natura condominiale del parcheggio esterno – onere della prova

Una ordinanza decisoria sintetica e secca della Cassazione (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2,  8 marzo 2017, n. 5831 Relatore Scarpa) che delinea in maniera decisa l’onere della prova a cui è chiamato colui che intenda rivendicare diritti di parcheggio sull’area esterna al fabbricato condominiale.

Per affermare la natura condominiale ai sensi dell’art. 1117 c.c. di un’area esterna all’edificio, della quale manchi un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio e sia stato omesso qualsiasi riferimento nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, in quanto soggetta alla speciale normativa urbanistica, dettata dall’art. 41 sexies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dall’art. 18 della legge n. 765 del 1967 (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 730 del 16/01/2008; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11261 del 18/07/2003) occorre preliminarmente accertare che si tratti di spazio destinato a parcheggio secondo la prescrizione della concessione edilizia, originaria o in variante, e poi che lo stesso sia stato riservato a tal fine in corso di costruzione e non impiegato, invece, per realizzarvi manufatti od opere d’altra natura (cfr. Cass. 22 aprile 2016, n. 8220, non massimata; Cass. 30 luglio 1999, n. 6894; Cass. 14 novembre 2000, n. 14731; Cass. 5 maggio 2003, n. 6751; Cass. 13 gennaio 2010, n. 378). Spetta a chi vanti il diritto di uso a parcheggio di una determinata area, in quanto vincolata ex art. 41 sexies Legge urbanistica, di provare che la stessa sia compresa nell’ambito dell’apposito spazio riservato, in quanto elemento costitutivo dell’asserito diritto (Cass. 23 gennaio 2006, n. 1221)”

© massimo ginesi 10 marzo 2017

 

SUPERCONDOMINIO IN VERSIONE PARTENOPEA: qualche riflessione sulla nomina giudiziale dell’amministratore.

Il Tribunale di Napoli (4 sez. civile 1 marzo 2017) affronta un caso peculiare in materia di supercondominio: alcuni condomini si dolgono che l’amministratore in carica non sia stato ritualmente nominato e chiedono al Giudice la nomina di nuovo amministratore, rappresentando anche che l’attuale avrebbe commesso gravi irregolarità.

Il ricorso non brilla per coerenza, rigore formale  e sistematicità, ed il conseguente provvedimento sembra essere afflitto dagli stessi vizi, pur apparendo sostanzialmente condivisibile nella sostanza e fornendo comunque utili elementi di riflessione su una materia che la legge 220/2012 ha reso più insondabile della stele di Rosetta.

Il giudice partenopeo, chiamato a decidere in sede di volontaria giurisdizione, afferma: ” ante riforma del condominio, attuata con legge 220 del 2012 in vigore da giugno 2013, il parco “S.” era gestito da un amministratore e da un Consiglio della Comunione.

La riforma ha previsto invece che ciascun Condominio debba (nel caso ora in esame) “…designare il proprio rappresentante all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii e per la nomina dell’amministratore” – art. 67 att. c. c. –

Ciò non è avvenuto perché i Condominii “D.” e “T.” non hanno nominato i loro rappresentanti; frattanto quel Consiglio è decaduto e l’amministratore è scaduto, ma è rimasto in prorogatio.

Questa proroga è divenuta non più compatibile col sistema ma non c’è quell’assemblea dei rappresentanti che dovrebbe provvedere alla conferma dell’amministratore oppure ad una nuova nomina, cosicché i ricorrenti hanno chiesto che sia il Tribunale a provvedere, adombrando pure delle gravi irregolarità del suddetto amministratore.”

Il Tribunale, incidentalmente e assai sommariamente, senza alcuna motivazione, rileva che il regime della prorogatio sarebbe oggi incompatibile con le previsioni della riforma, tesi che appare  non del tutto scontata, posto che l’art. 1129 VII cod.civ. pare applicabile solo alle ipotesi in cui sia stato nominato un successore e – secondo autorevole dottrina (Corona) – parrebbe non incidere sull’istituto della proroga delineato negli anni dalla giurisprudenza (per un interessante approfondimento:  matteo peroni, “in difesa della prorogatio”, con ampio riscontro dottrinale e giurisprudenziale).

