notifica inesistente o nulla: una recentissima pronuncia.

Cass.civ. sez. VI-2 ord. 12 settembre 2017 n. 21130  affronta un tema delicato, circoscrivendo a pochi casi, gravi e ben delineati, le ipotesi di inesistenza della notifica e ascrivendo alla categoria della nullità le ulteriori e diverse  ipotesi (con la conseguente possibilità di rinnovazione della notifica ritenuta nulla).

La vicenda origina dalla eccepita inesistenza della notifica di un atto di appello al difensore presso la cancelleria del Tribunale.

La corte rileva che “Effettivamente nel corso del giudizio di primo grado l’avv. F., con studio in Roma, si era costituito per gli attori in luogo dei precedenti difensori (che avevano rinunciato al mandato: v. verbali udienze 15.3.2006 e 21.6.2006), senza tuttavia eleggere domicilio nel circondario del giudice adito.
Dunque la prima notifica dell’atto d’appello, effettuata ai sensi dell’art. 82 R.D. n. 37 del 1934 presso la cancelleria del Tribunale di Velletri è senz’altro valida.”

Il principio di diritto richiamato è netto: “ad ulteriore confutazione dell’affermazione di diritto contenuta nella sentenza impugnata, circa l’asserita inesistenza, piuttosto che nullità, della notifica effettuata a persona non avente la rappresentanza processuale della parte e in un luogo diverso dal domicilio, va richiamato il recente arresto delle S.U. di questa Corte (n. 14916/16), in base al quale, l’inesistenza della notificazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità, sicché, in definitiva, è inesistente solo la notificazione mancata meramente tentata.
Con la duplice conseguenza che una notificazione nulla dell’atto d’appello non rende inammissibile il gravame, ma deve essere rinnovata, e che la sua valida rinnovazione nel termine concesso dal giudice ai sensi dell’art. 291 c.p.c. opera con efficacia retroattiva, e dunque conservativa dell’appello stesso.”

© massimo ginesi 14 settembre 2017 

 

Tabelle millesimali: rilevano anche i giardini esclusivi.

Nella redazione delle tabelle millesimali il tecnico deve tenere conto di tutte le caratteristiche delle singole unità immobiliari che compongono il condominio, valutando nella sua stima anche gli elementi accessori che ne costituiscono incremento di valore.

E’ principio  ormai pacifico in giurisprudenza e ribadito da Cass.civ. sez. II  ord. 11 settembre 2017 n. 21043;

la vicenda riguarda un caso di revisione delle tabelle ex art. 69 disp.att. cod.civ., posto che alcuni condomini avevano variato la consistenza e la destinazione d’uso delle proprie unità: la Corte d’Appello di Napoli aveva imposto al consulente chiamato a redigere le nuove tabelle di non valutare i vani esterni al profilo verticale dell’edificio e, in particolare, un ripostiglio e un bagno facenti parte di una delle unità nonché i giardini, il terrazzo a livello, la tettoia e l’area esterna  di pertinenza di  altra unità.

 

Il giudice di legittimità censura la sentenza osservando che non si è attenuta ai principi consolidati in materia:

© massimo ginesi 13 settembre 2017 

terrazza a tasca: la cassazione conferma una lettura restrittiva.

E’ noto che, per lungo tempo, la Cassazione abbia ritenuto illegittima la realizzazione di terrazza a tasca sul tetto comune, da parte del singolo proprietario dell’unità sottostante, sull’assunto che tale iniziativa comporta l’attrazione di un bene comune nella sfera personale del singolo.

Nel 2012  la Suprema Corte aveva stabilito che l’iniziativa deve considerarsi lecita, nell’ottica di un utilizzo dinamico della proprietà, ove l’intervento sia modesto e non comporti apprezzabile sottrazione del bene comune (Cass.civ. sez. II  3 agosto 2012 n. 14107).

Non sono mancate, anche di recente, interpretazioni della giurisprudenza di merito  assai bizzarre.

Cass.civ. sez. II  11 settembre 2017 n. 21049 chiarisce che, per la realizzazione di una terrazza a tasca che comporti significativa trasformazione del tetto, occorre il consenso di tutti gli altri condomini, poiché è condotta che supera la previsione dell’art. 1102 cod.civ.

Va osservato che la pronuncia non brilla per sistematicità e per precisione, qualificando innovazione l’intervento del singolo, che va invece ascritto alla categoria dell’uso più intenso ex art. 1102 cod.civ., così come assai puntualmente precisato anche di recente dalla stessa corte.

Di interesse invece la conferma che l’intervento sia consentito ove risulti di modesta entità e non incida in maniera significativa sul bene comune, sia nella sia funzione che nella sua attitudine al pari utilizzo da parte degli altri condomini.

