quando l’appartamento fa parte di due condominii diversi

E’ il caso affrontato da Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 23 marzo 2017 n. 7605, Relatore Scarpa.

I fatti “La Corte d’Appello di Roma, sulla scorta delle richiamate risultanze della CTU, ha affermato che una porzione dell’appartamento di LF, ubicato al piano attico dell’edificio di via QN 152, si estende anche sul corpo di fabbrica dell’adiacente edificio condominiale di via delle TC15. In particolare, i solai di calpestio dell’unità immobiliare di proprietà F. costituiscono la copertura del sottostante fabbricato di via TC, per un’estensione di mq 148,26 di area coperta e di mq 42,81 di area scoperta. Il CTU ha quindi evidenziato conclusivamente che tale appartamento sia “parte integrante” di entrambi i condominii.”

Propone ricorso la condomina, ritenendo che la propria unità immobiliare debba essere ricondotta ad un solo fabbricato e propone ricorso incidentale il Condominio, che si duole della compensazione delle spese applicata dal Giudice di merito.

Osserva la Corte che Al fine di stabilire se un appartamento sia compreso in un condominio edilizio, è infatti necessario verificare, con riferimento al momento della nascita del condominio (salvo eventuale titolo negoziale contrario, il cui apprezzamento è comunque affidato alle prerogative del giudice di merito: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3084 del 03/09/1976), se, con riguardo alla struttura ed alla conformazione di esso, e, dunque, in base ad elementi obiettivamente rilevabili, sussista il presupposto della permanente ed oggettiva destinazione al suo servizio ed al suo godimento dei beni di quell’edificio elencati nell’art. 1117 c.c., restando escluso che sia determinante pure l’esistenza di un collegamento materiale o di una via diretta di accesso tra parti condominiali e singola unità immobiliare.

E’ d’altro canto certamente ammissibile, per quanto si desume dall’art. 61 disp. att. c.c., che, pur in presenza di fabbricati che presentino elementi di congiunzione materiale, allorchè vengano costituiti condominii separati per le parti aventi i connotati di autonomi edifici, uno dei titolari di porzioni esclusive si ritrovi proprietario di un appartamento ricadente in entrambi i condominii (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2324 del 01/03/1995; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4439 del 07/08/1982).

Il ricorso di L.F., pur deducendo una censura per violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c., si sostanzia, in realtà, nella prospettazione di una ricostruzione degli elementi materiali della fattispecie diversa da quella accolta dalla Corte del merito, e dunque invoca un giudizio di mero fatto, del tutto estraneo al sindacato di legittimità.”

 

Quanto alle spese: “La Corte d’Appello di Roma ha compensato le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio, ponendo a carico delle parti la metà ciascuno delle spese di CTU, “stante l’opinabilità della questione, che peraltro ha necessitato di accertamenti tecnici”. Il Condominio di via delle TC 15, Roma, denuncia al riguardo la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. per difetto delle “gravi ed eccezionali ragioni” ex art. 92, comma 2, c.p.c.

Tuttavia, nei giudizi, quale quello in esame, instaurati anteriormente all’entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, la compensazione delle spese può essere disposta – ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 45, comma 11, di detta legge – per “giusti motivi esplicitamente indicati dal giudice nella motivazione della sentenza”, e non per “gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione”. Nella vigenza di tale formulazione dell’art. 92, comma 2, c.p.c., la scelta di compensare le spese processuali rimane riservata al prudente, ma comunque motivato, apprezzamento del giudice di merito, la cui statuizione può essere censurata in sede di legittimità soltanto quando siano illogiche o contraddittorie le ragioni poste alla base della motivazione, ipotesi nella specie certamente non sussistente.”

© massimo ginesi 24 marzo  2017

art. 1132 cod.civ.: il dissenso può essere esercitato solo per le liti deliberate dall’assemblea.

Il Condomino può dissociarsi dalla lite, a norma dell’art. 1132 cod.civ., solo ove l’ iniziativa giudiziale venga deliberata dalla assemblea, poiché solo in tal caso la legge consente una eccezionale deroga al principio maggioritario, che informa il mandato collettivo conferito all’amministratore.

