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l’obbligo di spesa per i lavori straordinari sorge con la delibera di approvazione

La Cassazione conferma un orientamento ormai consolidato, circa il momento genetico dell’obbligo del condomino di contribuire alla spesa per l’esecuzione di lavori straordinari.

La decisione attiene a caso che, ragione temporis, non vede l’applicazione dell’art. 63 disp.att. cod.civ. nella formulazione introdotta dalla l. 220/72012, che ha esteso la solidarietà fra venditore ed acquirente sino al momento entro della formale comunicazione dell’atto di vendita all’amministratore.

Aldilà della solidarietà nei confronti del condominio, l’esatta individuazione del momento genetico dell’obbligo è comunque rilevante sia per la scelta delle modalità dell’azione (se in via ordinaria o monitoria, Cass.Civ. II sez. 9 settembre 2008, n. 23345), sia  nei rapporti interni fra i condebitori.

Cass.Civ. II sez. 22 giugno 2017 n. 15547 rel. Scarpa, nell’esaminare le doglianze di un condomino che si riteneva carente di legittimazione passiva in ordine alla domanda del condominio avanzata per il pagamento di quote relative a lavori straordinari, osserva:

Tale motivo si duole, peraltro, della carenza di legittimazione passiva del D’I. rispetto alla pretesa creditoria del Condominio, per aver egli già alienato la sua unità immobiliare al momento della deliberazione assembleare di ripartizione delle spese di manutenzione straordinaria, fatto esaminato e superato nella sentenza impugnata, la quale ha dato correttamente rilievo alla data della deliberazione di approvazione di tali lavori, allorchè il ricorrente era ancora condomino e perciò era obbligato a contribuire agli esborsi.

Trova qui applicazione ratione temporis, attesa l’epoca di insorgenza dell’obbligo di spesa per cui è causa, l’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., nella formulazione antecedente alla modificazione operata dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220.

In forza di tale norma, chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente.

Dovendosi individuare, ai fini dell’applicazione dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni (ristrutturazione della facciata dell’edificio condominiale)”, deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento, avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione (Cass. Sez 6 — 2, 22 marzo 2017, n. 7395; Cass. Sez. 2, 03/12/2010, n. 24654).

Tale momento rileva anche per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, se gli stessi non si siano diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro.”

© massimo ginesi 23 giugno 2017 

mediazione: il termine per l’inizio non è perentorio e non ha natura processuale.

Una pronuncia di buon senso della giurisprudenza di merito, che ha ritenuto non perentorio il termine di quindici giorni assegnato dal giudice per l’inizio del procedimento, atteso che una interpretazione rigida della normativa in tema di risoluzione stragiudiziale delle controversie finirebbe per penalizzare il diritto stesso di accesso alla giustizia.

Pertanto, ove la mediazione sia stata esperita, anche dopo tale termine, dovrà ritenersi avverata la condizione di procedibilità.

Lo ha affermato la Corte di Appello di Milano con sentenza del 24 maggio 2017, riformando la sentenza di primo grado che aveva dichiarato improcedibile l’opposizione a decreto ingiuntivo e definitivo il decreto opposto.

Le argomentazioni a sostegno della decisione sono di deciso interesse e qualificano quale unico termine perentorio previsto dal D.lgs 28/2010 quello di sospensione necessaria del processo, pari a tre mesi, per l’esperimento della mediazione.

© massimo ginesi 22 giugno 2017

è obbligo dell’appaltatore verificare l’idoneità del suolo su cui eseguire la costruzione.

Anche se non è espressamente dedotto in contratto, nelle realizzazione di opere edilizie costituisce comunque obbligo dell’appaltatore verificare che il suolo su cui devono essere eseguite le opere sia idoneo alla loro costruzione, in quanto si tratta di cautela necessaria e prodromica alla esecuzione stessa dell’appalto.

Ove ciò non avvenga e ne derivi danno, l’appaltatore ne sarà comunque responsabile, in via solidale con il direttore dei lavori.

Lo afferma Cass.civ. sez. I 20 giugno 2017 n. 15190 in una monumentale pronuncia, in cui afferma che tale obbligo incombe all’appaltare anche in presenza di vizi di progettazione riconducibili al committente.

La sentenza, per ampiezza di argomentazioni, anche processuali, merita lettura integrale.

15190

© massimo ginesi 21 giugno 2017

 

servitù in condominio: il bizzarro concetto di apparenza della Cassazione.

L’art. 1061 cod.civ. precede che siano apparenti le servitù per il cui esercizio vi sono opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio e che le servitù non apparenti non possono acquistarsi per usucapione o per destinazione del padre di famiglia.