 

© massimo ginesi 12 settembre 2017

locazione: la registrazione tardiva del contratto sana la nullità.

La giurisprudenza ha anche di recente affermato che la registrazione costituisce presupposto di validità del contratto e che, in sua assenza, la pattuizione è nulla e improduttiva di effetti.

Oggi ritorna sul tema, chiarendo che  se le parti procedono ad un registrazione  tardiva, l’adempimento è idoneo a sanare il vizio.

 Cass.civ. sez. VI 6 settembre 2017 n. 20858 afferma che  “il giudice di primo grado aveva ritenuto nullo il contratto di locazione originariamente stipulato dalle parti, in quanto non registrato, affermando che la registrazione operata dal conduttore nel 2014 non era ad esso riferibile, ma ad un diverso contratto, a sua volta nullo per difetto di forma scritta.

La corte di appello – in accoglimento peraltro del gravame dello stesso L. – lo ha, al contrario, espressamente considerato valido, dichiarando nulla (in quanto simulata) solo la clausola relativa alla sua transitorietà.

Ha di conseguenza accertato la sussistenza di una ‘locazione abitativa ordinaria’ con decorrenza dal 1 dicembre 2007 (e scadenza al 30 novembre 2015), avendo escluso la stipulazione di un diverso successivo contratto verbale, e avendo ritenuto configurabile un ‘contratto unico, pur non registrato (se non successivamente, nel gennaio 2014, subito dopo l’introduzione del presente giudizio) all’epoca’.

Ha cioè (implicitamente, ma inequivocabilmente) ritenuto che la registrazione tardiva del contratto di locazione originariamente stipulato dalle parti non fosse di ostacolo all’accertamento della sua validità.

Sotto questo aspetto, la decisione è conforme al recente indirizzo di questa Corte (specificamente riferito alle locazioni per uso commerciale, ma in base ad un principio valido anche in relazione a quelle per uso abitativo) secondo cui ‘in tema di locazione immobiliare (nella specie per uso non abitativo), la mancata registrazione del contratto determina, ai sensi dell’art. 1, comma 346, della legge n. 311 del 2004, una nullità per violazione di norme imperative ex art. 1418 c.c., la quale, in ragione della sua atipicità, desumibile dal complessivo impianto normativo in materia ed in particolare dalla espressa previsione di forme di sanatoria nella legislazione succedutasi nel tempo e dall’istituto del ravvedimento operoso, risulta sanata con effetti ‘ex tunc’ dalla tardiva registrazione del contratto stesso, implicitamente ammessa dalla normativa tributaria, coerentemente con l’esigenza di contrastare l’evasione fiscale e, nel contempo, di mantenere stabili gli effetti negoziali voluti dalle parti, nonché con il superamento del tradizionale principio di non interferenza della normativa tributarla con gli effetti civilistici del contratto, progressivamente affermatosi a partire dal 1998′ (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 10498 del 28/04/2017, Rv. 644006 – 01).

È opportuno sottolineare che, secondo quanto espressamente precisato nella decisione appena richiamata, quella della nullità del contratto non registrato costituisce fattispecie differente rispetto a quella (presa in considerazione dalla sentenza di questa Corte a Sezioni Unite n. 18213 del 17/09/2015, Rv. 636471 – 01) che si determina in caso di pattuizioni volte a determinare un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, laddove sussista cioè tra le parti un vero e proprio accordo simulatorio in relazione all’entità del canone, onde ad essa non è comunque applicabile l’art. 13, comma 1, della legge 9 dicembre 1998 n. 431, invocato dal ricorrente, e riguardante esclusivamente tale diversa fattispecie.”

© massimo ginesi 11 settembre 2017 

quando l’ascensore lo installano solo alcuni condomini

Accade con frequenza che l’ascensore, originariamente non previsto dal costruttore dell’edificio condominiale, venga installato successivamente, su  iniziativa di alcuni condomini, che si fanno anche carico dei relativi costi.

La giurisprudenza si è ampiamente diffusa sui limiti di utilizzo della cosa comune, con particolare riguardo alla occupazione del vano scale e al necessario rispetto della statica e del decoro dell’edificio, con interpretazione che si rifà a criteri di favorevolezza, orientata dall’art. 42 Cost., norma cui si ispirano anche i precetti della L. 13/1989.

L’altro aspetto che, in tali vicende, è giunto con frequenza all’esame dei giudici è quello relativo ai diritti dei condomini che non hanno inizialmente partecipato alla installazione e ai criteri di riparto della spesa.

