gli atti prolissi violano il giusto processo

Atti la cui lunghezza e ridondanza risulta non pertinente con l’oggetto del contendere violano il giusto processo, specie laddove la parte riproduca in ogni atto il  contenuto di tutti i precedenti.

Ove poi, in tale contesto, deduca anche capitoli di prova con semplice richiamo alla parte narrativa  risulta anche violato l’art. 244 c.p.c. e le prove risultano inammissibili.

Il giudice rileva anche che la domanda riconvenzionale avanzata sin dalla comparsa di costituzione in fase sommaria non richiede differimento dell’udienza all’esito del mutamento di rito.

E’ quanto statuito da Trib. Massa, ord. 26 ottobre 2019: “ Ritenuto che, avendo parte convenuta avanzato la domanda riconvenzionale sin dalla comparsa depositata nella fase sommaria, a fronte della concessione dei termini ex art 426 c.p.c. all’atto del mutamento del rito, siano state comunque pienamente garantite a parte attrice le garanzie difensive previste dall’art. 418 c.p.c. 

Rilevato che, del tutto incomprensibilmente, attesa la natura del rito locatizio, parte attrice ha richiesto la concessione dei termini ex art 183 c.p.c. e non ha poi capitolato le proprie istanze istruttorie nella memoria integrativa, per la quale era stato concesso apposito termine 

Ritenuto altresì che le prove dedotte da parte convenuta risultino inammissibili per la totale inosservanza dei requisiti previsti dall’art. 244 c.p.c. (cass. 3708/2019); parte convenuta redige una comparsa ed una memoria integrativa (l’una di 32 e l’altra di 45 pagine) che contrastano con qualunque principio di ragionevolezza e sinteticità, violando il disposto di cui all’art l’art. 16-bis comma 9-octies del D.L. n. 179 del 2012, come modificato dal D.L. 83/2015 conv. nella L. 132/2015 e finendo con ciò per abusare del processo (Cass. 11199/2012, Trib. Milano 1.10.2013): nell’ambito di tali ridondanti atti, deduce a prova circostanze che richiama per mera relazione a capoversi della parte narrativa che risultano di difficile reperimento nella congerie di deduzioni che la difesa ha ritenuto di versare nel processo e, dall’altro, si discostano dai principi di capitolazione previsti dall’art. 244 c.p.c., contenendo valutazioni, componenti descrittive ed estranee al mero fatto su cui il testimone dovrebbe essere escusso. Tale modalità rende del tutto inammissibili le deduzioni istruttorie avanzate dal convenuto posto che “Le prove per interrogatorio formale e per testi, secondo quanto richiesto negli artt. 230 e 244 c.p.c. devono essere dedotte per articoli separati e specifici. Ne consegue l’inammissibilità della richiesta di ammissione su tutto il contenuto della comparsa di risposta che non consenta, per la genericità ed indeterminatezza del testo, di individuare capitoli di prova che rispondano ai requisiti richiesti dalle norme processuali citate, né può essere richiesto al giudice di estrapolare egli stesso detti capitoli di prova (tramite una c.d. “lettura estrapolativa” nell’atto di parte), contrastandovi il principio della disponibilità della prova.  Cass. civ. n. 12292/2011 “

© massimo ginesi 31 ottobre 2019 

la rimessione in termini deve essere domandata dalla parte e non può essere disposta d’ufficio.

Laddove la parte sia incolpevolmente decaduta da una attività processuale, l’istanza per essere riammessi al compimento di tale attività deve provenire dalla parte – poiché rappresenta l’espressione del potere dispositivo di cui è titolare – e non può essere esercitata di ufficio dal giudice.

Lo ha stabilito Corte di Cassazione, sez. VI Civile,  4 luglio 2017, n. 16467 esaminando una vicenda in cui il giudice di appello aveva ritenuto i testi escussi in primo grado inattendibili in forza di documenti prodotti tardivamente dal convenuto solo  all’udienza di precisazione delle conclusioni.

Il Giudice del merito aveva ritenuto la tardività della produzione, ma l’aveva comunque utilizzata sul presupposto che non costituiva fondamento della decisione ma solo strumento di verifica della attendibilità dei testi.

La Corte compie un apprezzabile escursus sulle modalità di convincimento del giudice e sull’utilizzo degli elementi di prova emersi nel giudizio:

la verifica dell’attendibilità della fonte di prova orale ricade nella attività di valutazione e selezione delle risultanze istruttorie, affidata al Giudice di merito, non venendo a distinguere l’ordinamento processuale, all’interno della necessaria relazione -istituita nel percorso motivazionale della sentenza- tra “i fatti” come dimostrati dalle prove assunte e la “regola di diritto” alla stregua della quale la controversia viene decisa, una differente “funzione” del mezzo di prova, secondo che venga utilizzato in quanto rappresentativo dei fatti primari attinenti alla fattispecie normativa del diritto fatto valere in giudizio, ovvero in quanto rappresentativo di elementi estranei a tale fattispecie (fatti secondari) ma ritenuti indispensabili a verificare “a monte” l’attendibilità della fonte diretta a produrre la rappresentazione del fatto costituivo.

Deve infatti ribadirsi il principio secondo cui la valutazione delle risultanze probatorie ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 12747 del 01/09/2003; id. Sez. L, Sentenza n. 16499 del 15/07/2009; id. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014), e non vi è dubbio che tale attività selettiva si estenda alla valutazione di tutti gli aspetti strutturali della fonte-mezzo di prova (e dunque anche sulla effettiva idoneità del teste di riferire la verità) in quanto determinanti a formare il convincimento del Giudice sulla efficacia dimostrativa della stessa (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014; vedi Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 17630 del 28/07/2010).

Tutto il materiale utilizzato dal Giudice per decidere deve essere ritualmente acquisito al processo, poiché ogni elemento di valutazione – diretto o indiretto – contribuisci a formare il suo convincimento. Ne consegue che “deve essere cassata la statuizione della sentenza impugnata che ha dichiarato la ammissibilità della produzione documentale tardiva, effettuata oltre la scadenza dei termini perentori assegnati dal primo giudice ai sensi dell’art. 184 c.p.c. (nel testo anteriore al DL n. 35/2005 conv. in legge n. 263/2005), sulla base della “funzione non già dimostrativa dei fatti costitutivi…..bensì di confutazione dell’attendibilità dei testimoni addotti dall’attore, la cui necessità è emersa solo all’esito dell’assunzione dei mezzi di prova orale….” (cfr. motivazione sentenza appello, pag. 4), non essendo consentita alcuna regressione del processo alla fase processuale istruttoria ormai conclusa, nel caso in cui le parti non abbiano esercitato il potere di deduzione probatoria nei termini di decadenza assegnati dal Giudice, fatta salva soltanto la eventuale “rimessione in termini” per il compimento di attività processuali in ordine alle quali la parte è decaduta per causa ad essa non imputabile (art. 184 bis c.p.c., norma successivamente abrogata e riprodotta nell’art. 153 co2 c.p.c.), che presuppone la espressa istanza di parte interessata -non essendo surrogabile dal Giudice di merito l’esercizio del potere dispositivo riservato alla parte processuale- e l’accertamento della condotta incolpevole tenuta dalla parte, da compiere secondo le modalità del procedimento previste dall’art. 294 c.p.c.”

© massimo ginesi 10 luglio 2017