il condomino che cede la propria unità non può escludere dal trasferimento le parti comuni.

Lo ha stabilito la Cassazione (Cass.civ. sez. II 21/08/2017,  n. 20216), esaminando una ipotesi in cui alcuni condomini avevano venduto la propria unità immobiliare, inserendo nell’atto la clausola che escludeva il cortile condominiale dal trasferimento.

Secondo la Corte di Appello di Firenze “ posto che il cortile in questione era pacificamente di proprietà del Condominio (OMISSIS), doveva ritenersi nulla e inopponibile agli altri condomini la clausola di riserva con cui essi, nel trasferire la proprietà di un appartamento a terzi, si erano riservati la comproprietà del cortile sia perchè gli altri condomini non avevano partecipato all’atto sia perchè le proprietà comuni non sono scindibili dalle proprietà condominiali cui accedono. Non avendo dunque gli attori appellanti provato l’esistenza di un valido titolo di comproprietà del resede, la loro pretesa, secondo la Corte di merito, non meritava accoglimento.”

La Corte di legittimità conferma la lettura del giudice di merito: Non è nuova la questione di diritto che il Collegio è chiamato ad affrontare (validità, negli atti di trasferimento di singole unità immobiliari facenti parte di un condominio, della clausola di esclusione dalla vendita di alcune parti comuni dell’edificio condominiale).

La Corte, infatti, si è già espressa sulla questione pervenendo alla conclusione che la clausola, contenuta nel contratto di vendita di un’unità immobiliare di un condominio, con la quale viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni, è nulla, poichè con essa si intende attuare la rinuncia di un condomino alle predette parti, vietata dal capoverso dell’art. 1118 cod. civ. (v. tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 1680 del 29/01/2015 Rv. 634967; Sez. 2, Sentenza n. 6036 del 29/05/1995 Rv. 492556; Sez. 2, Sentenza n. 3309 del 25/07/1977 Rv. 386857). Si è aggiunto in proposito che se si considerasse valida la vendita che escluda un diritto condominiale, si inciderebbe sulle quote millesimali, in violazione dell’art. 1118 c.c., comma 1. (Sez. 2, Sentenza n. 1680/2015 in motivazione).”

© massimo ginesi 26 settembre 2017

locazione: la registrazione tardiva del contratto sana la nullità.

La giurisprudenza ha anche di recente affermato che la registrazione costituisce presupposto di validità del contratto e che, in sua assenza, la pattuizione è nulla e improduttiva di effetti.

Oggi ritorna sul tema, chiarendo che  se le parti procedono ad un registrazione  tardiva, l’adempimento è idoneo a sanare il vizio.

 Cass.civ. sez. VI 6 settembre 2017 n. 20858 afferma che  “il giudice di primo grado aveva ritenuto nullo il contratto di locazione originariamente stipulato dalle parti, in quanto non registrato, affermando che la registrazione operata dal conduttore nel 2014 non era ad esso riferibile, ma ad un diverso contratto, a sua volta nullo per difetto di forma scritta.

La corte di appello – in accoglimento peraltro del gravame dello stesso L. – lo ha, al contrario, espressamente considerato valido, dichiarando nulla (in quanto simulata) solo la clausola relativa alla sua transitorietà.

Ha di conseguenza accertato la sussistenza di una ‘locazione abitativa ordinaria’ con decorrenza dal 1 dicembre 2007 (e scadenza al 30 novembre 2015), avendo escluso la stipulazione di un diverso successivo contratto verbale, e avendo ritenuto configurabile un ‘contratto unico, pur non registrato (se non successivamente, nel gennaio 2014, subito dopo l’introduzione del presente giudizio) all’epoca’.

Ha cioè (implicitamente, ma inequivocabilmente) ritenuto che la registrazione tardiva del contratto di locazione originariamente stipulato dalle parti non fosse di ostacolo all’accertamento della sua validità.

Sotto questo aspetto, la decisione è conforme al recente indirizzo di questa Corte (specificamente riferito alle locazioni per uso commerciale, ma in base ad un principio valido anche in relazione a quelle per uso abitativo) secondo cui ‘in tema di locazione immobiliare (nella specie per uso non abitativo), la mancata registrazione del contratto determina, ai sensi dell’art. 1, comma 346, della legge n. 311 del 2004, una nullità per violazione di norme imperative ex art. 1418 c.c., la quale, in ragione della sua atipicità, desumibile dal complessivo impianto normativo in materia ed in particolare dalla espressa previsione di forme di sanatoria nella legislazione succedutasi nel tempo e dall’istituto del ravvedimento operoso, risulta sanata con effetti ‘ex tunc’ dalla tardiva registrazione del contratto stesso, implicitamente ammessa dalla normativa tributaria, coerentemente con l’esigenza di contrastare l’evasione fiscale e, nel contempo, di mantenere stabili gli effetti negoziali voluti dalle parti, nonché con il superamento del tradizionale principio di non interferenza della normativa tributarla con gli effetti civilistici del contratto, progressivamente affermatosi a partire dal 1998′ (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 10498 del 28/04/2017, Rv. 644006 – 01).