Cass.civ. sez. II  ord. 4 settembre 2017 n. 20713 rel. Scarpa delinea con chiarezza tali aspetti: l’installazione “ex novo” di un ascensore in un edificio in condominio (le cui spese, a differenza di quelle relative alla manutenzione e ricostruzione dell’ascensore già esistente, vanno ripartite non ai sensi dell’art. 1124 c.c., ma secondo l’art. 1123 c.c., ossia proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condomino: Cass. Sez. 2, 25/03/2004, n. 5975; Cass. Sez. 2, 17/02/2005, n. 3264) costituisce innovazione che può essere deliberata dall’assemblea condominiale con le maggioranze prescritte dall’art 1136 c.c., oppure direttamente realizzata con il consenso di tutti i condomini, così divenendo l’impianto di proprietà comune.

Trattandosi, tuttavia, di impianto suscettibile di utilizzazione separata, proprio quando l’innovazione, e cioè la modificazione materiale della cosa comune (nella specie, il vano scale) conseguente alla realizzazione dell’ascensore, non sia stata approvata in assemblea (lo stesso art. 1121 c.c., al comma 2, parla di maggioranza dei condomini che abbia “deliberata o accettata” l’innovazione), essa può essere attuata anche a cura e spese di uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all’art1102 c.c.), salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera (Cass. Sez. 2, 18/08/1993, n. 8746; Cass. Sez. 2, 18/11/1971, n. 3314; Cass. Sez. 2, 13/03/1963, n. 614).

Dunque, l’ascensore, installato nell’edificio dopo la costruzione di quest’ultimo per iniziativa di parte dei condomini, non rientra nella proprietà comune di tutti i condomini, ma appartiene in proprietà a quelli di loro che l’abbiano impiantato a loro spese.

Ciò dà luogo nel condominio ad una particolare comunione parziale dei proprietari dell’ascensore, analoga alla situazione avuta a mente dall’art. 1123, comma 3, c.c., comunione che è distinta dal condominio stesso, fino a quando tutti i condomini non abbiano deciso di parteciparvi.

L’art. 1121, comma 3, c.c. fa, infatti, salva agli altri condomini la facoltà di partecipare successivamente all’innovazione, divenendo partecipi della comproprietà dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota le spese impiegate per l’esecuzione, aggiornate al valore attuale.”

La vicenda ha origini in terra ligure e l’ordinanza del giudice di legittimità contiene anche una interessante delineazione del tema dell’interesse ad agire: gli originari attori avevano infatti chiesto al Tribunale di Genova e poi alla Corte di appello ligure di accertare il costo dell’impianto, e il giudice di merito aveva qualificato tale domanda come necessariamente funzionale anche all’esercizio del diritto previsto dall’art. 1121 cod.civ.

Afferma la Cassazione ” Come da questa Corte più volte affermato, poiché la tutela giurisdizionale è tutela di diritti, il processo, salvo casi eccezionali predeterminati per legge, può essere utilizzato solo come fondamento del diritto fatto valere in giudizio e non di per sé, per gli effetti possibili e futuri. Pertanto, non sono proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti ma che rappresentino elementi frazionistici della fattispecie costitutiva di un diritto, la quale può formare oggetto di accertamento giudiziario solo nella funzione genetica del diritto azionato e quindi nella sua interezza (Cass. Sez. U, 20/12/2006, n. 27187).

L’interesse ad agire, che conferisce titolo per proporre in giudizio una domanda, a sensi dell’art. 100 c.p.c., inteso quale bisogno inevitabile di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale o parziale del proprio diritto, va quindi valutato sulla base della interpretazione e qualificazione dei rapporti e delle situazioni dedotte nel materiale assertivo fornito dalle parti in causa.

I ricorrenti ravvisano nei primi due motivi la carenza dell’interesse ad agire e poi l’ultrapetizione della sentenza, in quanto sostengono che fosse stata proposta dagli attori una domanda di mero accertamento del costo di installazione dell’ascensore, ed invece poi accolta dal giudice una domanda di partecipazione alla comproprietà dell’impianto mai proposta.

La Corte d’Appello, come dapprima il Tribunale, hanno invece interpretato e qualificato la domanda di accertamento dei costi e delle rispettive quote di contribuzione all’impianto (e quindi così valutati sia l’interesse ad agire che il limite di corrispondenza tra chiesto e pronunciato), per come già inizialmente formulata in citazione, o comunque per come poi esplicitata nel corso di giudizio, quale domanda di accertamento giudiziario di quei fatti nella loro funzione genetica del diritto potestativo di partecipare alla comproprietà dell’ascensore, contribuendo “pro quota” nelle spese di esecuzione.

