se l’edificio manifesta gravi errori di esecuzione: la responsabilità di progettista e appaltatore.

Nella realizzazione di un edificio emerge, poco dopo la conclusione dei lavori, che il pavimento del piano terra risulta non orizzontale e con un dislivello di oltre  31 centimetri. LA CTU svolta in primo grado accerta che la responsabilità del problema è attribuibile per il 80% al progettista – che ha omesso le necessarie indagini geologiche – e per il 10% all’appaltatore, che ha male realizzato il fabbricato, e stima il danno in oltre 200.000 euro.

Nel corso del giudizio di primo grado  interviene transazione fra committente e appaltatore,  il Tribunale dichiara l’estinzione parziale del giudizio relativamente  a tale rapporto e – stimata nel 10% la responsabilità di costui – condanna il progettista, che ha svolto anche la direzione lavori, a risarcire la residua parte, pari a circa 202.000 euro.

La Corte di appello di Venezia giungeva alle stesse conclusioni nel merito, ma rideterminava la somma dovuta in circa 140.000 euro, sottraendo all’importo risarcitorio determinato dal Tribunale le spese per la palificazione e per le indagini geognostiche. Escludeva inoltre che sussistesse solidarietà fra appaltatore e progettista, a seguito della intervenuta transazione fra il primo e il committente.

La vicenda giunge all’esame della corte di legittimità, che con una complessa e articolata pronuncia (Cass.civ. sez. II  ord. 27.9.2017 n. 22672 rel. Scarpa) affronta i due interessanti temi:

a) la natura della responsabilità che lega appaltatore e progettista/direttore lavori

b) gli effetti, in un rapporto trilaterale di risarcimento con solidarietà fra i condebitori, della transazione stipulata fra uno solo degli obbligati e il creditore.

Questa Corte ha più volte affermato che, in tema di contratto di appalto, il vincolo di responsabilità solidale fra l’appaltatore ed il progettista e direttore dei lavori (come nella specie, per i difetti della costruzione dipendenti dal cedimento del terreno dovuto alle caratteristiche geologiche del suolo, rientrando nei compiti di entrambi l’indagine sulla natura e consistenza del terreno edificatorio), i cui rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dal committente, trova fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale (Cass. Sez. 2, 27/08/2012, n. 14650; cfr. altresì Cass. Sez. 2, 23/07/2013, n. 17874; Cass. Sez. 3, 31/05/2006, n. 12995; Cass. Sez. 2, 23/09/1996, n. 8395).

La responsabilità solidale dell’appaltatore e del progettista e direttore dei lavori per l’intero danno arrecato al committente, stabilita dall’art. 2055, comma 1 c.c., obbliga, peraltro, il giudice, quando sia stata a tal fine formulata apposita domanda, all’accertamento ed all’attribuzione delle rispettive quote di ripartizione della colpa, potendosi applicare il criterio sussidiario della parità delle cause, di cui all’ultimo comma dello stesso art. 2055, solo se non sia possibile provare le diverse entità degli apporti causali e residui perciò una situazione di dubbio oggettivo e reale.

Tuttavia, gli apprezzamenti qui svolti dalla Corte d’Appello di Venezia sulla sussistenza della colpa dei vari soggetti e del concorso di più fatti colposi nella determinazione dell’evento dannoso (nella specie, la sorpresa geologica e il riporto di terreno), nonché sulla valutazione dell’efficienza causale di ciascuna delle colpe concorrenti, si risolvono in un giudizio di fatto immune da errori logici e di diritto, e che perciò si sottrae al sindacato in sede di legittimità.

Sotto il profilo processuale, del resto, l’esistenza di un vincolo di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c. tra appaltatore e progettista non genera un litisconsorzio necessario, avendo il creditore committente titolo per valersi per l’intero nei confronti di ogni debitore, con conseguente possibilità di scissione, anche in appello, del rapporto processuale, che può utilmente svolgersi nei confronti di uno solo dei coobbligati.

Nel caso in esame, era avvenuto che il giudice di primo grado, con la sentenza del 29/08/2009, aveva dichiarato estinto il giudizio nei rapporti tra Bon. ed il condebitore Bar., a seguito della transazione intervenuta tra di loro, mentre aveva condannato l’altro condebitore Z al risarcimento della rispettiva quota-parte attribuitagli, pari al 90% del danno complessivo, in quanto non assorbita dalla transazione.

F Zor, unico convenuto soccombente, ha poi proposto appello nei soli confronti del creditore G Bon., sicchè non è stata riproposta in appello nei confronti dell’altro convenuto nel giudizio di primo grado, C. Bar., una domanda di regresso, ai sensi dell’art. 2055, comma 2, c.c. In sostanza, il Tribunale di Vicenza, dichiarando estinto per l’intervenuta transazione il giudizio tra il Bon. ed il Bar., aveva altresì sciolto la solidarietà passiva tra il debitore liberato e l’altro debitore Z., con l’accertamento delle reciproche quote di responsabilità in misura del 10% e del 90%.

in ordine ai riflessi della transazione fra il creditore e uno dei debitori solidali, la Corte rileva che:

la Corte d’Appello di Venezia, accertata, appunto, nella misura del 90% la responsabilità del progettista Zor., e stimata quella concorrente dell’appaltatore Bar. nella misura del 10%, ha sottratto all’importo totale dei danni liquidati in favore di G. Bon. la somma di Lire 70.000.000, in quanto cifra corrisposta a seguito di transazione pro quota dal condebitore Zor.. La conclusione cui è pervenuta la Corte di merito è perciò corretta, anche se è errata l’invocazione che essa ha fatto dell’art. 1304 c.c.

