Il condomino che venda a terzi la propria unità immobiliare in pendenza di convocazione di assemblea per la delibera di significativi lavori straordinari è tenuto a rendere nota all’acquirente la circostanza, potendo altrimenti essere chiamato a rispondere per responsabilità precontrattuale, atteso che i contraenti sono tenuti a condursi secondo buona fede anche nelle fasi prodromiche alla stipulazione del contratto.
Lo ha stabilito la Suprema Corte ( Cass.civ. sez. VI 5 luglio 2017 n. 16640) nel respingere il ricorso del venditore condannato in primo e secondo grado.
I fatti esposti dall’acquirente: “nel 2010 A. M. S. convenne dinanzi al Tribunale de L’Aquila S.M., esponendo: – di avere acquistato un immobile dal convenuto; poco prima della vendita era stata già convocata un’assemblea condominiale al fine di deliberare l’esecuzione di lavori straordinari per un rilevante importo; – tale circostanza le era stata taciuta dal venditore durante le trattative, sicché dopo l’acquisto si era vista costretta a sostenere l’onere del pagamento di spese condominiali straordinarie; – chiese pertanto la condanna dell’attore al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dei fatti sopra descritti; – con sentenza 10aprile 2014 n. 305, il Tribunale de L’Aquila accolse la domanda, condannando il convenuto a pagare ad A M S la somma di euro 6.653,38; – la Corte d’appello de L’Aquila, adita dal soccombente, con sentenza 28 gennaio 2015 n. 138 rigettò il gravame.”
Assai singolare che il venditore ricorra in cassazione lamentando la violazione dell’art. 1123 cod.civ.: costui “lamenta che essendo l’attrice proprietaria dell’immobile al momento in cui l’assemblea condominiale deliberò i lavori straordinari di rifacimento del tetto, la relativa obbligazione non poteva che gravare, ai sensi dell’articolo 1123 c.c., sull’attrice stessa, e non poteva essergli accollata dal giudice di merito”
IL motivo è del tutto infondato, la corte osserva infatti che le somme sono state poste a carico del venditore non già in virtù della delibera ma a titolo di risarcimento: “la Corte d’appello, infatti, ha affermato la responsabilità dell’odierno ricorrente non perché titolare di una obbligazione propter rem, ma a titolo di responsabilità precontrattuale, ovvero per avere volontariamente sottaciuto all’acquirente l’esistenza di un ingente onere condominiale di prossima deliberazione”.
E noto che in caso di lavori straordinari l’obbligo di pagamento sorga con la delibera di approvazione della spesa, all’epoca della quale era già certamente proprietaria la nuova acquirente, che tuttavia proprio in virtù si è vista esposta ad una spesa che in sede di stipulazione del contratto doveva essergli resa nota dal venditore, potendo incidere sull’assetto patrimoniale dell’accordo e sulla volontà delle parti.
“in un giorno d’estate soffocante, un avvocato si mette alla ricerca del suo gatto e in un giardino abbandonato dietro casa incontra una strana ragazza. Una giovane coppia decide di fare uno spuntino notturno e assalta un McDonald’s per avere trenta Big Mac, realizzando così un segreto desiderio adolescenziale del marito. Nel racconto che da il titolo al libro, un uomo è ossessionato dalla incredibile, misteriosa scomparsa di un elefante dallo zoo del paese. E poi ancora una curiosa digressione sui canguri, un uomo che incendia granai per il gusto di vederli bruciare e le introspezioni di una giovane madre afflitta da insonnia.”
Mi è balzato alla mente Murakami oggi, leggendo di fascicoli del fabbricato, responsabilità nuove e future per l’amministratore ed originali affermazioni di chi gli amministratori dovrebbe rappresentare.
