responsabilità da cosa in custodia e per rovina di edificio: imputabilità a proprietario e conduttore

Proprietario e conduttore rispondono verso i terzi l’uno per i danni derivanti dalle strutture dell’immobile e l’altro dagli accessori, sicché – stante anche la natura di norma speciale dell’art. 2053 cod.civ. rispetto all’art. 2051 cod.civ., la responsabilità di entrambi non può concorrere con riguardo ad un unico evento generatore di danno, che dovrà essere ascritto all’uno o all’altro in virtù della sua causa, salvo che nel fatto non possa riconoscersi una genesi multifattoriale.

E’ quanto afferma Cass. civ. sez. III, 27/03/2018,  n. 7526 a fronte di vicenda nata in terra piemontese: “C.P. conveniva in giudizio I.W. e la Gallesi s.r.l., rispettivamente quali conduttore e proprietaria di un immobile sito in (OMISSIS), chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni fisici e patrimoniali subiti a causa della caduta di un cancello di ferro che delimitava il piazzale interno dell’immobile e che, mentre lo stava chiudendo, essendo a scorrimento manuale, era fuoriuscito dalle proprie guide rovinandole addosso.

Il tribunale di Torino pronunciava sentenza nel contraddittorio con i resistenti convenuti e con la Sinatec s.p.a. chiamata in garanzia dalla Gallesi quale venditrice dell’immobile, e accoglieva la domanda attorea rigettando quella di manleva.

La corte di appello della stessa città, statuendo sull’appello principale interposto dalla Gallesi e su quello incidentale dell’ I., rigettava entrambi, affermando la concorrente responsabilità del proprietario ex art. 2053, cod. civ., e del conduttore ex art. 2051, cod. civ.”

Osserva la Corte di legittimità che “Secondo la condivisibile giurisprudenza di legittimità poichè la responsabilità ex art. 2051 c.c., implica la disponibilità giuridica e materiale del bene che dà luogo all’evento lesivo, al proprietario dell’immobile locato sono riconducibili in via esclusiva i danni arrecati a terzi dalle strutture murarie e dagli impianti in esse conglobati, di cui conserva la custodia anche dopo la locazione, mentre grava sul solo conduttore la responsabilità per i danni provocati a terzi dagli accessori e dalle altre parti dell’immobile, che sono acquisiti alla sua disponibilità (Cass., 27/10/2015, n. 21788). Anche in questo senso la nomofilachia parla di “specialità” della previsione di cui all’art. 2053 c.c., rispetto a quella contenuta nell’art. 2051 c.c. (Cass., 14/10/2005, n. 19975; Cass., 08/09/1998, n. 8876). E nella medesima logica si nega che rispetto allo stesso fatto causativo possano concorrere le responsabilità del proprietario e del conduttore (Cass., 09/06/2010, n. 13881, pagg. 4 e 5 della motivazione).

Può logicamente sussistere la responsabilità sia del proprietario dell’immobile che del conduttore solo quando i pregiudizi siano derivati non solo dal difetto di costruzione dell’impianto conglobato nelle strutture murarie, ma anche da una negligente utilizzazione di esso da parte del conduttore (Cass., 09/06/2016, n. 11815, in un caso di danni cagionati da un difetto dell’impianto idraulico e da un cattivo uso della connessa caldaia fatto dal conduttore). Ciò in quanto le condotte imputabili sono differenti.

Nella fattispecie qui in scrutinio, la condotta-fatto causale accertata è unica, è quella relativa al malfunzionamento per difetto di costruzione del cancello stesso.

Ciò posto, nel momento in cui sulla sussunzione di tale condotta nella cornice dell’art. 2053 c.c., è sceso, pacificamente, il giudicato, ne deriva che la stessa condotta-fatto non può sussumersi sub art. 2051, cod. civ., ai fini dell’eventuale responsabilità del conduttore.”

© massimo ginesi 24 aprile 2018 

Sezioni Unite: anche le ristrutturazioni di fabbricati esistenti godono della garanzia decennale ex art. 1669 cod.civ.

La Suprema Corte ( Cass. SS.UU 27 marzo 2017 n. 7756), con una pronuncia fiume che ripercorre i fondamenti del contratto di appalto di opere edili,  risolve un contrasto interpretativo e chiarisce che anche ove l’appaltatore intervenga su un fabbricato già esistente, la sua prestazione gode delle ordinarie garanzie previste dal codice civile, ivi compresa quella di lungo periodo  per i gravi difetti prevista dall’art. 1669 cod.civ.