È opportuno sottolineare che, secondo quanto espressamente precisato nella decisione appena richiamata, quella della nullità del contratto non registrato costituisce fattispecie differente rispetto a quella (presa in considerazione dalla sentenza di questa Corte a Sezioni Unite n. 18213 del 17/09/2015, Rv. 636471 – 01) che si determina in caso di pattuizioni volte a determinare un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, laddove sussista cioè tra le parti un vero e proprio accordo simulatorio in relazione all’entità del canone, onde ad essa non è comunque applicabile l’art. 13, comma 1, della legge 9 dicembre 1998 n. 431, invocato dal ricorrente, e riguardante esclusivamente tale diversa fattispecie.”

© massimo ginesi 11 settembre 2017 

assegnazione posti auto: poteri dell’assemblea e negozio di accertamento.

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  31 agosto 2017 n. 20612 rel. Scarpa) affronta un tema assai complesso e di grande rilievo pratico in tema di assegnazione dei posti auto e dei conseguenti poteri dell’assemblea.

La corte osserva, in sintesi, che

  • è potere dell’assemblea regolamentare gli spazi esterni a parcheggio ma che lo stesso organo non ha titolo ad incidere sui diritti dei singoli,
  • l’area cortilizia esterna si presume comune ex art. 1117 cod.civ. salvo che il contrario risulti dal titolo e che è onere che incombe a chi avanzi pretese  esclusive su quell’area provare il proprio diritto,
  • nel giudizio di impugnazione di delibera, che si assume abbia violato quei diritti, l’accertamento svolto sulla loro esistenza ha mero carattere incidentale e strumentale ed è inidoneo a formare giudicato sul punto, posto che legittimato passivo nella impugnazione è l’amministratore del condominio mentre la domanda di accertamento del proprio diritto deve essere svolta nel contraddittorio di tutti i condomini
  • il negozio di mero accertamento  è inidoneo – in assenza di titolo traslativo – a vincere la presunzione di condominialità del bene ex art. 1117 cod.civ. e – tanto meno – può riconoscersi natura di negozio di accertamento alla delibera adottata a maggioranza, poiché il negozio ricognitivo deve vedere l’accordo di tutti gli aventi titolo.
  • la sentenza passata in giudicato che abbia – in sede di impugnativa di delibera – statuito incidentalmente sulla estensione dei diritti dei singoli, al solo fine di accertare la nullità della deliberazione, è inidonea a fare stato sulla esistenza di quei diritti.
  • la mera indicazione contenuta nella tabella millesimale di un bene quale proprietà esclusiva di un condomino non costituisce titolo idoneo a vincere la presunzione di condominialità prevista dall’art. 1117 cod.civ.

Attesa la complessità dei temi e l’interesse e puntualità degli argomenti resi dalla suprema Corte, è comunque opportuno esaminare il testo della pronuncia  per esteso, almeno con riguardo ai punti salienti.

I fatti e il processo: “La Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello formulato da RB., A.P. A. e L. A. contro la sentenza n. 21405/2007 del Tribunale di Roma, la quale aveva rigettato l’impugnazione per nullità o annullabilità, dovuta ad eccesso di potere, della deliberazione assembleare del Condominio di via G. D. 7, Roma, del 27 ottobre 2004, che aveva deciso di “assegnare nei cortili una autovettura per condomino, senza assegnazione specifica in modo precario e senza recare pregiudizio e/o intralcio ai proprietari dei box, ponendo tutti i condomini in condizione di esercitare la facoltà concessa dandone esecuzione”. Gli attori avevano sostenuto che tale delibera ledesse il loro diritto di proprietà e di uso esclusivo delle rampe carrabili che conducevano ai box, diritto già accertato da precedenti sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello di Roma, nonché riconosciuto da un’anteriore deliberazione dell’assemblea del Condominio di via G. D. 7, approvata il 5 dicembre 1990 da otto condomini, e perciò in assenza dei soli due proprietari dei box, e da qualificare come negozio di accertamento.”

I principi di diritto affermati dal giudice di legittimità:

DELIBERA E NEGOZIO DI ACCERTAMENTO –  “Questa Corte, invero, ha più volte ribadito che la delibera dell’assemblea condominiale che assegna i singoli posti auto ricavati nell’area cortiliva comune, senza però attribuire agli assegnatari il possesso esclusivo della porzione loro assegnata, è validamente approvata a maggioranza, non essendo all’uopo necessaria l’unanimità dei consensi, in quanto essa disciplina le modalità di uso del bene comune, e si limita a renderne più ordinato e razionale il godimento paritario (Cass. Sez. 2, 31/03/2015, n. 6573; Cass. Sez. 2, 19/07/2012, n. 12485; Cass. Sez. 2, 15/06/2012, n. 9877; Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1004).

Diversamente, peraltro, l’assemblea di condominio non può adottare delibere che, nel predeterminare ed assegnare le aree destinate a parcheggio delle automobili, incidano sui diritti individuali di proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, dovendosi tali delibere qualificare nulle (Cass. Sez. U, 07/03/2005, n. 4806).