I motivi in forza dei quali il ricorso è respinto appaiono comunque condivisibili nel merito, pur a fronte di un argomentare che appare assai schematico e didascalico : il Tribunale sostanzialmente rileva l’inopportuna scelta del mezzo processuale a fronte di rimedi tipici sia per la nomina dei rappresentanti mancanti ex art. 67 disp.att. cod.civ. che per l’eventuale valutazione di condotte irregolari (che comporterebbero revoca), rilevando altresì che solo a fronte dell’inerzia dell’assemblea – che nel caso di specie non si riscontra.. perchè manca la stessa assemblea dei rappresentanti – il Tribunale può intervenire in via succedanea, né può valutare irregolare la condotta dell’amministratore che non abbia reso il conto  ad una assemblea inesistente per difetto dei rappresentanti:  “ se l’assemblea non vi provveda, la nomina di un amministratore è fatta dall’autorità giudiziaria (art. 1129 comma 2° cod. civ.) – Fintanto che l’assemblea non decida sul punto, il Tribunale non può intervenire a nominarlo lui; il suo intervento é solo succedaneo e surrogatorio perchè l’assemblea dei condomini è sovrana e può in ogni momento sostituire l’amministratore nominato dal Tribunale con altri di suo gradimento.

Solo che nel caso in esame questa assemblea non c’è e fintanto che essa non venga costituta e convocata, e si esprima a tal riguardo, il Tribunale non può intervenire .

Non può farlo neppure a norma dell’art. 1105 c. c. in quanto lo stallo assembleare non è dovuto ad una qualche patologia operativa dell’assemblea, che non si riesca a comporre ed a far funzionare, ma soltanto alla mancata attivazione di ben due possibili procedure, ex art. 67 disp. att. (vedi), ad opera di uno solo dei condomini per ciascuno dei Condominii inadempienti oppure ad opera di uno solo dei rappresentanti già nominati.

Quindi il Tribunale è stato adito non per superare uno scoglio ma per aggirare un ostacolo superabile in un duplice modo , e questo non è consentito.

Per quanto poi attiene alla condotta dell’amministratore, è pur vero che egli debba “…redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e convocare l’assemblea per la relativa approvazione entro centottanta giorni” (art. 1130 n. 1O e.e.) ed inoltre “…costituisce grave irregolarità l’omessa convocazione dell’assemblea per l’approvazione del rendiconto” (art. 1129 comma 12 n. 1)

Ma questa “assemblea” è quella dei rappresentanti dei Condominii, che non c’è, e che costituisce un “collegio perfetto”, non in grado di operare se manca un suo componente. E’ ovvio che, frattanto, l’amministratore non possa pretendere di non rendere conto a nessuno del suo operato. Pare che abbia ovviato presentando all’assemblea di ciascun fabbricato la sua quota di partecipazione alle spese (ovviamente di gestione ordinaria), rimedio tutto sommato accettabile.

Per il resto, le gravi irregolarità vanno rapportate agli obblighi nascenti dal contratto di mandato che lega l’amministratore al Condominio , cosicché la sua condotta deve essere negligente e l’inadempimento deve essere importante nel suo contesto generale, tale per cui, all’esito di un ordinario giudizio di cognizione dovrebbe comportare una pronuncia di risoluzione del contratto stesso.

Prima e fuori di tale momento processuale , e nell’interesse dei condomini tutti, il Tribunale interviene, in sede di volontaria giurisdizione, allo scopo di ricondurre subito la gestione del condominio a livelli di ordinaria e corretta operatività. Nel caso in esame non ricorrono  le suddette condizioni con riguardo alle altre segnalate inadempienze”

Un ringraziamento all’amico avvocato Ghigo Giuseppe  Ciaccia del foro di Napoli, difensore vittorioso dell’amministratore in carica, che mi ha segnalato il provvedimento.

© massimo ginesi 8 marzo 2017

Ampliamento del balcone e trasformazione in veranda rispettando le regole d’uso delle parti comuni

