non occorre preventiva messa in mora per la richiesta di decreto ingiuntivo.

E’ di certo un principio pacifico che il condomino sia tenuto al pagamento delle quote alla scadenza, che si tratti di c.d. mora ex re e che sia facoltà dell’amministratore agire anche ex art. 63 disp.att. cod.civ. per ottenere decreto ingiuntivo semplicemente al verificarsi dell’inadempimento (la riforma del 2012 ha poi introdotto l’obbligo dell’amministratore di attivarsi per la riscossione delle quote entro 6 mesi dalla chiusura dell’esercizio) .

Eppure presso diversi uffici del giudice di pace accade che alla richiesta di decreto ingiuntivo si pretenda la produzione del preventivo sollecito o che il condomino ingiunto si dolga di non essere stato preventivamente avvisato.

La cassazione (Cass.civ. sez. II  ord. 14 settembre 2017 n. 21313) ha ribadito che l’amministratore può agire direttamente alla scadenza delle quote dinanzi al giudice, senza necessità di alcun preventivo sollecito:

 

La sentenza contiene altre diverse interessanti statuizioni, poiché il litigioso condomino opponente  ha avanzato una serie di censure decisamente fantasiose.

Il Giudice di legittimità  sottolinea ancora un volta che le norme in tema di legittimazione processuale dell’amministratore prevedono autonomia dell’amministratore per le materie previste dall’art. 1130 cod.civ., atteso che il sistema non deve essere improntato ad un iperassemblearismo che condizioni ogni azione

La Corte, ancora una volta, delinea con precisione l’ambito applicativo della nota decisione delle Sezioni Unite del 2010

Curioso infine che l’opponente si dolga della illegittimità del decreto in quanto emesso dal Presidente del Tribunale, censura decisamente respinta dalla Cassazione che rileva che tale organo ben può provvedere – in quanto componente del Tribunale – assegnando il fascicolo a se stesso quale giudice monocratico.

La sentenza sottolinea infine l’inopponibilità al condominio dell’eventuale accordo di rateizzazione raggiunto con l’amministratore (punto su cui il giudice di merito non aveva ammesso la prova testimoniale).

© massimo ginesi 15 settembre 2017 

scrivere all’amministratore che è un mentecatto può essere diffamazione.

la vicenda trae origine da una lettera inviata da un tecnico all’amministratore di una multiproprità, in cui costui  appellava come  “mentecatto” il destinatario, rivendicando onorari che l’offeso riteneva non dovuti.

Va rilevato che l’ingiuria, ai sensi del Dlgs 7/2016, è stata depenalizzata ed è divenuta  illecito con sanzione amministrativa, mentre la diffamazione mantiene rilevanza penale.

La Corte di Cassazione penale, V sez., con sentenza 15 marzo 2016 n. 18919 ha affermato che nel caso «l’offesa sia contenuta in una missiva diretta ad una pluralità di destinatari, oltre l’offeso, non può considerarsi concretata la fattispecie dell’ingiuria aggravata dalla presenza di altre persone, proprio per la non contestualità del recepimento delle offese medesime per la conseguente maggiore diffusione delle stesse».

La Corte sottolinea che deve ritenersi sussistente il reato di diffamazione poiché  la lettera era stata indirizzata ad un soggetto senza la certezza che quel soggetto fosse ancora l’amministratore del Condominio, inviata a costui impersonalmente e senza la dicitura “personale riservata” e, quindi, «nella piena consapevolezza che la stessa poteva essere posta a conoscenza anche di altre persone e che comunque sarebbe stata protocollata agli atti dell’amministrazione a disposizione di chiunque vi potesse accedere» (Cassazione, sentenza 18919/2016).

Sulla diffamazione in condominio la Suprema Corte si è già espressa in diverse occasioni: è stato ritenuto responsabile di diffamazione l’amministratore che aveva riportato in una lettera diretta a tutti i condomini espressioni ingiuriose pronunciate durante l’assemblea nei confronti di due condomini. (Cass. Pen.  n. 44387/2015); è stato ritenuto penalmente illecito anche l’aver affisso nel portone del condominio i nominativi dei morosi perché «non vi è alcun interesse da parte di terzi alla conoscenza di quei fatti, anche se veri» (Cass. Pen. n. 39986/2014).

qui la sentenza del 2016

© massimo ginesi giugno 2016