il diritto di impugnare la delibera compete (quasi sempre) al condomino e non al conduttore

La Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile, 5 gennaio 2017, n. 151) esaminando un caso peculiare – in cui il Condominio aveva deliberato di disporre la chiusura dei cancelli di accesso all’area cortilizia interna per impedire il transito veicolare – ribadisce un prinpicio consolidato.

Salvo che per le materia in cui è chiamato a decidere il conduttore (riscaldamento), il diritto di impugnare la delibera compete unicamente al condomino locatore: “la Corte d’appello si è attenuta al principio di diritto ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui il potere di impugnare le deliberazioni condominiali compete, per il disposto dell’art. 1137 cod. civ., ai titolari di diritti reali sulle singole unità immobiliari, anche in caso di locazione dell’immobile, salvo che nella particolare materia dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d’aria, per la quale la decisione e, conseguentemente, la facoltà di ricorrere, sono attribuite ai conduttori (ex plurimis, Cass., sez. 2, sent. n. 869 del 2012).”

La premessa in fatto e diritto, con cui in sentenza è descritta la vicenda sostanziale e processuale,  è indispensabile per comprendere anche l’altro punto su cui si esprime la Cassazione, ovvero la legittimità della delibera con cui il condominio limita l’uso dell’area interna cortilizia: è legittima l’innovazione che limiti per tutti i condomini e per finalità di interesse collettivo l’uso di un determinato bene comune. 

Il Tribunale di Terni aveva parzialmente accolto la domanda proposta dai sigg. L. , M. , F. , T. e I. in qualità di conduttori i primi due, e di proprietari gli altri di unità immobiliari ad uso commerciale facenti parte del Condominio di (omissis) , e per l’effetto aveva dichiarato la nullità della delibera 7 ottobre 2004 nella parte in cui prevedeva la chiusura permanente dei cancelli e delle sbarre di accesso all’area privata interna per tutto l’arco della giornata.
La Corte d’appello, adita dal Condominio, ha rilevato il difetto di legittimazione delle sigg. L. e M. ad impugnare la delibera, in quanto soltanto conduttrici delle unità immobiliari, e nel merito ha rigettato la domanda di accertamento della nullità della delibera condominiale 7 ottobre 2004.  Secondo la Corte territoriale, la legittimità della delibera condominiale, che prevedeva il divieto di apertura del cancello salvo che per effettuare le operazioni di carico e scarico di merci, doveva essere valutata in riferimento al disposto dell’art. 1120 cod. civ., in materia di innovazioni relative all’uso della cosa comune, e non al disposto dell’art. 1102 cod. civ., come ritenuto dal Tribunale. In tale prospettiva, la disposta limitazione era coerente con la previsione contenuta nel Regolamento condominiale, nel quale era stabilito che “gli spazi di proprietà comune, durante le ore diurne, saranno luogo sicuro di ricreazione dei bimbi del condominio e quindi le auto dei condomini non dovranno sostare in dette aree, ad eccezione di brevi istanti per la salita e la discesa dagli automezzi”. In esecuzione del Regolamento, infatti, già con delibera condominiale del 4 marzo 1981 era stata decisa l’installazione del cancello scorrevole, con chiusura che permetteva l’accesso per le operazioni di carico e scarico delle merci presso i negozi situati nello stabile condominiale. Tale delibera era stata confermata con la successiva del 29 agosto 1991, la cui impugnazione era stata rigettata dal Tribunale ed era diventata definitiva, per assenza di gravame sul punto.
La Corte d’appello ha inoltre osservato che la delibera del 7 ottobre 2004, ancora oggetto di controversia, ribadiva il contenuto di precedente delibera del 7 maggio 2004, che aveva risolto il contrasto tra condomini proprietari degli appartamenti e condomini proprietari dei locali ad uso commerciale, confermando la necessità della chiusura permanente del cancello, con l’eccezione indicata. La delibera non aveva prodotto l’inservibilità dell’area comune per alcuni condomini, e in particolare per quelli che l’avevano impugnata, ma soltanto la riduzione dell’uso dell’area comune per tutti i condomini, e tale decisione rientrava a pieno titolo nelle facoltà rimesse all’assemblea condominiale.”

La Suprema Corte, chiamata a censurare tale aspetto, afferma: “i ricorrenti evidenziano che la chiusura del cancello costituiva innovazione vietata, poiché aveva determinato una sensibile menomazione dell’utilità che in precedenza gli stessi ricorrenti traevano dal bene comune (è richiamata Cass., sez. 2, sentenza n. 20639 del 2005), sotto il profilo della visibilità e dell’accesso, anche potenziale della clientela, e che erroneamente la Corte d’appello aveva ritenuto che la verifica della legittimità della delibera dovesse essere condotta alla stregua soltanto dell’art. 1120 cod. civ.. La disciplina dell’uso del cancello doveva essere valutata, invece, anche in relazione al principio del pari godimento della cosa comune.
Le doglianze, che possono essere esaminate congiuntamente perché connesse, sono infondate.
La ratio decidendi della sentenza impugnata è duplice: la Corte d’appello ha ritenuto, da un lato, che la delibera impugnata fosse meramente confermativa di precedente delibera, coerente con la destinazione dell’area risultante dal regolamento condominiale e con la già avvenuta installazione del cancello automatico, e, dall’altro lato, ha evidenziato che si trattava di delibera rispettosa della regola prevista dall’art. 1120 cod. civ., in quanto non aveva reso inservibile l’area ad alcuno dei condomini. La prima ratio è contestata con il terzo motivo, che tuttavia si risolve nella prospettazione di una interpretazione del contenuto della delibera difforme da quella operata dalla Corte di merito, vale a dire in un apprezzamento in fatto alternativo a quello e ciò, in sede di legittimità, non è consentito (ex plurimis, e, Cass. 15185 del 2001) in assenza di errori di diritto e vizi logici.
Rimanendo integra la prima ratio decidendi, la doglianza proposta con il quarto motivo risulta priva di decisività in quanto inidonea a condurre alla cassazione della sentenza, e come tale inammissibile (ex plurimis, Sez. U, sent. 15185 del 2001).”

© massimo ginesi 16 gennaio 2017

l’obbligazione condominiale è retta dal principio della parziarietà

La Cassazione torna sul regime dell’obbligazione condominiale, escludendo che possa ritenersi applicabile il principio della solidarietà.

La vicenda affonda le radici in tempi antecedenti la novella del 2012, la sentenza dunque  non affronta ex professo l’incidenza dell’art. 63 disp.att. cod.civ. nella formulazione introdotta dalla riforma, tuttavia i principi espressi su materia complessa –  ricca di conseguenze ed implicazioni – sono di utile orientamento nella lettura delle vicende patrimoniali all’interno della compagine condominiale.

L’illustre relatore condensa con mirabile sintesi i principi cardine della vicenda, sicché è opportuno riportare integralmente la motivazione della decisione.

Cass. sez. II Civile, 9 gennaio 2017, n. 199 Relatore Scarpa: ” Nel caso in esame, secondo quando dato per accertato dal Tribunale di Napoli, si ha riguardo ad obbligazione per l’esecuzione dei lavori di rifacimento del solaio di un lastrico solare di proprietà esclusiva assunta dall’amministratore del condominio, o comunque, nell’interesse del condominio, nei confronti dell’appaltatore. Come insegnato da Cass. Sez. U, Sentenza n. 9148 del 08/04/2008 (con principio che va integralmente confermato, non trovando qui applicazione, ratione temporis, neppure il meccanismo di garanzia ex art. 63, comma 2, disp. att. c.c., introdotto dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), in difetto di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità per il corrispettivo contrattuale preteso dall’appaltatore, incombente su chi abbia l’uso esclusivo del lastrico e sui condomini della parte dell’edificio cui il lastrico serve, è retta dal criterio della parziarietà, per cui l’obbligazione assunta nell’interesse del condominio si imputa ai singoli componenti nelle proporzioni stabilite dall’art. 1126 c.c., essendo tale norma non limitata a regolare il mero aspetto interno della ripartizione delle spese.”