Compare su un quotidiano tecnico nazionale la notizia che l’art. 1130 n. 6 cod.civ., laddove prevede l’istituzione del registro di anagrafe condominiale in cui è annotato, a cura dell’amministratore, ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza delle parti comuni dell’edificio, imporrebbe all’amministratore un ruolo pubblico di sicurezza e garanzia circa la staticità e sicurezza del fabbricato del quale costui risponderebbe quale professionista: “La sicurezza (statica) – prosegue Ferri – deve quindi emergere da elementi descrittivi e apprezzabili dall’amministratore nella loro oggettività direi documentale. Le fonti possono essere: 1) Il fascicolo del fabbricato, laddove esistente; 2) Le certificazioni obbligatorie di conformità di impianti comuni alla legge (caldaia centralizzata; impianti antincendio); 3) Gli aggiornamenti della situazione statica che gravano sull’amministratore per fatti/opere successive all’accettazione del mandato». Proprio quest’ultimo è un punto fondamentale per capire l’importanza della norma, sinora non molto considerata: «Ciò si pone in relazione al passaggio della documentazione, ai sensi della comma 8 dell’articolo 1130, sullo stato tecnico-amministrativo del condominio che secondo la giurisprudenza si estende idealmente alla “nascita” del condominio (Cass. 1085 del 2010)». Una ricostruzione delle vicende edilizie dell’immobile, quindi, fa parte dei doveri dell’amministratore”.
L’affermazione proviene dal sottosegretario alla giustizia che compie una sorta di lettura autentica della norma, che – ad oggi – non ha avuto visto significativi approdi giurisprudenziali.
E’ l’autorevole e rispettabile interpretazione di un componente del governo, che tuttavia è organo esecutivo e non giurisdizionale e che si dovrà verificare se sia in linea con quella dei giudici, che quella norma saranno chiamati ad applicare.
Non sfuggirà che la norma prevede in realtà, in capo all’amministratore, unicamente un obbligo compilativo e di verifica della sussistenza di situazioni di rischio: appare decisamente sovrabbondante, rispetto alla figura di un mandatario confinato all’ambito di rapporti privatistici, individuare in capo a colui che esercita un ruolo strettamente delineato dall’art. 1130 cod.civ. funzioni, obblighi, valutazioni e responsabilità che lo trasformano in un professionista responsabile della sicurezza e staticità del patrimonio edilizio nazionale.
Non è peraltro nuovo l’orientamento del ministero volto a dare una connotazione pubblicistica alla figura dell’amministratore, atteso che già aveva espresso concetti analoghi a proposito della portata e valenza delle norme in tema di formazione del professionista, con la singolare conseguenza che si finisce per attribuire ad una figura di diritto privato – la cui abilitazione professionale e formazione è rimessa a dinamiche prive di fatto di alcun controllo concreto dello Stato (se non sotto forma di rispetto ex ante dei criteri astratti previsti dall’art. 71 bis disp.att. cod.civ., dalla L. 4/2013 e dal DM 140/2014) – funzioni di rilievo pubblico sempre più importanti e preoccupanti.
Non vi è dubbio che l’amministratore, che deve essere un professionista rigoroso, possa essere un ottimo strumento per un monitoraggio e una corretta gestione del patrimonio edilizio esistente: tuttavia tale funzione è auspicabile che si raggiunga attraverso un adeguato sviluppo normativo che identifichi gli strumenti indispensabili, ponendo oneri e conseguenze sui proprietari dei beni e non su coloro che – per loro conto – li amministrano.
In tal senso l’art. 1130 n. 6 cod.civ. è stato, sin dalla sua introduzione nel 2012, una norma lacunosa e di fatto incomprensibile, che non ha mutato significato con l’integrazione del 2015 (che ha limitato gli obblighi alle condizioni delle parti comuni), precisazione che peraltro non esime l’amministratore da responsabilità anche per impianti privati, ove gli stessi costituiscano fattore di rischio per il fabbricato, in virtù dei noti principi sulla colpa omissiva più volte espressi anche dalla Suprema Corte (Cass. Pen. 13 ottobre 2009, n. 39959).
La preannunciata introduzione del fascicolo del fabbricato ben potrebbe divenire occasione per creare una disciplina chiara e definitiva che riveda ed integri anche l’art. 1130 n. 6, con taglio operativo e non inutilmente penalizzante o, peggio, pericoloso, per colui che risulta essere un soggetto incaricato da privati di amministrare i loro beni, con nessun potere di spesa e decisionale limitato alle urgenze e alla ordinaria amministrazione, le cui iniziative sono comunque sempre soggette a ratifica assembleare.