La sentenza affronta un unico quesito posto dal ricorrente: “Con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 e.e. in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.”. Espone che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che la ristrutturazione edilizia di un fabbricato non possa rientrare nella previsione dell’art. 1669 e.e.; lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull’entità dei lavori di ristrutturazione del fabbricato, nonché sulla consistenza e sulla rilevanza dei vizi accertati dal c.t.u.; deduce cheJ rispetto al caso esaminato da Cass. n. 24143/07, quello in oggetto concerne interventi edilizi di carattere straordinario riconducibili all’ipotesi di cui all’art. 1669 e.e.; e richiama, tra altre pronunce di questa Corte, Cass. n. 18046/ 12 per affermare che la ridetta norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle opere di ristrutturazione immobiliare e a quelle che siano comunque destinate ad avere lunga durata.”

Le Sezioni Unite, dopo un ampio escursus sui diversi orientamenti giurisprudenzaili e dottrinali (che emrita integrale lettura),  danno una lettura ampia della norma: “Queste Sezioni unite aderiscono all’orientamento meno restrittivo, ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni d’interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica.
In primo luogo vale premettere e chiarire che anche opere più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica. L’attenzione va, però, soffermata principalmente sull’ipotesi dei “gravi difetti”, sia perché confinaria rispetto al regime ordinario degli artt. 1667 e 1668 e.e., sia per il rilievo specifico che i “gravi difetti” assumono nel caso in oggetto, sia per le ragioni di carattere generale che emergeranno più chiaramente di seguito.

Innumerevoli altre volte la giurisprudenza di questa Corte, pur non esaminando in maniera immediata e consapevole la questione in esame, si è occupata dell’art. 1669 e.e., presupponendone (per difetto di contrasto fra le parti o per altre ragioni) l’applicabilità anche in riferimento ad opere limitate. Ed è pervenuta a soluzioni applicative di detta norma che appaiono poter prescindere dalla necessità logica di un’edificazione ab imo o di una costruzione ex novo.

Si è ritenuto, infatti, che sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art.1669 cod.civ., anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purché tali da compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa e che, senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con interventi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 legge n. 457/78 e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti” (sentenze nn. 1164/95 e 14449/99; in senso del tutto analogo e con riferimento a carenze costruttive anche di singole unità immobiliari, v. n. 8140/ 04, che ha ritenuto costituire grave difetto lo scollamento e la rottura, in misura percentuale notevole rispetto alla superficie rivestita, delle mattonelle del pavimento dei singoli appartamenti; da premesse conformi procedono le nn. 11740/03, 81/00, 456/99, 3301/96 e 1256/95; di un apprezzabile danno alla funzione economica o di una sensibile menomazione della normale possibilità di godimento dell’immobile, in relazione all’utilità cui l’opera è destinata, parlano le sentenze nn. 1393/98, 1154/02, 7992/97, 5103/95, 1081/95, 3644/89, 6619/88, 6229/83,2523/81, 1178/80, 839/80, 1472/75 e 1394/69).

Esemplificando, sono stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/ 12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/ 86, 1427I 84, 6741/ 83, 2858/ 83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/ 11); l’inefficienza di un impianto  idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/ 86 e 2763/ 84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. . 2070/ 78).

Se ne ricava, inconfutabile nella sua oggettività, un dato di fatto: nell’economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, ,  che fa leva sulla compromissione del godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione, è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova. La circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall’edificazione primigenia di un fabbricato non muta i termini logico-giuridici dell’operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza, perché non preordinata al (né dipendente dal) rispetto dell’una o dell’altra opzione esegetica in esame.

Spostando l’attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull’incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la giurisprudenza ha mostrato di porsi dall’angolo visuale degli elementi secondari ed accessori. Questo non implica di necessità propria che si tratti della prima realizzazione dell’immobile, essendo ben possibile che l’opus oggetto dell’appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l’opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l’art. 1669 e.e. sia ugualmente applicabile.
In conclusione, considerare anche gli elementi “secondari” ha significato distogliere il focus dal momento “fondativo” dell’opera per direzionarlo sui “gravi difetti” di essa; per desumere i quali è stato necessario indagare altro, vale a dire l’aspetto funzionale del prodotto conseguito.