E’ quanto afferma la Suprema Corte (Cass.Civ. II sez. 28 febbraio 2017 n. 5196, rel. Scarpa) nel giudizio di legittimità al termine di una vicenda processuale nata in terra siciliana: un condomino provvede ad ampliare il proprio balcone e a trasformarlo in veranda, con chiusura sui tre lati, con ciò occupando in maniera significativa la colonna d’aria soprastante una chiostrina a servizio dell’unità immobiliare sottostante.
in primo grado il Tribunale di Palermo aveva ritenuto sussistente unicamente la violazione delle norme sulle distanze e ordinato la rimozione degli spuntoni di appoggio del balcone, che aggettavano sulla chiostrina.
La Corte di Appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, introduce il concetto di utilizzo non consentito della facciata dell’edificio ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., ordinando tuttavia la sola demolizione della veranda, ritenendo che l’attore – pur avendo lamentato anche l’ampliamento del balcone – avesse concluso solo per tale richiesta.
La Cassazione conferma la lettura del giudice di appello “ Il consolidato orientamento di questa Corte (ribadito anche con riguardo ad ipotesi analoghe a quella per cui è causa, nella quale, per quanto in specie accertato, un condomino ha trasformato il proprio balcone in veranda, altresì debordando dal suo perimetro originario) afferma che, allorché il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale esegua opere nella sua proprietà esclusiva facendo uso di beni comuni, indipendentemente dall’applicabilità delle norme sulle distanze nei rapporti tra le singole proprietà di un edificio condominiale, è comunque necessario verificare che il condomino stesso abbia utilizzato le parti comuni dell’immobile nei limiti consentiti dall’art. 1102 c.c. (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10563 del 02/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4844 del 04/08/1988; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 682 del 28/01/1984)”
Il giudice territoriale aveva accertato, tramite consulenza tecnica, che l’ampliamento del balcone, la costruzione della veranda e il mancato rispetto dell’allineamento con gli altri balconi avevano cagionato una riduzione spazio sovrastante la chiostrina nella misura dell’8,1 % e che “ciò ha comportato un danno per la funzionalità della chiostrina come essenziale dispositivo di aerazione ed illuminazione dei locali ad essa prospicienti”
Osserva la Corte che il giudice di appello, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, “nell’accogliere la domanda di riduzione in pristino della veranda dal balcone di proprietà esclusiva, ha affermato che le opere denunciate, in violazione dell’art. 1102 c.c., comportassero proprio una sensibile riduzione all’ingresso di luce ed aria nella proprietà inferiore G. conseguibile dalla facciata esterna comune dell’edificio (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10704 del 14/12/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1132 del 11/02/1985).”
La Suprema Corte ritiene anche che la domanda dell’attore riguardi l’intero manufatto realizzato e non solo il balcone: “Deve, al contrario, ritenersi che, come allega il ricorso incidentale, avendo il G. espressamente dedotto l’illegittimità dell’aumento di superficie del balcone realizzato dalla controparte e comunque richiesto il ripristino dello stato dei luoghi, la demolizione altresì di tale opera era da intendersi contenuta in modo implicito in detta domanda di riduzione in pristino, trovandosi con essa in rapporto di necessaria connessione”
La sentenza di merito è cassata e il processo rinviato ad altra sezione della corte di Palermo, che dovrà attenersi ai principi esposti.

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lastrico solare: il titolo che ne determina l’appartenenza esclusiva può essere anche un testamento

Lo afferma, in una recentissima ordinanza, la Suprema Corte (Cass.Civ. II sez. 2 marzo 2017 n. 5337 rel. Scarpa), che affronta il peculiare caso di un condominio che trae origine da disposizioni testamentarie.

La Corte d’Appello di Bari, premessa la presunzione di comunione del lastrico solare ai sensi dell’art. 1117 c.c., ha tuttavia ritenuto titolo contrario ad essa, nel senso di desumere che il lastrico solare fosse stato ricompreso dal testatore nella quota del piano elevato attribuito a A, C e B B., la previsione testamentaria del diritto riconosciuto a F., V e V di usufruire della scala soltanto per andare sul terrazzo “a prendere il sole d’estate ed a sciorinare i panni”. Tale previsione, a giudizio della Corte di Bari, sarebbe stata del tutto superflua se il loro genitore G N. B. avesse considerato il lastrico come bene comune a tutti i coeredi.

Il ricorrente F. B. ha sostenuto la violazione degli artt. 1117 c.c. e 1362 c.c. perché, nella specie, mancava un’attribuzione chiara ed univoca della proprietà esclusiva del lastrico solare alle figlie del de cuius, e perchè la Corte d’appello avrebbe confuso tra proprietà ed uso esclusivo del terrazzo.

Anche questo motivo va rigettato.

E’ indubbio che il lastrico solare, ai sensi dell’art. 1117 c.c., è oggetto di proprietà comune dei diversi proprietari dei piani o porzioni di piano dell’edificio, ove non risulti il contrario, in modo chiaro ed univoco, dal titolo.