Secondo consolidato orientamento, infatti, l’art. 1304, comma 1, c.c., si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto l’intero debito (accordando al condebitore solidale la facoltà di avvalersene pur non avendo partecipato alla sua stipulazione), e non la sola quota del debitore con cui è stipulata. Se la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali ha avuto ad oggetto la sola quota del condebitore che l’ha stipulata (secondo quanto accertato in fatto nel caso in esame, atteso che nella transazione intervenuta del 17 gennaio 2000 C. Bar. dichiarava di versare l’indicato importo “a saldo e stralcio della quota parte del debito da risarcimento danni che fosse a suo carico”, con l’aggiunta che “l’ing Zor. … non potrà profittare della presente transazione”), occorre distinguere:

nel caso in cui il condebitore che ha transatto abbia versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito (come qui avvenuto, dovendo il Barban soltanto il 10% del debito totale), il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato, proprio come fatto dalla Corte di Venezia;

nel caso in cui, invece, il pagamento sia stato inferiore, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto.

Questa interpretazione giurisprudenziale ha anche chiarito come lo stabilire se, in concreto, la transazione tra il creditore ed uno dei debitori in solido ha avuto ad oggetto l’intero debito o solo la quota del debitore transigente comporti, evidentemente, un’indagine sul contenuto del contratto e sulla comune volontà che in esso i contraenti hanno inteso manifestare, da compiere ad opera del giudice di merito secondo le regole di ermeneutica fissate negli artt. 1362 e segg. c.c.

E la Corte di Venezia ha ben spiegato le ragioni per le quali la transazione del 17 gennaio 2000 riguardasse la sola quota debitoria facente capo al Bar. (accertata nei rapporti tra i coobbligati in base alle ricordate argomentazioni di fatto) e non anche l’intero debito, ed ha conseguentemente quantificato il debito residuo gravante sullo Zor. (cfr. Cass. Sez. 1, 17/11/2016, n. 23418; Cass. Sez. 1, 07/10/2015, n. 20107; Cass. Sez. U, 30/12/2011, n. 30174).”

© massimo ginesi 29 settembre 2017

PROCESSO TELEMATICO E IMPUGNAZIONI: ATTENZIONE ALLE COMUNICAZIONI DI CANCELLERIA

Il processo telematico e la progressiva informatizzazione dell’attività delle cancellerie ha comportato significative variazioni nelle modalità di gestione delle normali attività processuali.

Per operatore del diritto molti sono i vantaggi delle nuove modalità operative, a partire dalla possibilità di depositare nel fascicolo telematico in ogni ora, sino alle 24 del giorno di scadenza, atti e memorie che prima era necessario correre a consegnare in cancelleria entro l’orario di chiusura.

Tuttavia la normativa non nasconde insidie, ad esempio in tema di notifiche a mezzo PEC, anch’esse svincolate dai rigidi orari degli sportelli degli Ufficiali Giudiziari ma che mantengono una zona franca dalle 21 alle 7, di tal che la notifica eseguita dopo le 21 si intende effettuata il giorno successivo, senza che si possa applicare alla notifica telematica neanche il differenziarsi degli effetti per notificante e notificato: lo stabilisce  l’art. 16 septies del d.l. 179/2012 il quale ha espressamente previsto che “la disposizione dell’articolo 147 del codice di procedura civile si applica anche alle notificazioni eseguite con modalità telematiche. Quando è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo”.

E lo ha confermato, con riguardo agli effetti, anche la Suprema Corte (Cass. civ. sez. lavoro 4 maggio 2016 n. 8886): il citato art. 16-septies d.l. 179/12 “non prevede la scissione tra il momento di perfezionamento della notifica per il notificante ed il tempo di perfezionamento della notifica per il destinatario espressamente disposta, invece, ad altri fini dal precedente art. 16 quater

Oggi il giudice di legittimità ritorna su un aspetto del processo telematico che richiede grande attenzione, ovvero l’idoenità della comunicazione di cancelleria del provvedimento integrale a far decorrere – in taluni casi – il termine breve per l’impugnazione.