Alle liti promosse direttamente dall’amministratore, nell’ambito delle facoltà allo stesso riconosciute dagli artt. 1130 e 1131 cod.civ., non è applicabile il meccanismo dissociativo previsto dall’art. 1132 cod.civ.

E’ la tesi espressa da Corte di Cassazione, sez. II Civile, 20 marzo 2017, n. 7095: “va osservato che l’amministratore può resistere all’impugnazione della delibera assembleare e può gravare la relativa decisione del giudice, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea, giacché l’esecuzione e la difesa delle deliberazioni assembleari rientra fra le attribuzioni proprie dello stesso (Cass. n. 1451/14). Pertanto, la difesa in giudizio delle delibere dell’assemblea impugnate da un condomino rientra nelle attribuzioni dell’amministratore, indipendentemente dal loro oggetto, ai sensi dell’art. 1131 c.c..

Per contro, non si versa nell’ipotesi dell’art. 1132, primo comma, c.c.

Com’è noto, tale ultima disposizione, tesa a mitigare gli effetti della regola maggioritaria che informa la vita del condominio, consente al singolo condomino dissenziente di separare la propria responsabilità da quella degli altri condomini in caso di lite giudiziaria, in modo da deviare da sé le conseguenze dannose di un’eventuale soccombenza.

Dunque, ove non sia stata l’assemblea a deliberare la lite attiva o passiva ai sensi del predetto art. 1132 c.c., il condomino dissenziente soggiace alla regola maggioritaria. In tal caso egli può solo ricorrere all’assemblea contro i provvedimenti dell’amministratore, in base all’art. 1133 c.c., ovvero al giudice contro il successivo deliberato dell’assemblea stessa (nei limiti temporali, è da ritenere, previsti dall’art. 1137 c.c., richiamato dall’art. 1133 c.c.).

E in ogni caso il condomino dissenziente può far valere le proprie doglianze sulla gestione dell’amministratore in sede di rendiconto condominiale, la cui approvazione è, però, anch’essa rimessa all’assemblea e non al singolo condomino.

Se ne deve ricavare che questi, al di fuori dei descritti percorsi legali, non ha la facoltà di agire in proprio contro l’amministratore (salvo il ben diverso caso dell’iniziativa di revoca giudiziale ex art. 1129 c.c.) ogni qual volta ritenga la condotta di lui non consona ai propri interessi, perché ciò contrasta con la natura collettiva del mandato ex lege che compete all’amministratore.”

© massimo ginesi 22 marzo 2017

quando il cronista va oltre la notizia…

Fra le occupazioni quotidiane di chi si occupa professionalmente di diritto, vi è quella di aggiornarsi:  uno dei metodi che il 21° secolo  ha reso  di ordinaria applicazione è la consultazione del web.

Accade che oggi, sulla pagina pubblica di una associazione di settore su un noto social network,  compaia una notizia che – per come formulata – appare di portata deflagrante

Il dettato letterale del comunicato  non lascia dubbi: parrebbe, dall’uso estremamente parsimonioso dei segni di interpunzione, che l’art. 1129 VIII comma  cod.civ. preveda una multa per l’amministratore che ritarda il passaggio di consegne e che il Tribunale di Palermo abbia comminato tale multa con un provvedimento del 2016.

Parrebbe anche che il ritardo nella consegna integri, ipso iure, reato di appropriazione indebita  e che l’amministratore possa costituirsi, in via del tutto autonoma,  parte civile.

Reperita l’ordinanza pronunciata in Trinacria, l’arcano è presto svelato: l’art.1129 VIII comma cod.civ. non è stato affatto emendato con previsioni sanzionatorie né il Tribunale siculo si è improvvisamente trasformato in vigile urbano, comminando multe.

La norma  civilistica prevede sempre che “Alla cessazione dell’incarico l’amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini e ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi”.

Il Tribunale ha semplicemente applicato, su istanza della parte ricorrente, l’art.614 bis c.p.c. che – lungi dal prevedere  multe – nel 2009 ha introdotto in Italia i c.d. mezzi di coercizione indiretta, previsti dal legislatore per quelle condanne ad obblighi di fare infungibili, già noti nelle legislazioni europee,  e che tutto sono tranne una multa.