Il titolo idoneo a far insorgere la situazione di condominio ed a contenere le eventuali deroghe alla presunzione ex art. 1117 c.c. può essere evidentemente costituito anche da un testamento, allorchè il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento, dall’originario unico proprietario ad altri   soggetti, di alcune unità immobiliari, si determina mediante istituzioni ereditarie o attribuzioni in legato aventi ad oggetto le suddette parti del fabbricato.

Al fine di escludere la presunzione di proprietà comune di cui all’art. 1117 c.c., allorchè, in particolare, il titolo sia costituito da un testamento, è comunque sufficiente che da questo emergano elementi tali da farlo considerare in contrasto con l’esistenza di un diritto di comunione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2328 del 27/06/1969), preferendosi, alla luce del favor testamenti, qualora di una clausola di esso siano ammissibili più interpretazioni, comunque quella che consenta alla volontà del testatore di avere pratica e concreta attuazione.

Avendo la Corte d’Appello interpretato il testamento di G. N. B. come espressivo di elementi univoci in contrasto con l’esistenza di un diritto di condominio del terrazzo a livello, al fine di attribuire un effetto concreto alla clausola di esso che riservava ai figli maschi soltanto il diritto di accedere al terrazzo per prendere il sole e sciorinare i panni, essa si è attenuta ai ricordati principi di diritto, risolvendosi, quanto al resto, l’interpretazione del titolo negoziale di cui all’art. 1117 c.c. in un apprezzamento di fatto che è prerogativa del giudice di merito ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto per omesso esame di fatto decisivo e controverso ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”

culpa in eligendo anche per l’infortunio durante un accesso preliminare all’appalto.

La Cassazione, III sezione penale, con sentenza del 1 marzo 2017 n. 10014 ha stabilito che il committente è responsabile per l’erronea scelta di soggetto non idoneo anche se costui subisce infortunio cadendo dal tetto durante un semplice sopralluogo preliminare, finalizzato unicamente alla stesura di un preventivo dei lavori da effettuare successivamente.

LA pronuncia chiarisce che le norme sugli infortuni in ambiente di lavoro, che dettano responsabilità anche per il committente, si applicano non solo durante l’esecuzione dell’appalto ma anche nelle attività prodromiche allo stesso, ove vanno ricompresi anche gli accessi dell’appaltatore volti a verificare i luoghi per predisporre una semplice offerta.

Il caso esaminato riguarda un infortunio sul tetto di un capannone, ma è evidente che la pronuncia deve far riflettere anche per i lavori svolti in ambito condominiale.

Le misure generali di tutela della salute e sicurezza del lavoro, che implicano a  norma dell’articolo 15 decreto legislativo 81/2008 la valutazione preventiva e  l’eliminazione di rischio in relazione ai lavori da eseguire, pongono a carico del committente, sin dalla  fase di progettazione dell’opera e delle conseguenti scelte  tecniche, specifiche cautele prescritte dall’articolo 90, comma 9 del medesimo decreto, fra cui la verifica nell’ipotesi di cantieri temporanei dell’idoneità tecnico professionale dell’impresa affidataria, la quale implica l’iscrizione di quest’ultima alla camera di commercio e la autocertificazione in ordine al possesso dei requisiti previsti dalla normativa di settore.

Da ciò discende che non è affatto necessario il perfezionamento di un contratto di appalto, sia perché trattasi di adempimenti preliminari alla successiva fase della stipula, sia perché la norma in esame non contempla tale figura contrattuale – come si desume dal tenore letterale dello stesso art. 90 che parla di “affidamento dei lavori” e che nella lettera C) del comma 9 contemplante a sua volta gli adempimenti di cui alle precedenti lettere a) e b), esclude espressamente la necessità del ricorso all’appalto – ben potendo la commissione esaurirsi in una mera prestazione d’opera, quale è certamente il sopralluogo sul tetto ai fini della verifica dei lavori necessari, alla quale devono comunque presiedere le cautele previste. “