Cass. civ., sez. II, ord. 27 settembre 2017 n. 22274 rel. Scarpa, con riferimento al procedimento ex art. 702 bis c.p.c,  chiarisce che “E’ tuttavia di per sé conforme ai principi costantemente affermati da questa Corte in tema di comunicazioni e notificazioni, la conclusione secondo cui la comunicazione telematica di un provvedimento del giudice emesso in formato cartaceo, effettuata in data antecedente all’entrata in vigore del comma 9-bis dell’art. 16 bis d.l. n. 79/2012, seppur priva della firma digitale del cancelliere, deve ritenersi validamente avvenuta, ai fini della decorrenza del termine perentorio di trenta giorni di cui all’art. 702-quater, c.p.c., in presenza dell’attività del cancelliere consistita nel trasmettere all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario il testo integrale dell’ordinanza, comprensivo del dispositivo e della motivazione, in maniera che vi sia comunque certezza che il provvedimento sia stato portato a compiuta conoscenza delle parti e sia altresì certa la data di tale conoscenza (si veda indicativamente Cass. Sez. 3, 19/12/2016, n. 26102, che ha ritenuto superflua per la regolarità delle notifica del ricorso per cassazione la sottoscrizione con firma digitale della copiai nformatica dell’atto originariamente formato su supporto analogico, essendo sufficiente che la copia telematica sia attestata conforme all’originale).”

Si tratta di ipotesi peculiare, relativa al solo procedimento sommario di cognizione, ma che è opportuno tenere in debito conto: “L’art. 702 quater c.p.c. stabilisce che, in tema di procedimento sommario di cognizione, l’ordinanza emessa ai sensi del sesto comma dell’articolo 702-ter c.p.c. produce gli effetti di cui all’articolo 2909 del codice civile se non è appellata (con citazione, ovvero comunque avendo riguardo alla data di notifica dell’atto di gravame alla controparte) nel rispetto del termine di trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione.

Ai fini della decorrenza del termine di trenta giorni, occorre quindi far riferimento alla data della notificazione del provvedimento ad istanza di parte ovvero, se anteriore, della sua comunicazione di cancelleria, comunicazione che deve avere ad oggetto il testo integrale della decisione, comprensivo del dispositivo e della motivazione, in maniera da consentirne alla parte destinataria la piena conoscenza (Cass. Sez. 3 – 23/03/2017, n. 7401; Cass. Sez. 6 – 2, 09/05/2017, n. 11331).

Tale comunicazione dell’ordinanza emessa ai sensi del comma 6 dell’art. 702-ter c.p.c. può essere eseguita anche a mezzo posta elettronica certificata: questa Corte ha infatti già chiarito come il periodo aggiunto in coda al secondo comma dell’art. 133 c.p.c. dall’art. 45 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 114, secondo cui la comunicazione, da parte della cancelleria, del testo integrale del provvedimento depositato non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c., è finalizzato a neutralizzare gli effetti della generalizzazione della modalità telematica della comunicazione, se integrale, di qualunque tipo di provvedimento, ai fini della normale decorrenza del termine breve per le impugnazioni, solo nel caso di atto di impulso di controparte, ma non incide sulle norme processuali, derogatorie e speciali (come appunto l’art. 702 quater c.p.c.), che ancorino la decorrenza del termine breve di impugnazione alla mera comunicazione di un provvedimento da parte della cancelleria (cfr. Cass. Sez. 6 – 3, 05/11/2014, n. 23526).

Il caso concreto, posto all’attenzione della Corte, consente di meglio comprendere il principio di diritto esposto in apertura, onde  mantenere costante attenzione alle nuove modalità telematiche che, fra le molte agevolazioni, nascondono non poche insidie, evitando una interpretazione eccessivamente formale delle norme .

Nel caso in esame, la ricorrente ha ricevuto comunicazione telematica del testo integrale dell’ordinanza del Tribunale di Catanzaro in data 21 gennaio 2014, ma deduce la violazione dell’art. 15, comma 4, del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, secondo cui “se il provvedimento del magistrato è in formato cartaceo, il cancelliere o il segretario dell’ufficio giudiziario ne estrae copia informatica nei formati previsti dalle specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34 e provvede a depositarlo nel fascicolo informatico, apponendovi la propria firma digitale”.

Dalla mancanza della firma digitale del cancelliere la ricorrente desume la nullità della comunicazione e quindi l’inidoneità della stessa a far decorrere il termine di trenta giorni di cui all’art. 702 quater c.p.c. Va detto che il comma 9-bis dell’art. 16 bis d.l. n. 79/2012, convertito con modificazioni in legge n. 221/2012 (norma però aggiunta in epoca successiva al compimento della comunicazione per cui è causa – e ciò ai fini del principio tempus regit actum – dall’art. 52, d.l. n. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014, poi ancora modificato dal d.l. n. 83/2015, convertito in legge n. 132/2015) dispone che “Le copie informatiche, anche per immagine, di atti processuali di parte e degli ausiliari del giudice nonchè dei provvedimenti di quest’ultimo, presenti nei fascicoli informatici o trasmessi in allegato alle comunicazioni telematiche dei procedimenti indicati nel presente articolo, equivalgono all’originale anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale (…)” (si veda al riguardo Cass. Sez. 6 – 3, 22/02/2016, n. 3386).”

© massimo ginesi 28 settembre 2017

 

il viadotto costruito vicino al condominio non è necessariamente fonte di danno

La costruzione da parte della Pubblica Amministrazione di opere infrastrutturali in vicinanza di edifici privati non provoca ipso iure danno, ma la diminuzione del valore dell’immobile e l’eventuale danno biologico subito dagli occupanti  sono soggetti agli ordinari regimi di prova.