Curioso poi che chi si onora di presiedere una associazione nazionale di amministratori affermi – nello stesso comunicato – che l’art. 1130 cod.civ. è norma inderogabile (è sufficiente una rapida disamina dell’art. 1138 cod.civ. per rendersi conto del contrario, almeno sotto il profilo letterale) e che la mancata istituzione dei registri costituisca “una delle tre gravi irregolarità che motivano la revoca, anche su ricorso di un solo condomino” (le gravi irregolarità, come è noto, possono essere infinite e apprezzate discrezionalmente dal giudice, l’art. 1129 cod.civ. ne elenca alcune tipiche e il comma XI di tale norma prevede ipotesi di iniziativa singola, nessuna delle quali riguarda i registri suddetti).
in alcune materie, fra le quali condominio e locazioni, la mediazione è condizione di procedibilità per i relativi giudizi ai sensi dell’art. 5 comma 1 bis d.lgs 28/2010 e succ. mod.
Significa che il soggetto che voglia intraprendere una causa in siffatte materie dovrà necessariamente esperire la procedura di mediazione, dovendo altrimenti la sua domanda essere dichiarata improcedibile.
Ove la causa sia introdotta senza il rispetto di tale formalità, il giudice assegna alle parti un termine (che è stato ritenuto non perentorio) per introdurre il procedimento, dichiarando le domande improcedibili ove alla mediazione non venga dato corso.
Poiché la norma estende l’obbligo a chiunque voglia esercitare in giudizio un’azione nelle materie previste dal primo comma di detto art. 5, la previsione si deve ritenere estesa anche al convenuto che, a fronte della domanda principale non si limiti a difendersi ma proponga a propria volta una domanda nei confronti dell’attore (la c.d. domanda riconvenzionale).
Ci si è chiesti come debba essere interpretata la norma sulla procedibilità in tale particolare ipotesi, atteso che l’indicazione con il termine “convenuto” del soggetto che deve eccepire l’improcedibilità, non è apparso dirimente, poiché lo stesso attore assume la posizione sostanziale e processuale di convenuto rispetto alle domande riconvenzioni avanzate da colui che è stato citato in giudizio.
Con riferimento alla mediazione esperita prima del giudizio, si è ritenuto che, ove poi il convenuto si costituisca avanzando domanda riconvenzionale anche essa sia soggetta a condizione di procedibilità, sicché il giudice dovrà rimettere le parti dinanzi ad organismo di mediazione.
Più complesso il tema della mediazione cui le parti sono rimesse dal giudice all’esito della fase sommaria di un procedimento speciale quale la convalida di sfratto, ove – emessi i provvedimenti di cui all’art. 665 c.p.c. – il giudice disponga mutamento del rito e rimetta le parti dinanzi al mediatore.
In tal caso si è argomentato, in giurisprudenza, che entrambe le domande siano soggette a mediazione e che la condizione di procedibilità possa ritenersi avverata per entrambe solo sia demandato al mediatore l’intero oggetto della controversia e non già solo la domanda dell’attore (o del convenuto): in tale ultima ipotesi la parte che non veda investito il mediatore della propria istanza sarà tenuta a propria volta ad attivare un autonomo procedimento, eventualmente da riunire all’altro, a pena di improcedibilità della propria domanda (Trib. Roma 27.11.2014, una pronuncia che merita lettura anche per la singolarità della fattispecie, che non getta buona luce sulla categoria forense…)
In senso analogo si è pronunciato di recente il Tribunale di Massa, con sentenza 17 luglio 2017, osservando, con riferimento alla procedibilità della domanda riconvenzionale, che “tale condizione potrà ritenersi assolta ove una delle parti – nell’adire l’organismo di mediazione – abbia devoluto alla sua conoscenza l’intero rapporto oggetto di causa e non solo la propria domanda. A tal proposito è sufficiente esaminare l’istanza di mediazione depositata in atti dalla attrice, ove alla seconda pagina, sotto la voce “breve descrizione della controversia” si riporta l’intera materia del contendere, ivi compresa la riconvenzionale avanzata dalla B., con ciò mostrando l’intenzione di sottoporre al mediatore tutte le domande azionate nel presente giudizio. Ragione che induce, pertanto, a ritenere procedibile anche la domanda riconvenzionale proposta dalla convenuta, rilevando la sua mancata adesione non sotto il profilo della procedibilità ma unicamente sotto il profilo della responsabilità e delle conseguenze previste dall’art. 8 D.lgs. 28/2010.”