Come la previsione dei “gravi difetti” dell’opera sia il risultato d’un progressivo allontanamento del precetto dal suo nucleo originario, lo dimostra la storia della norma.
Derivata dall’art. 1792 del codice napoleonico (il quale stabiliva che «Si l’édijìce construit a prix fait, périt en tout ou en partie par le vice de la construction, meme par le vice du sol, !es architecte et entrepreneur en son! responsables pendant dix ans»), essa così recitava sotto l’art. 1639 del e.e. del 1865: «Se nel corso di dieci anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazjone di un edijìcio o di altra opera notabile, l’uno o l’altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovinare per difetto di costruzjone o per vizjo del suolo, l’architetto e l’imprenditore ne sono responsabili». Rispetto all’ascendente francese, la norma aveva, dunque, aggiunto un quid pluris (cioè le altre opere notabili e il pericolo di rovina). Ma – si noti – aveva mantenuto inalterato il soggetto della seconda proposizione subordinata (“… l’uno o l’altra… “), cioè l’edificio, cui appunto aveva aggiunto “altra opera notabile”.
Un ulteriore e consapevole passo in avanti è stato operato dal codice civile del 1942, il quale prevede che quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta.

Si legge nella relazione del Guardasigilli (par. 704): <<Innovando poi al codice del 1865 si è creduto di non dover limitare fa .ifera di applicazjone della norma in questione alfe sole ipotesi di rovina di tutto o parte dell’opera o di evidente pericolo di rovina, ma si è estesa fa garanzja anche alfe ipotesi in cui l’opera presenti gravi difetti. Naturalmente questi difetti devono essere molto gravi, oltre che riconoscibili al momento del collaudo, e devono incidere sempre sulla sostanza e sulla stabilità della costruzione, anche se non minacciano immediatamente il crollo di tutta fa costruzione o di una parte di essa o non importano evidente pericolo di rovina. Non vi è dubbio che fa giurisprudenza farà un’applicazione cauta di questa estensione, in conseguenza del carattere eccezjonafe della responsabilità dell’appaltatore». (Il riferimento alla riconoscibilità dei gravi difetti al momento del collaudo è, ad evidenza, un fuor d’opera. Concessa per un decennio, la garanzia ex art. 1669 e.e. copre anche e soprattutto i gravi difetti che si manifestino soltanto in progresso di tempo).

Come si è visto, però, la postulata eccezionalità dell’art. 1669 e.e. non e valsa ad arginarne l’applicazione. Chiamata a dotare il sintagma “gravi difetti” di un orizzonte di senso, la giurisprudenza ha ovviamente seguito l’unica strada percorribile, quella di stemperare la vaghezza del concetto giuridico al calore dei fatti.
Il mutamento di prospettiva nel codice del 1942 è evidente per due ragioni. La prima, d’ordine logico, è che la nozione di “gravi difetti” per la sua ampiezza è omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In secondo luogo, e l’argomento è di indole letterale, mentre nel testo del 1865 il soggetto della seconda proposizione subordinata era l’edificio o altra opera notabile (“l’uno o l’altra”), nella frase che vi corrisponde nell’art. 1669 e.e. il soggetto diviene “l’opera”, nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l’appaltatore (art. 1655 e.e.).

E dunque qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica.

Ben si comprende, allora, che nell’ampliare il catalogo dei casi di danno rilevante ai sensi dell’art. 1669 e.e., l’aggiunta dei “gravi difetti” ha comportato per trascinamento l’estensione dell’area normativa della disposizione, includendovi qualsiasi opera immobiliare che (per traslato) sia di lunga durata e risulti viziata in grado severo per l’inadeguatezza del suolo o della costruzione. Ne è seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l’interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che è andata oltre l’originaria visione dell’art. 1669 e.e. come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme  alla sua destinazione.

Completano e confermano la vahd1ta d1 tale esito ermeneutico,   l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/ 15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme).

Così ricomposta la storia e l’esegesi della norma, il vincolo letterale su cui l’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 e.e. pretende di fondarsi perde la propria base logico-giuridica. Infatti, riferire l’opera alla “costruzione” e questa a un nuovo fabbricato, inteso quale presupposto e limite della responsabilità aggravata dell’appaltatore (come ritiene Cass. n. 24143/07), non sembra possibile proprio dal punto di vista letterale

Si noti che nel testo della norma il sostantivo “costruzione” rappresenta un nomen actionis, nel senso che sta per “attività costruttiva”; e non potrebbe essere altrimenti, visto che se esso valesse (come mostra d’intendere la sentenza appena citata) quale specificazione riduttiva del soggetto 0’opera) della (terza, nel testo vigente) proposizione subordinata, si avrebbe una duplicazione di concetti ad un tempo inutile e fuorviante. Inoltre, il supposto impiego sinonimico di “costruzione” quale nuovo edificio, porterebbe a intendere la nonna come se affermasse che l’opera può rovinare per difetto suo proprio. Lettura criptica, questa, che restituirebbe inalterato all’interprete il problema ermeneutico, dovendosi stabilire cosa sia il vizio proprio di un’opera; salvo convenire che esso è quello che deriva (da un vizio del suolo o) dal difetto di costruzione, così confermandosi che quest’ultimo sostantivo allude, appunto, all’attività dell’appaltatore.