Con motivazione coerente ed esente ed aderente ai  principi affermati da questa Corte in materia di responsabilità nei reati edilizi (sezione 3 n.1334 del 26/4/2016,  sezione 4 n. 8589 del  14/1/2008) il giudice  di merito ha pertanto ritenuto la culpa in eligendo dell’imputato  non essendo la ditta  X che, secondo la deposizione dell’ispettore,  stava effettuando al momento dell’infortunio attività lavorativa sul tetto…, desunta dal materiale e dall’attrezzatura ivi rinvenuta, più attiva dal 2009 ed essendo l’attività di artigiano edile del preteso titolare cessata sin dal  2003, senza che alcuna rilevanza assuma la proprietà, in capo esecutore materiale ovvero al committente, dell’attrezzatura a tal fine  utilizzata. L’insussistenza  dei titoli di idoneità prescritti dalla legge  in capo alla ditta  esecutrice dell’opera, la cui verifica configura adempimento preliminare da parte del committente rispetto quella dei effettuarsi in concreto in relazione alla capacità rispetto alla tipologia dell’attività commissionata, consente di ritenere che la sentenza impugnata, espressasi in conformità alle fondamentali regole di ermeneutica probatorie con procedimento idoneo a fornire piena contezza dell’iter  logico giuridico dal  quale è derivato il convincimento espresso, sia scevra dai vizi lamentati sul piano motivazionale.”

© massimo ginesi 2 marzo 2017

 

vota anche chi (ancora) non paga: le tabelle millesimali come mero strumento ricognitivo

Cass.Civ. II sez. 24 febbraio 2017, n. 4844 affronta un caso decisamente singolare: un soggetto trasforma un sottotetto in unità abitativa, tale vano non è censito nelle tabelle millesimali e quindi non contribuisce alle spese per la manutenzione delle parti comuni;   il proprietario tuttavia deve ritenersi condomino e ha diritto di voto per la nomina dell’amministratore.

“I ricorrenti chiedono alla Corte di cassazione di stabilire se in edificio condominiale dotato di tabelle millesimali, la trasformazione di un locale sottotetto con conseguente mutamento di destinazione dello stesso mediante creazione di unità abitativa non censita nelle tabelle, consenta o meno al proprietario di esercitare il diritto di voto nell’assemblea e a quali condizioni. Rilevano che se le tabelle hanno il conclamato scopo di consentire una corretta ripartizione delle spese ed il computo dei quorum assembleari, non si comprende come possa ritenersi legittimato al voto il proprietario di un’unità non censita in quelle tabelle. Il paradosso starebbe nel fatto che in tal modo il proprietario di unità non censita nelle tabelle potrebbe concorrere all’approvazione delle delibere di ripartizione delle spese senza però essere tenuto a parteciparvi neppure in un secondo momento, posto che quelle spese non potrebbero essergli richieste neppure retroattivamente (stante la natura dichiarativa e non costitutiva della sentenza che disponga la revisione delle tabelle).
Osserva il Collegio che la qualità di condomino si acquista nel momento in cui si diviene proprietari di parti comuni del fabbricato, a prescindere dall’esistenza o meno di una tabella millesimale, la cui natura ricognitiva ormai è fuori dubbio (v. per tutte Sez. U, Sentenza n. 18477 del 09/08/2010 Rv. 614401 che, nello stabilire la possibilità di approvare o sottoporre a revisione le tabelle millesimali a maggioranza qualificata di cui all’art. 1136, secondo comma, cod. civ. ha precisato, tra l’altro, che la deliberazione di approvazione delle tabelle millesimali non si pone come fonte diretta dell’obbligo contributivo del condomino, che è nella legge prevista, ma solo come parametro di quantificazione dell’obbligo, determinato in base ad un valutazione tecnica).
Ancora, è stato precisato in giurisprudenza che il criterio di identificazione delle quote di partecipazione al condominio, derivando dal rapporto tra il valore dell’intero edificio e quello relativo alla proprietà del singolo, esiste prima ed indipendentemente dalla formazione della tabella dei millesimi – la cui esistenza, pertanto, non costituisce requisito di validità delle delibere assembleari – e consente sempre di valutare anche “a posteriori” in giudizio se le maggioranze richieste per la validità della costituzione dell’assemblea e delle relative deliberazioni siano state raggiunte, in quanto la tabella anzidetta agevola, ma non condizionai lo svolgimento dell’assemblea e, in genere, la gestione del condominio (v. tra le varie, Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 17115 del 09/08/2011 Rv. 618924; Sez. 2, Sentenza n. 3264 del 17/02/2005 Rv. 579547).
Ciò posto, e tornando al caso di specie, è evidente che la mancata inclusione, allo stato, dell’unità mansardata del P. nella tabella millesimale in vigore (situazione certamente singolare ma a cui ben poteva – e ben può – agevolmente porsi rimedio con lo strumento della revisione) non lo priva dei diritti a lui spettanti quale condomino tra cui, ovviamente e per quanto oggi interessa, quello di concorrere alla scelta dell’amministratore dell’edificio, né lo esonera di fatto dal contribuire alle spese di gestione o dal regolarizzare la sua posizione per il pregresso.
Sotto quest’ultimo profilo, infatti, se è vero che non è possibile applicare retroattivamente l’efficacia di una sentenza di revisione o modifica dei valori proporzionali di piano nei casi previsti dall’art. 69 disp. att. cod. civ. (per il principio della natura costitutiva della stessa più volte affermato da questa Corte), è altrettanto vero che a tale evenienza è ben possibile rimediare con altri strumenti che l’ordinamento appresta ed in particolare con quello dell’indebito arricchimento ex art. 2041 cc (v. in proposito Sez. 3, Sentenza n. 5690 del 10/03/2011 Rv. 616229 proprio in materia di condominio). Il paradosso paventato dai ricorrenti dunque non esiste.
Né può condividersi l’affermazione secondo cui esisterebbe una sorta di connubio indissolubile tra l’obbligo di contribuire alle spese comuni secondo le previsioni delle tabelle millesimali e l’esercizio del diritto di voto: infatti, come più volte affermato in giurisprudenza (v. tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 3944 del 18/03/2002 Rv. 553129; Sez. 2, Sentenza n. 641 del 17/01/2003 Rv. 559834) il legale criterio di ripartizione di dette spese in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascun condomino (art. 1123 cod. civ.) è liberamente derogabile per convenzione (quale appunto il regolamento contrattuale di condominio).”