Pur dando effettivamente atto di una ridefinizione della loro pretesa effettuata dagli attori nel corso del giudizio, la Corte d’Appello ha correttamente ritenuto che la domanda così modificata risultasse comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e che non si fosse determinata alcuna compromissione delle potenzialità difensive delle controparti. “

© massimo ginesi 7 settembre 2017 

 

interventi sulla cosa comune: i diversi ambiti applicativi degli artt. 1102 e 1120 cod.civ.

Una vicenda relativa alla occupazione di una porzione del cortile da parte di un condomino, proprietario di unità al piano terra destinata ad uso commerciale, offre alla Suprema Corte l’occasione per tracciare il discrimine fra le innovazioni (previste dall’art. 1120 cod.civ., deliberate dalla maggioranza e destinate a soddisfare una esigenza comune) e il maggior uso della cosa comune, consentito in determinate ipotesi, al singolo condomino (disciplinato dall’art. 1102 cod.civ., posto in essere unilateralmente e destinato a soddisfare una esigenza individuale del singolo proprietario).

Si tratta di aspetto che non sempre trova lineare applicazione nella giurisprudenza di merito, che anche nel caso in questione aveva impropriamente richiamato l’art. 1120 cod.civ. e che, anche di recente, ha erroneamente applicato tali principi al caso della terrazza a tasca realizzata dal singolo.

Cass.civ. sez. II  4 settembre 2017 n. 20712 rel. Scarpa chiarisce che “Per quanto accertato in fatto, e non rivalutabile nel giudizio di legittimità, si ha riguardo ad uno spazio esterno adiacente al fabbricato del Condominio A.F., via L M., Lignano Sabbiadoro, astrattamente utilizzabile per consentire l’accesso allo stesso edificio, e dunque da qualificare come cortile, ai fini dell’inclusione nelle parti comuni dell’edificio elencate dall’art. 1117 c.c.

Il Condominio AF. ha sostenuto che la società convenuta AF. s.n.c. abbia stabilmente occupato tale area comune utilizzata in parte come passaggio pedonale di comunicazione con la pubblica via ed in parte come accesso all’edificio ed al parcheggio condominiale, così realizzando una sottrazione definitiva della medesima parte del suolo comune alla sua naturale destinazione ed all’altrui godimento.

Ciò configura, in astratto, non una violazione dell’art. 1120, comma 2, c.c. (testo antecedente alle modifiche introdotte con la legge n. 220/2012, qui operante ratione temporis), ma dell’art. 1102 c.c., disposizione invero applicabile a tutte le innovazioni che, come nella specie, non comportano interventi approvati dall’assemblea e quindi spese ripartite fra tutti i condomini.

L’art. 1102 c.c. implica che l’uso particolare o più intenso del bene comune da parte del condomino si configura come illegittimo quando ne risulta impedito l’altrui paritario uso e sia alterata la destinazione del bene comune, dovendosi escludere che l’utilizzo da parte del singolo della cosa comune possa risolversi nella compressione quantitativa o qualitativa di quella, attuale o potenziale, di tutti i comproprietari (Cass. Sez. 2, 06/11/2006, n. 23608).

Va pertanto corretto il riferimento che la sentenza impugnata fa in motivazione all’art. 1120 c.c., ritenendo integrata, nella specie, una “innovazione additiva”.

L’art. 1102 c.c. e l’art. 1120 c.c. sono disposizioni non sovrapponibili, avendo presupposti ed ambiti di operatività diversi. Le innovazioni, di cui all’art. 1120 c.c., non corrispondono alle modificazioni, cui si riferisce l’art. 1102 c.c., atteso che le prime sono costituite da opere di trasformazione, le quali incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà del condomino in ordine alla migliore, più comoda e razionale, utilizzazione della cosa, facoltà che incontrano solo i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, 19/10/2012, n. 18052).

In realtà, tra le nozioni di modificazione della cosa comune e di innovazione (e, pertanto, tra le sfere di operatività delle norme di cui all’art. 1102 e dell’art. 1120 c.c.) corre una differenza che è di carattere innanzitutto soggettivo, giacché, fermo il tratto comune dell’elemento obiettivo consistente nella trasformazione della “res” o nel mutamento della destinazione, quel che rileva nell’art. 1120 c.c. (mentre è estraneo all’art. 1102 c.c.) è l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata dei partecipanti, espresso da una deliberazione dell’assemblea. Le modificazioni dell’uso della cosa comune, ex art. 1102 c.c., non si confrontano con un interesse generale, poiché perseguono solo l’interesse del singolo, laddove la disciplina delle innovazioni segna un limite alle attribuzioni dell’assemblea.”

© massimo ginesi 6 settembre 2017

 

sopraelevazione illecita e prescrizione dell’azione

Qualora un condomino proceda a costruzione sull’ultimo piano dell’edificio, le azioni che gli altri condomini possono porre in essere prevedono diverso termine di prescrizione a seconda dei presupposti su cui si fondano.