Deve ulteriormente partirsi dalla premessa (ancora di recente ribadita dalla giurisprudenza di questa Corte: Cass. Sez. 6 – 2, 08/03/2017, n. 5831) che l’area esterna di un edificio condominiale, della quale manchi un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio e sia stato omesso qualsiasi riferimento nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, va ritenuta di presunta natura condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Sicchè, il condomino che impugni una deliberazione dell’assemblea, la quale abbia individuato ed assegnato gli spazi da adibire a parcheggio delle autovetture condominiali, deducendo che tale assegnazione abbia comportato un’indebita ingerenza in aree del cortile antistante il fabbricato di sua proprietà esclusiva, deve dimostrarne il relativo titolo costitutivo, in modo da superare la presunzione di attribuzione di cui all’art. 1117 c.c.

Poiché, però, la legittimazione passiva nelle cause promosse da uno dei condomini per impugnare le deliberazioni assembleari spetta all’amministratore del condominio (rientrando il compito di difendere la validità delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini nel compito di eseguire le stesse, ex art. 1130, n. 1, c.c., per il cui espletamento nel successivo art. 1131 è riconosciuta all’aministratore la rappresentanza in giudizio del condominio), va sempre considerato che esula dai limiti della legittimazione passiva dell’amministratore medesimo una domanda che sia volta ad ottenere l’accertamento della proprietà esclusiva di un singolo su un bene altrimenti compreso fra le parti comuni ex art. 1117 c.c., imponendo una tale domanda il contraddittorio processuale di tutti i restanti condomini (cfr. da ultimo Cass. Sez. 6 – 2, 15/03/2017, n. 6649).

Ne consegue che, nel giudizio di impugnazione di deliberazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1137 c.c., per il quale all’amministratore di condominio spetta la legittimazione passiva, l’eventuale allegazione della proprietà esclusiva di un bene, sul quale l’impugnata delibera abbia inciso, può essere oggetto di accertamento di carattere meramente incidentale, funzionale alla decisione della causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli.

Ora, il primo ed il secondo motivo del ricorso di R. B. ed il primo ed il secondo motivo del ricorso di A.P. A. e L. A. intendono che, a dimostrazione della loro proprietà esclusiva sulle rampe di accesso ai garages, si prestasse la delibera del Condominio di via G. D.7 adottata in data 5 dicembre 1990, valendo questa quale negozio di accertamento o come confessione, facente prova legale.

Tali censure sono infondate per le seguenti ragioni. L’art. 1117 c.c. attribuisce ai titolari delle singole unità immobiliari dell’edificio la comproprietà di beni, impianti e servizi – indicati espressamente o per relationem – in estrinsecazione del principio “accessorium sequitur principale”, per propagazione ad essi dell’effetto del trasferimento delle proprietà solitarie, sul presupposto del collegamento strumentale, materiale o funzionale, con queste, se manca o non dispone diversamente il relativo titolo traslativo (cfr. ad esempio, Cass. Sez. 2, 15/06/1998, n. 5948).

Secondo principi generali, ai fini dell’acquisto a titolo derivativo della proprietà di un bene immobile, non è mai da ritenersi idoneo un negozio di mero accertamento, il quale può eliminare incertezze sulla situazione giuridica, ma non sostituire il titolo costitutivo, essendo necessario, invece, un contratto con forma scritta dal quale risulti la volontà attuale delle parti di determinare l’effetto traslativo, sicché è pure irrilevante che una delle parti, anche in forma scritta, faccia riferimento ad un precedente rapporto qualora questo non sia documentato (Cass. Sez. 2, 11/04/2016, n. 7055; Cass. Sez. 3, 18/06/2003, n. 9687).

Ciò significa che, già in astratto, un negozio di accertamento non può rilevare come titolo traslativo contrario all’operatività della presunzione di condominio ex art. 1117 c.c.  E’ poi in ogni caso da negare che la deliberazione 5 dicembre 1990 del Condominio di via G.D. 7 possa valere come negozio di accertamento o come confessione stragiudiziale.

Una deliberazione dell’assemblea dei condomini non può accertare l’estensione dei diritti di proprietà esclusiva dei singoli in deroga alla presunzione di condominialità delle parti comuni posta dall’art. 1117 c.c., ciò richiedendo l’accordo di tutti i condomini (come ha spiegato pure la Corte d’Appello di Roma, rilevando l’assenza di alcuni partecipanti alla riunione del 5 dicembre 1990).

Questa Corte ha proprio affermato che non rientra nei poteri dell’assemblea condominiale la deliberazione che determini a maggioranza l’ambito dei beni comuni e delle proprietà esclusive, potendo ciascun condomino interessato far valere la conseguente nullità senza essere tenuto all’osservanza del termine di decadenza di cui all’art. 1137 c.c. (Cass. Sez. 2, 20/03/2015, n. 5657).