Quanto al fatto che il ritardo nella consegna dei documenti “integri anche il reato di appropriazione indebita”, sarà sufficiente ricordare che la condotta a rilevanza penale richiede  – per la sua integrazione – elementi oggettivi e soggettivi ben delineati dall’art. 646 cod.pen. “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a milletrentadue euro”

un conto è ritardare qualche giorno, un conto è rifiutare la consegna  per trarne un profitto.

Insomma, attenzione al web…

© massimo ginesi 16 marzo 2017 

 

la domanda di usucapione va proposta contro tutti i condomini, non sussistendo legittimazione dell’amministratore

Ove l’amministratore proponga un0azione a tutela delle parti comuni contro un condomino e costui, in via riconvenzionale, opponga l’intervenuta usucapione del bene comune e ne chieda l’accertamento, deve necessariamente essere integrato il contraddittorio nei conforti degli altri condomini, non sussistendo legittimazione passiva dell’amministratore per  la domanda relativa all’accertamento di diritti reali.

L’orientamento è consolidato e riaffermato da Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 15 marzo 2017 n. 6649, Rel. Scarpa: “Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ove un condomino, convenuto dall’amministratore con azione di rilascio di uno spazio di proprietà comune, proponga (non un’eccezione riconvenzionale di usucapione, al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria, ma) una domanda riconvenzionale, ai sensi degli artt. 34 e 36 c.p.c., diretta a conseguire la dichiarazione di proprietà esclusiva del bene, viene meno la legittimazione passiva dell’amministratore rispetto alla controdomanda, dovendo la stessa, giacchè incidente sull’estensione del diritto dei singoli, svolgersi nei confronti di tutti i condomini, in quanto viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico e inscindibile su cui deve statuire la richiesta pronuncia giudiziale. Nell’ipotesi in cui una siffatta domanda riconvenzionale venga proposta e decisa solo nei confronti dell’amministratore, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, e, in difetto di giudicato esplicito o implicito sul punto, tale invalida costituzione del contraddittorio può essere denunciata o essere rilevata d’ufficio anche in sede di legittimità (arg. da Cass. 22/02/2013, n. 4624; Cass. 03/09/2012, n. 14765; Cass. 08/09/2009, n. 19385; Cass. 24/08/1991, n. 9092; arg. anche da Cass. Sez. U, 13/11/2013 n. 25454).”

© massimo ginesi 16 marzo 2017 

è nulla la delibera che decida su balconi di proprietà esclusiva

La Suprema Corte ribadisce un principio consolidato (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 15 marzo 2017 n. 6652, Rel. Scarpa): i balconi aggettanti sono di rporità esclusiva, salvo che rivestano funzione decorativa nel più ampio contesto della facciata dell’edificio.

Ove non si dia questa ultima ipotesi, restano beni di proprietà individuale e la delibera che li riguardi è affetta da nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice.

Nel caso di specie “l’intervento deliberato dall’assemblea condominiale comprendeva anche lavori riguardanti principalmente ed essenzialmente l’impermeabilizzazione dei balconi mediante la demolizione della preesistente pavimentazione, degli stangoni e dei sottostanti massetti, opere che nulla avevano a che vedere con l’estetica e l’aspetto architettonico dell’edificio”.

Afferma la Corte che “poiché l’assemblea condominiale non può validamente assumere decisioni che riguardino i singoli condomini nell’ambito dei beni di loro proprietà esclusiva, salvo che non si riflettano sull’adeguato uso delle cose comuni, nel caso di lavori di manutenzione di balconi di proprietà esclusiva degli appartamenti che vi accedono, è valida la deliberazione assembleare che provveda al rifacimento degli eventuali elementi decorativi o cromatici, che si armonizzano con il prospetto del fabbricato, mentre è nulla quella che disponga in ordine al rifacimento della pavimentazione o della soletta dei balconi, che rimangono a carico dei titolari degli appartamenti che vi accedono (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14576 del 30/07/2004; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6624 del 30/04/2012; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7603 del 30/08/1994). E alle deliberazioni prese dall’assemblea condominiale si applica il principio dettato in materia di contratti dall’art. 1421 c.c., secondo cui è comunque attribuito al giudice, anche d’appello, il potere di rilevarne d’ufficio la nullità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12582 del 17/06/2015; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 305 del 12/01/2016).”