Lo ha stabilito Cass.civ. VI sez. 12 settembre 2017, n. 21150.

Gli attori “deducendo di essere proprietari di un appartamento sito in (OMISSIS), convenivano il Ministero delle Infrastrutture al fine di ottenere il risarcimento dei danni prodotti alla propria abitazione che a causa dei lavori di completamento della variante (OMISSIS) e del viadotto della sopraelevata avrebbe subito una considerevole svalutazione stante la struttura e l’inquinamento acustico e atmosferico derivante dalla circolazione dei veicoli.
Gli attori precisavano, nelle successive memorie ex articolo 183 c.p.c., comma 6, n. 1, due ordini di danno: l’uno da svalutazione dell’edificio in dipendenza sia dell’enorme struttura stradale realizzata sia dell’inquinamento acustico e atmosferico compromettente la qualita’ della vita e la salubrita’ dei luoghi; l’altro danno, biologico ed esistenziale ex articoli 844 e 2043 c.c., per le immissioni rumorose e di gas di scarico degli autoveicoli.”

Il Tribunale di Ancona sulla base delle risultanze probatorie acquisite in giudizio con sentenza n. 745/2011 respingeva la domanda risarcitoria avanzata dagli attori non ritenendo debitamente provati i lamentati danni.

La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza n. 701 dell’8 giugno 2016, rigettava l’appello non ritenendo sufficienti le prove dei danni effettivamente subiti a causa dei lavori pubblici cosi’ come allegate dagli attori a suffragio delle pretese risarcitorie avanzate.

La Cassazione ritiene il ricorso inammissibile, rilevando che costituisce indebita riprosizone di questioni di merito: “I ricorrenti non colgono la ratio decidendi della sentenza. Il giudice di merito ha affermato che il nuovo orientamento giurisprudenziale introdotto da Cass. 3 luglio 2013 n. 16619 consente al giudice di valutare il danno da svalutazione in termini di amenita’ e panoramicita’ dell’immobile, ma che nel caso di specie sotto tale profilo la domanda non sia stata provata.

Sostiene il giudice che gli odierni ricorrenti non hanno mai allegato il fatto della ridotta luminosita’ panoramicita’ e godibilita’ dell’immobile, ne’ sono mai state avanzate richieste istruttorie finalizzate a provare la limitazioni delle predette utilita’. Ha anche analizzato sotto tale aspetto la consulenza espletata.

Ed e’ principio consolidato di questa Corte che con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non puo’ rimettere in discussione, contrapponendone uno diffoime, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in se’ coerente.

L’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, e’ sottratto al sindacato di legittimita’, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non e’ conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilita’ e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 7921/2011). Come appunto nel caso di specie”

  massimo ginesi 27 settembre 2017

 

il condomino che cede la propria unità non può escludere dal trasferimento le parti comuni.

Lo ha stabilito la Cassazione (Cass.civ. sez. II 21/08/2017,  n. 20216), esaminando una ipotesi in cui alcuni condomini avevano venduto la propria unità immobiliare, inserendo nell’atto la clausola che escludeva il cortile condominiale dal trasferimento.

Secondo la Corte di Appello di Firenze “ posto che il cortile in questione era pacificamente di proprietà del Condominio (OMISSIS), doveva ritenersi nulla e inopponibile agli altri condomini la clausola di riserva con cui essi, nel trasferire la proprietà di un appartamento a terzi, si erano riservati la comproprietà del cortile sia perchè gli altri condomini non avevano partecipato all’atto sia perchè le proprietà comuni non sono scindibili dalle proprietà condominiali cui accedono. Non avendo dunque gli attori appellanti provato l’esistenza di un valido titolo di comproprietà del resede, la loro pretesa, secondo la Corte di merito, non meritava accoglimento.”

La Corte di legittimità conferma la lettura del giudice di merito: Non è nuova la questione di diritto che il Collegio è chiamato ad affrontare (validità, negli atti di trasferimento di singole unità immobiliari facenti parte di un condominio, della clausola di esclusione dalla vendita di alcune parti comuni dell’edificio condominiale).

La Corte, infatti, si è già espressa sulla questione pervenendo alla conclusione che la clausola, contenuta nel contratto di vendita di un’unità immobiliare di un condominio, con la quale viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni, è nulla, poichè con essa si intende attuare la rinuncia di un condomino alle predette parti, vietata dal capoverso dell’art. 1118 cod. civ. (v. tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 1680 del 29/01/2015 Rv. 634967; Sez. 2, Sentenza n. 6036 del 29/05/1995 Rv. 492556; Sez. 2, Sentenza n. 3309 del 25/07/1977 Rv. 386857). Si è aggiunto in proposito che se si considerasse valida la vendita che escluda un diritto condominiale, si inciderebbe sulle quote millesimali, in violazione dell’art. 1118 c.c., comma 1. (Sez. 2, Sentenza n. 1680/2015 in motivazione).”

© massimo ginesi 26 settembre 2017

l’accessione ex art. 936 cod.civ. non si applica ai beni comuni.