Non senza aggiungere che supponendo la tesi qui non condivisa, a) sarebbe stato ben più logico un diverso incipit della norma (e cioè, “Quando si tratta [della costruzione] di edifici… “); e b) il termine “costruzione” risulterebbe irriferibile agli altri immobili di lunga durata, pure contemplati dall’art. 1669 e.e., per i quali, paradossalmente, questa sarebbe applicabile solo se rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti dipendessero da vizio del suolo, cioè da una soltanto delle due cause ivi indicate (e, per soprammercato, proprio quella che natura/iter fa pensare alle opere murarie).
Ancora. Incentrando l’interpretazione dell’art. 1669 e.e. sul concetto di “costruzione” quale nuova edificazione, diverrebbe (se non automatico, almeno) spontaneo il rinvio al concetto normativo di costruzione così come elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di distanze. E, in effetti, Cass. n. 24143/07 sembra presupporlo lì dove afferma (cosa in sé condivisibile) che la norma in commento ricomprende la sopraelevazione, la quale è costruzione nuova ed autonoma rispetto ali’edificio sopraelevato. Ma è una tematica del tutto estranea, quella degli artt. 873 e ss. e.e., il rimando alla quale sortirebbe effetti contraddittori e inaccettabili anche per la tesi seguita dal citato precedente, sol che si consideri che ai fini delle distanze è costruzione un balcone (v. sentenza n. 18282/ 16), ma non la ricostruzione fedele, integrale e senza variazioni plano-volumetriche di un edificio preesistente (v. ordinanza S.U. n. 21578/11 e sentenza n. 3391/09).

Non meno controvertibile l’altro argomento – la specialità o l’eccezionalità della norma – utilizzato dall’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 cod.civ. per escluderne l’applicazione analogica.
In disparte il fatto che  solo di specialità potrebbe trattarsi, nel senso che la responsabilità aggravata prevista da detta disposizione è speciale rispetto al regime ordinario del risarcimento del danno per colpa ai sensi dell’art. 1668 cod.civ.; che  tale specialità si è già attenuata fortemente allorché la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, oltre all’azione risarcitoria, quella di riduzione del prezzo, di condanna specifica all’eliminazione dei difetti dell’opera e di risoluzione, che costituiscono il contenuto della garanzia ordinaria cui è tenuto l’appaltatore (per l’affermativa, che sembra ormai consolidata, cfr. nn. 815/ 16, 8140/04, 8294/99, 10624/96, 1406/ 89 e 2763/ 84; contra, le più risalenti sentenze nn. 2954/ 83, 2561/ 80 e 1662/ 68); e che l’analogia serve a disciplinare ciò che non è positivizzato, non a riposizionare i termini di una regolamentazione data; tutto ciò a parte, quanto fin qui considerato dimostra come l’art. 1669 e.e. includa a pieno titolo gli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, la cui potenziale incidenza tanto sulla rovina o sul pericolo di rovina quanto sul normale godimento del bene non opera in modo dissimile dalle ipotesi di edificazione ex novo. Pertanto, la pur indubbia specialità della protezione di lunga durata accordata al committente (protezione che resiste anche al collaudo: cfr. Cass. nn. 7914/14, 1290/00 e 4026/74), non interferisce con la questione m oggetto.

Poco o punto rilevante, e dunque non decisiva ai fini in esame, la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 e.e. – con carattere di specialità rispetto alla previsione generale dell’art. 2043 e.e. – costantemente affermata dalla giurisprudenza (tanto che Cass. nn. 4035/ 17 e 1674/ 12 hanno escluso che la relativa controversia possa rientrare nell’ambito della clausola che si limiti a compromettere in arbitri le liti nascenti da un contratto d’appalto). Tutt’altro che monolitica, invece, è al riguardo la dottrina.