© massimo ginesi 16 marzo 2017 

addio ad un sogno, ieri se ne è andato Royal Robbins

“Numerosissime le vie aperte in Yosemite i cui nomi sono impressi nella storia del granito di quella valle: Salathé Wall e North America Wall su El Capitain, come anche Muir Wall, la prima solitaria mai fatta sulla big wall. Sua anche la prima ripetizione della Dawn Wall nel 1971.
Su Salathé Wall la sua filosofia era quella della “clean climbing”: la decisione di mettere anche solo un chiodo diviene di estrema importanza, perché, scrive Robbins, “come una singola parola in una poesia, può influenzare l’intera composizione”, una visione che è comprensibile leggendo il suo scritto Advanced Rockcraft: “una prima salita è una creazione nello stesso modo in cui lo è un dipinto o una canzone”, e la scelta di una linea di arrampicata potrebbe essere “un atto di creatività geniale”.

Giovanissimo incontra Yvon Chouinard, TM Herbert e Tom Frost che diventeranno come lui grandi arrampicatori, la sua storia coincide con quella dei migliori nomi dell’alpinismo americano e mondiale.

Sue sono alcune delle grandi vie sulle Alpi: nel 1962 con Gary Hemmings sale la Diretta Americana sulla Ovest del Dru, “la migliore via che abbia mai salito in ambiente alpino.” Nell’agosto 1965 sempre sul Dru, apre coni John Harlin la Direttissima Americana.” (montagna.tv )

Nato il 3 febbraio del 1935 a Point Pleasant in West Virginia ma poi cresciuto a Los Angeles, all’età di 14 anni Royal Robbins, da boy scout, ha avuto il primo contatto con la natura e le selvagge montagne della High Sierra. Questa esperienza è stata fondamentale e ha segnato l’inizio del suo amore – che poi è durato tutta la vita – per la natura e l’outdoor. Durante questo viaggio ha iniziato anche ad arrampicare ed in seguito ad una caduta si è iscritto al Sierra Club, il famoso club dell’arrampicata di Los Angeles dove ha incontrato altri giovani arrampicatori come Yvon Chouinard, TM Herbert e Tom Frost che negli anni a venire avrebbero scritto pagine importanti dell’arrampicata statunitense.

Dopo un apprendistato passato a ripetere svariate vie esistenti, tra le quali nel 1952 spicca la seconda salita della parete nord della Sentinel Rock a Yosemite considerata una della più difficile vie degli USA all’epoca, Robbins ha messo a segno il suo primo grande colpo nel 1957 con l’apertura della Regular Northwest Face sull’ Half Dome. Questa salita, effettuata in cinque faticosi giorni nel giugno del 1957 insieme a Jerry Gallwas e Mike Sherrick, all’epoca è stata considerata la più difficile big wall del Nord America, tanto che fu la prima via ad essere gradata VI.

Nel 1960 insieme a Joe Fitschen, Chuck Pratt e Tom Frost ha effettuato la seconda salita di The Nose su El Capitan in soltanto sette giorni (Warren Harding aveva impiegato 45 giorni sparsi su 18 mesi), mentre è nel 1961 che è arrivato forse il suo capolavoro assoluto: la prima salita della mitica Salathé Wall su El Capitan. Aperto in 9 giorni e mezzo, insieme a Chris Pratt e Tom Frost, questo autentico monumento dell’arrampicata è forse la big wall più logica della parete. Ma è soprattutto lo stile dell’apertura che aveva letteralmente lasciato tutti a bocca aperta: corde fisse soltanto nel primo terzo della via, seguite poi da un’unica spinta verso l’alto, immersi nella grande incognita di una parete tutta da scoprire, con soli 13 spit utilizzati invece dei 125 usati tre anni prima da Warren Harding, Wayne Merry e George Whitmore per aprire The Nose. Uno standard in termini di stile assolutamente altissimo lasciato in eredità per le future generazioni.

Negli anni a seguire per Royal Robbins sono arrivate numerose altre prime salite, tra cui citiamo la North Wall di Sentinel Rock nel 1962 e la Direct Northwest Face di Half Dome nel 1963, ma anche la famosa Diretta Americana aperta nel luglio del 1962 sulla parete Ovest del Dru nel massiccio del Monte Bianco insieme a Gary Hemming e che è stata descritta da Robbins come “la migliore via che abbia mai salito in ambiente alpino.” Un’esperienza che poi l’ha fatto ritornare sulla stessa montagna nell’agosto del 1965 per aprire la Direttissima Americana insieme e John Harlin.

