art. 1102 c.c. e facoltà di uso della cosa comune: un interessante excursus della Cassazione

E’ noto che l’art. 1102 c.c., applicabile al condominio in virtù del rinvio disposto dall’art. 1139 c.c., consente ai singoli di trarre maggiori utilità dal bene comune, purché sia rispettata la facoltà di pari uso degli altri condomini e non sia mutata la destinazione del bene.

Una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  28 agosto 2020 n. 18038 rel. Scarpa) affronta il tema in maniera esaustiva, con riguardo alla apposizione di alcune vetrine da parte di singoli condomini titolari di fondi commerciali nell’androne condominiale, m chiedendo come la valutazione circa il “pari uso” debba essere dinamica e come non sia consentita la determinazione giudiziale delle facoltà di godimento dei singoli, ma solo il rimedio negativo del divieto di uso non conforme al dettato della norma.

I fatti e il processo: “La Corte d’appello di Salerno, accogliendo il gravame avanzato in via principale contro la sentenza resa in primo grado in data 6 agosto 2008 dal Tribunale di Salerno, ha accolto le domande proposte da D.M.M., A.P. e A.F. (eredi di A.P.), S.M., S.S. e S.C., riconoscendo a costoro il diritto di utilizzare i muri dell’androne di ingresso del Condominio (OMISSIS), Salerno, e dichiarando illegittima, agli effetti dell’art. 1102 c.c., l’utilizzazione fatta di tale androne dalle condomine S.A. ed S.A.P., le quali si erano impossessate degli spazi dei muri più appetibili a fini commerciali. La Corte d’appello ha poi proceduto a determinare le superfici dell’androne di cui le parti in causa (tutte proprietarie di terranei ubicati all’interno del cortile condominiale, adibiti ad esercizio commerciale) possono disporre in ragione del valore millesimali delle rispettive proprietà. La Corte di Salerno ha altresì accolto in parte le domande di rimozione delle vetrine apposte sui muri dell’androne da S.A. ed S.A.P. e condannato le stesse al risarcimento dei danni in favore di ciascuno degli appellanti. E’ stata pure accolta la domanda di garanzia svolta da S.A.P. nei confronti di G.M., amministratrice della L’Ago Incantato s.r.l., in forza della scrittura privata inter partes del 31 marzo 1997.”

i principi espressi dalla Corte di legittimità “La prima domanda va ricondotta all’art. 1102 c.c.. La Corte d’appello di Salerno ha ritenuto che i muri condominiali posti nell’androne costituiscono parti comuni di sicura utilità per i locali terranei destinati ad esercizi commerciali siti nel cortile, sicchè essi non possono essere utilizzati solo da alcuni condomini con esclusione di altri. I giudici di secondo grado non hanno però dimostrato in motivazione se il principio, esattamente tratto a livello di proclamazione astratta, sia stato applicato ad una fattispecie concreta che effettivamente risulti in esso sussumibile.

Questa Corte ha più volte affermato che la nozione di pari uso della cosa comune, cui fa riferimento l’art. 1102 c.c., non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione.

Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto.

Pertanto, si è chiarito in giurisprudenza, con particolare riguardo, appunto, al muro perimetrale dell’edificio – anche in considerazione delle sue funzioni accessorie di appoggio di tubi, fili, condutture, targhe e altri oggetti analoghi -, che l’apposizione di una vetrina da esposizione o mostra sul detto muro da parte di un condomino, in corrispondenza del proprio locale destinato all’esercizio di attività commerciale, non costituisca di per sè abuso della cosa comune idoneo a ledere il compossesso del muro comune che fa capo come “jus possidendi” a tutti i condomini, se effettuata nel rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, 12/02/1998, n. 1499; Cass. Sez. 2, 20/02/1997, n. 1554; Cass. Sez. 2, 08/05/1971, n. 1309).

La destinazione della cosa comune – che, a norma dell’art. 1102 c.c., ciascun partecipante alla comunione non può alterare, divenendo altrimenti illecito l’uso del bene – dev’essere determinata attraverso elementi economici, quali gli interessi collettivi appagabili con l’uso della cosa, elementi giuridici, quali le norme tutelanti quegli interessi, ed elementi di fatto, quali le caratteristiche della cosa.

In mancanza di accordo unanime o di deliberazione maggioritaria che contenga norme circa l’uso delle parti comuni, la destinazione di queste ultime, rilevante ai fini del divieto di alterazione posto dall’art. 1102 c.c., può risultare anche dalla pratica costante e senza contrasti dei condomini, e cioè dall’uso ultimo voluto e realizzato dai partecipanti alla comunione, che il giudice di merito deve accertare (cfr. Cass. Sez. 2, 18/07/1984, n. 4195).