La Corte di Appello di Napoli perviene ad una conclusione assai singolare, in una vicenda relativa alla canna fumaria in eternit installata da un condomino sul muro comune ed a servizio della propria unità: condanna il condominio alla sua rimozione sull’assunto che “la canna fumaria, priva di una sua autonomia, trovandosi incorporata nel bene comune ex art. 936 cod.civ. , andava rimossa a cura del condominio, quale custode del bene”.

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  22 settembre 2017 n. 22203) ritiene la tesi del tutto infondata e cassa la sentenza:

Assai singolarmente, tuttavia,  la pronuncia  richiama il termine innovazione e l’art. 1120 cod.civ. , mentre l’opera realizzata dal singolo va piuttosto ricondotta alla previsione dell’art. 1102 cod.civ.

Le stesse pronunce richiamate dalla Corte, peraltro, fanno riferimento alla comunione e all’uso del bene comune da parte del singolo e non già alle innovazioni, ad esempio Cass.civ. sez. II  27 marzo 2007 n. 7523: “come è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, la disciplina dell’accessione, contenuta nell’art. 934 c.c., si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui: essa, pertanto, non trova applicazione nelle ipotesi di costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su suolo comune, cui si applica, invece, la normativa in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia stata realizzata in conformità di detta disciplina, cioè con il rispetto delle norme sui limiti all’uso da parte del comproprietario delle cose comuni: pertanto, le opere abusivamente create non possono considerarsi beni condominiali per accessione ma vanno considerati appartenenti al comproprietario costruttore e rientranti nella sua esclusiva sfera giuridica ( tra le tante, sentenze 19/11/2004 n. 21901; 22/3/2001 n. 4120; 18/4/1996 n. 3675 ).”

© massimo ginesi 25 settembre 2017 

 

 

l’amministratore risponde di omicidio colposo per l’incidente all’appaltatore.

Durante l’esecuzione di lavori in condominio un soggetto cade da circa dieci metri e muore. L’amministratore viene condannata per omicidio colposo dai giudici di appello e ricorre in cassazione, articolando diversi motivi, fra tutti quelli del difetto dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità fra la sua condotta e l’evento.

Cass. pen. Iv sez. 21 settembre 2017 n. 43452 respinge il ricorso con una motivazione che lascia ben poco margine alla posizione dell’amministratore che, per il solo fatto di essere il committente, risponde  del fatto rivestendo in tali ipotesi una posizione di garanzia, anche  se non si è ingerito nella esecuzione dei lavori.

Il fatto e l’imputazione

gli elementi di responsabilità

l’assunto difensivo principale dell’amministratore ruota intorno al fatto che non avrebbe commissionato lui i lavori

I giudici di legittimità rilevano che la corte di appello ha in effetti verificato che fu l’amministratore a conferire l’incarico al soggetto deceduto di effettuare i lavori sulla terrazza in quota, “non verificò in alcun modo la formazione, le competenze e l’idoneità tecnico professionale dell’operaio e che non adottò, nonostante si trattasse di lavori sostanzialmente in quota, alcuna precauzione”

A fronte di tali elementi la conclusione in diritto è senza scampo:

© massimo ginesi 22 settembre 2017 

anche la terrazza a livello si presume comune ex art. 1117 cod.civ., salvo il titolo contrario.

Lo afferma la Suprema Corte  (Cass.civ. sez. VI-2 ord. 14 settembre 2017 n. 21340 rel. Scarpa), affrontando un caso peculiare, deciso in maniera difforme dal Tribunale e dalla Corte d’appello e infine giunto al vaglio di legittimità.

La Corte ribadisce che anche per la terrazza a livello che funga da copertura ai piani sottostanti vige la presunzione di condominialità stabilità dall’art. 1117 cod.civ.;  non vale a superarla la circostanza che il bene sia destinato pertinenza ed uso dell’appartamento all’ultimo piano, potendo solo il titolo attribuire diritti esclusivi.

Il giudice di legittimità delinea con chiarezza l’oggetto della contesa: “la controversia in esame contrappone due aventi causa dall’unico originario proprietario di un complesso immobiliare, poi suddiviso in due distinti condomìni (P I e P II), ed attiene alla proprietà di una terrazza a livello, sovrapposta ad uno dei due condomìni (P II). La ricorrente I R.R. assume che la terrazza svolga funzione di copertura dei sottostanti piani dell’edificio ormai costituente il Condominio P II, sicchè opera al riguardo l’attribuzione legale della medesima terrazza in proprietà condominiale ai proprietari delle rispettive unità immobiliari, a norma dell’art. 1117 c.c., quale parte necessaria all’esistenza del fabbricato da essa coperto. La Corte d’Appello di Milano ha invece accolto la tesi degli originari convenuti, signori T, sostenendo che si trattasse di terrazza a livello sottratta alla presunzione di comunione ex art 1117 c.c., e piuttosto oggetto di proprietà esclusiva, giacchè costituente, in senso funzionale e strutturale, parte integrante dell’appartamento di proprietà T., che è però compreso nel distinto Condominio P I.”