Tutte queste salite sono stati segnate da un uso estremamente limitato di chiodi e chiodi a pressione, il vero Leitmotif dell’arrampicata di Robbins. Tanto che nella primavera del 1967 insieme a sua moglie Liz Robbins è poi arrivato un altro momento fondamentale per l’evoluzione dell’arrampicata come la conosciamo oggi: l’apertura della via Nutcracker Suite sulla Ranger Rock. Oggi considerata una grande classica dello Yosemite, è stata la prima via della valle ad essere stata salita senza chiodi e chiodi a pressione, ma invece soltanto con l’uso dei nuts – all’epoca assolutamente una novità. Una salita che ha dato il via alla rivoluzione dell’clean climbing, l’arrampicata che conosciamo oggi come arrampicata trad.

Nella primavera del 1968 Robbins ha superato se stesso effettuando in dieci lunghi giorni la prima solitaria di El Capitan lungo la via Muir Wall. Questa salita, la prima solitaria di una via gradata VI, ha coronato dodici anni di attività nello Yosemite. Sempre nel 1968 insieme a sua moglie Liz – che per inciso ha effettuata la prima femminile dell’Half Dome nel 1967 – è stata creata l’azienda “Mountain Paraphernalia” che poi si sarebbe presto trasformato in “Royal Robbins”, una delle aziende leader dell’abbigliamento outdoor.

Negli anni successivi Robbins ha praticato con grande passione e talento il kayak. A chi gli domandava se queste discese ed avventure in kayak potessero essere paragonate alla sua esperienza con l’arrampicata, Robbins aveva risposto “No. Le amo moltissimo, e mi danno molte soddisfazione, ma sono in primis, e fino alla fine, un arrampicatore. Arrampicherò finché muoio, sarà l’ultima cosa che smetterò di fare.” (planetmountain.com)

art. 1102 cod.civ. e lastrico solare: non tutti gli interventi violano la norma.

Un condomino procede al taglio di alcune travi del solaio per mettere in comunicazione il proprio appartamento con il sovrastante  lastrico solare di uso esclusivo, realizzando comunque adeguato intervento statico e una bussola a copertura del passaggio, che salvaguarda la funzione di copertura del manufatto.

Il Tribunale di Trieste ha riteneto tale attività perfettamente nei limiti di cui all’att. 1102 cod.civ., mentre la Corte di Appello di Trieste – assai singolarmente – ha ritenuto l’intervento illecito: “ La Corte territoriale ha dato, circa l’alterazione del bene comune (che non consente di applicare l’art. 1102 cod. civ.) una “interpretazione (non suffragata né da dottrina né da giurisprudenza) limitatissima sul punto”, posto che “il solo fatto di un intervento sul bene comune con l’eliminazione di alcune travi ne determinerebbe la sua alterazione”

La Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile, 10 marzo 2017, n. 6253) accoglie l’impugnativa, ribadendo i principi consolidati in materia: “Il ricorso è fondato perché la Corte locale, nel ritenere l’intervenuta violazione dell’art. 1102 cod. civ., ha affermato che “non può dubitarsi che si sia realizzata l’alterazione della cosa comune, dal momento che è pacifico che D.P. sia intervenuto sulle travi portanti del tetto tagliandole”.

La Corte di appello non ha considerato che di per sé il taglio delle travi del solaio, ove non ulteriormente valutato anche con riguardo alla statica e comunque agli altri limiti dettati dall’art. 1102 cod. civ., non può determinare l’alterazione della cosa comune che ne impedisce l’uso ai sensi della norma civilistica in questione.
Al riguardo, questa Corte di recente ha avuto occasione di affermare i seguenti condivisi principi di diritto:

a) “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene. (Sez. 2, Sentenza n. 14107 del 03108/2012, Rv. 623614)”;