La Corte d’appello di Salerno non ha, allora, preso in considerazione le circostanze attestanti l’uso di fatto pregresso dei muri dell’androne ad opera delle condomine S., circostanze essenzialmente risultanti dai dati processuali richiamati nel secondo motivo del ricorso di S.A.P. e nel terzo motivo del ricorso di S.A., ed ha così valutato soltanto in astratto la conformità della installazione delle vetrine nell’androne alla destinazione della cosa stessa. Tali circostanze sull’uso praticato dell’androne, stando alle allegazioni delle ricorrenti, deporrebbero per la configurabilità di una servitù a carico dei muri comuni ed a vantaggio delle proprietà esclusive S., ove la risalente utilità tratta dall’apposizione delle vetrine apparisse diversa da quella normalmente derivante dalla destinazione impressa alla parte condominiale fruita da tutti i comproprietari; ove, invece, la medesima utilità procurata dalle vetrine alle proprietà S. derivasse unicamente dalla natura e dalla pregressa destinazione pratica dei muri comuni, queste ultime si porrebbero quali parametri di riferimento della disciplina, propria della comunione, di cui all’art. 1102 c.c..

E’ invece inammissibile la determinazione giudiziale in sede contenziosa delle superfici dell’androne utilizzabili dai condomini proprietari dei locali terranei del Condominio (OMISSIS), cui la Corte d’appello ha proceduto, peraltro, senza che al giudizio partecipassero nemmeno i restanti condomini, essendo l’androne di un edificio oggetto di proprietà comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., per tutti i partecipanti che ne traggano utilità.

L’accertamento, da parte del giudice, che l’uso del bene comune, fatto da uno dei partecipanti alla comunione, renda impossibile o menomi l’esercizio del diritto degli altri comproprietari, agli effetti dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c., legittima ciascuno dei condomini a chiedere la rimozione delle opere che alterino e sconvolgano il rapporto di equilibrio della comunione, al fine di veder tutelato il loro diritto reale sulla cosa comune e di impedire il consolidarsi di una situazione illegittima, oltre che a pretendere l’eventuale risarcimento del danno, così verificando, in negativo, un limite all’esercizio del potere del singolo di servirsi della res, ma non consente una pronuncia conformativa che contenga le norme circa l’uso futuro della cosa stessa.

Al di là del passaggio contenuto in Cass. Sez. 2, 01/02/1993, n. 1218, che in realtà riguardava l’efficacia da riconoscere ai regolamenti condominiali comunque adottati in virtù di sentenza, merita, piuttosto, conferma l’orientamento, espresso da Cass. Sez. 2, 07/06/2011, n. 12291, secondo cui il regolamento di condominio è, in ogni caso, atto di produzione essenzialmente privata anche nei suoi effetti tipicamente organizzativi, incidenti, cioè, sulle sole modalità di godimento delle parti comuni dell’edificio. Ne consegue che – come si ritiene in dottrina – il giudice può eventualmente decidere sulla impugnazione ex art. 1137 c.c. della delibera che abbia rifiutato di approvare il regolamento, quando esso deve essere obbligatoriamente formato a norma dell’art. 1138 c.c., comma 1, ovvero annullare la norma regolamentare che sia stata impugnata a norma dell’art. 1107 c.c., ma non può modificare quest’ultima nel senso di dettare una diversa regola in sostituzione di quella annullata.

A differenza di quanto sostenuto dalla Corte d’appello di Salerno (per la quale la domanda di determinazione delle modalità di utilizzazione dei muri dell’androne era ammissibile, non essendo “perseguibile la diversa via di cui all’art. 1105 c.c., u.c.”, poichè “nel caso in esame… non vi erano provvedimenti da adottare per l’amministrazione della cosa comune…”), deve invece ribadirsi che i condomini possono:

1)convenire il giudizio il condominio, in persona dell’amministratore, per ottenere la sola determinazione in millesimi del valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare, agli effetti degli artt. 68 e 69 disp. att. c.c.; 2) oppure ricorrere all’intervento sostitutivo dell’autorità giudiziaria nell’interesse della res, ai sensi dell’art. 1105 c.c., comma 4 (dettato in materia di comunione, ma applicabile anche al condominio degli edifici per il rinvio posto dall’art. 1139 c.c.), se intendono evitare il pregiudizio che possa derivare alla cosa comune in presenza di una paralisi gestionale, perchè non si prendono i “provvedimenti necessari per l’amministrazione” della stessa o non si forma una maggioranza, ovvero perchè la deliberazione adottata non viene eseguita.