Se i principi affermati appaiono assolutamente condivisibili sotto il profilo giuridico, non sfuggiranno all’amministratore le difficoltà operative di una simile impostazione: prima fra tutte il calcolo delle maggioranze in una assemblea in cui uno dei partecipanti rappresenta sicuramente una testa ma non porta valori millesimali.

© massimo ginesi 1 marzo 2017

opposizione a decreto ingiuntivo: quando l’acconto non basta ad evitare le spese di lite

Accade con frequenza che – nelle more della richiesta di decreto ingiuntivo da parte del creditore- il debitore versi alcuni acconti.

A fronte di tali pagamenti si discute  se siano dovute le spese del decreto, se sia legittima l’opposizione, se il decreto possa ancora essere usato come titolo e chi debba pagare le spese della eventuale fase di opposizione.

Nel caso di specie, affrontato dal Tribunale di Massa con sentenza 23.2.2017,   il Condominio – eseguiti in suo favore lavori straordinari in appalto – non aveva provveduto al saldo del prezzo dovuto, limitandosi a versare un modesto acconto di mille euro a fronte di circa  dodicimila ancora pretesi dall’appaltatore.

Il pagamento era avvenuto dopo l’emissione ma prima della notifica del decreto, il Condominio ha proposto opposizione al solo scopo di non far divenire esecutivo un titolo per somme supeirori a quelle effettivamente ancora dovute.

Osserva il Tribunale che “L’opposizione promossa risultata infondata e come tale deve esser rigettata, seppure il decreto – per i fatti parzialmente estintivi successivamente intervenuti – debba comunque essere revocato (Cass. SS.UU. 7448/1993).
Va osservato che le somme dovute dal Condominio alla opposta erano effettivamente quelle richieste in via monitoria, e ciò sia al momento del deposito del ricorso (16.5.2016) che al momento della emissione del provvedimento di ingiunzione (17.5.2016), essendo intervenuto il versamento del primo acconto solo in data 26.5.2016.”