Si tratta di una disposizione che fa evidente riferimento alla necessità che l’esercizio della servitù debba essere percepibile, affinché il possesso da parte del titolare o l’eventuale predisposizione dell’unico proprietario risulti manifesta al soggetto destinato a subirne il peso e possa dar luogo ai fenomeni acquisitivi descritti dalla norma.

Oggi la Cassazione afferma che è apparente anche la servitù di acquedotto in condominio, quando i tubi passano sotto il pavimento di una unità immobiliare per servirne altre.

Lo afferma Cass. civ. sez. II 8 giugno 2017 n. 14292: “La giurisprudenza di questa Corte è solita affermare, al riguardo, che, ai sensi dell’art. 1061 c.c., comma 1, è apparente soltanto la servitù al cui esercizio risultino destinate opere permanenti e visibili dal fondo servente, in modo da renderne presumibile la conoscenza da parte del proprietario di quest’ultimo (cfr. Cass. n. 2290/2004; Cass. n. 321/1998).

La precisazione per cui le opere permanenti devono essere “visibili dal fondo servente” non costituisce, tuttavia, una specificazione del concetto di apparenza,come tale insensibile a connotazioni puramente topografiche, come dimostra l’irrilevanza – costantemente affermata da questa Corte – del fatto che le opere siano collocate sul fondo servente, su quello dominante o sul fondo di un terzo (Cass. n. 7817/2006; Cass. n. 6357/1997).

Questa Corte ha avuto, così, occasione di precisare che la visibilità delle opere deve far capo ad un punto d’osservazione non necessariamente coincidente con il fondo servente, essendo essenziale, allo scopo, che queste rendano obiettivamente manifesta, per chi possegga detto fondo, la situazione di asservimento (Cass. n. 2994/2004; Cass. n. 2225/1976).

La visibilità dal fondo servente è, dunque, un’ipotesi normale ma non per questo esclusiva, essendo, piuttosto, sufficiente che le opere destinate all’esercizio della servitù siano visibili – anche se solo saltuariamente ed occasionalmente (Cass. n. 6522/1993) – da qualsivoglia altro punto d’osservazione, anche esterno al fondo servente, purchè il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una vicina via pubblica.

Non rileva, quindi, che l’opera sia a vista nè che il proprietario del fondo che si assume asservito abbia, in concreto, conoscenza dell’esistenza dell’opera.

L’apparenza della servitù, senza la quale non è possibile la costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia, si identifica, in definitiva, nell’oggettiva e permanente sussistenza di opere suscettibili di essere viste (anche se, in concreto, ignorate) che, per la loro struttura e consistenza, inequivocamente denuncino il peso imposto su un fondo a favore dell’altro (Cass. n. 3556/1995).

Non è, infine, necessario che l’apparenza, nei termini predetti, si estenda all’opera nel suo complesso: non è, quindi, l’entità dell’opera che rileva ma le opere in quanto segno obiettivo ed inequivoco della loro destinazione ad una determinata servitù (Cass. n. 9371/1992; Cass. n. 5020/1996).

A fronte di tali principi, appare, allora, evidente alla Corte come la tubatura idrica, pur se collocata al di sotto del pavimento dell’appartamento che funge da fondo servente – ed incontestatamente oggetto di proprietà comune (in tal senso, del resto, Cass. n. 7761/2010) – costituisca senz’altro un’opera oggettivamente visibile (sia pur occasionalmente: come, in effetti, il ricorrente ha confermato ammettendo di aver accertato l’esistenza della tubatura in occasione di lavori svolti nel suo appartamento), anche solo in parte, dal proprietario dello stesso, che, di fatto, inequivocabilmente (come, appunto, è il caso di una tubazione che trasporta acqua), rivela, per struttura e consistenza, l’onere che grava sull’appartamento servente a vantaggio dell’altro.

© massimo ginesi 20 giugno 2017 

nell’impugnativa di delibera il giudice deve pronunciarsi su tutti i vizi indicati dall’attore.

Nel procedimento che riguarda l’impugnazione di una delibera condominiale il principio della ragione più liquida, in forza del quale il giudice può decidere sulla base di un motivo assorbente, parrebbe non potersi applicare in maniera piana.

Lo ha stabilito la Suprema Corte ( Corte di Cassazione, sez. II Civile,  14 giugno 2017, n. 14806) specificando che se un condomino, impugnando una delibera assembleare, denuncia una pluralità di vizi che ne possono determinare l’invalidità, propone contestualmente una pluralità di domande giudiziali, con in comune il petitum (la declaratoria di nullità e/o la pronuncia di annullamento della deliberazione assembleare) ma con distinte causae petendi, corrispondenti a ciascuno dei vizi dedotti (cfr. Cass. n. 2758/2012, in materia di impugnazione di delibera di assemblea societaria).
L’omissione di pronuncia perpetrata, in violazione dell’art. 112 c.p.c., dalla corte d’appello impone, quindi, la cassazione della sentenza impugnata, in relazione ai motivi esposti, con rinvio della causa alla medesima corte, in differente composizione.”