La previsione, ad opera del medesimo art. 1105 c.c., comma 4, dello specifico rimedio del ricorso, da parte di ciascun partecipante, all’autorità giudiziaria perchè adotti gli opportuni provvedimenti in sede di volontaria giurisdizione (ivi compresi gli atti di conservazione), preclude, dunque, al singolo partecipante alla comunione di rivolgersi al giudice in sede contenziosa per ottenere provvedimenti di gestione della res, ai fini della sua amministrazione nei rapporti interni tra i comunisti (così Cass. Sez. 3, 08/09/1998, n. 8876; Cass. Sez. U, 19/07/1982, n. 4213).

Non è, tuttavia, altrimenti consentito ricorrere al giudice per ottenere determinazioni finalizzate al “migliore godimento” delle cose comuni, ovvero (come nella specie fatto dalla Corte d’appello di Salerno, che ha dettato le quote di superficie spettanti ai proprietari dei locali terranei per l’uso frazionato dell’androne) l’imposizione di un regolamento contenente norme circa l’uso delle stesse, spettando unicamente al gruppo l’espressione delle volontà associativa di autorganizzazione contenente i futuri criteri di comportamento vincolanti per i partecipanti della comunione.”

© massimo ginesi 7 settembre 2020 

Foto di Scott Webb da Pixabay

se il contatore dell’acqua individuale è nell’androne e allaga un fondo commerciale è responsabile il gestore del servizio

E’ quanto afferma Cass. civ. sez. III 27 marzo 2018 n. 72527 con riguardo ad una vicenda in cui la rottura del contatore della rete idrica a servizio di un’unita immobiliare di proprietà esclusiva aveva cagionato gravi danni ad un esercizio condominiale posto al piano terra.

La corte rileva che, ove il contatore non si trovi all’interno della abitazione ma in parti comuni, non possa ravvisarsi una effettiva custodia da parte dell’utente e che la responsabilità del gestore del servizio va indiviuata in forza dell’art. 2043 c.c. e non già in forza dell’art. 2051 c.c., posto che neanche a costui può applicarsi la norma sulla custodia ma deve  piuttosto ravvisarsi una sua negligenza nel non aver vigilato e predisposto  adeguate cautele.

© massimo ginesi 28 marzo 2018

 

 

scale e androne: pagano anche i fondi con accesso esterno

La Cassazione conferma un orientamento ormai consolidato, secondo il quale le scale costituiscono elemento imprescindibile per l’esistenza di un fabbricato multi piano e quindi sono comuni anche ai fondi che hanno accesso autonomo dalla strada che sono, quindi, tenuti alle spese per la loro conservazione, salvo diversa convenzione pattizia e seppure in misura ridotta.

La sentenza ( Cass. civ. sez. II 20 aprile 2017 n. 9986) richiama orientamenti risalenti, con indubbie aperture di riflessione, anche se l’iter argomentativo non brilla per linearità e armonia.

Il ricorrente, per escludere la propria obbligazione in ordine alle scale, avanza la tesi che che “ai fini della approvazione dei lavori di sistemazione dell’androne e delle scale (…) la validità della delibera debba essere verificata con riferimento ai millesimi dei soli condomini interessati ai lavori in parola (…) e non di tutti i condomini del fabbricato”, tesi che la corte disattende in maniera drastica.

A tal proposito  la corte di legittimità richiama “l’insegnamento secondo cui l’androne e le scale di un edificio sono oggetto di proprietà comune, ai sensi dell’art. 1117 cod.civ. anche dei proprietari dei locali terrene, che abbiano accesso direttamente dalla strada, in quanto costituiscono elementi necessari per la configurabilità stessa di un fabbricato come diviso in proprietà individuali, per piani o porzioni di piano, e rappresentano inoltre, tramite indispensabile per il godimento e la conservazione, da parte od a vantaggio di detti soggetti, delle strutture di copertura, a tetto od a terrazza” (Cfr. Cass. 5.2.1979 n. 761)  

Dunque “le scale, essendo elementi strutturali necessari alla edificazione di uno stabile condominiale e mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di copertura, conservano la qualità di parti comuni, così come indicato nell’art. 1117 cod.civ., anche relativamente ai condomini proprietari di negozi con accesso dalla strada, in assenza di titolo contrario, poiché anche tali condomini ne fruiscono quanto meno in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell’edificio”   