Né la dichiarazione di scienza contenuta in un verbale di assemblea condominiale, qualora comporti, come si assume nel caso di specie, il riconoscimento della proprietà esclusiva di alcuni beni in favore di determinati condomini, può avere l’efficacia di una confessione stragiudiziale, quanto meno attribuibile ai condomini presenti all’assemblea, non rientrando, ai sensi dell’art. 1135 c.c., nei poteri dell’assemblea, come visto, quello di stabilire l’estensione dei beni comuni e delle proprietà esclusive (Cass. Sez. 2, 09/11/2009, n. 23687).

IL REGOLAMENTO DI CONDOMINIO – “Il quinto motivo del ricorso di R.B. e il terzo motivo del ricorso censurano poi l’interpretazione degli artt. 1 e 6, lett. E, del regolamento condominiale, fatta dalla Corte d’Appello, potendosi da tali clausole trarre la prova, a dire dei ricorrenti, della loro proprietà delle rampe carrabili.

Ora, questa Corte ha spesso affermato in passato che il regolamento di condominio, che, come nella specie, individui i beni comuni ai fini della ripartizione delle spese tra i condomini, o includa un bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un condomino, non costituisce un titolo di proprietà, agli effetti dell’art. 1117 c.c. (Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012; Cass. Sez. 3, 13/03/2009, n. 6175; Cass. Sez. 2, 23/08/2007, n. 17928; Cass. Sez. 2, 18/04/2002, n. 5633).

IL GIUDICATO DERIVANTE DA PRECEDENTI SENTENZE  – Il sesto motivo del ricorso di R. B. adduce che la deliberazione assembleare del 27 ottobre 1994 contrastasse col giudicato contenuto nelle sentenze n. 3425/2004 della Corte d’Appello di Roma e n. 8309/2001 del Tribunale di Roma, che, in relazione ad un precedente giudizio di impugnazione ex art. 1137 c.c., avevano accertato i diritti reali esclusivi spettanti ai titolari dei box.

Al riguardo, la Corte d’Appello ha tuttavia evidenziato come queste sentenze, nel rigettare l’impugnazione avanzata dalla Società I. E. L. contro la deliberazione assembleare del 28 luglio 1999, non avevano accertato con efficacia di giudicato i presunti diritti reali spettanti in via esclusiva ai titolari dei box, ma solo verificato la compatibilità del contenuto di quella delibera con i diritti vantati dalla società.

Questa interpretazione è corretta, in quanto, come già affermato in precedenza, la sentenza resa all’esito di un giudizio di impugnazione di una deliberazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1137 c.c., svoltosi nei confronti dell’amministratore di condominio, può contenere un’accertamento meramente incidentale in ordine alla sussistenza, o meno, della proprietà esclusiva di un bene, sul quale l’impugnata delibera abbia inciso, senza rivestire efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli, in quanto enunciazione soltanto strumentale alla decisione sulla validità della delibera.

Può pure aggiungersi che se le sentenze n. 3425/2004 della Corte d’Appello di Roma e n. 8309/2001 del Tribunale di Roma, rivestissero quell’autorità di giudicato sulla proprietà delle rampe che il B. vi scorge, non avrebbe senso la proposizione di nuovo giudizio tendente ad un identico accertamento, giudizio culminato nella sentenza di primo grado del 19 maggio 2011, sulla quale si fondano poi il terzo ed il quarto motivo di ricorso.”

© massimo ginesi 1 settembre 2017 

 

tabelle millesimali, riscaldamento e maggioranze

Cass.civ. sez. II  4 agosto 2017 n. 19651 rel. Scarpa

Tabelle riscaldamento, nulla la deroga …idiano del Condominio – Il Sole 24 Ore

TabelleRiscaldamentoSentenza19651an

una sentenza estiva di grande rilievo ed interesse

© massimo ginesi 9 agosto 2017 

opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, una sentenza interessante

Cass.civ. sez. II  28 giugno 2017, n. 16211 affronta con pragmatismo e rigore interpretativo una questione interessante, che coinvolge le notifiche effettuate in proprio dal difensore.

La legge 53/1994 consente all’avvocato  di procedere in via autonoma alla notifica degli atti giudiziari a mezzo posta – dunque senza ricorrere all’ufficiale giudiziario – provvedendo alla spedizione del plico mediante raccomandata ed annotando in apposito registro cronologico i dati relativi all’inoltro, peraltro con una puntigliosità e una burocraticità borboniche (va annotato numero della raccomandata, costo, numero dell’ufficio postale di spedizione diversi altri dati).

Nel caso di specie un soggetto, nei cui confronti la spedizione era stata effettuata correttamente, seppur con qualche imprecisione nella registrazione di tali dati, e per il quale – in suo assenza – il plico aveva effettuato regolare compiuta giacenza, pretende di proporre opposizione tardiva al decreto ingiuntivo oggetto della notificazione, adducendo irregolarità formali della notifica e la circostanza che sia stato molto tempo lontano dalla propria abitazione per problemi familiari documentati in giudizio.