Dovendosi negare che l’obbligo di contribuzione alle spese di rifacimento del terrazzo di copertura si connotasse verso l’appaltatore, terzo creditore, come rapporto unico con più debitori, ovvero come obbligazione solidale per l’intero in senso proprio e quindi ad interesse comune, alla T. , quale condomina (in particolare, titolare della proprietà esclusiva del terrazzo) che aveva adempiuto nelle mani dell’appaltatore al pagamento dell’intero prezzo dei lavori, non poteva accordarsi un diritto di regresso nei confronti degli altri condomini, sia pur limitatamente alla quota millesimale dovuta da ciascuno di essi, ex art. 1299 c.c.. Il regresso, che ha per oggetto il rimborso di quanto sia stato pagato a titolo di capitale, interessi e spese, consiste in un diritto che sorge per la prima volta in capo al condebitore adempiente sulla base del c.d. aspetto interno dell’obbligazione plurisoggettiva. Né, smentito il debito solidale dei condomini, al condomino che abbia versato al terzo creditore anche la parte dovuta dai restanti condomini, allo scopo di ottenere da costoro il rimborso di quanto da lui corrisposto, può consentirsi di avvalersi della surrogazione legale in forza dell’art. 1203, n. 3, c.c., giacché essa – implicando il subentrare del condebitore adempiente nell’originario diritto del creditore soddisfatto in forza di una vicenda successoria – ha luogo a vantaggio di colui che, essendo tenuto con altri o per altri al pagamento del debito, aveva interesse a soddisfarlo. Dunque, il pagamento da parte della condomina T. delle quote del corrispettivo d’appalto dei lavori di rifacimento del terrazzo a livello dovute dai restanti condomini poteva al più legittimare la stessa ad agire, come pure prospetta il Tribunale, per ottenere l’indennizzo da ingiustificato arricchimento, stante il vantaggio economico ricevuto dagli altri condomini (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 9946 del 29/04/2009).
Correttamente, poi, il Tribunale ha negato l’applicabilità nel caso in esame tanto dell’art. 1110 che dell’art. 1134 c.c.. Queste due norme recano, invero, una diversa disciplina in materia di rimborso delle spese sostenute dal partecipante per la conservazione della cosa comune, rispettivamente, nella comunione e nel condominio di edifici, disciplina che condiziona il relativo diritto, in un caso, a mera trascuranza degli altri partecipanti e, nell’altro caso, al diverso e più stringente presupposto dell’urgenza. Il Tribunale di Napoli ha osservato come i lavori di rifacimento del terrazzo fossero stati comunque commissionati dall’amministrazione condorniniale, e non derivassero, quindi, da iniziative di gestione prese dal singolo partecipante. D’altro canto, si ha riguardo, nella specie, a spese non inerenti una cosa comune (come postulato dagli artt. 1110 e 1134 c.c.), quanto un lastrico o terrazzo di proprietà esclusiva, sicché il dovere di contribuire ai costi di manutenzione rinviene la sua ragione, ex art. 1126 c.c., nell’utilità che i condomini sottostanti traggono dal bene.

© massimo ginesi 11 gennaio 2017

la rappresentanza processuale dell’amministratore e l’azione di rivendicazione

La Cassazione ritorna su un  tema lungamente discusso: all’esito di una complessa vicenda processuale,  nella quale alcuni condomini hanno agito nei conforti di terzi per vedersi restituire un’unità posta nel fabbricato assumendosene proprietari, il Condominio interviene nel giudizio per rivendicare la proprietà condominiale dello stesso bene.

La pronuncia (Cass. civ. II sez. 5 gennaio 2017 n. 133) affronta lunghe questioni preliminari relative alla impugnazione della sentenza parziale e poi perviene alla (lunghissima) disamina del punto relativo alla legittimazione dell’amministratore, in generale e  nel giudizio di rivendicazione.

Afferma la Corte: “AI fini della trattazione dell’argomento proposto allora viene in esame la natura giuridica dell’organo cui nel condominio è affidata la gestione amministrativa e cioè dell’amministratore, e le funzioni allo stesso affidate dalla legge, con particolare riguardo alla tutela in sede giudiziaria dei diritti di cui sono rispettivamente titolari l’ente condominiale e i singoli condomini, per determinare l’estensione teleologica della legittimazione passiva dell’amministratore con riferimento ai rapporti con litisconsorzio  passivo dei condomini e alla dialettica dei giudizi di rivendicazione. Partendo dal presupposto che il condominio è privo di personalità giuridica, in quanto unicamente ente di gestione delle cose comuni e che l’amministratore può agire in virtù della sola  delibera assembleare, anche non totalitaria, a tutela della gestione delle stesse, occorre individuare il fondamento normativo del potere di rappresentanza ed i suoi limiti”.

Le norme alle quali occorre fare riferimento sono gli articoli 1130 e 1131 codice civile che, rispettivamente, disciplinano, il primo, le attribuzioni dell’amministratore, il secondo, in forma specifica, la rappresentanza del condominio da parte dell’amministratore. Dall’articolo 1131 codice civile si deduce che il potere di rappresentanza dell’amministratore è contenuto nei limiti delle attribuzioni previste dall’articolo 1130 codice  civile, ossia si riferisce alle parti e ai servizi comuni, nonché alle controversie riguardanti i beni comuni. All’amministratore del condominio compete l’esecuzione delle deliberazioni dell’assemblea nonché, in genere tutta l’attività di ordinaria amministrazione, giusta l’elenco analitico di attribuzioni previsto dall’articolo 1130 e civile. Nei limiti di tali attribuzioni, o dei maggiori poteri eventualmente conferitigli  dal regolamento o dalla assemblea, egli ha la rappresentanza  dei condomini e può stare in giudizio sia pe essi contro terzi sia contro uno di essi per tutti gli altri (articolo 1131, commi 1 e 2 ).

Il sistema che si delinea consiste, pertanto, nel separare le situazioni di carattere condominiale da quelle di carattere individuale del singolo condomino e soltanto in ordine alle prime l’amministratore è legittimato ad esercitare le funzioni di rappresentanza, pur ammissibile un intervento dell’amministratore anche per la tutela degli interessi esclusivi del singolo condomino, purché costui gli conferisca espressa procura. Si tratta di una figura del tutto speciale di rappresentanza, che si distingue dal modello di rappresentanza volontaria, in ragione della determinazione legale delle relative attribuzioni.

Secondo la giurisprudenza consolidata, l’amministratore del condominio raffigura un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza, con la conseguente applicazione, nei rapporti tra amministratore e ciascuno dei condomini, delle disposizioni sul mandato, anche se con carattere meramente sussidiario. Ovviamente, come desumibile, la rappresentanza, non soltanto processuale, dell’amministratore di condominio è circoscritta alle attribuzioni, ai compiti ed ai poteri, stabiliti dall’articolo 1130 codice civile. Con disposizione rimasta inalterata nella riforma di cui la legge numero 220 del 2012, l’articolo 1131 codice civile stabilisce che l’amministratore “può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio” e che, ove la citazione abbia un contenuto esorbitante dalle sue attribuzioni, “è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condomini”, pena la revoca  dall’incarico e la responsabilità per danni.

La giurisprudenza di legittimità individua la ratio della previsione normativa circa la legittimazione passiva dell’amministratore nell’obiettivo di “facilitare i terzi la convocazione in giudizio del condominio” (confrontare Cassazione numero 9213 del 2005). Riconosce, quindi, la l’illimitatezza di tale legittimazione e la asimmetria rispetto alla legittimazione attiva, quest’ultima circoscritta entro limiti delle attribuzioni dell’amministratore.

Si è detto in più occasioni che, ai sensi dell’articolo 1131, secondo comma, codice civile, la legittimazione dell’amministratore (esclusiva o concorrente con quella dei singoli condomini) non incontra limiti dal lato passivo , anche rispetto alle azioni di natura reale indirizzate contro il condominio relativamente alle parti comuni dell’edificio, in tali casi gravando sull’amministratore solo l’obbligo di riferirne all’assemblea – obbligo di mera rilevanza interna non  incidente sulla rappresentanza processuale – sì che la vocatio  in ius  dell’amministratore esclude la necessità di promuovere il litisconsorzio passivo di tutti i condomini (confrontare Cassazione numero 15.547 del 2005). Emblematicamente, la legittimazione passiva dell’amministratore, in luogo del litisconsorzio necessario dei condomini, è stata riconosciuta, in modo simultaneo, nell’occasione di una lite fra i condomini, tanto per la negatoria servitùtis, quanto per la speculare confessoria (confrontare Cassazione numero 19460 del 2005). 

La Suprema Corte avuto modo di chiarire che la vocazione generale della legittimazione passiva di cui all’articolo 1131, secondo comma, codice civile resta insensibile alla distinzione tra azione di accertamento, azioni costitutive e azioni di condanna, in quanto vale sempre la ratio legislatura di agevolare i terzi nella chiamata in giudizio del condominio, ovviando alle difficoltà pratiche di promuovere e preservare il litis consorzio passivo di tutti condomini, sicché, riguardo alla negatoria e confessoria servitus , la legittimazione passiva dell’amministratore sussiste anche nel caso in cui l’azione sia diretta a ottenere la condanna alla rimozione di opere comuni.

In realtà l’attento scrutinio delle fattispecie evidenzia come non l’oggetto rivendicativo dell’azione determini la necessità del litisconsorzio di tutti i condomini bensì la linea difensiva assunta dal convenuto, il quale neghi la proprietà esclusiva e ne assuma, viceversa, la natura condominiale del bene rivendicato. Il fattore determinante risiede nella natura dell’accertamento proprietario, che, in quanto sollecitato da una mera eccezione, avviene incidente tantum: ove abbia carattere puramente incidentale, l’accertamento dominicale non eccede l’ambito di legittimazione passiva dell’amministratore e non impone il litisconsorzio  passivo di tutti condomini.

Così recente decisione  – fermo che ogni condomino può proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri comproprietari, in quanto il diritto di ciascun condomino ha per oggetto il bene comune nella sua interezza, pur nei limiti dei  concorrenti diritti altrui (Cass. 19460 del 2005 cit.) – separa nettamente   l’ipotesi in cui il convenuto sollevi  eccezione riconvenzionale di proprietà esclusiva, al limitato fine di paralizzare l’avversa  domanda petitoria, dall’ipotesi in cui egli formula una domanda riconvenzionale, allo scopo di ottenere l’accertamento del proprio dominio esclusivo, il litisconsorzio  necessario di tutti condomini ricorrendo unicamente nel caso della domanda riconvenzionale, atteso che l’eccezione sollecita un mero accertamento incidente tantum, destinata ad esplicare efficacia soltanto fra le parti.