b) “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può effettuarne la parziale trasforma ione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti – da un giudizio di fatto, sindacabile in sede di legittimità solo riguardo alla motivazione – che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri potenziali condomini-utenti non siano privati di reali possibilità di farne uso. (Se 6 – 2, Ordinanza n. 2500 del 04/ 02/ 2013, Rv. 624921)”.
Inoltre, occorre anche tener conto della peculiarità del caso in esame, nel quale è pacifico che l’apertura in questione è stata realizzata per mettere in collegamento l’appartamento di proprietà del D.P. con il sovrastante lastrico solare in suo uso esclusivo. La Corte locale in tale situazione avrebbe dovuto con un’adeguata motivazione individuare la specifica violazione dei limiti di cui alla norma citata, non potendosi appunto ritenere che il solo necessario taglio delle travi ne integrasse la violazione, dovendosi altrimenti ritenere inibito qualsiasi intervento sulla cosa comune. La Corte locale avrebbe dovuto quindi specificamente valutare, adeguatamente motivando, la violazione degli altri limiti indicati, anche con la realizzazione della bussola a copertura della nuova apertura.
3. L’accoglimento del ricorso nei limiti di cui in motivazione, determina la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Trieste, che procederà ad un nuovo esame e regolerà anche le spese del giudizio di cassazione”

© massimo ginesi 14 marzo 2017

supercondominio: nascita e parti comuni.

 

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 10 marzo  2017 n. 6313, Rel. Scarpa.

La vicenda attiene a contestazioni circa la titolarità di alcune aree esterne in un complesso supercondominiale in quel di Pietra Ligure.

La Suprema Corte ripercorre i principi  in tema di nascita del supercondominio e della individuazione della parti comuni a tutti i partecipanti a tale organismo: “Non è stata oggetto di censure in questa sede la qualificazione del contesto proprietario come condominio di edifici, nella specie costituito da una pluralità di edifici ricompresi in una più ampia organizzazione condominiale, legati tra loro dall’esistenza di talune cose in rapporto di accessorietà con i singoli fabbricati. La situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e seguenti del Codice Civile, si attua sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto. Secondo le emergenze documentali del giudizio, il Supercondominio di Pietra Ligure (SV), composto dai condomini A M, D, T, S e R, deve intendersi sorto con l’atto di frazionamento dell’iniziale unica proprietà P. in data 4 marzo 1972.

Originatasi a tale data la situazione di condominio edilizio, dallo stesso momento doveva reputarsi operante la presunzione legale ex art. 1117 c.c. di comunione “pro indiviso” di tutte quelle parti del complesso che, per ubicazione e struttura, fossero – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso, salvo che dal titolo del 4 marzo 1972 non risultasse, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente alla venditrice o ad alcuno dei condomini la proprietà di dette parti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 18/12/2014).

Nella specie, si ha riguardo ad aree cortilizie destinate a verde o a posti auto. Tanto il cortile, quanto gli spazi destinati a verde, le zone di rispetto, i parcheggi, le aree di manovra o di passaggio delle autovetture (sia pure oggetto del vincolo di natura pubblicistica imposto dall’art.41 sexies, legge n. 1150/1941, come introdotto dall’art. 18, legge 765/1967), fanno parte delle cose comuni di cui all’art. 1117 c.c. (Cass. 9 giugno 2000, n. 7889). Tali beni, pertanto, ove manchi un’espressa riserva di proprietà o sia stato omesso qualsiasi univoco riferimento, al riguardo, nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, devono essere ritenuti parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi del medesimo art. 1117 c.c., cedute in comproprietà pro quota, quali pertinenze delle singole unità immobiliari secondo il regime previsto dagli artt. 817 e 818 c.c. (altresì in considerazione del relativo vincolo pertinenziale pubblicistico: Cass. 28 gennaio 2000, n. 982; Cass. 18 luglio 2003, n. 11261; Cass. 16 gennaio 2008, n. 730). 

Ne consegue che, nel caso in esame, la Corte d’Appello di Genova non ha considerato come, essendo sorto il supercondominio del complesso dei condomini A M, D, T, S e R, “ipso iure et facto”, nel momento in cui l’originario proprietario e costruttore P. ebbe ad alienare a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata, lo stesso avrebbe perso, in quello stesso momento, la qualità di proprietario esclusivo delle pertinenze e delle cose e dei servizi comuni ai singoli edifici (tra i quali rientravano le aree destinate a verde ed a parcheggio delle autovetture), in mancanza di titolo diverso, non servendo affatto a tal fine un espresso trasferimento in proprietà agli acquirenti. Conseguentemente, lo stesso P. non avrebbe potuto in seguito più disporre quale proprietario unico di detti beni, giacché ormai divenuti comuni, nè concedere o creare su di essi diritti reali limitati come le servitù.”