La Corte censura le valutazioni dei giudici di appello: “Ora, è certamente ammissibile, per quanto si desume dall’art. 61 disp. att. c.c., che, pur in presenza di fabbricati che presentino elementi di congiunzione materiale, allorchè vengano costituiti condomìni separati per le parti aventi i connotati di autonomi edifici, uno dei titolari di porzioni esclusive si ritrovi proprietario di un appartamento ricadente in entrambi i condomìni (arg. da Cass. Sez. 6 – 2, 23/03/2017, n. 7605; Cass. Sez. 2, 01/03/1995, n. 2324; Cass. Sez. 2, 07/08/1982, n. 4439).

Nella sua decisione, la Corte d’Appello ha però malamente applicato l’art. 1117 c.c., alla stregua dell’interpretazione affermata da Cass. Sez. 2, 22/11/1996, n. 10323, che il Collegio intende qui ribadire.

Invero, l’art. 1117, n. 1, c.c. menziona tra i beni comuni i tetti ed i lastrici solari, i quali sono parti essenziali per l’esistenza del fabbricato, in quanto per la struttura e per la funzione servono da copertura all’edificio e da protezione per i piani o per le porzioni di piano sottostanti dagli agenti atmosferici, mentre tale norma non fa espresso riferimento alle terrazze a livello, le quali, tuttavia, pur offrendo rispetto al lastrico utilità ulteriori, quali il comodo accesso e la possibilità di trattenersi, svolgono altresì le medesime funzioni di copertura dell’edificio e di protezione dagli agenti atmosferici, e devono perciò ritenersi di proprietà comune ex art. 1117, n. 1, c.c., rimanendo attribuite in condominio ai proprietari delle singole unità immobiliari.

Tale identità di funzione tra terrazza a livello e lastrico solare è del resto alla base della comune pacifica applicazione ad entrambi dell’art. 1126 c.c.

La deroga all’attribuzione legale al condominio e l’attribuzione in proprietà esclusiva della terrazza a livello possono, allora, derivare solo dal titolo, mediante espressa disposizione di essa nel negozio di alienazione, ovvero mediante un atto di destinazione da parte del titolare di un diritto reale.”

Non vale, come fatto dalla Corte d’Appello di Milano, considerare la terrazza a livello come pertinenza dell’appartamento da cui vi si accede, in quanto ciò supporrebbe l’autonomia ontologica della terrazza e l’esistenza del diritto reale su di essa, che consenta la sua destinazione al servizio dell’appartamento stesso, in difformità dall’attribuzione ex art. 1117 c.c., laddove, a norma dell’art. 819 c.c., la destinazione al servizio pertinenziale non pregiudica i diritti dei terzi, e quindi, non può pregiudicare i diritti dei condomini sulla cosa comune”

La decisione di secondo grado viene cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano che dovrà attenersi al principio di diritto enunciato molto chiaramente dal giudice di legittimità: “Nella controversia fra due aventi causa dall’unico originario proprietario di un complesso immobiliare, poi suddiviso in due distinti condomìni, la proprietà di una terrazza a livello, svolgente funzione di copertura dei sottostanti piani di uno dei due edifici ed attigua ad un’unità immobiliare ricompresa nell’altro edificio condominiale, è da ritenersi oggetto di proprietà comune dei proprietari delle unità immobiliari da essa coperte, a norma dell’art. 1117, n. 1), c.c., quale parte necessaria all’esistenza del fabbricato, salvo che non risulti dal titolo l’espressa disposizione o destinazione della proprietà superficiaria della terrazza in favore del proprietario del contiguo appartamento estraneo al condominio”.

© massimo ginesi 21 settembre 2017

l’abbattimento delle barriere architettoniche non giustifica le innovazione lesive dei diritti degli altri condomini.

Si tratta di principio ormai consolidato in giurisprudenza, affermato sulla scorta del disposto dell’art. 2 comma 3 della L. 13/1989 che – nel dettare una disciplina di favore alla installazione di sistemi volti all’abbattimento delle barriere architettoniche – fa  salvo il disposto dell’art. 1120 u.c. cod.civ. in tema di innovazioni vietate.

In una lettura del diritto di proprietà  costituzionalmente orientata, ai sensi dell’art. 42 Cost.,  volta a contemperare il diritto soggettivo dei singoli condomini con la funzione sociale che i loro beni sono chiamati a svolgere, i giudici di legittimità hanno sempre dato interpretazione  ampia alle facoltà del singolo di comprimere il diritto di godimento al fine di realizzare opere volte all’abbattimento delle barriere architettoniche, dovendosi tuttavia tale facoltà arrestare ove quella compressione si traducesse in una lesione della effettiva possibilità di utilizzo del bene comune o individuale.

Il principio è ripreso in una recentissima pronuncia (Cass.civ. sez. VI-2 ord.  14 settembre 2017 n. 21339 rel. Scarpa),  ove si ritiene legittima la censura svolta dal giudice di merito sulla installazione di un ascensore che avrebbe di fatto compromesso l’utilizzo del pianerottolo per uno dei condomini.

La delibera assembleare che – seppur ai sensi della L. 13/1989 – decida l’installazione dell’impianto in violazione dell’art. 1120 u.c. cod.civ. è affetta da nullità.