Cass.civ. sez. II 13 luglio 2017 n. 17400 ribadisce i limiti di utilizzo delle parti comuni che il singolo può attuare secondo l’art. 1102 cod.civ.: si tratta, nella fattispecie, della installazione di un condizionatore su una parte condominiale e a servizio della unità di un condomino.
L’installazione è stata ritenuta vietata (sin dal giudice di pace che, in primo grado, aveva deciso sulla vicenda) poiché l’utilizzo di una parte comune ad pera del singolo è consentito -anche ove sottragga in parte al disponibilità della stessa all’uso comune, ove agli altri condomini non rimanga precluso un uso analogo.
“In tema di condominio ciascun condomino libero di servirsi della cosa comune anche per fini esclusivamente propri, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini.
il disposto di cui all’articolo 1102 c.c. prevede che il pari godimento della cosa comune è sottoposto due limiti fondamentali: il divieto di alterarne la destinazione e il divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.”
La Cassazione ( Cass.civ. sez. II 7 luglio 2017, n. 16901 rel. Giusti) ribadisce un principio consolidato: ove il condominio sia composto da due soli partecipanti si applicano le norme sul condominio ma le decisioni – non potendo operare per ovvie ragioni numeriche il disposto dell’art. 1136 cod.civ. – possono essere assunte solo con il voto favorevole di entrambi i condomini.
“nel condominio c.d. minimo (formato, cioè, da due partecipanti con diritti di comproprietà paritari sui beni comuni), le regole codicistiche sul funzionamento dell’assemblea si applicano allorché quest’ultima si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione “unanime”, tale dovendosi intendere quella che sia frutto della partecipazione di ambedue i comproprietari;
ove, invece, non si raggiunga l’unanimità, o perché l’assemblea, in presenza di entrambi i condomini, decida in modo contrastante, oppure perché, come nella specie, alla riunione benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l’altro resti assente, è necessario adire l’autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 cod. civ., non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (Cass., Sez. II, 2 marzo 2017, n. 5329).”
Il fenomeno acquisitivo delineato dagli art. 1158 e s.s. cod.civ., denominato usucapione, prevede che un soggetto che usi di fatto un bene come se fosse proprio e per un certo periodo di tempo, previsto dalla legge, ne diventi proprietario.
LA situazione di fatto corrispondete all’esercizio di un diritto è denominata possesso dal codice civile , ed è il fondamento – insieme al protrarsi di tale situazione per un tempo apprezzabile, dell’usucapione.
LA Suprema Corte ha sempre sottolineato che la situazione di fatto deve essere oggetto di valutazione decisamente rigorosa laddove l’usucapione riguardi beni condominiali, poiché il potere di fatto esercitato dal singolo condomino sul bene comune può non avere il carattere della assolutezza e individualità, ma essere semplice manifestazione di un esercizio riconducibile all’art. 1102 cod.civ.
Il condomino che pretenda di aver usucapito un bene comune dovrà dunque dimostrare di aver compiuto atti idonei ad escludere il compossesso degli altri condomini.
L’orientamento è confermato da una recente pronuncia (Cass.civ. sez. II 4 luglio 2017 n. 16414 rel. Giusti): “La Corte territoriale si è attenuta al principio di diritto, costante nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res communis da parte dell’interessato attraverso un’attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che in-vochi l’avvenuta usucapione del bene (Cass., Sez. II, 20 settembre 2007, n. 19478; Cass., Sez. II, 20 maggio 2008, n. 12775; Cass., Sez. II, 2 settembre 2016, n. 17512).”
Ieri il consiglio dei Ministri, sordo alle indicazioni di modifica provenienti da ogni parte del mondo della giustizia e dell’utenza e nonostante le preannunciate aperture – rivelatesi del tutto infondate – nel corso di quesi mesi, ha approvato in via definitiva il secondo decreto legislativo attuativo della legge delega 57/2016 di riforma della magistratura onoraria.
In attesa della pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, chi ha voglia di provare a comprendere il significato operativo di una pessima riforma, può dare un’occhiata alle bozze che circolano in rete
Oltre ad una cervellotica riorganizzazione degli uffici giudiziari, a disposizioni su malattia, ferie, previdenza, decadenza dall’incarico che paiono violare ogni possibile norma di garanzia costituzionale e sovranazionale, si prevede l‘attribuzione delle cause condominiali al giudice onorario a far data dal 31 ottobre 2025.