© massimo ginesi 13 marzo 2017

installazione ascensore: la suprema corte ribadisce il principio solidaristico in condominio.

L’installazione di un ascensore in condominio risponde a principi di solidarietà sociale che affondano le proprie radici nella funzione sociale della proprietà prevista dall’art. 42 Cost.

La Suprema Corte ( Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza  9 marzo 2017, n. 6129 Rel. Scarpa) tale principio e lo estende ad  caso specifico deciso dalla Corte di Appello di Trieste, che aveva invece avuto riguardo al mero dato letterale della norma.

Il Giudice di secondo grado aveva riformato la sentenza del Tribunale che aveva invece ritenuto che l’imapindo dovesse essere ricondotto alle previsioni della L. 13/1989: “S.T. , A.O. , L.D. ed F.A. (quest’ultima anche quale procuratrice di F.L. ) hanno proposto ricorso articolato in tre motivi avverso la sentenza 4 agosto 2015, n. 483/2015, resa dalla Corte d’Appello di Trieste, che ha riformato la sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di Trieste l’11 febbraio 2014, accogliendo l’impugnazione principale di B.N. , S.E. , O.F. e Ba.Ag. .
Il Tribunale di Trieste, in accoglimento della domanda degli attuali ricorrenti, aveva accertato il diritto degli stessi, ai sensi dell’art. 2 delle legge 9 gennaio 1989, n. 13, ad installare un ascensore occupando una parte del sedime del giardino comune, a ridosso della facciata, ove è ubicato il portone d’ingresso del Condominio di via (omissis) . La domanda degli attori conseguiva al rigetto espresso due volte dall’assemblea condominiale alla proposta di installazione dell’ascensore e deduceva la difficoltà di deambulazione di due condomine.
La Corte d’Appello, riformando la sentenza impugnata e rigettando le domande degli appellati, osservava che “l’ascensore è manufatto diverso dal concetto di servoscala o altre strutture mobili e facilmente amovibili”, di cui all’art. 2, comma 2, legge n. 13/1989, e che l’ascensore per cui è causa comunque non avrebbe consentito alle condomine L. ed O. di raggiungere senza problemi i rispettivi appartamenti, dovendo fermarsi sul pianerottolo dell’interpiano con dieci gradini da percorrere a piedi. La Corte di Trieste ha perciò ritenuto l’installazione dell’ascensore lesiva dell’art. 1102 c.c., ed in particolare della destinazione a giardino dell’area comune, e quindi illegittima in difetto di deliberazione assembleare approvata con il quorum di cui all’art. 1136 c.c.”

La Suprema Corte riprende un orientamento consolidato e cassa la pronuncia: “La decisione dei giudici di appello si pone in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui l’installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui all’art. 27, comma 1, della legge 3 marzo 1971, n. 118, e all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27 aprile 1978, n. 384, e perciò costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2, legge 2 gennaio 1989, n. 13, è approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14384 del 29/07/2004). Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, le strutture occorrenti al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4, e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220). L’installazione di un ascensore, allo scopo dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata su parte di aree comuni (nella specie, un’area destinata a giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012). Di tal che, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18334 del 25/10/2012).

Ai fini della legittimità dell’intervento innovativo approvato ai sensi dell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, è sufficiente, peraltro, che lo stesso (pur non potendo, come nella specie accertato dalla Corte di Trieste, in ragione delle particolari caratteristiche dell’edificio, raggiungere l’ascensore direttamente gli appartamenti dei portatori di handicap, dovendosi fermarsi sul pianerottolo) produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione (Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 18147 del 26/07/2013).

Il ricorso va perciò accolto, limitatamente al suo secondo motivo, rimanendo assorbiti i restanti motivi. Conseguono la cassazione dell’impugnata sentenza ed il rinvio della causa alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai richiamati principi e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche sulle spese del giudizio di cassazione.”

© massimo ginesi 13 marzo 2017