In adesione si è stabilito,  ancor più di recente, che il liticonsorzio passivo dei condomini necessita soltanto in caso di domanda riconvenzionale volta ad ottenere la declaratoria di proprietà esclusiva, non anche in caso di semplice eccezione riconvenzionale, già che soltanto nel primo caso, non anche nel secondo, l’accertamento  dominicale produce effetti di giudicato estensivo nei confronti della intera compagine condominiale (Cass. 4624 del 2013).

L’eccezione  riconvenzionale di proprietà esclusiva non delinea  alcun potenziale conflitto fra i titoli dominicali (proprietà condominiale anziché proprietà esclusiva) giacché  essa non prelude alla formazione o alla negazione di un titolo: se accolta, non costituisce un titolo di dominio solitario a favore dell’eccipiente , neppure verso la controparte attuale; se respinta, non impedisce all’eccipiente  di agire per ottenere quel titolo, anche verso la controparte attuale”

Se questo è il quadro giurisprudenziale nel quale va in quadrata la fattispecie, muovendo dall’assunto del carattere generale della legittimazione passiva dell’amministratore, che – contenuta nei limiti delle attribuzioni previste dall’articolo 1130 codice civile – è estesa a ogni interesse condominiale (alle parti e ai servizi comuni nonché alle controversie riguardanti i beni comuni) la questione sequenziale che si pone è se  di fronte al chiaro disposto dell’articolo 1131 codice civile, comma 2, in base al quale l’amministratore può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio, possa escludersi tale legittimazione nel caso in cui un condomino (un terzo) rivendichi la proprietà esclusiva di parti dell’edificio che non siano espressamente ricomprese nell’articolo 1117 codice civile”

La Corte compiuta la profonda (e non innovativa) disamina che precede, cassa dunque con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Messina che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: “Premessa la legittimazione passiva dell’amministratore per qualunque azione abbia ad oggetto parti comuni dello stabile condominiale, la individuazione della natura del bene controverso deve avvenire tenendo conto che l’articolo 1117 codice civile contiene  elencazione non tassativa ma solo esemplificativa delle cose comuni, essendo tali, salvo risulti diversamente dal titolo, anche quelle aventi un’oggettiva e concreta destinazione al servizio comune di tutto o di una parte soltanto delle unità immobiliari di proprietà individuale”

La sentenza, per gli operatori professionali del diritto, merita lettura integrale anche per gli aspetti strettamente processuali che analizza (impugnabilità  della sentenza parziale).

© massimo ginesi 9 gennaio 2017 

supercondominio e scale: servitù di passo o bene condominiale?

Una pronuncia di merito (Tribunale Massa 5 dicembre 2016) affronta una vicenda peculiare, ma non così infrequente, e tratta  diversi aspetti di sicuro interesse: l’esistenza  e la nascita del supercondominio, la possibilità di creare servitù all’interno dello stesso, la natura delle scale.

I fatti: un condomino è proprietario di immobile sito in un fabbricato complesso, composto da più corpi di fabbrica e con due diversi accessi dalla strada pubblica, e può fruire di due scale, che servono la sua unità immobiliare accedendo da ciascun numero civico.

Il Condominio delibera di effettuare lavori straordinari ad una delle due scale ed il condomino impugna la delibera sull’assunto che su detta scala abbia soltanto  una servitù di passo e non un diritto di comproprietà ex art. 1117 cod.civ.:  per tale motivo non devono essergli addebitati i relativi costi. La domanda, assai articolata in principali e subordinate,  attiene non solo alla impugnativa dei deliberati ma anche all’accertamento dei diritti sulle parti comuni e alla determinazione giudiziale delle tabelle, comportando dunque  la necessaria integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini ai sensi dell’art. 102 cod.proc.civ.

Non si tratta di corpi di fabbrica del tutto distinti, poiché le strutture murarie e i tetti di copertura sono in parte comuni e la stessa unità dell’attore si estende attraverso diversi di questi.

Osserva il giudice di merito che l’intero complesso può ricondursi alla fattispecie oggi delineata dall’art. 1117 bis cod.civ.: “E’ stata espletata CTU descrittiva e disposto accesso giudiziale, adempimenti dai quali non può non rilevarsi come il complesso edilizio denominato oggi Condominio C. debba essere ascritto al genus dei fabbricati edilizi complessi, disciplinati dall’art. 1117 bis cod.civ. (così come introdotto dalla legge 220/2012) fattispecie in precedenza delineata – con esiti pressoché coincidenti – dalla prevalente giurisprudenza.

Si tratta indubbiamente di fabbricato dalle caratteristiche peculiari, con parti destinate a fornire utilità maggiore (o esclusiva) ad alcuni dei condomini, ma tale ultimo aspetto – ove esistente e rilevante – dovrà essere risolto nell’ambito dell’art. 1123 III comma cod.civ., senza che possa  fungere quale presupposto logico e necessario per affermare l’esistenza di condominii distinti.
Risulta infatti che l’intero complesso immobiliare, per ciò intendendo l’intero involucro edilizio cui si accede dai civici 7 e 13 della via R. A., seppure articolato su più corpi di fabbrica e con coperture parzialmente autonome, non si distingua in unità edilizie funzionalmente autonome e separate dalle altre ma comporti una commistione delle strutture murarie principali, delle falde di copertura, degli ingressi e delle parti comuni che risultano, di volta in volta, destinate a fornire una utilità indistinta all’intero complesso, cui – in forza della norma sopra richiamata – devono ritenersi comuni per funzione ex art. 1117 nn. 1 e 3 cod.civ. , ove ciò già non risulti dal titolo.
La stessa unità immobiliare della attrice risulta posizionata in maniera trasversale rispetto ai due civici contraddistinti dal 7 e dal 13, sicché può accedere da entrambi gli androni e fruire delle scale posizionate in ciascuno, così come – elemento che si rivela ulteriormente qualificante – si estende, seppure parzialmente, anche sotto la copertura della porzione di edificio riconducibile al civico 13 e servita dalla scala oggetto di contesa (poco importa se con verande o portici o stanze, rilevando a tal fine unicamente il perimetro della proprietà esclusiva servita dalle parti comuni).
Tali elementi sarebbero sufficienti a considerare l’immobile un organismo edilizio complesso (c.d. supercondominio), che vede in comune – a mente del disposto di cui agli artt. 1117 e 1117 bis cod.civ. – le parti comuni necessarie alla sua stessa sussistenza.”

Quanto alla condominialità delle scale il Tribunale afferma che “Non vi è dubbio che , fra queste (le parti necessariamente comuni, n.d.r.), vi siano – per costante giurisprudenza – le scale, che non solo servono di accesso alle singole unità, ma sono ritenute elemento necessariamente comune negli edifici multipiano: “Le scale e i relativi pianerottoli, negli edifici in condominio, costituiscono strutture essenziali del fabbricato e rientrano, in assenza di una diversa disposizione, fra le parti comuni, anche se sono poste a servizio solo di alcuni proprietari dello stabile.” Cassazione civile, sez. VI, 09/03/2016,  n. 4664
Nel caso di specie non risultano titoli, anche alla luce di quanto si dirà in appresso, che attribuiscano le scale in proprietà specifica ad alcuni condomini, mentre esiste con ogni evidenza una destinazione funzionale delle scale oggetto di contesa ad accedere alla unità della attrice, nonchè al tetto che in parte la copre in quella porzione di fabbricato. Ad ulteriore connotazione della funzione collettiva dell’androne del civico 13 e delle scale che dallo stesso si dipartono, va osservato che diversi impianti funzionali all’unità della attrice trovano ivi allocazione.
Non potrà dunque non ritenersi comune anche a detta unità sia l’androne che le scale che hanno accesso dal civico 13 di via R.A. e che svolgono funzione comune all’interno del Condominio C. complessivamente inteso.
Semmai, per quelle parti che risultino unicamente destinate a servire solo alcuni condomini, varrà l’esclusione in forza dell’art. 1123 III comma cod.civ. e della conseguente giurisprudenza che – in tal caso – ravvisa anche una proprietà limitata ai soli soggetti che se ne giovano: “Le scale danno accesso alle proprietà esclusive e per tale ragione sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo, essendo necessarie all’uso comune. Le obiettive caratteristiche strutturali, per cui dette scale servono in modo esclusivo all’uso o al godimento di una parte dell’immobile, ne fanno venire meno in questo caso il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene vince l’attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario.” Cassazione civile, sez. II, 19/04/2016,  n. 7704″