La Corte di appello di Torino “ ha comunque ritenuto che l’innovazione costituita dalla realizzazione dell’ascensore avrebbe violato il limite di cui all’art. 1120, comma 2, c.c., nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220. La C H s.r.l. è, invero, proprietaria di un’unità immobiliare destinata ad esercizio commerciale, dotata di due accessi, dei quali l’uno si percorre provenendo dal pianerottolo. Basandosi sull’espletata CTU, la Corte di Torino ha concluso che l’installazione dell’ascensore avrebbe gravemente limitato la possibilità per la C H s.r.l. di accedere alle parti comuni dell’immobile, dovendosi a tal fine utilizzare lo stesso ascensore, sempre che avesse le porte aperte e non fosse guasto.”

Il condominio ricorre in cassazione, ove l’impugnazione viene respinta osservando che “In tema di condominio, l’installazione di un ascensore su area comune, allo scopo di eliminare le barriere architettoniche, costituisce un’innovazione che, ex art. 2, commi 1 e 2, della I n. 13 del 1989, va approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, commi 2 e 3, c.c., ovvero, in caso di deliberazione contraria o omessa nel termine di tre mesi dalla richiesta scritta, che può essere installata, a proprie spese, dal portatore di handicap, con l’osservanza dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c., secondo quanto prescritto dal comma 3 del citato art. 2 (Cass. Sez. 6 – 2, 09/03/2017, n. 6129).

Poiché resta dunque fermo il disposto dell’art. 1120, comma 2, c.c. (formulazione ratione temporis applicabile, antecedente alle modifiche apportate dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), sono vietate le innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell’utilità, secondo l’originaria costituzione della comunione.

Tale concetto di inservibilità della parte comunenon può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione – coessenziale al concetto di innovazione – ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della “res communis” secondo la sua naturale fruibilità (cfr. Cass. Sez. 2, 12/07/2011, n. 15308).

Nella specie, la Corte d’Appello di Torino ha accertato in fatto, secondo apprezzamento che spetta al giudice di merito e che non è sindacabile in cassazione sotto il profilo della violazione di legge, come denunciato dal ricorrente, che la realizzazione dell’ascensore avrebbe comportato un rilevante pregiudizio, per la condomina C H s.r.I., dell’originaria possibilità di utilizzazione del pianerottolo occupato dall’impianto di ascensore deliberato dall’assemblea, risultando perciò l’innovazione lesiva del divieto posto dall’art. 1120, comma 2, c.c., in quanto alla possibilità dell’originario godimento della cosa comune sarebbe stato sostituito un godimento di diverso contenuto, necessariamente condizionato alla disponibilità ed al funzionamento dell’ascensore stesso.”

Interessante il rilievo sulla carenza di interesse ad ottenere un riforma  della pronuncia sulla nullità, avanzata dal condomino controricorrente “Ove, infatti, il giudice abbia dichiarato nulla una deliberazione dell’assemblea condominiale, deve escludersi l’interesse della parte ad impugnare la sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della qualificazione del vizio di annullabilità, e non di nullità, della delibera, salvo che a quest’ultima sia ricollegabile una diversa statuizione contraria all’interesse della parte medesima, quale, ad esempio, la non soggezione della relativa impugnazione al termine di decadenza di trenta giorni previsto dall’art. 1137 c.c.

E’ comunque da qualificare nulla la deliberazione, vietata dall’art. 1120 c.c., che sia lesiva dei diritti individuali di un condomino su una parte comune dell’edificio, rendendola inservibile all’uso e al godimento dello stesso, trattandosi di delibera avente oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea (arg. da Cass. Sez. U, 07/03/2005, n. 4806; Cass. Sez. 2, 24/07/2012, n. 12930).”

© massimo ginesi 19 settembre 2017 

per il cortile che funge da copertura ai box e per il lastrico che copre un solo vano spese ex art. 1125 cod.civ.

La Cassazione (Cass.civ. sez. II  ord. 14 settembre 207 n. 21337 rel. Scarpa)  ribadisce un principio più volte affermato: ove il viale di accesso al condominio svolga anche funzione di copertura dei sottostanti box, le relative spese di manutenzione andranno ripartite in forza del disposto dell’art. 1125 cod.civ.

La vicenda ha origine in un supercondominio, ove tali spese sono state invece ripartite secondo il disposto dell’art. 1126 cod.civ. ed alcuni condomini hanno impugnato la delibera, ottenendo ragione sia in primo che in secondo grado:   il Tribunale di Frosinone e poi  la corte d’appello di Roma hanno dato affermato l’applicabilità al caso di specie dell’art. 1125 cod.civ., questione che viene risproposta dal supercondominio ricorrente  dinanzi al giudice di legittimità.