Lo ha chiarito Cass.civ. sez. II  ord. 23 agosto 2017 n. 20288 rel. Scarpa:  “Occorre ribadire l’interpretazione di questa Corte, per cui, mentre nel caso di sopraelevazione effettuata dal proprietario dell’ultimo piano che alteri l’aspetto architettonico dell’intero edificio condominiale, l’azione diretta ad ottenere la “restitutio in integrum”, di cui gli altri condomini sono titolari, è soggetta a prescrizione ventennale, nell’ipotesi, quale quella in esame, in cui siano le condizioni statiche dell’edificio a non consentire la soprelevazione, è invece imprescrittibile l’azione di accertamento negativo tendente a far valere l’inesistenza del diritto di sopraelevare, mancando un presupposto della sua stessa esistenza (Cass. Sez. 2, 05/10/2012, n. 17035; Cass. Sez. 2, 19/10/1998, n. 10334; si veda anche in motivazione Cass. Sez. 2, 15/11/2016, n. 23256).”

© massimo ginesi 5 settembre 2017

SERVITU’ DI PASSO IN CONDOMINIO: CHI LA VANTA DEVE DAR PROVA DELLA SUA COSTITUZIONE

La Suprema Corte ripercorre i principi cardine delle servitù, avuto riguardo a controversia sorta in ambito condominiale (Cass.civ. sez. II  ord. 31 agosto 2017 n. 20614 rel. Scarpa).

La causa ha ad oggetto un diritto di servitù di passo, vantato da una condomina sul terrazzo di un altro condomino, domanda peraltro disattesa sia in primo che in secondo grado: “Il giudizio aveva avuto inizio con citazione del 18 febbraio 1993 formulata da R. M., la quale convenne davanti al Tribunale di Roma F.F., chiedendone la condanna alla riduzione in pristino ed al risarcimento dei danni correlati ai lavori di modificazione del terrazzo di proprietà F, compreso nel Condominio di via V. 18, Roma, in quanto gravato, a dire dell’attrice, da servitù di passaggio a vantaggio del terrazzo annesso all’appartamento di proprietà M.”

La Cassazione – nel respingere anche in sede di legittimità la domanda – ripercorre alcuni passaggi essenziali in tema di diritti reali e di servitù in particolare:

a) incombe a colui che agisce per vedere riconosciuto un diritto reale fornire la prova di essere titolare di quel diritto: “la Corte d’Appello ha proceduto all’interpretazione della domanda di R. M., e ciò nell’esercizio di prerogativa che spetta al giudice del merito, ed ha evidentemente qualificato l’azione come una “confessoria servitutis”, ai sensi dell’art. 1079 c.c. Incombeva pertanto certamente sull’attrice l’onere di provare l’esistenza del relativo diritto di passaggio sul limitrofo terrazzo di proprietà F, ovvero la costituzione della servitù per contratto, testamento, usucapione o destinazione del padre di famiglia, presumendosi la libertà del fondo, che si pretende servente, da pesi e limitazioni (cfr. Cass. Sez. 2, 11/01/2017, n. 472; Cass. Sez. 2, 08/09/2014, n. 18890).”

Se l’attrice avesse ritenuto (ma ciò non appare, invero, nemmeno specificamente allegato in sede di ricorso) che la costituzione della vantata servitù di passaggio fosse avvenuta per destinazione del padre di famiglia, allora le sarebbe spettato di fornire prova di opere visibili e permanenti realizzate al preciso scopo di dare accesso al preteso fondo dominante attribuito a A. M. A. P. (dante causa di F. C., a sua volte dante causa di R. M.) attraverso quello preteso servente attribuito a V. A. P. (dante causa di F. F.), opere predisposte dall’unica proprietaria B. P., e preesistenti al momento il cui il fabbricato di via Venezia 18 venne diviso fra più proprietari con l’atto pubblico del 20 gennaio 1942 (cfr. Sez. 2, Cass. 05/04/2016, n. 6592). Altrimenti, ove la servitù posta dalla ricorrente a base della sua azione confessoria fosse stata fondata su un contratto, le occorreva, stante l’esigenza di forma ad substantiam posta dall’art. 1350, n. 4, c.c., di dar prova di un atto scritto che consacrasse la esplicita manifestazione di volontà negoziale di costituire, a favore della proprietà di A. M. A. P. (ovvero di F. C., ovvero ancora della stessa R. M.) una servitù di passaggio convenzionale sul terrazzo di proprietà di V. A. P. (ovvero di F.F.).