Quanto ai criteri di imputazione della spesa del bene ritenuto comune: “In sede di redazione delle tabelle il tecnico dovrà dunque valutare se dette scale, in quanto inidonee a rendere una funzione per taluni dei condomini (anche solo potenziale per l’accesso ad una porzione di tetto che li riguarda), debbano ritenersi di proprietà solo di alcuni, così come dovrà valutare – ai fini della effettiva caratura millesimale, l’effettiva entità della proprietà servita dalla parte comune (in ossequio ai principi stabiliti da Cass. 1451/2014).
Si tratta tuttavia di principi che attengono alla effettiva imputazione della spesa ai singoli condomini di parti comunque comuni e non già di circostanze che si rivelino idonee ad incidere sulla titolarità delle stesse.
Con la considerazione ulteriore che l’utilità deve essere valutata in senso ampio, astratto e potenziale, per quelle stesse ragioni che attribuiscono anche ai fondi che hanno accesso autonomo dalla strada le relative spese, seppure nella dimidiata misura di cui all’art. 1124 cod.civ. (Cass. n. 4419/2013; n. 15444/2007)”

Quanto alla asserita esistenza di servitù di passo, il Tribunale ritenuta la condominialità della scala e la relativa titolarità anche in capo alla attrice, deve necessariamente rifarsi alla nascita del condominio : “A superare tale qualificazione non valgono i titoli addotti dalla A., in forza dei quali l’attrice assumerebbe di essere mera titolare di una servitù di passo e di dover essere dunque esonerata dalle relative spese.
A tal proposito coglie nel segno la difesa della convenuta B., laddove ravvisa nell’atto notaio C. 1.7.1949 l’elemento costitutivo del Condominio C..
Con quella disposizione E.C.C., originaria unica proprietaria dell’intero complesso, cedeva per la prima volta ad un terzo – tal L. R. – una unità posta nel complesso immobiliare, creando così i presupposti per la nascita dell’edificio in condominio che sorge – senza necessità alcuna di atti costitutivi specifici o di regolamenti ad hoc – nel momento in cui almeno due unità immobiliari iniziano ad appartenere a soggetti diversi (Cass.Sez.II 19429/04).
In tale atto non emerge alcuna volontà della E.C.C. né di costituire servitù a favore della proprietà a lei rimasta (e che successivamente alienerà – in parte – al dante causa della odierna attrice) né tantomeno appare desumibile in alcun modo la volontà di dar luogo a più condomini separati, come afferma l’A., apparendo il richiamo al civico di accesso meramente descrittivo della unità effettivamente ceduta.
Non appare qualificante, in tal senso, neanche l’atto di vendita a CA. – dante causa della odierna attrice e che acquista con atto notaio C. del 24.10.1953 – in cui il termine “diritto di passo” appare utilizzato in modo atecnico e meramente descrittivo, volto a qualificare unicamente la facoltà di accesso e uso dell’unità venduta anche dalla scala che diparte dal civico 13, che non a caso non è definita appartenete ad altro edificio ma semplicemente “secondaria”, ovvero intesa come manufatto appartenente al medesimo complesso immobiliare ma destinata, per funzione ed uso, a rendere utilità anche a quella specifica unità immobiliare compravenduta e, quindi, anche a lei comune, seppur in affiancamento ad altro accesso che si ritiene principale (rectius, personale).
Del resto alla possibilità di costituire servitù sulle parti comuni da parte di E. C. C., una volta che il Condominio aveva iniziato ad esistere con l’atto del 1949, osta la circostanza che l’imposizione di pesi reali su beni ormai comuni non è più consentita all’originario unico proprietario senza del consenso degli altri condomini (ovvero, nella fattispecie, del R.).
Alla riconosciuta proprietà comune della scala de quo, consegue l’infondatezza della impugnativa delle delibere azionata con la domanda principale, anche alla luce dei seguenti principi:
– è sempre consentito al condominio disporre un riparto provvisorio delle spese, su base proporzionale, al fine di procedere alle necessarie opere di manutenzione
– le tabelle millesimali e comunque i criteri di riparto provvisori non richiedono approvazione all’unanimità, laddove si ispirino a criteri proporzionali assimilabili al disposto di cui all’art. 1123 cod.civ. (o, nella fattispecie, di cui all’art. 1124 cod.civ. ) e possono essere approvai con la maggioranza prevista dall’art. 1136 II comma cod.civ. (Cass. SS.UU 18477/2010), nel caso ampiamente raggiunta.
– tutte le delibere sono sempre state assunte in via provvisoria, in attesa di approvazione di tabella millesimale definitiva, ivi compresa quella del 27.5.2011 (come espressamente risulta dal relativo verbale), circostanza quest’ultima che rende priva di fondamento anche l’eccezione relativa a cessazione della materia del contendere sollevata dal convenuto condominio.

Non sarà inutile rilevare che, anche ove per ipotesi si fosse voluto riconoscere l’esistenza di servitù a favore della attrice, non muterebbero le conseguenze concrete in ordine alla imputazione delle spese, circostanza comunque dirimente in ordine alla legittimità delle delibere impugnate: a mente dell’art. 1069 III comma cod.civ. ove le opere giovino anche al fondo servente costui deve partecipare alle spese (App.-Genova 5.1.2011) ed è plausibile che nel caso peculiare la modalità dei rispettivi contributi debba e possa essere modulata sul disposto dell’art. 1124 cod.civ. “

Quanto agli esiti del Giudizio, il Tribunale ha deciso con sentenza parziale in ordine alla titolarità del bene disponendo in rodine al proseguo del giudizio per la determinazione giudiziale delle tabelle millesimali definitive, domanda comunque avanzata in via subordinata dalla attrice: “Sussisteva indubitabilmente legittimazione necessaria dei singoli condomini in ordine alla domanda di accertamento relativa a diritti reali sulle parti comuni, mentre sussiste pacificamente legittimazione autosufficiente del condominio per il giudizio relativo alla impugnativa.
Parimenti sussiste interesse del singolo condomino a veder adottata una tabella millesimale definitiva, volta al riparto delle spese in accordo con i principi codicistici (Trib. PAlermo, 22 marzo 2011). ”

© massimo ginesi 28 dicembre 2016

mappe catastali, titolo e beni comuni ex art. 1117 cod.civ.

La Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 11 ottobre – 21 dicembre 2016, n. 26609) affronta  una interessante vicenda, che chiarisce la rilevanza delle planimetrie allegate agli atti di acquisto nella interpretazione della volontà delle parti nonché la funzione  di tali elaborati grafici nella individuazione dei beni comuni ai sensi dell’art. 1117 cod.civ.

I fatti “Il Comune di Sarzana è proprietario, per acquisto dall’originario costruttore, dell’intero fabbricato posto in via dei Mulini 42/D, in territorio comunale, ad eccezione di due appartamenti che il medesimo costruttore aveva trattenuto per sé e successivamente ha venduto, uno, ai signori A.C. e A.F. e, l’altro, ai signori P.B. e B.Z.. Nel porticato posto al piano terra del suddetto fabbricato il Comune ha realizzato delle unità abitative da destinare agli sfrattati. I condomini suddetti hanno chiesto al tribunale di La Spezia, per quanto qui ancora interessa, la condanna del Comune alla rimozione di tali unità abitative e alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi, deducendo la natura condominiale del porticato in cui dette unità erano state realizzate.
La domanda dei condomini, disattesa in primo grado, è stata accolta dalla corte d’appello di Genova, la quale ha ritenuto che la presunzione di condominialità del porticato ex art. 1117 cc risultasse vinta dal tenore letterale del titolo di acquisto del comune, nel quale, nella descrizione del piano terreno dell’immobile trasferito, si dava atto della presenza di un portico (senza precisare che avesse natura condominiale), ma si faceva riferimento (“il tutto come meglio individuato”) ad una planimetria allegata all’atto, sottoscritta dalle parti e dal notaio rogante, in cui detto portico veniva definito come “portico condominiale scala B mq 144,85”. La corte genovese ha altresì argomentato che nella perizia dell’ufficio tecnico comunale allegata come documento H all’atto notarile, e ivi richiamata, si faceva riferimento ad una “superficie di uso comune coperta posto al piano terra mq 144” e che, ai fini della valutazione di congruità del prezzo, la determinazione convenzionale di tale superficie (definita appunto, si sottolinea nella sentenza gravata, di uso comune) risultava diminuita di due dodicesimi, in evidente correlazione alla circostanza che due dei dodici appartamenti del fabbricato non erano di proprietà comunale.

nel giudizio di legittimità il Giudice osserva che “come questa Corte ha avuto modo di chiarire (cfr. sent. n. 6764/03) le piante planimetriche allegate ai contratti aventi ad oggetto immobili fanno parte integrante della dichiarazione di volontà, quando ad esse i contraenti si siano riferiti nel descrivere il bene, e costituiscono mezzo fondamentale per l’interpretazione del negozio, salvo, poi, al giudice di merito, in caso di non coincidenza tra la descrizione dell’immobile fatta in contratto e la sua rappresentazione grafica contenuta nelle dette planimetrie, il compito di risolvere la quaestio voluntatis della maggiore o minore corrispondenza di tali documenti all’intento negoziale ricavato dall’esame complessivo del contratto. Nella specie la corte territoriale ha dato adeguatamente conto delle ragioni per le quali ha ritenuto – con accertamento di fatto sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto i profili del rispetto dei criteri legali di interpretazione e del difetto di motivazione (cfr. Cass. 12594/13) – che nell’atto di acquisto del Comune il portico per cui è causa sia stato considerato bene condominiale; nella sentenza gravata, infatti, si valorizza, per un verso, il rilievo che nel testo contrattuale si richiama espressamente, per la miglior identificazione del cespite compravenduto, la planimetria allegata all’atto (“il tutto meglio individuato con contorno di co/ore rosso nella planimetria, che, previa sottoscrizione delle parti con me notaio, si allega sub C”) e, per altro verso, il percorso argomentativo sviluppato nella perizia dell’ufficio tecnico comunale (pur essa richiamata nell’atto notarile ed al medesimo allegata) di stima della congruità del prezzo delle compravendita (nella quale, si evidenzia nella sentenza gravata, la superficie del porticato de quo risultava espressamente definita “di uso comune” e, ai fini della valutazione, veniva diminuita di due dodicesimi, pari al rapporto tra il numero delle unità immobiliari non vendute al Comune e il numero delle unità immobiliari costituenti il fabbricato).”

