Corte, che sottolinea come l’accertamento di merito sulla sussistenza o meno di un unico edificio o di più condominii contigui ma autonomi è accertamento di fato insindacabile – ove adeguatamente motivato – in sede di legittimità.:
“Ove, come egli assume, il muro crollato e causa del danno da risarcire costituisse bene necessario all’uso comune soltanto relativo ad uno degli edifici dell’unico Condominio di via B. I. contraddistinto coi numeri 13, 15 e 17, in situazione di condominio parziale, e quindi inserito in un più ampio complesso condominiale abbracciante i tre numeri civici, comunque la domanda risarcitoria sarebbe risultata inammissibilmente rivolta nei confronti di uno solo di tali edifici (quello numero 13), ovvero di un condominio parziale, contravvenendo a quanto dapprima evidenziato nel richiamo al principio affermato da Cass. 17 febbraio 2012, n. 2363. Peraltro, col dedursi appunto che il muro crollato, e dal quale era disceso il danno all’esercizio commerciale del B., appartenesse, in realtà, all’unico condominio complesso, costituito dai tre fabbricati nn. 13, 15 e 17 di via B. I., in quanto gruppo di edifici che, seppur indipendenti, avessero in comune alcuni dei beni di cui all’art. 1117 e.e., si suppone una valutazione in fatto, sottratta ·al giudizio di legittimità. Spetta, infatti, all’accertamento del giudice di merito, non sindacabile dalla Corte di Cassazione ove, come nella specie, congruamente motivato, verificare l’esistenza di un unico condominio nell’ipotesi di fabbricati adiacenti orizzontalmente, in quanto dotati di strutture portanti o impianti comuni tra quelli indicati dal citato art. 1117 cod.civ. La Corte d’Appello di Genova ha argomentato al riguardo che mancassero elementi per ricavarne che i tre civici potessero essere considerati un unico edificio, essendo essi, anzi, del tutto distinti, con ingressi autonomi, sicchè la domanda risarcitoria andava rivolta al Condominio del civico 15, benché fosse rappresentato dallo stesso amministratore del civico 13 erroneamente evocato in lite. Allorchè il ricorrente censura l’affermazione della sentenza della Corte d’Appello secondo cui si tratterebbe di tre edifici del tutto distinti, perché essa non avrebbe tenuto conto del fatto incontestato della “continuità tra i tre civici”, ciò non equivale alla denuncia di un vizio di motivazione su un punto decisivo, denunziabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., in quanto tale doglianza postula che il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento, nel senso che, dopo aver percepito un fatto di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo, in modo che l’omissione venga a risolversi in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza del fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in modo insufficiente o illogico.”
Una sentenza interessante, che traccia – nell’anno 2016 – i contenuti ed i confini di un istituto peculiare quale il condominio parziale.
Nella seconda parte si esaminerà, con lo stesso criterio (l’evidenziazione dei passi cruciali del provvedimento), una pronuncia assai più risalente che rappresenta una pietra miliare nella disamina dello stesso istituto e che vede la firma – quale relatore – di Rafaele Corona (già presidente della Seconda Sezione della CAssazione), finissimo studioso del diritto condominiale.
Nella sentenza 7885/1994 si tracciano, con grande acutezza, non solo le linee del Condominio parziale, ma si giunge assai vicini all’essenza del diritto di condominio, un concetto che il legislatore ha disciplinato ma mai espresso.
Regolamento per l’attuazione della direttiva europea sugli ascensori e sui componenti di sicurezza degli stessi (decreto del Presidente della Repubblica – esame preliminare)
Il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Matteo Renzi, del Ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali Giuliano Poletti e del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione Maria Anna Madia, ha deliberato l’approvazione in esame preliminare di un regolamento, da adottarsi con decreto del Presidente della Repubblica, concernente modifiche al decreto del Presidente della Repubblica del 30 aprile 1999, n. 162, per l’attuazione della direttiva 2014/33/Ue relativa agli ascensori e ai componenti di sicurezza degli ascensori, nonché per l’esercizio degli ascensori.
Nello specifico, il provvedimento tiene conto delle innovazioni in materia di accreditamento degli organismi di valutazione della conformità, di vigilanza e controllo del mercato per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti, di principi generali della marcatura CE e di stato compatibile. L’ambito di applicazione della direttiva si estende agli ascensori intesi come prodotti finiti e installati in modo permanente in edifici o costruzioni e ai componenti di sicurezza per ascensori nuovi prodotti da un fabbricante nell’Unione oppure componenti di sicurezza nuovi o usati importati da un paese terzo. La direttiva 2014/33 responsabilizza gli operatori economici per la conformità degli ascensori e dei componenti di sicurezza per ascensori ai requisiti in essa previsti, in modo da garantire un elevato livello di protezione della salute e della sicurezza delle persone e dei beni, nonché una concorrenza leale sul mercato dell’Unione. Nell’interesse della competitività, è quindi fondamentale che gli organismi notificati applichino le procedure di valutazione della conformità senza creare oneri superflui per gli operatori economici.