b) il titolo non trascritto non è opponibile agli acquirenti successivi, salvo che gli stessi non abbiano riconosciuto l’esistenza del diritto nell’atto di acquisto: “Ove si trattasse di un contratto di costituzione della servitù comunque non trascritto (come quello del 15 aprile 1972), esso non sarebbe stato opponibile a chi, come il F., abbia acquistato il proprio appartamento come libero ed abbia trascritto il proprio titolo; a meno che il terzo, acquirente a titolo  particolare dell’immobile interessato da servitù di passaggio in base a titolo non trascritto, non avesse, all’atto dell’acquisto, dichiarato di essere a conoscenza dell’atto costitutivo della servitù e manifestato la volontà di subentrare in tutti i diritti e gli obblighi scaturenti dalla relativa scrittura (Cass. Sez. 2, 07/01/1978, n. 46).

c) le dichiarazioni unilaterali, seppur formali, del titolare del fondo dominante non hanno alcun rilievo ai fini della costituzione (o del riconoscimento) del diritto: “Né può ovviamente valere a dire costituita la servitù la dichiarazione unilaterale della donante A.M. A. P., contenuta nell’atto di donazione del 15 gennaio 1981, quanto all’esistenza dell’ “accesso da terrazzo di proprietà di F. F.”; essa dà luogo ad un’irrilevante ricognizione della servitù proveniente dalla proprietaria del fondo dominante, del tutto priva di una funzione sostanziale idonea a supplire alla mancanza genetica del titolo costitutivo della servitù stessa, da porre a carico del fondo di un terzo non partecipe al contratto”.

© massimo ginesi 4 settembre 2017 

assegnazione posti auto: poteri dell’assemblea e negozio di accertamento.

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  31 agosto 2017 n. 20612 rel. Scarpa) affronta un tema assai complesso e di grande rilievo pratico in tema di assegnazione dei posti auto e dei conseguenti poteri dell’assemblea.

La corte osserva, in sintesi, che

  • è potere dell’assemblea regolamentare gli spazi esterni a parcheggio ma che lo stesso organo non ha titolo ad incidere sui diritti dei singoli,
  • l’area cortilizia esterna si presume comune ex art. 1117 cod.civ. salvo che il contrario risulti dal titolo e che è onere che incombe a chi avanzi pretese  esclusive su quell’area provare il proprio diritto,
  • nel giudizio di impugnazione di delibera, che si assume abbia violato quei diritti, l’accertamento svolto sulla loro esistenza ha mero carattere incidentale e strumentale ed è inidoneo a formare giudicato sul punto, posto che legittimato passivo nella impugnazione è l’amministratore del condominio mentre la domanda di accertamento del proprio diritto deve essere svolta nel contraddittorio di tutti i condomini
  • il negozio di mero accertamento  è inidoneo – in assenza di titolo traslativo – a vincere la presunzione di condominialità del bene ex art. 1117 cod.civ. e – tanto meno – può riconoscersi natura di negozio di accertamento alla delibera adottata a maggioranza, poiché il negozio ricognitivo deve vedere l’accordo di tutti gli aventi titolo.
  • la sentenza passata in giudicato che abbia – in sede di impugnativa di delibera – statuito incidentalmente sulla estensione dei diritti dei singoli, al solo fine di accertare la nullità della deliberazione, è inidonea a fare stato sulla esistenza di quei diritti.
  • la mera indicazione contenuta nella tabella millesimale di un bene quale proprietà esclusiva di un condomino non costituisce titolo idoneo a vincere la presunzione di condominialità prevista dall’art. 1117 cod.civ.

Attesa la complessità dei temi e l’interesse e puntualità degli argomenti resi dalla suprema Corte, è comunque opportuno esaminare il testo della pronuncia  per esteso, almeno con riguardo ai punti salienti.

I fatti e il processo: “La Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello formulato da RB., A.P. A. e L. A. contro la sentenza n. 21405/2007 del Tribunale di Roma, la quale aveva rigettato l’impugnazione per nullità o annullabilità, dovuta ad eccesso di potere, della deliberazione assembleare del Condominio di via G. D. 7, Roma, del 27 ottobre 2004, che aveva deciso di “assegnare nei cortili una autovettura per condomino, senza assegnazione specifica in modo precario e senza recare pregiudizio e/o intralcio ai proprietari dei box, ponendo tutti i condomini in condizione di esercitare la facoltà concessa dandone esecuzione”. Gli attori avevano sostenuto che tale delibera ledesse il loro diritto di proprietà e di uso esclusivo delle rampe carrabili che conducevano ai box, diritto già accertato da precedenti sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello di Roma, nonché riconosciuto da un’anteriore deliberazione dell’assemblea del Condominio di via G. D. 7, approvata il 5 dicembre 1990 da otto condomini, e perciò in assenza dei soli due proprietari dei box, e da qualificare come negozio di accertamento.”