Di grande interesse anche la statuizione sul  momento qualificante per l’individuazione dei beni comuni. Tale natura e l’assetto dell’edificio condominiale assume connotazione irreversibile (se non con il consenso di tutti i partecipanti al condominio) con il primo atto di acquisto, che diviene dirimente e con riguardo al quale sono irrilevanti le successive attività dei singoli.

A tal proposito è opportuno approfondire il motivo di impugnazione addotto dai ricorrenti: “Col secondo motivo si deduce il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e di travisamento dei fatti di causa, con conseguente violazione dell’ articolo 1117 c.c., in cui la corte territoriale sarebbe incorsa non rilevando che la realizzazione degli alloggi del Comune risaliva ad epoca anteriore all’acquisto delle unità immobiliari degli altri condomini e che, quindi, al momento di tale acquisto la destinazione del portico all’uso comune era, secondo la prospettazione del ricorrente, già venuta meno

Il Giudice di legittimità sul punto è netto: ” Il motivo va disatteso.
Secondo il risalente insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. 3867/86), al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione sancita dalla norma dell’art. 1117 cod. civ., con riguardo ai beni in essa indicati, occorre fare riferimento ali’ atto costitutivo del condominio, cioè al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, indagando se da esso emerga o meno la volontà delle parti di riservare a uno dei condomini la proprietà di beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all’uso comune. Conseguentemente, quando, in occasione del primo atto di frazionamento della proprietà di un edificio, la destinazione obbiettiva di un bene potenzialmente comune non sia contrastata dal titolo (come, nella specie, accertato dal giudice territoriale con statuizione che ha resistito all’impugnativa proposta con il premo mezzo di ricorso), tale bene nasce di proprietà comune e la comunione sullo stesso non può più venire meno per effetto dell’ occupazione senza titolo da parte di un singolo condomino. Le circostanza che gli alloggi del Comune siano stati realizzati prima che gli altri condomini acquistassero le loro unità immobiliari risulta dunque ininfluente ai fini della decisione”

© massimo ginesi 27 dicembre 2016 

art. 2051 cod.civ. : attenzione al muschio sul vialetto di ingresso al condominio

Una signora cade e riporta lesioni mentre percorre il vialetto di accesso al Condominio, reso viscido dal muschio che si era formato in conseguenza della esposizione all’ombra e alle irrigazioni del giardino.

Il Condominio viene ritenuto responsabile sia in primo grado che in appello, “essendo stata accertata la intrinseca pericolosità della cosa, in seguito a c.t.u. che aveva verificato la esistenza delle formazioni muschiose sull’intero viale, e non essendo emerso alcun elemento circostanziale che consentisse di attribuire neppure in parte la causazione del sinistro alla danneggiata”

LA vicenda approda alla terza sezione della Cassazione, ove il Condominio tenta di sostenere che la responsabilità doveva ritenersi esclusa dalla condotta colposa della vittima, che non avrebbe utilizzato le zone del vialetto non invase dal muschio.

Cassazione civile, sez. III, 13/12/2016, n. 25483 conferma i giudizi di merito, ribandendo ancora una volta come sia precluso in Cassazione qualunque riesame dei fatti : “Il Condominio ricorrente censura la sentenza deducendo che l’evento dannoso sarebbe stato determinato da caso fortuito, e più esattamente dalla condotta negligente della stessa danneggiata: ma in tal modo attraverso il vizio di “error juris” viene piuttosto a censurare la sentenza per vizio attinente la valutazione dei fatti come provati nel giudizio di merito, con la conseguenza che il parametro del vizio di legittimità, alla stregua del quale si chiede alla Corte di sottoporre a verifica la sentenza, è da ritenersi manifestamente errato. La incompatibilità ontologica tra i due vizi di legittimità (l’error juris implica che la fattispecie concreta sia stata correttamente ricostruita in base ad i fatti dimostrati in giudizio; l’errore di fatto si situa invece a monte dell’attività di individuazione ed applicazione della norma di diritto nella quale è sussunta la fattispecie concreta) priva, pertanto, la censura di violazione o falsa applicazione di norme di diritto del necessario supporto argomentativo richiesto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), e determina la inammissibilità del motivo (cfr. Corte Cass. 2^ sez. 29.4.2002 n. 6224, id. 3^ Sez. 18.5.2005 n. 10385, id. 5^ Sez. 21.4.2011 n. 9185; id. 3^ sez. 7.5.2007 n. 10295).”

Quanto all’apporto colposo della vittima, la Suprema Corte osserva che: “il Condominio non deduce alcun fatto, dimostrato in giudizio, del quale la Corte d’appello abbia del tutto omesso l’esame, dovendo al proposito rilevarsi che l’assunto del ricorrente secondo cui il fenomeno muschioso che rendeva scivoloso il terreno interessava solo una parte del vialetto, non trova alcun riscontro nella motivazione della sentenza impugnata, dalla quale emerge, invece, che il vialetto era costeggiato nei due lati, rispettivamente, da un giardino e da piante in vaso, e che doveva, pertanto, presumersi che l’irrigazione del verde avesse creato lo strato di muschio notoriamente scivoloso, determinando la situazione intrinseca di pericolo della res.
Le altre considerazioni svolte dal ricorrente in ordine alla maggiore attenzione che avrebbe potuto richiedersi alla danneggiata, si risolvono in mere ipotesi ed allegazioni, prive di specifici riscontri, e comunque non evidenziano specifici “fatti storici” non considerati dal Giudice di appello, avendo questi esaminato ed escluso qualsiasi concorso di colpa della vittima, venendo pertanto a chiedere il Condominio a questa Corte una inammissibile rivalutazione nel merito dei fatti, non consentita in sede di legittimità (cfr. (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5024 del 28/03/2012; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014).”

Ed ancora: “Da qui la parte ricorrente trae la conclusione che la condotta della danneggiata, la quale non avrebbe individuato, percorrendo il viale, le parti non coperte da muschio e meno rischiose, ed il fatto omissivo dei terzi (i familiari che accompagnavano in quel momento la vittima) i quali non si sarebbero attivati per informare la danneggiata della situazione pericolosa, avrebbero entrambi concorso a determinare in via esclusiva o quanto meno concorrente l’evento dannoso.
Premesso che per giurisprudenza costante nella responsabilità ex art. 2051 c.c., per cose in custodia, l’attore deve offrire la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e l’evento lesivo nonchè dell’esistenza di un rapporto di custodia relativamente alla cosa, mentre il convenuto deve dimostrare l’esistenza di un fattore estraneo che, per il carattere dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso di causalità (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25243 del 29/11/2006), cioè il caso fortuito, in presenza del quale è esclusa la responsabilità del custode, il quale in particolare è tenuto a provare, quanto al fatto del terzo, che lo stesso riveste i requisiti dell’autonomia, dell’eccezionalità, dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità essendo, quindi, idoneo a produrre l’evento, escludendo fattori causali concorrenti (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25029 del 10/10/2008), osserva il Collegio che i fatti allegati dal Condominio risultano sprovvisti entrambi del carattere della “decisività”, in quanto non risultano caratterizzati da “imprevedibilità ed eccezionalità” e non integrano pertanto il fortuito.

Se da un lato, infatti, non è affatto imprevedibile od eccezionale l’uso del vialetto da parte dei terzi per accedere allo stabile condominiale, i quali non possono che fare affidamento sulla sicurezza dello stesso in assenza di specifiche limitazioni di transito o segnalazioni di pericolo od altri presidi diretti a limitarne l’uso (altra e diversa questione è la oggettiva manifesta visibilità del pericolo che impone all’utente il minimo di attenzione necessaria ad evitare il danno: circostanza neppure dedotta nel motivo di ricorso e peraltro anche contestata nei precedenti gradi di merito); dall’altro difetta la prova di quale fosse la effettiva dimensione della copertura muschiosa che rendeva viscido il vialetto (del tutto generica in proposito è l’affermazione del teste, che il Condominio assume dirimente, secondo cui “tale patina….aveva coperto buona parte del vialetto”); neppure è ipotizzabile il “fatto del terzo” così come prospettato dal ricorrente, in quanto, indipendentemente dal rinvenimento del fondamento giuridico dell’obbligo di preventiva informazione circa le condizioni del vialetto posto a carico dei familiari accompagnatori, è appena il caso di osservare come la condotta omissiva viene a collocarsi al di fuori della fattispecie illecita individuata dalla norma dell’art. 2051 c.c., nella quale il fatto del terzo – sempre che imprevedibile ed eccezionale – produce invece direttamente la pericolosità della res (altrimenti inerte), ipotesi che non ricorre nella specie”.