La Corte ricorda comunque un orientamento del 1994 (Cass. 27.9.1994 n. 7885) in forza del quale ben potrebbe darsi, in tale ipotesi, la figura del condominio parziale, “quantomeno in dipendenza della estraneità ad esso dei proprietari dei locali terranei aventi accesso direttamente dalla strada”

Al fine di ricondurre tuttavia la figura del condominio parziale  al solo aspetto gestionale e non relativo alla titolarità del bene, il giudice di legittimità ricorda altre due pronunce (Cass. 21.1.2000 n. 651 e Cass. 2.3.2016 n. 4127) rilevando che, salvo diversa convenzione, per  l’utilità comunque marginale che – anche in caso di più scale destinate a servire diversi ‘blocchi’ dell’edificio – le stesse rendono a tutti i condomini dell’edificio, devono comunque ritenersi comuni a tutti, che  saranno tenuti in virtù di quella utilità ridotta e astratta che si è sopra evidenziata e che impedisce l’applicazione sic et simpliciter dell’art. 1123 III comma cod.civ.

La Corte, con un percorso non privo di qualche scossone logico, fa proprio un precedente del 1977 (Cass. 6.6.1977 n. 2328) ” a tenor  del quale, ove nell’edificio condominiale siano compresi locali forniti di accesso diverso dall’androne e dal vano scale, anche i proprietari di detti locali sono tenuti a concorrere, sia pure in misura minore, alle spese di manutenzione … in rapporto e in proporzione alla utilità che anche essi possono in ipotesi trarne quali condomini”

Coloro che sino ad oggi hanno ritenuto l’edificio con più scale ipotesi paradigmatica della disciplina dettata dall’art. 1123 cod.civ. non possono che porsi qualche domanda e smarrirsi fra le righe della parte motiva  della sentenza chiedendosi – aldilà dell’ipotesi disciplinata in via convenzionale – se ed in quale misura debba applicarsi l’ipotesi del condominio parziale in un edificio con più scale e se davvero in tale ipotesi – come sembra affermato nella pronuncia odierna – tutti i condomini siano comunque tenuti, in qualche misura, alla contribuzione di tutte le scale in quanto potenzialmente utili a ciascuno di loro.

Per coloro che intendano meglio riflettere sull’orientamento della suprema corte,  è opportuna la lettura integrale della sentenza.

© massimo ginesi 30 maggio 2017 

l’installazione di ascensore e la lesione dei diritti dei condomini

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La Cassazione, con recentissima pronuncia (Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 6 luglio – 29 novembre 2016, n. 24235 Presidente Migliucci – Relatore Manna) torna su un tema di grande rilevanza in ambito condominiale e su cui si era  già espressa, in maniera conforme, molte volte.

La vicenda trae origine da fatti accaduti in terra di Puglia: “Nell’assemblea del 13.10.1999 il condominio di (omissis) , deliberava l’installazione di un ascensore all’interno dell’androne delle scale. Assumendosi proprietari esclusivi di un’area retrostante e dei box auto ivi esistenti, e lamentando che la realizzazione dell’ascensore avrebbe impedito loro l’accesso all’area anzi detta e ai box, D.G.G. e C.G. e C. , comproprietari di unità singole al piano terra dell’edificio quali eredi di C.L. , impugnavano detta delibera innanzi al Tribunale di Taranto. assembleare volta alla installazione di ascensore condominiale, impianto che tuttavia avrebbe ristretto considerevolmente lo spazio di accesso ai box posti sul retro dell’impianto”

I proprietari dei box, attori, si vedevano respingere la domanda sia in primo grado che in appello,  sulla scorta di curiose interpretazioni: “Nel resistere in giudizio il condominio eccepiva la prescrizione della servitù di passo carraio, eccezione che l’adito Tribunale di Taranto accoglieva rigettando così la domanda.L’impugnazione proposta avverso detta sentenza da C.G. e C. , anche quali eredi di D.G.G. , nel frattempo deceduta, era respinta dalla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto. Osservava detta Corte, per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità, che l’installazione dell’ascensore non impediva l’accesso degli appellanti all’area di loro proprietà, lasciando libero a tal fine uno spazio di m. 1,12. Circa la dedotta violazione del godimento dei condomini appellanti, quale limite alle innovazioni di cui al 2 comma dell’art. 1120 c.c., aggiungeva che i testi escussi avevano confermato che gli eredi C. non erano mai entrati con autoveicoli all’interno dell’area di loro proprietà e che i manufatti ivi esistenti non erano mai stati utilizzati quali box auto.”