Ammessa anche dalle sentenze nn. 24143/07 e 10658/ 15, che come detto escludono l’applicazione dell’art. 1669 e.e. alle ipotesi di riparazioni o modificazioni, la tesi della natura extracontrattuale di detta responsabilità; qualificata come ex lege (cfr. Cass. n. 261/ 70 e il brano della relazione al codice civile . del  1942 riportato supra al paragrafo 5) e prevista per ragioni di ordine pubblico e di tutela dell’incolumità personale dei cittadini, quindi, inderogabile e irrinunciabile (v. Cass. n. 81/00), ha anch’essa origini remote, essendo stata altrettanto costantemente affermata dalla giurisprudenza sotto l’impero del e.e. del 1865 a partire dagli anni venti del XX secolo. Ciò allo scopo di riconoscere l’azione risarcitoria anche agli acquirenti del costruttore-venditore, essendo invalsa già in allora, con lo sviluppo delle attività edilizie, l’unificazione delle due figure.

Ai limitati fini che qui rilevano può solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 cod.civ. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Oltre a ciò, va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l’esperienza dell’appalto pubblico; l’espresso riconoscimento dell’azione anche agli aventi causa del committente (i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore: fra le tante, v. C’.ass. nn. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 cod.civ.; i più recenti approdi della dottrina sull’efficacia ultra partes del contratto; e da ultima – ma non ultima – la possibilità che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372, cpv. e.e.).

Tutto ciò rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 e.e., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non è questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma.

Per le considerazioni svolte l’unico motivo di ricorso deve ritenersi fondato. Ne consegue  la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: “l’art. 1669 e.e. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo”.

© massimo ginesi 5 aprile 2017

quando l’appartamento fa parte di due condominii diversi

E’ il caso affrontato da Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 23 marzo 2017 n. 7605, Relatore Scarpa.

I fatti “La Corte d’Appello di Roma, sulla scorta delle richiamate risultanze della CTU, ha affermato che una porzione dell’appartamento di LF, ubicato al piano attico dell’edificio di via QN 152, si estende anche sul corpo di fabbrica dell’adiacente edificio condominiale di via delle TC15. In particolare, i solai di calpestio dell’unità immobiliare di proprietà F. costituiscono la copertura del sottostante fabbricato di via TC, per un’estensione di mq 148,26 di area coperta e di mq 42,81 di area scoperta. Il CTU ha quindi evidenziato conclusivamente che tale appartamento sia “parte integrante” di entrambi i condominii.”

Propone ricorso la condomina, ritenendo che la propria unità immobiliare debba essere ricondotta ad un solo fabbricato e propone ricorso incidentale il Condominio, che si duole della compensazione delle spese applicata dal Giudice di merito.

Osserva la Corte che Al fine di stabilire se un appartamento sia compreso in un condominio edilizio, è infatti necessario verificare, con riferimento al momento della nascita del condominio (salvo eventuale titolo negoziale contrario, il cui apprezzamento è comunque affidato alle prerogative del giudice di merito: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3084 del 03/09/1976), se, con riguardo alla struttura ed alla conformazione di esso, e, dunque, in base ad elementi obiettivamente rilevabili, sussista il presupposto della permanente ed oggettiva destinazione al suo servizio ed al suo godimento dei beni di quell’edificio elencati nell’art. 1117 c.c., restando escluso che sia determinante pure l’esistenza di un collegamento materiale o di una via diretta di accesso tra parti condominiali e singola unità immobiliare.

E’ d’altro canto certamente ammissibile, per quanto si desume dall’art. 61 disp. att. c.c., che, pur in presenza di fabbricati che presentino elementi di congiunzione materiale, allorchè vengano costituiti condominii separati per le parti aventi i connotati di autonomi edifici, uno dei titolari di porzioni esclusive si ritrovi proprietario di un appartamento ricadente in entrambi i condominii (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2324 del 01/03/1995; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4439 del 07/08/1982).

Il ricorso di L.F., pur deducendo una censura per violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c., si sostanzia, in realtà, nella prospettazione di una ricostruzione degli elementi materiali della fattispecie diversa da quella accolta dalla Corte del merito, e dunque invoca un giudizio di mero fatto, del tutto estraneo al sindacato di legittimità.”

 

Quanto alle spese: “La Corte d’Appello di Roma ha compensato le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio, ponendo a carico delle parti la metà ciascuno delle spese di CTU, “stante l’opinabilità della questione, che peraltro ha necessitato di accertamenti tecnici”. Il Condominio di via delle TC 15, Roma, denuncia al riguardo la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. per difetto delle “gravi ed eccezionali ragioni” ex art. 92, comma 2, c.p.c.