I principi di diritto affermati dal giudice di legittimità:

DELIBERA E NEGOZIO DI ACCERTAMENTO –  “Questa Corte, invero, ha più volte ribadito che la delibera dell’assemblea condominiale che assegna i singoli posti auto ricavati nell’area cortiliva comune, senza però attribuire agli assegnatari il possesso esclusivo della porzione loro assegnata, è validamente approvata a maggioranza, non essendo all’uopo necessaria l’unanimità dei consensi, in quanto essa disciplina le modalità di uso del bene comune, e si limita a renderne più ordinato e razionale il godimento paritario (Cass. Sez. 2, 31/03/2015, n. 6573; Cass. Sez. 2, 19/07/2012, n. 12485; Cass. Sez. 2, 15/06/2012, n. 9877; Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1004).

Diversamente, peraltro, l’assemblea di condominio non può adottare delibere che, nel predeterminare ed assegnare le aree destinate a parcheggio delle automobili, incidano sui diritti individuali di proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, dovendosi tali delibere qualificare nulle (Cass. Sez. U, 07/03/2005, n. 4806).

Deve ulteriormente partirsi dalla premessa (ancora di recente ribadita dalla giurisprudenza di questa Corte: Cass. Sez. 6 – 2, 08/03/2017, n. 5831) che l’area esterna di un edificio condominiale, della quale manchi un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio e sia stato omesso qualsiasi riferimento nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, va ritenuta di presunta natura condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Sicchè, il condomino che impugni una deliberazione dell’assemblea, la quale abbia individuato ed assegnato gli spazi da adibire a parcheggio delle autovetture condominiali, deducendo che tale assegnazione abbia comportato un’indebita ingerenza in aree del cortile antistante il fabbricato di sua proprietà esclusiva, deve dimostrarne il relativo titolo costitutivo, in modo da superare la presunzione di attribuzione di cui all’art. 1117 c.c.

Poiché, però, la legittimazione passiva nelle cause promosse da uno dei condomini per impugnare le deliberazioni assembleari spetta all’amministratore del condominio (rientrando il compito di difendere la validità delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini nel compito di eseguire le stesse, ex art. 1130, n. 1, c.c., per il cui espletamento nel successivo art. 1131 è riconosciuta all’aministratore la rappresentanza in giudizio del condominio), va sempre considerato che esula dai limiti della legittimazione passiva dell’amministratore medesimo una domanda che sia volta ad ottenere l’accertamento della proprietà esclusiva di un singolo su un bene altrimenti compreso fra le parti comuni ex art. 1117 c.c., imponendo una tale domanda il contraddittorio processuale di tutti i restanti condomini (cfr. da ultimo Cass. Sez. 6 – 2, 15/03/2017, n. 6649).

Ne consegue che, nel giudizio di impugnazione di deliberazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1137 c.c., per il quale all’amministratore di condominio spetta la legittimazione passiva, l’eventuale allegazione della proprietà esclusiva di un bene, sul quale l’impugnata delibera abbia inciso, può essere oggetto di accertamento di carattere meramente incidentale, funzionale alla decisione della causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli.

Ora, il primo ed il secondo motivo del ricorso di R. B. ed il primo ed il secondo motivo del ricorso di A.P. A. e L. A. intendono che, a dimostrazione della loro proprietà esclusiva sulle rampe di accesso ai garages, si prestasse la delibera del Condominio di via G. D.7 adottata in data 5 dicembre 1990, valendo questa quale negozio di accertamento o come confessione, facente prova legale.

Tali censure sono infondate per le seguenti ragioni. L’art. 1117 c.c. attribuisce ai titolari delle singole unità immobiliari dell’edificio la comproprietà di beni, impianti e servizi – indicati espressamente o per relationem – in estrinsecazione del principio “accessorium sequitur principale”, per propagazione ad essi dell’effetto del trasferimento delle proprietà solitarie, sul presupposto del collegamento strumentale, materiale o funzionale, con queste, se manca o non dispone diversamente il relativo titolo traslativo (cfr. ad esempio, Cass. Sez. 2, 15/06/1998, n. 5948).

Secondo principi generali, ai fini dell’acquisto a titolo derivativo della proprietà di un bene immobile, non è mai da ritenersi idoneo un negozio di mero accertamento, il quale può eliminare incertezze sulla situazione giuridica, ma non sostituire il titolo costitutivo, essendo necessario, invece, un contratto con forma scritta dal quale risulti la volontà attuale delle parti di determinare l’effetto traslativo, sicché è pure irrilevante che una delle parti, anche in forma scritta, faccia riferimento ad un precedente rapporto qualora questo non sia documentato (Cass. Sez. 2, 11/04/2016, n. 7055; Cass. Sez. 3, 18/06/2003, n. 9687).