E’ plausibile che sia il primo caso nella storia repubblicana di un provvedimento che posticipa la sua entrata in vigore di otto anni, probabilmente conscio esso stesso della sua inopportunità.
Da sottolineare che i decreti attuativi hanno del tutto omesso di regolamentare, come prevedeva la legge delega, il trasferimento dei magistrati onorari, con seri dubbi sulla legittimità di una simile attuazione.
Allo stato, chi svolge le proprie funzioni in un certo tribunale è destinato a dover rimanere in quello sino al termine della sua carriera, quale che siano le sue esigenze di vita privata e lavorativa. Chi si trovi a fare il magistrato onorario a Vercelli e per esigenze familiari si trasferisca a Roma, o rinuncia all’incarico o farà il pendolare con Vercelli.
Considerato che per i magistrati onorari attualmente in servizio è prevista la permanenza nell’incarico per altri sedici anni o comunque sino ai sessantotto anni di età, non dovrebbe essere difficile comprendere l’assurdità e l’illegittimità di una simile ipotesi.
Coloro che avevano sperato in una riforma di garanzia e nella elaborazione di uno status che garantisse i diritti minimi a soggetti che da quindici anni lavorano a tempo pressoché pieno nelle aule di giustizia sono evidentemente soggetti che amano sognare.
L’unico punto che segna un passaggio favorevole, almeno per gli attuali GOT, è un regime retributivo che – per quanto del tutto inadeguato alle funzioni svolte (16mila euro l’anno lordi) – prevede, seppur a far data dal 2020, un superamento parziale del regime di cottimo attuale, che ha connotazioni del tutto inaccettabili.
Interessanti lue note critiche del Prof. Scarselli, che erano state rese allo schema di decreto che oggi possono applicarsi al decreto così come approvato:
Fra le tante, alcune riflessioni e la chiusura colpiscono:
“V’è da chiedersi se sia costituzionalmente legittimo che i magistrati onorari vengano pagati con una retribuzione che, in parte, è condizionata al raggiungimento di obiettivi fissati dal Presidente del tribunale. Se la retribuzione dei magistrati professionali dipendesse dai risultati raggiunti, da ogni parte si griderebbe alla incostituzionalità; sono da indicare, allora, le ragioni per le quali una simile forma di retribuzione può esser invece legittima per il magistrato onorario, che, parimenti a quello professionale, svolge funzioni giurisdizionali.”
“V’è da chiedersi, ancora, se sia costituzionalmente legittimo che un giudice onorario, ancorché privo della qualifica di pubblico impiego, e pur tuttavia svolgente pubbliche funzioni, possa rendere la propria attività senza alcun riconoscimento di assistenza, infortuni, gravidanza, in contrasto con le direttive europee, che escludono che detti costi possano porsi interamente a carico del lavoratore, e in contrasto anche con un minimo senso di giustizia sostanziale, che imporrebbe una qualche solidarietà sociale dinanzi a simili eventi.”
“Da un punto di vista generale, tuttavia, la riforma non promette niente di buono.
“Non bisogna essere psicologi per capire che un lavoratore è più produttivo se è contento del suo ruolo e del suo lavoro.”
Laddove la parte sia incolpevolmente decaduta da una attività processuale, l’istanza per essere riammessi al compimento di tale attività deve provenire dalla parte – poiché rappresenta l’espressione del potere dispositivo di cui è titolare – e non può essere esercitata di ufficio dal giudice.
Lo ha stabilito Corte di Cassazione, sez. VI Civile, 4 luglio 2017, n. 16467 esaminando una vicenda in cui il giudice di appello aveva ritenuto i testi escussi in primo grado inattendibili in forza di documenti prodotti tardivamente dal convenuto solo all’udienza di precisazione delle conclusioni.
Il Giudice del merito aveva ritenuto la tardività della produzione, ma l’aveva comunque utilizzata sul presupposto che non costituiva fondamento della decisione ma solo strumento di verifica della attendibilità dei testi.