La Corte afferma due principi netti:

a) può essere ammesso ad opposizione tardiva solo chi dimostri che dalla irregolarità della notifica sia derivata per il destinatario l’impossibilità di conoscere tempestivamente l’atto, non rilevando la mera irregolarità formale ove la notifica abbia raggiunto lo scopo

b) colui che si assenta per lunghi periodi da casa ha l’onere di curare il ritiro della posta o di organizzare metodi alternativi che gli consentano di essere raggiunto dal servizio, senza che possa addossare al mittente – in difetto – le conseguenze della sua assenza.

La Corte ha rilevato due errori del procedimento notificatorio: la mancanza del numero cronologico dell’atto sul registro del professionista e dell’ufficio giudiziario (tribunale di Sassari che aveva emesso il provvedimento). Ha però osservato che tali vizi non potevano determinare la mancata conoscenza e non erano quindi rilevanti ex art. 650 c.p.c…

non ogni irregolarità – quali quelle appena descritte – rileva per giustificare l’opposizione tardiva, ma solo quelle decisive per impedire la conoscenza della notificazione. Ciò non può certo dirsi né quanto alla tenuta del registro notifiche del mittente, né quanto alla modulistica degli avvisi di ricevimento, posto che questi ultimi non furono ritirati.

Era quindi stato assolto l’onere della notifica ed era conseguente onere del destinatario dimostrare sia i vizi di nullità sia che da essi fosse dipesa la mancata conoscenza della notificazione e la mancata opposizione…

chi si assenta per lunghi periodi dalla propria residenza e non effettui la modifica anagrafica conoscibile ai terzi ha l’onere di provvedere al ritiro della corrispondenza, organizzandone l’inoltro o tramite servizi di posta o tramite soggetti incaricati, dall’altro perché privi di riscontro.”

conclude dunque la Corte che “Ed è vero anche che il regime delle nullità delle notificazioni è stato rivisitato da Cass. SU 14916/16 in senso opposto a quanto dedotto in ricorso circa l’insanabilità di ogni vizio formale e sostanziale…

Orbene, le irregolarità – tutte formali – non incidono sulla mancata conoscenza; l’assenza protratta nel tempo non eliminava l’obbligo imposto dal dovere di comportarsi secondo l’ordinaria diligenza nel presidiare la residenza anagrafica conoscibile dai terzi.”

© massimo ginesi 4 luglio 2017

le notificazioni effettuate tramite posta privata sono nulle

Qualora la legge richieda che una comunicazione o notificazione sia effettuata mediante posta raccomandata, tale servizio può esser reso solo da poste italiane, mentre è stato ritenuto non idoneo quello  svolto da servizi di posta privata.

Per tali ragioni un creditore si è visto respingere l’opposizione alla mancata ammissione di un credito al passivo fallimentare, inviata al curatore con un servizio di posta diverso da poste italiane.

E’ quanto ha affermato Cassazione civile, sez. I, 01/06/2017,  n. 13870: “L’art. 97, comma 2 L. fall. (nel testo, qui da applicarsi, anteriore alle modifiche introdotte nel 2012), là dove prescrive che la comunicazione in questione “sia data tramite raccomandata con avviso ricevimento”, fa implicito riferimento al disposto del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, secondo cui “per esigenze di ordine pubblico, sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio universale: a) i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni; b) i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 201)”.

Fornitore del servizio universale (art. 1 D.Lgs. n. 261 cit.) è l’Ente Poste.

Ciò posto, dalla verifica (cui questa Corte può e deve procedere quando, come nella specie, è denunziato un error in procedendo) in ordine alla comunicazione in questione emerge come in effetti essa sia stata eseguita dal Curatore mediante posta privata (cfr.doc.1 fasc.opp. della ricorrente).

Ne deriva, alla stregua dell’orientamento più volte espresso sul punto da questa Corte (cfr.ex multis: Cass.n.2262 del 31/01/2013; n.2035 del 30/01/2014), che il Collegio condivide, la nullità della comunicazione, atteso che le attestazioni redatte dagli incaricati di un servizio di posta privata non sono assistite dalla funzione probatoria che il già richiamato D.Lgs. n. 261 ricollega alla nozione di “invii raccomandati”. Sì che, in mancanza di valida prova in ordine alla data di decorrenza iniziale -corrispondente a quella di consegna della comunicazione-, il termine per proporre l’opposizione non può considerarsi decorso al momento della proposizione.”

© massimo ginesi 14 giugno 2017

se non è indicato il compenso dell’amministratore si rischia la sospensione della delibera

La L. 220/2012 ha profondamente modificato la disciplina dettata dagli artt. 1129 e 1130 cod.civ., sicché oggi è previsto – a pena di nullità – che l’amministratore indichi dettagliatamente il proprio compenso all’atto dell’accettazione (art. 1129 XIV comma cod.civ.).

Le modalità con cui tale circostanza può avverarsi sono state individuate con riferimento a diverse prassi operative, purché al momento in cui si perfeziona la nomina risulti chiaramente l’entità dell’obbligazione che fa capo al condominio per la retribuzione delle attività svolte dal mandatario.