Insomma non si può pretendere che, specie in assenza di avvisi, il terzo salti da una piastrella all’altra individuando quelle meno scivolose, mentre incombe al condominio l’onere di provare la colpa del danneggiato, che deve essere esclusiva ed in grado di provocare in maniera autonoma l’evento, spezzando in tal modo alò nesso causale con il bene oggetto di custodia.

Prova che non è stata fornita, con la conseguenza che il Condominio – quale custode della parte comune – è tenuto all’integrale risarcimento del danno.

© massimo ginesi 19 dicembre 2016 

mediazione: attenzione alla mancata partecipazione, anche se motivata.

I tribunali delineano confini sempre più stringenti all’obbligo di mediazione, sicché si considera ingiustificata la partecipazione – con tutte le conseguenze che ne derivano sotto il profilo processuale – della parte che, antecedentemente al primo incontro, comunica mediante pec inviata all’organismo la propria volontà di non partecipare, fornendone motivazione.

E’ quanto afferma il Tribunale di Vasto con ordinanza 6 dicembre 2016: “la condotta della parte che non si reca al primo incontro di mediazione e si limita a rappresentare per iscritto all’organismo di mediazione la decisione di non partecipare allo stesso, eventualmente anche illustrandone le ragioni, va interpretata alla stregua di una assenza ingiustificata della parte invitata, che la espone al rischio di subire le conseguenze sanzionatorie, sia sul piano processuale che su quello pecuniario, previste dall’art. 8, comma 4 bis, del D. Lgs. n. 28/10. Questo perché, nello spirito della norma che disciplina lo svolgimento del procedimento di mediazione (art. 8), la partecipazione delle parti, sia al primo incontro che agli incontri successivi, rappresenta una condotta assolutamente doverosa, che le stesse non possono omettere, se non in presenza di un giustificato motivo impeditivo che abbia i caratteri della assolutezza e della non temporaneità. Posta in questi termini l’obbligatorietà della partecipazione, deve ritenersi che la prassi, talora adottata dalla parte invitata, di anticipare per iscritto il proprio rifiuto di partecipare al primo incontro, costituisce un atto di mera cortesia, che però non ha alcuna idoneità a giustificare la deliberata assenza della parte e ad esonerarla dalle conseguenti responsabilità

Non soccorre neanche esporre le ragioni del rifiuto: “Quanto, poi, alla enunciazione dei motivi della mancata partecipazione, ove essi – come sovente accade – non riguardino le cause che impediscono oggettivamente alla parte (che pure vorrebbe, ma non ha la materiale possibilità) di essere presente al primo incontro, ma invece concernino le ragioni per cui la stessa ritenga di non volere iniziare la procedura di mediazione, occorre chiarire che, nell’attuale sistema normativo, non è mai consentito alle parti di anticipare la discussione sul tema della possibilità di avviare la mediazione, senza avere prima partecipato personalmente al primo incontro e recepito le informazioni che il mediatore è tenuto a dare circa la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. In altri termini, il diniego del consenso ad intraprendere un percorso di mediazione può essere validamente espresso solo se la manifestazione di volontà negativa che la parte esprime sia: a) innanzitutto, preceduta da un’adeguata opera di informazione del mediatore circa la ratio dell’istituto, le modalità di svolgimento della procedura, i possibili vantaggi rispetto ad una soluzione giudiziale della controversia, i rischi ragionevolmente prevedibili di un eventuale dissenso e l’esistenza di efficaci esiti alternativi del conflitto; b) per altro verso, supportata da adeguate ragioni giustificatrici che siano non solo pertinenti rispetto al merito della controversia, ma anche dotate di plausibilità logica, prima ancora che giuridica, tali non essendo, ad esempio, quelle fondate sulla convinzione della insuperabilità dei motivi di contrasto (cfr., sul punto, precedente pronuncia di questo tribunale sulle caratteristiche del rifiuto di proseguire oltre il primo incontro – Trib. Vasto, ord. 23.04.2016). Parafrasando una terminologia invalsa in ambito medico, il dissenso alla mediazione, ai fini della sua validità, deve essere non solo personale, ma anche consapevole, informato e, soprattutto, motivato. Orbene, quando la parte invitata, senza partecipare alle attività informative e di interpellanza da espletarsi al primo incontro, annuncia per iscritto la propria assenza, provvedendo ad illustrare le ragioni che la inducono a decidere di non voler iniziare una mediazione, si deve ritenere che il dissenso così manifestato non sia stato validamente espresso, perché – a prescindere dalla validità delle argomentazioni giustificative – la parte non si è posta nelle condizioni di esprimere una volontà consapevole ed informata. Ne deriva che l’organismo di mediazione non è tenuto a prendere in considerazione o ad esaminare nel merito detta comunicazione scritta, se non a fini strettamente attinenti a profili organizzativi e logistici per la celebrazione del primo incontro.”

Il Giudice abruzzese è poi particolarmente severo in ordine alle conseguenze, ritenendo immediatamente applicabile la sanzione del contributo e riservandosi di valutare la condotta anche all’esito del procedimento: “Per tali motivi, visto che la parte invitata non ha partecipato senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, ricorrono i presupposti per adottare, ai sensi dell’art. 8, comma 4 bis, del D. Lgs. n. 28/10, una pronunciata di condanna della stessa (che si è ritualmente costituita in giudizio) al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. La lettera della citata disposizione, in virtù dell’uso da parte del legislatore del tempo indicativo presente, induce a ritenere obbligatoria la pronuncia di condanna in questione ogniqualvolta la parte che non ha partecipato al procedimento non fornisca una idonea giustificazione alla propria condotta. Sulla questione della applicabilità della predetta disposizione anche in corso di causa, questo giudicante ritiene che l’irrogazione della sanzione pecuniaria prescinda del tutto dall’esito del giudizio e non sia necessariamente subordinata alla decisione del merito della controversia. Conformemente a quanto affermato da una parte della giurisprudenza di merito (cfr., Trib. Termini Imerese, 09/05/2012; Trib. Mantova, 22/12/2015), la sanzione pecuniaria in questione può, dunque, ben essere irrogata anche alla prima udienza o, comunque, in un momento temporalmente antecedente rispetto alla pronuncia del provvedimento che definisce il giudizio.  In disparte della irrogazione della sanzione pecuniaria, questo giudice si riserva di valutare la condotta della banca di ingiustificata renitenza alla mediazione, sia ai fini della ammissione di eventuali mezzi di prova che ai fini della successiva decisione della causa, ai sensi degli artt. 116, secondo comma e 96, terzo comma, c.p.c., tanto più alla luce del successivo comportamento processuale assunto dalla banca convenuta, che in prima udienza ha chiesto, unitamente all’attore, un rinvio per effettuare un tentativo di definizione bonaria della causa, così manifestando un atteggiamento di apertura ad un possibile esito conciliativo della controversia, che avrebbe dovuto trovare la sua sede naturale di sperimentazione non all’interno del processo, bensì nell’ambito della procedura di mediazione, nella quale le parti potevano cogliere l’opportunità di arrivare ad una soluzione concordata del conflitto con possibilità di successo sicuramente maggiori di quelle raggiungibili nel corso del processo.”

© massimo ginesi 14 dicembre 2016


	

se il regolamento vieta l’esercizio rumoroso…

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Una clausola del regolamento condominiale contrattuale vieta di destinare gli appartamenti ad attività rumorose:  il condominio adotta una delibera con cui viene fatto divieto ad uno dei condomini di destinare una delle unità ad asilo nido e costui ricorre al giudice per sentirne dichiarare l’illegittimità.

In primo grado viene espletata CTU che rileva come la rumorosità proveniente dall’asilo nido, quantomeno per due delle altre unità del condominio, risulti superiore alla normale tollerabilità, tenuto conto anche dei parametri normativi in materia.

L’attività di asilo nido viene dunque ritenuta contraria alla clausola regolamentare, non già per definizione ma accertata la sua concreta rumorosità.

Sia in primo grado che in appello la pronuncia è favorevole al Condominio.

L. vicenda giunge in Cassazione che, nel pronunciarsi sul ricorso, detta  alcuni importanti principi, anche e soprattutto sui limiti del giudizio di legittimità, troppo spesso dimenticati.