La Corte compie un apprezzabile escursus sulle modalità di convincimento del giudice e sull’utilizzo degli elementi di prova emersi nel giudizio:
“la verifica dell’attendibilità della fonte di prova orale ricade nella attività di valutazione e selezione delle risultanze istruttorie, affidata al Giudice di merito, non venendo a distinguere l’ordinamento processuale, all’interno della necessaria relazione -istituita nel percorso motivazionale della sentenza- tra “i fatti” come dimostrati dalle prove assunte e la “regola di diritto” alla stregua della quale la controversia viene decisa, una differente “funzione” del mezzo di prova, secondo che venga utilizzato in quanto rappresentativo dei fatti primari attinenti alla fattispecie normativa del diritto fatto valere in giudizio, ovvero in quanto rappresentativo di elementi estranei a tale fattispecie (fatti secondari) ma ritenuti indispensabili a verificare “a monte” l’attendibilità della fonte diretta a produrre la rappresentazione del fatto costituivo.
Deve infatti ribadirsi il principio secondo cui la valutazione delle risultanze probatorie ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 12747 del 01/09/2003; id. Sez. L, Sentenza n. 16499 del 15/07/2009; id. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014), e non vi è dubbio che tale attività selettiva si estenda alla valutazione di tutti gli aspetti strutturali della fonte-mezzo di prova (e dunque anche sulla effettiva idoneità del teste di riferire la verità) in quanto determinanti a formare il convincimento del Giudice sulla efficacia dimostrativa della stessa (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014; vedi Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 17630 del 28/07/2010).
Tutto il materiale utilizzato dal Giudice per decidere deve essere ritualmente acquisito al processo, poiché ogni elemento di valutazione – diretto o indiretto – contribuisci a formare il suo convincimento. Ne consegue che “deve essere cassata la statuizione della sentenza impugnata che ha dichiarato la ammissibilità della produzione documentale tardiva, effettuata oltre la scadenza dei termini perentori assegnati dal primo giudice ai sensi dell’art. 184 c.p.c. (nel testo anteriore al DL n. 35/2005 conv. in legge n. 263/2005), sulla base della “funzione non già dimostrativa dei fatti costitutivi…..bensì di confutazione dell’attendibilità dei testimoni addotti dall’attore, la cui necessità è emersa solo all’esito dell’assunzione dei mezzi di prova orale….” (cfr. motivazione sentenza appello, pag. 4), non essendo consentita alcuna regressione del processo alla fase processuale istruttoria ormai conclusa, nel caso in cui le parti non abbiano esercitato il potere di deduzione probatoria nei termini di decadenza assegnati dal Giudice, fatta salva soltanto la eventuale “rimessione in termini” per il compimento di attività processuali in ordine alle quali la parte è decaduta per causa ad essa non imputabile (art. 184 bis c.p.c., norma successivamente abrogata e riprodotta nell’art. 153 co2 c.p.c.), che presuppone la espressa istanza di parte interessata -non essendo surrogabile dal Giudice di merito l’esercizio del potere dispositivo riservato alla parte processuale- e l’accertamento della condotta incolpevole tenuta dalla parte, da compiere secondo le modalità del procedimento previste dall’art. 294 c.p.c.”
Esemplare e godibile pronuncia della cassazione (Cass.civ. Sez. III 5 luglio 2017 n. 16482) , che sanziona pesantemente un ricorrente che ha inteso occupare la giustizia con un procedimento privo di fondamento e per questioni bagatellari.
Accade che durante una assemblea di condominio si verbalizza ciò che accade durante la riunione ed il condomino X, dall’animo particolarmente sensibile, si sente leso nella propria dignità dalle espressioni utilizzate da coloro che hanno steso lo scritto; li cita dunque dinanzi al Tribunale di Novara per sentirli condannare al risarcimento del danno, poiché le espressioni usate sarebbero diffamatorie.
Ecco le espressioni che il condomino ritiene meritevoli di sanzione giudiziale, con condanna al risarcimento degli autori: ” a fondamento della domanda dedusse che i convenuti, nel redigere il verbale di assemblea condominiale, avevano adottato espressioni lesive del suo onore della sua reputazione, ed in particolare avevano scritto che:
il controllo dei documenti da parte di X si dilunga oltre ogni ragionevole tempo;
tutti gli altri condomini danno evidenti segni di impazienza;
sorge, come sempre, solita animata discussione tra X e l’amministratore;
I condomini sono loro malgrado testimoni dei fatti;
il signor X giustifica suo voto contrario con le solite motivazioni di tutti gli anni.“
Chiunque abbia frequentato una assemblea condominiale o un’aula di giustizia troverà tali espressioni degne di una cena nobiliare britannica, ma tant’è.