Ben potrà l’amministratore inviare un preventivo, che l’assemblea approva, ed accettare per relazione a quel documento, così come  ben potrà specificare il proprio compenso in sede di accettazione, purché quello che rappresenta uno degli elementi essenziali del contratto (l’accordo fra le parti sulla prestazione) risulti individuabile con sufficiente certezza.

E’ quanto ha sottolineato il Tribunale di Massa in una recente ordinanza, con la quale ha sospeso in via cautelare una delibera di nomina di amministratore, non risultando da alcun documento l’entità del compenso pattuito.

Il provvedimento sottolinea come sia indispensabile che sussista accettazione formale da parte dell’amministratore, come siano irrilevanti integrazioni successive del verbale  effettuate dal presidente e segretario della assemblea, essendo tali soggetti organi la cui operatività è limitata al contesto assembleare in cui sono nominati, che non sia sufficiente l’invarianza del compenso rispetto all’anno precedente in assenza di espressa comunicazione e come – ove si profili la nullità della nomina – il periculum che legittima la sospensione deve ritenersi intrinseco e senza necessità di ulteriori elementi di prova.

Osserva il giudice apuano (Trib. Massa ord. 13 aprile 2017): ” che a mente dell’art. 1129 XIV comma cod.civ. la mancata indicazione del compenso da parte dell’amministratore al momento della accettazione determina nullità della nomina.”

…che non risulta indicazione alcuna di tale compenso nel deliberato assembleare così come predisposto in sede di riunione nella compilazione manoscritta,

che non risulta prodotta dal Condominio alcuna accettazione dell’amministratore,

che non risulta prodotto dal Condominio né l’avviso di convocazione dal quale risulterebbe – a suo dire – indicato il compenso di cui avrebbe discusso l’assemblea (circostanza che avrebbe perlatro mero valore indicativo, ma non supplirebbe alla carenza di accettazione formale, oggi necessariamente presupposta dalla norma codicistica),

che la comunicazione di correzione del verbale, pacificamente predisposta e inviata ai condomini in epoca successiva alla assemblea per stessa ammissione dei convenuti e che reca date incomprensibili (20.8.2016 in intestazione, 22.6.2016 e 22.9.,2016 in calce), non pare allo stato – compatibilmente con la deliberazione sommaria della fase cautelare di sospensiva – avere rilievo integrativo del verbale, provenendo da soggetti che cessano le loro funzioni con la chiusura stessa della riunione (non avendo la figura di presidente e segretario alcuna ultrattività nel condominio rispetto alla assemblea in cui sono nominati) né può costituire accettazione ex art. 1129 cod.civ., non provenendo né essendo sottoscritta dall’amministratore

… che – comminando la norma la espressa sanzione della nullità – sia irrilevante che gli attori abbiano espresso voto favorevole (circostanza viceversa ostativa alla impugnativa ex art. 1137 cod.civ), potendo essere tale vizio fatto valer in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse

… che il periculum debba ritenersi in re ipsa, non potendosi ipotizzare una gestione da parte di soggetto la cui nomina potrebbe essere affetta da nullità, con i conseguenti riflessi sugli atti da costui posti in essere: “La delibera assembleare di nomina dell’amministratore condominiale non accompagnata dalla indicazione del compenso spettategli è illegittima e va sospesa, sussistendo tanto il requisito del fumus boni iuris (stante la chiara dizione del riformato art. 1129 cod.civ) che quello del periculum in mora (atteso che la gestione dei beni comuni non può essere affidata ad un soggetto che non sia validamente officiato dalla assemblea). Trib Roma 15.6.2016,

… che a nulla rilevi che l’amministratore già svolgesse il proprio mandato con il medesimo compenso nel precedente esercizio, atteso che la norma mira a garantire trasparenza e che è espresso onere dell’amministratore indicare il proprio emolumento sia all’atto del conferimento del mandato che dei successivi rinnovi (Trib. Milano 3.4.2016 n. 4294)”

© massimo ginesi 13 giugno 2017

brevi riflessioni in tema di obblighi formativi dell’amministratore di condominio.

Nei giorni scorsi è stato dato risalto, sulla stampa di settore e sul web, ad una sentenza del Tribunale di Padova in cui si afferma che – a mente dell’art. 71 bis disp. att.cod.civ. e del dm 140/2014 – la nomina di amministratore che non abbia adempiuto agli obblighi formativi sarebbe affetta da nullità e che tale obbligo formativo deve essere necessariamente espletato da ottobre ad ottobre di ogni anno, poichè il decreto attuativo (di una norma di attuazione…) non fa riferimento all’anno solare.

Tribunale Padova 24 marzo 2017 n. 818 afferma testualmente: “Nel decreto ministeriale n 140 del 2014, entrato in vigore il 09 ottobre 2014, si legge che l’ obbligo di formazione ha cadenza annuale e, poiché non si parla di anno solare, si deve ritenere che l’ obbligo di aggiornamento /frequentazione dei corsi vada dal 9 ottobre 2014 al 09 ottobre 2015 e di seguito per gli anni successivi; Seguendo questo meccanismo non è possibile recuperare i corsi di formazione periodica annuali essendo ogni certificato valevole per l’anno successivo.