Cass. Civ. II sezione 6 dicembre 2016 n. 24958 ricorda preliminarmente “L’insegnamento secondo cui l’interpretazione del  contratto e degli atti di autonomia privata – e, dunque, pur, siccome nel caso di specie, di un regolamento condominiale contrattuale -costituisce un’attività riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità  soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione

 “Si rappresenta in particolare che la corte di merito ha correttamente, ovvero in pieno ossequio al canone esegetico letterale, ancorato il riscontro cui poi ha concretamente atteso, alla previsione del regolamento ove, aldilà delle attività oggetto di esplicita e puntuale menzione, è tout court,  senza, ben vero, precisazione alcuna, fatto divieto di destinare  gli appartamenti ad esercizi    rumorosi (l’art. 3 del regolamento recita che è fatto divieto di destinare gli appartamenti ad uso di qualsiasi industria esercizi rumorosi, sì che il concetto di rumoroso va delineando in relazione al suo concreto  espletamento).”…

Sottolinea la Corte che “Nè la censura ex n. 3)  né la censura ex n. 5)  del primo comma dell’articolo 360 c.p.c.  possono risolversi una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera  contrapposizione di una differente interpretazione”

Non può così essere più censurata in cassazione l’interpretazione che della clausola regolamentare hanno dato i giudici di merito, ritenendo vietata l’attività ove rechi disturbo solo ad alcuni condomini e non all’intero fabbricato: “L’assunto della ricorrente secondo cui la corte distrettuale  avrebbe omesso di considerare il chiaro dettato letterale dell’articolo 3 del regolamento condominiale, nella parte in cui individua nella tranquillità dell’intero fabbricato il limite superato il quale le attività non tipizzate (qual è quella di asilo nido) possono ritenersi vietate poiché (nel caso di specie) rumorose, non puoi in alcun  modo essere recepito”

“Si rappresenta conseguentemente che il  preteso vizio di motivazione, sotto il profilo dell’omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente  dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia,  prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, ovvero quando esiste insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione. Nei termini teste enunciati l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di merito risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo ed  esaustivo sul piano logico formale”

Insomma l’asilo faceva un rumore concretamente superiore alla normale tollerabilità, accertato mediante CTU e non solo in base alla valutazione astratta della attività, il giudice di primo e quello di secondo grado hanno ampiamente e correttamente motivato la loro decisione, l’interpretazione della clausola regolamentare espressa dal giudice di merito non deve essere la migliore ma solo una di quelle astrattamente possibili e – soprattutto – ove sussistano tutti questi parametri, il ricorso in cassazione avrà con ogni probabilità esito infausto.

© massimo ginesi 8 dicembre 2016

vendita di immobili da costruire e cancellazione di ipoteca. D.lgs. n. 122/2005

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La Suprema Corte affronta un caso peculiare con una pronuncia innovativa (Cass. civ. II sez. 1 dicembre 2016 n. 24535, relatore Antonio Scarpa).

La vicenda arriva all’esame del giudice di legittimità in forza del  ricorso di un notaio che si è visto irrogare dalla Commissione Amministrativa Regionale di Disciplina per i Notai una pesante sanzione “per aver rogato quindici atti di assegnazione di immobili della Cooperativa edilizia C… M…. ai soci, annotati al numero 47… della raccolta e seguenti, recanti l’impegno della Cooperativa assegnante, per la presenza di un mutuo frazionato ma non estinto, a cancellare l’ipoteca gravante sugli immobili assegnati “stante che il debito relativo alla suddetta ipoteca non compete all’assegnatario, avendo lo stesso interamente pagato il corrispettivo dovuto per la presente assegnazione”

L’organo disciplinare del professionista assumeva violata la norma prevista dall’art. 8 del d.lgs. 20 giugno 2005, n.122 e la Corte di Appello di Ancona, cui il notaio aveva proposto reclamo a mente dell’art. 158 Legge Notarile e dell’art. 26 del d. lgs. n. 150/2011, ha affermato che “la norma di cui all’art. 8, , facendo divieto al notaio di procedere alla stipula dell’atto di compravendita se, anteriormente o contestualmente alla stipula, non si sia proceduto alla suddivisione del finanziamento in quote o al perfezionamento di un titolo per la cancellazione o frazionamento dell’ipoteca a garanzia o del pignoramento gravante sull’immobile, non contiene alcun limite applicativo riferibile ai soli immobili da costruire, e perciò ben poteva invocarsi con riguardo agli atti di assegnazione della Cooperativa Coopcasa, inerenti immobili ultimati e per i quali era già stato conseguito il certificato di abitabilità. Di tale interpretazione della citata norma la Corte di merito negava pure ogni incostituzionalità per eccesso di delega. Il giudice del reclamo, sotto il profilo temporale, affermava altresì che l’art. 8 del d.lgs. n. 122/2005 dovesse trovare applicazione per tutti gli atti stipulati a far tempo dalla sua entrata in vigore”

“La Corte di Ancona sosteneva, inoltre, che l’infrazione del precetto in esame ricorresse anche nell’ipotesi in cui si fosse già provveduto al frazionamento del mutuo e dell’ipoteca, essendosi proceduto alla stipula degli atti di assegnazione quando comunque mancava ancora un titolo per la cancellazione o il frazionamento dell’ipoteca”

Dunque, per il giudice di merito, il divieto di stipulazione previsto dall’art. 8 del D. Lgs 122/2005 doveva intendersi riferito a tutti gli immobili, sia che gli stessi fossero ancora da costruire sia che fossero già esistenti, ma non ancora liberati dal pregiudizio.

LA Suprema Corte, attraverso una esemplare  applicazione dei criteri previsti dall’art. 12 delle Preleggi, procede ad una esegesi del dettato normativo che non si limita alla singola previsione ma allarga la visione all’intero provvedimento, alla ratio che vi è sottesa e allo scopo perseguito dal legislatore.

Alla luce di tale ampia lettura accoglie il ricorso del professionista,  con  motivazione che merita integrale lettura: “Com’è noto, il decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122, recante disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, è stato dettato in attuazione della delega contenuta nella legge 2 agosto 2004, n. 210.

L’art, 3 della legge n. 210/2004, contenente i principi e criteri direttivi della delega legislativa, al punto n), stabiliva che il decreto legislativo delegato dovesse “prevedere norme dirette a rendere effettivo il diritto dell’acquirente al perfezionamento degli atti indicati all’articolo 39, comma 6, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e all’eventuale cancellazione dell’ipoteca o del pignoramento gravante sull’immobile da costruire, assicurando che gli atti che permettono l’esecuzione delle formalità nei registri immobiliari siano posti in essere prima della stipula dell’atto definitivo di compravendita, o contestualmente alla stessa”.

Quindi il decreto legislativo n. 122/2005 nella sua epigrafe chiarisce che il provvedimento è volto a fissare “disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire”.  Proseguendo, all’art. 1 del decreto delegato sono esplicitate le definizioni di «acquirente» e «costruttore» successivamente adoperate nel testo, entrambe contenenti il riferimento agli «immobili da costruire», a loro volta definiti come «gli immobili per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità». Così, la disciplina degli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 122/2005 (in tema di garanzia fideiussoria ed assicurazione) è indubbiamente correlata ai contratti che abbiano come «finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le mede.sime finalità».

Questa Corte ha perciò già chiarito come il d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122, detta una disciplina di tutela dell’acquirente o del promissario acquirente di immobili da costruire in ragione dell’elevato rischio di inadempienze della parte alienante ovvero del pericolo di sottoposizione del costruttore ad esecuzione immobiliare o a procedura concorsuale, trovando però applicazione, in forza del contenuto defmitorio di cui all’art. 1, comma 1, lettera d), soltanto riguardo agli immobili per cui, da un lato, sia stato già richiesto il permesso di costruire (o, se del caso, sia già stata presentata la denuncia di inizio attività, ex art. 22, comma 3, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) e che, dall’altro lato, non siano stati oggetto di completamento e per i quali, dunque, non sia stato ancora richiesto il relativo certificato di agibilità (nella specie, escludendo l’estensione della disciplina di tutela recata dal citato d.lgs. n. 122 del 2005 all’acquirente o promissario acquirente di immobile esistente “sulla carta”, sprovvisto, cioè, pure ancora della richiesta del permesso di costruire: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5749 del 10/03/2011).

Ora, l’art. 8, del d.lgs. n. 122/2005, su cui è fondata la contestazione disciplinare al Notaio S…, stabilisce che «il notaio non può procedere alla stipula dell’atto di compravendita se, anteriormente o contestualmente alla stipula, non si sia proceduto alla suddivisione de/finanziamento in quote o al perfezionamento di un titolo per la cancellazione o ,frazionamento dell’ipoteca a garanzia o del pignoramento gravante sull’immobile». La formulazione della norma è tale che ne sono state offerte contrapposte interpretazioni, nel senso che essa vieterebbe ogni ipotesi di trasferimento di immobile, finito o ancora da costruire, gravato da ipoteca o da pignoramento, esista o meno un precedente contratto preliminare; oppure nel senso che la norma medesima si applicherebbe soltanto in caso di ipoteca iscritta a garanzia del mutuo contratto da un costruttore, il quale intenda vendere un immobile da costruire a una persona fisica; o che la norma sia diretta, piuttosto, a limitare la stipula di atti di compravendita solo se gli stessi abbiano per oggetto unità immobiliari facenti parte di edifici condominiali gravati da ipoteca a garanzia di unico finanziamento, concesso per l’intero complesso condominiale, e ciò sino a che l’intero finanziamento non sia stato ripartito in quote corrispondenti alle singole unità o non sia stato conseguito un titolo per la cancellazione dell’ipoteca o dell’eventuale pignoramento già eseguito.