Il Tribunale di Novara respinge la domanda per manifesta infondatezza, condannando l’attore X per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.
L’animo sensibile non ha impedito al condomino X di appellare una sentenza che già costituiva una indicazione chiara nel merito; l’impugnazione è dichiarata inammissibile dalla Corte di Appello di Milano, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c. (“l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”).
Altro significativo segnale nel merito, rimasto inascoltato, poiché il condomino la cui reputazione risulterebbe irrimediabilmente lesa, ricorre in cassazione, con una serie articolata di motivi assai bizzarri, lamentando che
1 – Il tribunale avrebbe violato l’art. 101 c.p.c. poiché avrebbe deciso la causa senza preventivamente sottoporre alle parti la questione, rilevata di ufficio, del “contesto agitato in cui venne redatto il verbale”
La corte rileva che il Tribunale di Novara venne chiamato a stabilire se quel verbale era o meno diffamatorio e non lo ritenne tale, il motivo è dunque infondato in quanto non risulta che la decisione sia fondata su questioni sulle quali le parti non hanno potuto interloquire, e la notazione sul clima teso non è certo motivo di decisione ma semplice nota ad colorandum.
2 – il Tribunale avrebbe violato il giudicato esterno perché il Tribunale di Novara, in una precedente sentenza del 2013, avrebbe accertato che il condomino X non faceva perdere tempo in assemblea (sic!), motivo ritenuto inammissibile poiché il giudicato si forma sull’oggetto della domanda, che in questo caso era la diffamatorietà delle espressioni e non la condotta del condomino X
3 . il terzo motivo di ricorso è il più godibile: il condomino X deduce che il Tribunale avrebbe violato l’art. 2 della Cost. e la gli artt. 10 e 14 CEDU perché ha escluso il carattere diffamatorio degli scritti che avrebbero leso i suoi diritti di persona, avendolo discriminato in quanto minoranza nella assemblea condominiale. la motivazione della Cassazione è lapidaria: “il motivo è manifestamente infondato, non esistendo norma veruna nell’ordinamento nazionale o sovranazionale che tuteli i diritti delle minoranze condominiali”.
4 – con il quarto motivo lamenta che non può sussistere condanna ex art. 96 c.p.c. mancando la malafede: osserva la corte di legittimità che la condanna ex art. 96 III comma c.p.c. non richiede necessariamente malafede, mentre lo stabilire se sussista colpa nella proposizione della domanda è questione riservata al giudice del merito.
Nel respingere il ricorso la Cassazione, oltre a condannare il ricorrente alle spese di giudizio liquidate in tremila euro oltre accessori, traccia una linea netta in ordine alla temerarietà dell’azione, gettando un chiaro monito non solo alla parte sostanziale ma anche al difensore.
LA suprema Corte rileva che il ricorrente “Ha sostenuto tesi giuridicamente molto originali, come quella secondo cui la CEDU tutelerebbe le minoranze condominiali” ed ha in più sostenuto a sproposito l’esistenza del giudicato esterno, chiedendo inoltre un riesame di merito precluso al giudice di legittimità.
“Il ricorrente, in definitiva, ha proposto un ricorso in parte manifestamente infondato, ed in parte manifestamente inammissibile.
Da ciò deriva che delle due l’una: o il ricorrente – e per lui suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex articolo 2049 c.c. – ben conosceva l’insostenibilità della propria impugnazione, ed allora ha agito sapendo di sostenere una tesi infondata (condotta che, ovviamente, l’ordinamento non può consentire);
ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita o nel non essersi adoperato con la exacta diligetia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall’articolo 1176 comma II c.c.) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata, quale è quella dell’avvocato in generale, e dell’avvocato cassazionista in particolare.
Il ricorrente va dunque, condannato di ufficio ai sensi dell’articolo 96, comma III c.p.c., al pagamento in favore delle parti intimate, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata a titolo di risarcimento del danno. Tale somma va determinata assumendo a parametro di riferimento l’importo delle spese dovute alla parte vittoriosa per questo grado di giudizio e – tenendo conto del numero dei controcorrenti – nella specie può essere fissata in via equitativa ex art. 1226 c.c. nell’importo di euro 10.000″