Tuttavia, nei giudizi, quale quello in esame, instaurati anteriormente all’entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, la compensazione delle spese può essere disposta – ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 45, comma 11, di detta legge – per “giusti motivi esplicitamente indicati dal giudice nella motivazione della sentenza”, e non per “gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione”. Nella vigenza di tale formulazione dell’art. 92, comma 2, c.p.c., la scelta di compensare le spese processuali rimane riservata al prudente, ma comunque motivato, apprezzamento del giudice di merito, la cui statuizione può essere censurata in sede di legittimità soltanto quando siano illogiche o contraddittorie le ragioni poste alla base della motivazione, ipotesi nella specie certamente non sussistente.”

© massimo ginesi 24 marzo  2017

art. 1127 cod.civ. – le condizioni statiche dell’edificio rappresentano un limite all’esistenza del diritto di sopraelevazione

schermata-2016-11-17-alle-10-21-38

La Suprema Corte affronta il complesso tema  della sopraelevazione in condominio, con una recentissima pronuncia che attiene all’esistenza stessa del diritto di  alzare nuovi piani di fabbrica previsto dall’art. 1127 cod.civ.

La sentenza (Cass. civ. II sez. 15 novembre 2016 n. 23256, relatore Antonio Scarpa),  afferma un importante principio:  le condizioni generali dell’edificio – compresa la loro non rispondenza alla normativa antisismica – non costituiscono oggetto di successiva verifica della legittimità delle opere di innalzamento ma rappresentano un presupposto dell’esistenza del diritto a sopraelevare.

Nel caso di specie il CTU, nel primo grado di giudizio, aveva evidenziato come le opere poste in essere dalla condomina che intendeva sopraelevare non comportassero di per sé un aggravio significativo sotto il profilo della stabilità sismica, pur evidenziando che l’intero fabbricato non era in regola con detta normativa. Tale valutazione tecnica aveva condotto il Tribunale di Rossano e poi la Corte d’Appello di Catanzaro a rigettare le richieste del Condominio, ritenendo legittima l’opera di innalzamento.

Il condominio ricorre al giudice di legittimità assumendo che “trattandosi di edificio costruito nel 1968, mai reso conforme prescrizione tecniche dettate dalla legislazione antisismica, doveva per forza ritenersi sussistente la possibilità di eseguire la soprelevazione”

La Suprema Corte accoglie il ricorso con riguardo a tale motivo, cassa la decisione della Corte di Appello e rinvia ad altra sezione della stessa corte affinché giudichi attenendosi ai principi di diritto enunciati:  “E’ noto come l’art. 1127 cod.civ. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell’edificio che non la consentono, ovvero dall’aspetto architettonico dell’edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani  sottostanti. Il limite segnato dalle condizioni statiche si intende da questa Corte, in particolare, come espressivo di un divieto assoluto, cui è possibile ovviare soltanto se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso della nuova costruzione”

“Ne consegue che le condizioni statiche dell’edificio rappresentano un limite all’esistenza stessa del diritto di sopraelevazione, e non già l’oggetto di verificazione e di consolidamento per il futuro esercizio dello stesso, limite che si sostanzia nel potenziale pericolo per la stabilità del fabbricato derivante dalla sopraelevazione, il cui accertamento costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21491 del 30/11/2012)”.

La sentenza, per la finezza dell’estensore e per i particolari sul caso concreto affrontato, merita lettura integrale e potrà interessare anche i processualcivilisti, per quel che attiene agli aspetti tecnici della formulazione del  ricorso per cassazione.

In tema di sopraelevazione è opportuno ricordare anche l’orientamento ampio della Suprema Corte, che ha ritenuto riconducibile alla previsione dell’art. 1127 cod.civ. ogni ampliamento che comporti un ampliamento del volume esistente: “Costituisce sopraelevazione l’intervento edificatorio che comporti lo spostamento in alto della copertura del fabbricato, in modo da occupare lo spazio sovrastante e superare l’originaria altezza dell’edificio. La nozione di sopraelevazione non va pertanto limitata alla costruzione di nuovi piani dell’edificio, ma si estende ad ogni intervento che comporta l’innalzamento della copertura del fabbricato” Cassazione Civile, sez. II, 12.08.2011, n. 17284

© massimo ginesi 17 novembre 2016