Ciò significa che, già in astratto, un negozio di accertamento non può rilevare come titolo traslativo contrario all’operatività della presunzione di condominio ex art. 1117 c.c.  E’ poi in ogni caso da negare che la deliberazione 5 dicembre 1990 del Condominio di via G.D. 7 possa valere come negozio di accertamento o come confessione stragiudiziale.

Una deliberazione dell’assemblea dei condomini non può accertare l’estensione dei diritti di proprietà esclusiva dei singoli in deroga alla presunzione di condominialità delle parti comuni posta dall’art. 1117 c.c., ciò richiedendo l’accordo di tutti i condomini (come ha spiegato pure la Corte d’Appello di Roma, rilevando l’assenza di alcuni partecipanti alla riunione del 5 dicembre 1990).

Questa Corte ha proprio affermato che non rientra nei poteri dell’assemblea condominiale la deliberazione che determini a maggioranza l’ambito dei beni comuni e delle proprietà esclusive, potendo ciascun condomino interessato far valere la conseguente nullità senza essere tenuto all’osservanza del termine di decadenza di cui all’art. 1137 c.c. (Cass. Sez. 2, 20/03/2015, n. 5657).

Né la dichiarazione di scienza contenuta in un verbale di assemblea condominiale, qualora comporti, come si assume nel caso di specie, il riconoscimento della proprietà esclusiva di alcuni beni in favore di determinati condomini, può avere l’efficacia di una confessione stragiudiziale, quanto meno attribuibile ai condomini presenti all’assemblea, non rientrando, ai sensi dell’art. 1135 c.c., nei poteri dell’assemblea, come visto, quello di stabilire l’estensione dei beni comuni e delle proprietà esclusive (Cass. Sez. 2, 09/11/2009, n. 23687).

IL REGOLAMENTO DI CONDOMINIO – “Il quinto motivo del ricorso di R.B. e il terzo motivo del ricorso censurano poi l’interpretazione degli artt. 1 e 6, lett. E, del regolamento condominiale, fatta dalla Corte d’Appello, potendosi da tali clausole trarre la prova, a dire dei ricorrenti, della loro proprietà delle rampe carrabili.

Ora, questa Corte ha spesso affermato in passato che il regolamento di condominio, che, come nella specie, individui i beni comuni ai fini della ripartizione delle spese tra i condomini, o includa un bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un condomino, non costituisce un titolo di proprietà, agli effetti dell’art. 1117 c.c. (Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012; Cass. Sez. 3, 13/03/2009, n. 6175; Cass. Sez. 2, 23/08/2007, n. 17928; Cass. Sez. 2, 18/04/2002, n. 5633).

IL GIUDICATO DERIVANTE DA PRECEDENTI SENTENZE  – Il sesto motivo del ricorso di R. B. adduce che la deliberazione assembleare del 27 ottobre 1994 contrastasse col giudicato contenuto nelle sentenze n. 3425/2004 della Corte d’Appello di Roma e n. 8309/2001 del Tribunale di Roma, che, in relazione ad un precedente giudizio di impugnazione ex art. 1137 c.c., avevano accertato i diritti reali esclusivi spettanti ai titolari dei box.

Al riguardo, la Corte d’Appello ha tuttavia evidenziato come queste sentenze, nel rigettare l’impugnazione avanzata dalla Società I. E. L. contro la deliberazione assembleare del 28 luglio 1999, non avevano accertato con efficacia di giudicato i presunti diritti reali spettanti in via esclusiva ai titolari dei box, ma solo verificato la compatibilità del contenuto di quella delibera con i diritti vantati dalla società.

Questa interpretazione è corretta, in quanto, come già affermato in precedenza, la sentenza resa all’esito di un giudizio di impugnazione di una deliberazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1137 c.c., svoltosi nei confronti dell’amministratore di condominio, può contenere un’accertamento meramente incidentale in ordine alla sussistenza, o meno, della proprietà esclusiva di un bene, sul quale l’impugnata delibera abbia inciso, senza rivestire efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli, in quanto enunciazione soltanto strumentale alla decisione sulla validità della delibera.

Può pure aggiungersi che se le sentenze n. 3425/2004 della Corte d’Appello di Roma e n. 8309/2001 del Tribunale di Roma, rivestissero quell’autorità di giudicato sulla proprietà delle rampe che il B. vi scorge, non avrebbe senso la proposizione di nuovo giudizio tendente ad un identico accertamento, giudizio culminato nella sentenza di primo grado del 19 maggio 2011, sulla quale si fondano poi il terzo ed il quarto motivo di ricorso.”

© massimo ginesi 1 settembre 2017