E’ pacifico in giurisprudenza che la mancanza di frequentazione del corso rende illegittima la nomina di amministratore di Condominio nel senso che l’amministratore non potrà assumere incarichi per l’anno successivo e che la sua nomina sarebbe nulla…”

… Se da un lato può ritenersi che la nomina ad amministratore è da ritenere valida perché il Condominio convenuto ha provato la sussistenza dei requisiti dell’amministratore al momento della sua nomina, per avere frequentato il corso obbligatorio per l’anno 2014/2015 dall’altro va dichiarato che l’impugnativa da parte dell’attore con la richiesta di nullità della delibera e conseguente revoca dell’amministratore (conseguenza automatica) era legittima e giustificata proprio dal comportamento tenuto dall’ Amministratore del Condominio che non era stato in grado di fornire la prova della sussistenza dei suoi requisiti, prima della sua nomina.”

La sentenza non sembra brillare per rispondenza ai principi cardine cui devono fare capo i provvedimenti giurisdizionali, ovvero essere adeguatamente motivati.

Non sfuggirà anche al lettore meno attento che la pronuncia contiene meri postulati, privi di  alcun approfondimento critico.

Quanto alla nullità, la materia è complessa e sarà oggetto di future riflessioni su queste pagine, ma non sarà inutile notare sin d’ora  che questo Tribunale ha idee originali  sulle modalità operative della nullità: sfugge per per quali motivi i requisiti  dovrebbero esistere anteriormente alla nomina  e non al momento della stessa o, meglio ancora, della accettazione.

Sfugge, ancor più, per quale ragione –  se la nomina fosse nulla – andrebbe revocato un amministratore che mai tale sarebbe  diventato, essendo l’atto che lo ha nominato privo di alcun effetto per la pretesa nullità dello stesso.

Gioverà infine osservare che non sussiste sul punto una sola riga di motivazione sulla sussistenza stessa dei profili di nullità, evidenziati in forza di una asserita pacifica giurisprudenza di cui  il giudice si guarda bene dall’indicare gli estremi.

La riflessione più curiosa è tuttavia quella sulla decorrenza dell’obbligo di formazione da ottobre ad ottobre per tutti i secoli a venire, che rende gli amministratori un pò simili agli aironi, ai mignattai, ai piro piro boscherecci, e a tutti quei migratori che in quel periodo compiono il lungo viaggio  fra i due emisferi che la natura gli ha programmato nel DNA.

Ora, appare decisamente singolare sostenere che qualche oscuro funzionario ministeriale abbia potuto imprimere per tutti i millenni a venire analoga traccia genetica nel DNA degli amministratori di condominio  relativamente alla formazione con un semplice decreto attuativo uscito – per avventura  – in ottobre.

Si noti che che l’art. 71 bis nulla dice sull’obbligo annuale, il d.m. 140/2014 all’art.  art 5 comma 2 afferma  semplicemente  Gli obblighi formativi di aggiornamento hanno una cadenza annuale”.

Se le parole hanno un senso (e per l’interprete dovrebbero averlo a mente dell’art. 12 delle preleggi al codice civile) “cadenza annuale” vuol semplicmente significare che fra un evento formativo e l’altro non deve decorrere oltre un anno e che l’adempimento obbligatorio è parametrato, come ogni altra vicenda condominiale, ad un periodo annuale.

Il che significa, in pratica, che – a far data dalla entrata in vigore del decreto – l’amministratore aveva 365 giorni di tempo per svolgere la formazione periodica e che, ottenuta la relativa attestazione, avrebbe dovuto svolgere un ulteriore corso della durata minima di quindici ore entro un anno, e così via a seguire.

La soluzione più semplice, ovvia, sensata e aderente al significato letterale del testo normativo (oltre che a criteri di buon senso ancor prima che di ordine sistematico) appare quella volta  semplicemente ad ancorare l’obbligo formativo alla durata dell’esercizio condominiale, che la legge indica inderogabilmente di durata annuale (indipendemente dalla data in cui abbia inizio).

Se così deve intendersi la norma, l’amministratore – in qualunque parte dell’anno abbia inizio il suo  mandato –  dovrà aver assolto  ai suoi obblighi formativi entro un anno dall’evento precedente cui ha partecipato.
Siccome un anno è un anno, e dentro non ce ne può stare nè più nè meno, se  sarà stato nominato  a marzo 2017 il suo mandato terminerà  al marzo  successivo, laddove abbia svolto il corso a luglio  2016 sarà dunque ancora coperto, e così via.

Pare dunque che la stagione delle migrazioni possa rimanere appannaggio dei volatili, salvo per coloro che hanno addirittura adeguato il proprio statuto a quei ritmi ancestrali.