Il caso approda al giudice di legittimità che ribalta il verdetto, ripercorrendo criteri più volte affermati in tema di barriere architettoniche e di violazione degli artt. 1102 e 1120 cod.civ.,  dettando principi che risultano di grande interesse nella prassi applicativa quotidiana, per ciò che  attiene alla valutazione delle singole fattispecie in discussione, che vanno dalla misura minima del passaggio al c.d. uso potenziale.

Il primo motivo di ricorso attiene alla violazione dell’art. 1120 cod.civ.: “Sostiene parte ricorrente che l’innovazione in oggetto viola l’art. 1120, 2 comma c.c., perché lo spazio di mq. 1,12 lasciato libero per il passaggio menoma gravemente il godimento della stessa area comune e degli immobili di sua proprietà. Ciò si desume dal fatto che tale misura è inferiore a quella minima di m. 1,20 fissata dall’art. 4.1.10 del D.M. n. 236/89, relativamente al superamento delle barriere architettoniche, per la lunghezza delle rampe di scale, e impedisce il passaggio contemporaneo di due persone e quello di una barella con un’inclinazione massima del 15% lungo l’asse longitudinale”

Il motivo coglie nel segno: afferma infatti la Corte  “Occorre premettere che in tema di deliberazioni condominiali, l’installazione dell’ascensore, rientrando fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’art. 27 primo comma della legge n. 118/1971 e all’art. 1 primo comma del d.P.R. n. 384/1978, costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2 legge n. 13/89, è approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta rispettivamente dall’art. 1136 secondo e terzo comma c.c.; tutto ciò ferma rimanendo la previsione del terzo comma del citato art. 2 legge n. 13/1989, che fa salvo il disposto degli artt. 1120 secondo comma e 1121 terzo comma c.c. (Cass. n. 14384/04).
La condizione di inservibilità del bene comune all’uso o al godimento anche di un solo condomino, che, ai sensi dell’art. 1120, comma secondo, c.c., rende illegittima e quindi vietata l’innovazione deliberata dagli altri condomini, è riscontrabile anche nel caso in cui l’innovazione produca una sensibile menomazione dell’utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene (cfr. Cass. n. 20639/05, che in applicazione di tale principio ha ritenuto illegittima una delibera condominiale che, nel restringere il vialetto di accesso ai garages, rendeva disagevole il transito delle autovetture).
Dunque, le innovazioni dirette a eliminare barriere architettoniche, come appunto quelle che dispongano l’installazione di un ascensore, non derogano all’art. 1120, 2 comma c.c. (vecchio testo), ma solo alla maggioranza che diversamente è prescritta dall’art. 1136, 5 comma c.c., richiamato dal 1 comma dell’art. 1120 c.c.
E di tali principi la giurisprudenza di questa Corte ha fatto applicazione, segnatamente, anche nell’ipotesi dell’installazione di un ascensore (Cass. n. 12930/12), ancorché volto a favorire le esigenze di condomini portatori di handicap, ove detta innovazione sia lesiva dei diritti di altro condomino sulla porzione di sua proprietà esclusiva, indipendentemente da qualsiasi considerazione di eventuali utilità compensative (Cass. n. 6109/94), ed ove l’installazione renda talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino (Cass. n. 28920/11)”

LA Corte sottolinea anche come occorra, per valutare la lesione del diritto dei singoli, considerare non già l’uso effettivo da costoro posto in essere ma l’uso naturale e possibile connesso alla natura e destinazione della cosa, ovvero il c.d. uso potenziale :  ” Di tali principi di diritto la sentenza impugnata mostra di aver operato una falsa applicazione, lì dove, nel valutare se l’innovazione in oggetto avesse compromesso il godimento delle proprietà individuali degli attori, ha escluso ogni lesione sulla base dell’uso che negli anni questi ne avevano fatto, mentre l’apprezzamento avrebbe dovuto essere operato a stregua della natura e della destinazione economica dei beni stessi. In particolare, la circostanza, valorizzata dalla Corte territoriale, che gli eredi C. non fossero mai entrati con autoveicoli nell’area interna del palazzo e che non avessero mai utilizzato i manufatti di loro proprietà per il ricovero di autovetture, è del tutto priva di significato al fine di valutare la compromissione della facoltà di godimento dei beni di proprietà esclusiva, facoltà che, essendo inerente al contenuto del diritto di proprietà, non si estingue per non uso.”

© massimo ginesi 30 novembre 2016