Il Condominio lamenta danni da infiltrazioni e promuove azione nei confronti della ditta costruttrice, la quale costituendosi in giudizio si difende sostenendo che “i danni, ove sussistenti, erano ascrivibili alla esclusiva responsabilità del progettista-direttore dei lavori” e chiedendo di essere autorizzata a chiamarlo in causa.
In primo grado costruttore e direttore vengono ritenuti solidalmente responsabili e condannati dal Tribunale di Mantova a risarcire il Condominio per oltre 80.000 euro.
La Corte d’Appello di Brescia ribalta il verdetto, rigettando tutte le domande e “osservando – per quanto ancora interessa – che il diritto al risarcimento danni nei confronti dell’impresa si era prescritto e che l’assenza di responsabilità (di natura extracontrattuale) del progettista/direttore dei lavori nominato dall’impresa poteva ritenersi sufficientemente accertata in giudizio”
La vicenda approda alla Corte di Cassazione, II sezione civile, che decide con sentenza 03/05/2016, (ud. 02/03/2016, dep.03/05/2016), n. 8700
La Corte di legittimità censura la decisione di secondo grado, ritenendo che sussista agli atti prova scritta di reiterate interruzioni della prescrizione relativa all’anno previsto dall’art. 1669 per la proposizione dell’azione dopo la denunzia dei vizi, cosicché da quegli atti di interruzione è decorso nuovo periodo annuale a favore del committente che ha poi promosso nei termini il giudizio.
Interessante è il rilievo circa la responsabilità del soggetto – che nel caso di specie rivestiva la duplice qualifica di progettista e direttore dei lavori – figure cui non è sempre chiaro quale coinvolgimento estendere nelle liti che riguardano Condominio e appaltatore.
Afferma la Corte che il Condominio, nel ricorso in cassazione, “Richiamati i principi di diritto che disciplinano la responsabilità del direttore dei lavori, rileva che dagli accertamenti compiuti dal consulente tecnico erano emersi difetti (mancanza di manto impermeabilizzante sul solaio di copertura, cattiva esecuzione dei pozzetti esterni, intonaco non realizzato con stabilitura di calce aerea, unicità dello strato di tinteggiatura, porosità del calcestruzzo utilizzato per la trave di fondazione, rigonfiamenti dell’intonaco) che non avrebbero potuto sfuggire al direttore dei lavori e che pertanto ne avrebbero giustificato la affermazione di responsabilità per i danni conseguenti.”
Viene riaffermato un consolidato orientamento che qualifica la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 cod.civ. “Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, configurando l’art. 1669 c.c. una sorta di responsabilità extracontrattuale, analoga a quella aquiliana, nella stessa possono incorrere, a titolo di concorso con l’appaltatore – costruttore del fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, anche tutti quei soggetti, che prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione dell’opera, abbiano comunque contribuito, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o direttore dei lavori), alla determinazione dell’evento dannoso, costituito dall’insorgenza dei vizi in questione (v., tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 17874 del 23/07/2013 Rv. 627344;, Cass. nn. 19868/09, 3406/06, 13158/02, 4900/93).”
Nel caso di specie la Suprema Corte rileva che dagli accertamenti tecnici svolti nei giudizi di merito non è emersa responsabilità per le scelte progettuali e quindi il professionista può andare esente da colpa sotto tale profilo, mentre lo stesso non può dirsi per la sua qualifica di Direttore Lavori: “E’ stato affermato in giurisprudenza che la natura della responsabilità del direttore dei lavori nominato dal committente o dell’appaltatore – da valutare alla stregua della diligentia quam in concreto in relazione alla competenza professionale dallo stesso esigibile – per un fatto dannoso cagionato ad un terzo dall’esecuzione di essi, è di natura extracontrattuale e perciò può concorrere con quella di costoro se le rispettive azioni o omissioni, costituenti autonomi fatti illeciti, hanno contribuito causalmente a produrlo. In relazione poi al direttore dei lavori dell’appaltatore egli risponde del danno derivato al terzo se ha omesso di impartire le opportune direttive per evitarlo e di assicurarsi della loro osservanza, ovvero di manifestare il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi astenendosi dal continuare a dirigerli in mancanza di adozione delle cautele disposte (v. Sez. 3, Sentenza n. 15789 del 22/10/2003 Rv. 567581; Sez. 2, Sentenza n. 11359 del 29/08/2000 Rv. 539873). Per quanto attiene in particolare al direttore dei lavori dell’appaltatore (ed è il caso che qui interessa) è’ stato altresì precisato che egli risponde del fatto dannoso verificatosi sia se non si è accorto del pericolo, percepibile in base alle norme di perizia e capacità tecnica esigibili nel caso concreto, che sarebbe potuto derivare dall’esecuzione delle opere, sia se ha omesso di impartire le opportune direttive al riguardo nonchè di controllarne l’ottemperanza, al contempo manifestando il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi ed astenendosi dal continuare la propria opera di direttore se non venissero adottate le cautele disposte (v. Sentenza n. 15789/2003 cit. in motivazione)”.