Pare anche che i commenti entusistici sulla sentenza, resi da alcune associazioni in questi giorni, abbiano uno spessore di approfondimento e di motivazione analogo a quello della pronuncia.

massimo ginesi 8 giugno 2017

è nulla la clausola del regolamento che vieta il distacco o che obbliga comunque alle spese di consumo

Lo ha stabilito Cass. civ. Sez. II 12 maggio 2017 n. 11970 rel. Criscuolo.

il regolamento contrattuale che vieti il distacco del singolo dall’impianto centralizzato o che preveda, ove lo consenta, che costui rimanga comunque obbligato a pagare le spese di consumo deve ritenersi nulla per contrarietà a norme inderogabili e superata sia dalla L. 220/2012 che dalla L. 10(1991 e succ. mod.) nonché dalle norme sulla contabilizzazione del calore.

A fronte della sussistenza dei presupposti della assenza di squilibrio e di maggiori consumi dovuto al distacco, il condomino è esonerato ex legge dalle spese di consumo.

Nè può rilevare, in senso impediente, la disposizione eventualmente contraria contenuta nel regolamento di condominio, anche se contrattuale, essendo quest’ultimo contratto atipico meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell’ordinamento.

Deve quindi ritenersi che la condivisibile valutazione di nullità della clausola regolamentare impeditivo del distacco del singolo condomino, si estenda anche alla correlata previsione che obblighi il condomino al pagamento delle spese di gestione malgrado il distacco, dovendosi ragionevolmente sostenere che la permanenza di tale obbligazione di fatto assicuri la sopravvivenza della clausola affetta da nullità, impedendo il prodursi di quello che è il principale ed  auspicato beneficio che il condomino intende trarre dalla decisione di distaccarsi dall’impianto comune.”

osserva ancora la Corte: “Valga poi richiamo alla novellata previsione di cui all’articolo 1118 codice civile che, in relazione all’ipotesi che deve reputarsi ricorre anche nel caso di specie, di assenza di squilibrio termico in conseguenza del distacco, prevede l’obbligo di contribuzione alle sole spese di manutenzione straordinaria, conservazione e messa a norma, previsione che riveste chiara portata ricognitiva dello stato della giurisprudenza sul punto.

Inoltre non trascurabile, sempre al fine supportare la soluzione in esame, è il richiamo alle previsioni di cui all’articolo 26 della legge 10 del 1991 ( che al comma 5 prevede che “per l’innovazione relativa all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e del conseguente riparto degli oneri  di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato”, l’ assemblea di condominio delibera con le maggioranze previste dal secondo comma dell’articolo 1120 del codice civile”) nonché della legge n.102/2014, che impongono la contabilizzazione dei consumi per ciascuna unità immobiliare e la suddivisione delle spese in base consumi effettivi (articolo 9 comma 5, ancorché la relativa violazione preveda l’irrogazione di una sanzione amministrativa), atteso che emerge un quadro normativo che denota l’intento del legislatore di correlare il pagamento delle spese di riscaldamento l’effettivo consumo, consumo che chiaramente non sussiste nel caso di legittimo distacco.”

Da osservare che la soluzione della corte assume particolare rilevanza e significato laddove giunge a dichiarare la nullità della clausola regolamentare in forza di principi generali dell’ordinamento, pur essendo dichiarato inderogabile dall’art. 138 cod.civ. il solo secondo comma dell’art. 1118 cod.civ.

© massimo ginesi 15 maggio 2017

è nulla la delibera che decida su balconi di proprietà esclusiva

La Suprema Corte ribadisce un principio consolidato (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 15 marzo 2017 n. 6652, Rel. Scarpa): i balconi aggettanti sono di rporità esclusiva, salvo che rivestano funzione decorativa nel più ampio contesto della facciata dell’edificio.

Ove non si dia questa ultima ipotesi, restano beni di proprietà individuale e la delibera che li riguardi è affetta da nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice.

Nel caso di specie “l’intervento deliberato dall’assemblea condominiale comprendeva anche lavori riguardanti principalmente ed essenzialmente l’impermeabilizzazione dei balconi mediante la demolizione della preesistente pavimentazione, degli stangoni e dei sottostanti massetti, opere che nulla avevano a che vedere con l’estetica e l’aspetto architettonico dell’edificio”.

Afferma la Corte che “poiché l’assemblea condominiale non può validamente assumere decisioni che riguardino i singoli condomini nell’ambito dei beni di loro proprietà esclusiva, salvo che non si riflettano sull’adeguato uso delle cose comuni, nel caso di lavori di manutenzione di balconi di proprietà esclusiva degli appartamenti che vi accedono, è valida la deliberazione assembleare che provveda al rifacimento degli eventuali elementi decorativi o cromatici, che si armonizzano con il prospetto del fabbricato, mentre è nulla quella che disponga in ordine al rifacimento della pavimentazione o della soletta dei balconi, che rimangono a carico dei titolari degli appartamenti che vi accedono (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14576 del 30/07/2004; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6624 del 30/04/2012; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7603 del 30/08/1994). E alle deliberazioni prese dall’assemblea condominiale si applica il principio dettato in materia di contratti dall’art. 1421 c.c., secondo cui è comunque attribuito al giudice, anche d’appello, il potere di rilevarne d’ufficio la nullità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12582 del 17/06/2015; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 305 del 12/01/2016).”

© massimo ginesi 16 marzo 2017