Nell’occasione la Corte ha anche ribadito l’orientamento secondo il quale  legittimati proporre appello nella sentenza resa contro il condominio sono anche i singoli condomini: “Il collegio ritiene di dar seguito, sul punto, a quanto, di recente, affermato da questa Sezione, vale a dire che “… essendo il Condominio un ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire a difesa di diritti connessi alla detta partecipazione, né, quindi, del potere di intervenire nel giudizio per il quale tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi d’impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunziata nei confronti dell’amministratore stesso che non l’abbia impugnata” (Cass. n. 16562/2015; in senso conf., Cass. n. 10717/2011; Cass. n. 14765/2012; Cass. n. 12588/2002; Cass. n. 9206/2006; Cass. n. 13716/1999; Cass. n. 2392/1994).

© massimo ginesi 19 giugno 2017

locazioni: niente recesso anticipato per il conduttore se non ha dato la disdetta.

La Cassazione afferma un principio  di buon senso: il conduttore non potrà rendere per gravi motivi dal contratto ove l’insorgenza di dette problematiche sia intervenuta prima della scadenza del termine per dare utile disdetta.

In tal coas deve preferirsi il mezzo canonico e più veloce per la risoluzione del vincolo che è rappresentato dalla disdetta alla scadenza, se il conduttore non l’ha utilizzata pur essendo già presenti i gravi motivi che richiama nel recesso, deve ripetersi che egli abbia rinunciato ad azionarli successivamente.

“In tema di recesso anticipato del conduttore ad uso diverso da quello abitativo, ai sensi dell’art. 27, comma ottavo, legge n. 392 del 1978, quando i gravi motivi sopravvenuti dedotti dal conduttore si sono verificati prima della scadenza del termine per dare l’utile disdetta alla scadenza naturale del contratto e il conduttore non l’abbia data, tale condotta, interpretata secondo il principio di buona fede, va intesa come rinunzia a far valere in futuro l’incidenza di tali motivi sul sinallagma contrattuale, dei quali può altresì presumersi la non gravità, poiché altrimenti sarebbe stato ragionevole utilizzare il mezzo più rapido per la cessazione del rapporto. E’ quanto si legge nell’ordinanza n. 14623 del 13 giugno 2017.”

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 13 giugno 2017, n. 14623

© massimo ginesi 17 giugno 2017

 

bene necessariamente comuni e beni comuni per destinazione. l’alloggio del portiere.

La Cassazione (Cassazione, sez. II Civile,  14 giugno 2017, n. 14796) traccia – sulla scorta di un orientamento consolidato, una efficace sintesi sulla nascita del condominio e sulla natura dei beni destinati all’uso comune.

Quelli che tali sono per necessaria destinazione funzionale, indispensabili all’esistenza stessa di un fabbricato multipiano, e quelli che invece – quali l’alloggio del portiere – possono ritenersi comuni solo se tale destinazione gli venga impressa nel momento stesso in cui il condominio si costituisce.

“È risaputo che tutto ciò che si costruisce sul suolo, in virtù del principio dell’accessione (art. 934 ss. cod. civ.), si acquista dal proprietario di esso.

Quindi, il proprietario del suolo, che costruisce un edificio composto da più, piani o porzioni di piano, per effetto dell’accessione acquista la proprietà esclusiva dell’intero fabbricato.

Il condominio, che si sostituisce alla proprietà solitaria, nasce come conseguenza della vendita della proprietà separata dei singoli piani o porzioni di piano, a far tempo dalla prima alienazione.

Quale effetto accessorio del trasferimento ad altri soggetti delle singole unità immobiliari, ha origine il diritto di proprietà comune sulle cose, sui servizi e sugli impianti necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero destinati all’uso o al servizio dei piani o delle porzioni di piano.

La necessità per l’esistenza dell’intero edificio e per l’uso comune di talune cose (il suolo, le fondazioni, i muri maestri, i tetti, i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i cortili etc.) non può revocarsi in dubbio: avuto riguardo alla loro unica ed univoca funzione strumentale al servizio dei piani o delle porzioni di piano siti nel fabbricato, non può contestarsi che esse, una volta istituito il condominio, formino oggetto di proprietà comune e costituiscano beni comuni.

Per contro, i locali dell’edificio contemplati dall’art. 1117 n. 2 cit., raffigurano beni ontologicamente suscettibili di utilizzazioni diverse, anche autonome: per diventare beni comuni, essi abbisognano di una specifica destinazione al servizio in comune.