Nel respingere il ricorso, la cassazione osserva che: ” Come correttamente statuito dalla Corte d’Appello di Roma, qualora si debba procedere alla riparazione del cortile o viale di accesso all’edificio condominiale, che funga anche da copertura per i locali sotterranei di proprietà esclusiva di un singolo condomino, ai fini della ripartizione delle relative spese non si può ricorrere al criterio previsto dall’art. 1126 c.c. (sul presupposto dell’equiparazione del bene fuori dalla proiezione dell’immobile condominiale, ma al servizio di questo, ad una terrazza a livello), ma si deve, invece, procedere ad un’applicazione analogica dell’art. 1125 c.c., il quale accolla per intero le spese relative alla manutenzione della parte della struttura complessa identificantesi con il pavimento del piano superiore a chi, con l’uso esclusivo della stessa, determina la necessità dell’inerente manutenzione, in tal senso verificandosi un’applicazione particolare del principio generale dettato dall’art. 1123, comma 2, c.c. di tal che è fondata l’impugnativa della deliberazione assembleare dell’8 marzo 2005 proposta da P A, M A, M A e V A, avendo l’assemblea erroneamente posto le spese di rifacimento del piazzale a carico per un terzo del condominio e per due terzi degli attori, proprietari esclusivi del sottostante locale (così Cass., sez. VI- 2, 16/05/2017, n. 12177; Cass., sez. II, 19/07/2011, n. 15841; Cass., sez. II, 05/05/2010, n. 10858; Cass., sez. II, 14/09/2005, n. 18194).

La Corte trae spunto dalla vicenda per estendere il principio anche alla ipotesi di lastrico solare o terrazza a livello che funga da copertura ad un solo vano: “D’altro canto, anche nelle ipotesi in cui ad una terrazza a livello sia sottoposto un solo locale, ove le relative spese di manutenzione vengano regolate alla stregua dell’art. 1126 c.c., e non dell’art. 1125 c.c., si finisce per porre a carico dell’unico condomino “coperto” i due terzi della spesa di rifacimento, ovvero il doppio di quanto dovuto dall’utilizzatore esclusivo della terrazza, così vanificandosi la ratio dell’art. 1126 c.c.: tale norma, infatti, intende dare maggiore rilievo alla utilitas ricavabile dal bene ulteriore a quella insita nella generale funzione di copertura, sicché essa mira non soltanto a compensare il più rapido deterioramento del lastrico dovuto al diuturno calpestio sullo stesso, quanto soprattutto a non far gravare iniquamente sui soli condomini, ai quali il lastrico serve da copertura, una spesa che avvantaggia in maniera particolare chi da esso è in grado di trarre altri e diversi vantaggi. Pertanto, in caso comunque di riparazione di terrazza a livello sovrastante un’unica unità immobiliare, ovvero un unico piano, si rende plausibile un’applicazione analogica dell’art. 1125 c.c., in maniera da dare pari incidenza alle funzioni di separazione in senso orizzontale, di sostegno e di copertura svolte dalla res”

Tale  ultima interpretazione pare invece prendere le distanze da alcuni precedenti della stessa Cassazione (Cass.civ. sez. II  15 luglio 2003 n. 11029, Cass.civ. sez. II  16 maggio 1963, n. 1124).

© massimo ginesi 18 settembre 2017 

 

non occorre preventiva messa in mora per la richiesta di decreto ingiuntivo.

E’ di certo un principio pacifico che il condomino sia tenuto al pagamento delle quote alla scadenza, che si tratti di c.d. mora ex re e che sia facoltà dell’amministratore agire anche ex art. 63 disp.att. cod.civ. per ottenere decreto ingiuntivo semplicemente al verificarsi dell’inadempimento (la riforma del 2012 ha poi introdotto l’obbligo dell’amministratore di attivarsi per la riscossione delle quote entro 6 mesi dalla chiusura dell’esercizio) .

Eppure presso diversi uffici del giudice di pace accade che alla richiesta di decreto ingiuntivo si pretenda la produzione del preventivo sollecito o che il condomino ingiunto si dolga di non essere stato preventivamente avvisato.

La cassazione (Cass.civ. sez. II  ord. 14 settembre 2017 n. 21313) ha ribadito che l’amministratore può agire direttamente alla scadenza delle quote dinanzi al giudice, senza necessità di alcun preventivo sollecito:

 

La sentenza contiene altre diverse interessanti statuizioni, poiché il litigioso condomino opponente  ha avanzato una serie di censure decisamente fantasiose.

Il Giudice di legittimità  sottolinea ancora un volta che le norme in tema di legittimazione processuale dell’amministratore prevedono autonomia dell’amministratore per le materie previste dall’art. 1130 cod.civ., atteso che il sistema non deve essere improntato ad un iperassemblearismo che condizioni ogni azione

La Corte, ancora una volta, delinea con precisione l’ambito applicativo della nota decisione delle Sezioni Unite del 2010

Curioso infine che l’opponente si dolga della illegittimità del decreto in quanto emesso dal Presidente del Tribunale, censura decisamente respinta dalla Cassazione che rileva che tale organo ben può provvedere – in quanto componente del Tribunale – assegnando il fascicolo a se stesso quale giudice monocratico.

La sentenza sottolinea infine l’inopponibilità al condominio dell’eventuale accordo di rateizzazione raggiunto con l’amministratore (punto su cui il giudice di merito non aveva ammesso la prova testimoniale).

© massimo ginesi 15 settembre 2017