Il Giudice di merito richiama una consolidata giurisprudenza della Cassazionela fondatezza (o meno) dei motivi dell’opposizione al decreto ingiuntivo deve essere valutata con riferimento non alla data di proposizione del ricorso, ma a quelle della emissione del decreto medesimo: e che è poi, anche, la data rispetto alla quale deve valutarsi la fondatezza in fatto ed in diritto della decisione giudiziale adottata. E ciò in aderenza a principi di diritto enunciati più volte in “subiecta materia” dalla giurisprudenza (uniforme, costante e consolidata) di questa Corte (cfr. ad es. tra le più recenti: Cass. 18.10.1983 n. 6121; Cass. 8.6.1985 n. 3482) …” Cassazione civile, sez. lav., 11/04/1990,  n. 3054

Ai fini dunque delle spese “Ne consegue che ove il pagamento avvenga in data successiva alla emissione del decreto, come nel caso di specie, la necessità della opposizione ai fini di non far divenire esecutivo il titolo non è affatto necessaria, ben potendosi eventualmente far valere gli intervenuti e successivi pagamenti in sede esecutiva, ove il creditore si determinasse ad azionare il titolo senza tenerne conto: “D’altronde è noto che il decreto ingiuntivo deve essere necessariamente revocato nel giudizio di opposizione esclusivamente quando risulti la fondatezza anche solo parziale dell’opposizione stessa con riferimento alla data di emissione del decreto. Quando invece il debito si estingua per un adempimento successivo alla suddetta data e debba quindi escludersi l’indicata fondatezza, anche se il provvedimento viene ugualmente revocato, devono comunque porsi a carico dell’ingiunto le spese del procedimento. Ove in quest’altra seconda ipotesi il decreto ingiuntivo non venga revocato, ovviamente resta salva l’opponibilità dell’avvenuto pagamento se il creditore, ancorché soddisfatto, si avvalga del provvedimento non revocato come titolo esecutivo (Cass. 7526/2007).”

Il debitore dunque che, con troppa solerzia, promuova opposizione a fronte di un modesto pagamento – avvenuto dopo l’emissione del decreto – rischia di vedersi condannato anche alle spese di detta fase.

Non sono dovuti, come invece aveva richiesto l’appaltatore, gli interessi di mora previsti dal D. lgs 231/ 2002: “infondata si rivela la richiesta di parte opposta di riconoscimento degli interessi moratori ex d.lgs 231/2002, trattandosi di disposizione che a mente dell’art. 2 di tale testo normativo si applica unicamente ai rapporti fra imprenditori (o liberi professionisti) e fra costoro e la pubblica amministrazione, mentre è inapplicabile al Condominio, che va ascritto al genus del consumatore (Trib. Roma 19 settembre 2011 n. 17887); non risulta invece che l’opposto abbia dedotto la sussistenza di patti relativi a interessi in misura superiore a quella legale o abbia dimostrato l’esistenza del danno ex art. 1224 II comma cod.civ.”

© massimo ginesi 27 febbraio 2017

per l’azione di nullità del regolamento contrattuale non vi è legittimazione passiva dell’amministratore

Il regolamento di natura contrattuale è una convenzione intercorsa fra più soggetti, nei cui unici confronti – e non dell’amministratore del condominio – va introdotta l’azione per farne dichiarare la nullità.

Quel tipo di regolamento, proprio per la sua natura contrattuale, è idoneo anche ad identificare le parti comuni ai partecipanti al condominio, anche in deroga all’art. 1117 cod.civ., sicché anche un corpo di fabbrica esterno al condominio – che abbia in comune con questo solo un cortile – ben potrà essere soggetto alle spese per la manutenzione delle parti comuni, anche ove quelle non siano strumentali all’uso di quella unità, se così  sia previsto da quel tipo di regolamento.

Sono i due principi espressi da Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 n. 4432 rel. Scarpa: un regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l’azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell’amministratore), carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12850 del 21/05/2008).”

“la costituzione di un condominio, che comprenda eventualmente anche soggetti i quali non fossero già comproprietari dei beni che lo stesso art. 1117 c.c. attribuisce automaticamente per la loro accessorietà alle proprietà esclusive, è comunque possibile per effetto del consenso unanime di quelli, ovvero quale conseguenza dell’espressione di autonomia privata, che determini ex contractu l’insorgenza del diritto di comproprietà, e quindi anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlate. Perciò, con il regolamento di condominio di fonte e contenuto contrattuale ben può essere attribuita la comproprietà delle cose, incluse tra quelle elencate nell’art. 1117 cod. civ., a coloro cui appartengono alcune determinate unità immobiliari, indipendentemente dalla sussistenza di fatto del rapporto di strumentalità che determina la costituzione ex lege del condominio edilizio (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1366 del 10/02/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15794 del 11/11/2002)”.

© massimo ginesi 24 febbraio 2017