In difetto di espressa disciplina negoziale, affinché un locale sito nell’edificio – che, per la sua collocazione, può essere adibito ad alloggio del portiere, oppure utilizzato come qualsiasi unità abitativa – diventi una parte comune ai sensi dell’art. 1117 n. 2 cit., occorre che, all’atto della costituzione del condominio, al detto locale sia di fatto assegnata la specifica destinazione al servizio comune. Se prima della costituzione del condominio la destinazione al servizio comune non gli viene conferita, o gli viene sottratta, il locale non può considerarsi come bene comune.”

© massimo ginesi 16 giugno 2017

la Corte europea si pronuncia sulla mediazione obbligatoria prevista dall’ordinamento italiano.

La Corte Europea è stata investita dal Tribunale di Verona della questione di legittimità del D.lgs 28/2010 laddove prevede l’esperimento della mediazione come condizione di procedibilità per determinate materie, ove comporta  obbligatoriamente l’assistenza dell’avvocato e conseguenze sfavorevole nel successivo giudizio di merito connesse  alla condotta tenuta dalle parti nel procedimento di mediazione.

Il contrasto attiene alla direttiva direttiva n. 11/2013, applicabile quando una delle due parti sia un consumatore (ed il Condominio tale è considerato dalla giurisprudenza).

Osserva la Corte di Giustizia UE con sentenza 14 giugno 2017 n. 457 che ” La direttiva 2013/11/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2013, sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori, che modifica il regolamento (CE) n. 2006/2004 e la direttiva 2009/22/CE (direttiva sull’ADR per i consumatori), dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede il ricorso a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie, purché un requisito siffatto non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario.

La medesima direttiva dev’essere invece interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, la quale prevede che, nell’ambito di una mediazione siffatta, i consumatori debbano essere assistiti da un avvocato e possano ritirarsi da una procedura di mediazione solo se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione.”

Almeno per quei procedimenti in cui una delle parti sia qualificabile come consumatore la Corte individua dunque elementi di criticità del sistema normativo italiano.

Certamente in contrasto con la norma sovranazionale appare l’obbligo del difensore così come dovrà attentamente essere valutata la circostanza che dalla condotta delle parti in mediazione non derivino conseguenze nel successivo processo: “durante l’udienza, il governo italiano ha dichiarato che l’imposizione di un’ammenda da parte del giudice in un successivo procedimento è prevista soltanto in caso di mancata partecipazione senza giustificato motivo alla procedura di mediazione, e non in caso di ritiro dalla medesima. Se così è, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, la direttiva 2013/11 non osta a una normativa nazionale che consente al consumatore di rifiutare di partecipare a una previa procedura di mediazione solamente per un giustificato motivo, purché egli possa porvi fine senza restrizioni successivamente al primo incontro col mediatore.”

© massimo ginesi 15 giugno 2017

le notificazioni effettuate tramite posta privata sono nulle

Qualora la legge richieda che una comunicazione o notificazione sia effettuata mediante posta raccomandata, tale servizio può esser reso solo da poste italiane, mentre è stato ritenuto non idoneo quello  svolto da servizi di posta privata.

Per tali ragioni un creditore si è visto respingere l’opposizione alla mancata ammissione di un credito al passivo fallimentare, inviata al curatore con un servizio di posta diverso da poste italiane.

E’ quanto ha affermato Cassazione civile, sez. I, 01/06/2017,  n. 13870: “L’art. 97, comma 2 L. fall. (nel testo, qui da applicarsi, anteriore alle modifiche introdotte nel 2012), là dove prescrive che la comunicazione in questione “sia data tramite raccomandata con avviso ricevimento”, fa implicito riferimento al disposto del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, secondo cui “per esigenze di ordine pubblico, sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio universale: a) i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni; b) i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 201)”.

Fornitore del servizio universale (art. 1 D.Lgs. n. 261 cit.) è l’Ente Poste.

Ciò posto, dalla verifica (cui questa Corte può e deve procedere quando, come nella specie, è denunziato un error in procedendo) in ordine alla comunicazione in questione emerge come in effetti essa sia stata eseguita dal Curatore mediante posta privata (cfr.doc.1 fasc.opp. della ricorrente).

Ne deriva, alla stregua dell’orientamento più volte espresso sul punto da questa Corte (cfr.ex multis: Cass.n.2262 del 31/01/2013; n.2035 del 30/01/2014), che il Collegio condivide, la nullità della comunicazione, atteso che le attestazioni redatte dagli incaricati di un servizio di posta privata non sono assistite dalla funzione probatoria che il già richiamato D.Lgs. n. 261 ricollega alla nozione di “invii raccomandati”. Sì che, in mancanza di valida prova in ordine alla data di decorrenza iniziale -corrispondente a quella di consegna della comunicazione-, il termine per proporre l’opposizione non può considerarsi decorso al momento della proposizione.”

© massimo ginesi 14 giugno 2017