Risulta però corretta un’interpretazione coordinata, logica e sistematica, della portata dell’art. 8 del d.lgs. n. 122/2005, ponendo lo stesso in necessaria correlazione con l’ambito di estensione delle altre disposizioni del medesimo testo normativo. La Relazione illustrativa al decreto legislativo ravvisava uno stretto legame tra l’art. 8 e l’art. 7 del d.lgs. n. 122/2005. L’art. 7, d.lgs. n. 122/2005, ha introdotto modificazioni all’articolo 39 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo Unico Bancario),ampliando, in caso di edificio o complesso condominiale, ancorché in corso di costruzione, il novero dei soggetti (non soltanto debitore e terzo acquirente, ma anche promissario acquirente o assegnatario del bene ipotecato) aventi diritto alla suddivisione del finanziamento in quote e, correlativamente, al frazionamento dell’ipoteca a garanzia, nonché ridefinendo gli adempimenti cui deve provvedere la banca. A proposito dell’art. 8 cit., così, la Relazione esplicitava “il dichiarato proposito di evitare che le previsioni normative non trovino concreta applicazione”, intendendo salvaguardare, mediante il divieto di stipulazione, il diritto dell’acquirente ad ottenere prima dell’acquisto il frazionamento del finanziamento e della relativa garanzia ipotecaria, ovvero la cancellazione delle formalità pregiudizievoli. Letto, pertanto, nel contesto del d.lgs. n. 122/2005, ed in particolare alla luce dell’epigrafe del decreto delegato, delle definizioni contenute nell’art. 1, della correlazione con l’art. 7, del chiaro riferimento all’immobile da costruire fatto nell’art. 3, punto n), della legge di delega n. 210/2004, il divieto di stipula di cui all’art. 8 non può che ritenersi operante per gli atti di compravendita che vedano come «acquirente» (o promissaria acquirente) una persona fisica, come venditore (o promittente alienante) un «costruttore», ovvero un imprenditore o una cooperativa edilizia, e cha abbiano ad oggetto un «immobile da costruire», ovvero un immobile per il quale sia stato richiesto il permesso di costruire e che sia ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere stata ultimata, versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità.

Il divieto di stipula contenuto nell’art. 8 si inserisce, invero, tra le disposizioni volte alla tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, le quali presuppongono una condizione particolare di asimmetria giuridica od economica tra il venditore e l’acquirente e perciò giustificano la specialità del trattamento legislativo. Al di fuori dei requisiti oggettivi e soggettivi di operatività del d.lgs. n. 122/2005, continua, pertanto, ad operare il generale principio della libera circolazione dei beni immobili gravati da ipoteca o da pignoramento, pur permanendo i vincoli pregiudizievoli sul bene.”

© massimo ginesi 1 dicembre 2016

l’installazione di ascensore e la lesione dei diritti dei condomini

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La Cassazione, con recentissima pronuncia (Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 6 luglio – 29 novembre 2016, n. 24235 Presidente Migliucci – Relatore Manna) torna su un tema di grande rilevanza in ambito condominiale e su cui si era  già espressa, in maniera conforme, molte volte.

La vicenda trae origine da fatti accaduti in terra di Puglia: “Nell’assemblea del 13.10.1999 il condominio di (omissis) , deliberava l’installazione di un ascensore all’interno dell’androne delle scale. Assumendosi proprietari esclusivi di un’area retrostante e dei box auto ivi esistenti, e lamentando che la realizzazione dell’ascensore avrebbe impedito loro l’accesso all’area anzi detta e ai box, D.G.G. e C.G. e C. , comproprietari di unità singole al piano terra dell’edificio quali eredi di C.L. , impugnavano detta delibera innanzi al Tribunale di Taranto. assembleare volta alla installazione di ascensore condominiale, impianto che tuttavia avrebbe ristretto considerevolmente lo spazio di accesso ai box posti sul retro dell’impianto”

I proprietari dei box, attori, si vedevano respingere la domanda sia in primo grado che in appello,  sulla scorta di curiose interpretazioni: “Nel resistere in giudizio il condominio eccepiva la prescrizione della servitù di passo carraio, eccezione che l’adito Tribunale di Taranto accoglieva rigettando così la domanda.L’impugnazione proposta avverso detta sentenza da C.G. e C. , anche quali eredi di D.G.G. , nel frattempo deceduta, era respinta dalla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto. Osservava detta Corte, per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità, che l’installazione dell’ascensore non impediva l’accesso degli appellanti all’area di loro proprietà, lasciando libero a tal fine uno spazio di m. 1,12. Circa la dedotta violazione del godimento dei condomini appellanti, quale limite alle innovazioni di cui al 2 comma dell’art. 1120 c.c., aggiungeva che i testi escussi avevano confermato che gli eredi C. non erano mai entrati con autoveicoli all’interno dell’area di loro proprietà e che i manufatti ivi esistenti non erano mai stati utilizzati quali box auto.”

Il caso approda al giudice di legittimità che ribalta il verdetto, ripercorrendo criteri più volte affermati in tema di barriere architettoniche e di violazione degli artt. 1102 e 1120 cod.civ.,  dettando principi che risultano di grande interesse nella prassi applicativa quotidiana, per ciò che  attiene alla valutazione delle singole fattispecie in discussione, che vanno dalla misura minima del passaggio al c.d. uso potenziale.

Il primo motivo di ricorso attiene alla violazione dell’art. 1120 cod.civ.: “Sostiene parte ricorrente che l’innovazione in oggetto viola l’art. 1120, 2 comma c.c., perché lo spazio di mq. 1,12 lasciato libero per il passaggio menoma gravemente il godimento della stessa area comune e degli immobili di sua proprietà. Ciò si desume dal fatto che tale misura è inferiore a quella minima di m. 1,20 fissata dall’art. 4.1.10 del D.M. n. 236/89, relativamente al superamento delle barriere architettoniche, per la lunghezza delle rampe di scale, e impedisce il passaggio contemporaneo di due persone e quello di una barella con un’inclinazione massima del 15% lungo l’asse longitudinale”

Il motivo coglie nel segno: afferma infatti la Corte  “Occorre premettere che in tema di deliberazioni condominiali, l’installazione dell’ascensore, rientrando fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’art. 27 primo comma della legge n. 118/1971 e all’art. 1 primo comma del d.P.R. n. 384/1978, costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2 legge n. 13/89, è approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta rispettivamente dall’art. 1136 secondo e terzo comma c.c.; tutto ciò ferma rimanendo la previsione del terzo comma del citato art. 2 legge n. 13/1989, che fa salvo il disposto degli artt. 1120 secondo comma e 1121 terzo comma c.c. (Cass. n. 14384/04).
La condizione di inservibilità del bene comune all’uso o al godimento anche di un solo condomino, che, ai sensi dell’art. 1120, comma secondo, c.c., rende illegittima e quindi vietata l’innovazione deliberata dagli altri condomini, è riscontrabile anche nel caso in cui l’innovazione produca una sensibile menomazione dell’utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene (cfr. Cass. n. 20639/05, che in applicazione di tale principio ha ritenuto illegittima una delibera condominiale che, nel restringere il vialetto di accesso ai garages, rendeva disagevole il transito delle autovetture).
Dunque, le innovazioni dirette a eliminare barriere architettoniche, come appunto quelle che dispongano l’installazione di un ascensore, non derogano all’art. 1120, 2 comma c.c. (vecchio testo), ma solo alla maggioranza che diversamente è prescritta dall’art. 1136, 5 comma c.c., richiamato dal 1 comma dell’art. 1120 c.c.
E di tali principi la giurisprudenza di questa Corte ha fatto applicazione, segnatamente, anche nell’ipotesi dell’installazione di un ascensore (Cass. n. 12930/12), ancorché volto a favorire le esigenze di condomini portatori di handicap, ove detta innovazione sia lesiva dei diritti di altro condomino sulla porzione di sua proprietà esclusiva, indipendentemente da qualsiasi considerazione di eventuali utilità compensative (Cass. n. 6109/94), ed ove l’installazione renda talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino (Cass. n. 28920/11)”

LA Corte sottolinea anche come occorra, per valutare la lesione del diritto dei singoli, considerare non già l’uso effettivo da costoro posto in essere ma l’uso naturale e possibile connesso alla natura e destinazione della cosa, ovvero il c.d. uso potenziale :  ” Di tali principi di diritto la sentenza impugnata mostra di aver operato una falsa applicazione, lì dove, nel valutare se l’innovazione in oggetto avesse compromesso il godimento delle proprietà individuali degli attori, ha escluso ogni lesione sulla base dell’uso che negli anni questi ne avevano fatto, mentre l’apprezzamento avrebbe dovuto essere operato a stregua della natura e della destinazione economica dei beni stessi. In particolare, la circostanza, valorizzata dalla Corte territoriale, che gli eredi C. non fossero mai entrati con autoveicoli nell’area interna del palazzo e che non avessero mai utilizzato i manufatti di loro proprietà per il ricovero di autovetture, è del tutto priva di significato al fine di valutare la compromissione della facoltà di godimento dei beni di proprietà esclusiva, facoltà che, essendo inerente al contenuto del diritto di proprietà, non si estingue per non uso.”

© massimo ginesi 30 novembre 2016