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l’uso più ampio del bene comune da parte del singolo

La Suprema Corte (Cass.Civ. sez.VI-2 15 gennaio 2019 n. 857 rel. Scarpa) ribadisce concetti noti e consolidati in tema di innovazioni, disciplinate dall’art. 1120 cod.civ. e maggior uso della cosa comune, disciplinato dall’art. 1102 cod.civ.

La pronuncia riguarda la trasformazione di un tetto da parte del condomino proprietario del vano sottostante, al fine di ricavare una ulteriore unità abitativa. In tal caso, sottolinea il giudice di legittimità, si deve aver riguardo ai parametri previsti dall’art. 1102 cod.civ. e si deve considerare lecito l’intervento ove per la modalità e l’estensione non pregiudichi in maniera significativa la funzione comune e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso.

Appare interessante, anche con riguardo ala nota questione della realizzazione di terrazze a tasca, la riflessione che la corte compie in ordine alla possibilità degli altri condomini di farne identico più ampio uso, che deve essere di volta in volta opportunamente contestualizzata con riguardo alla specifica realtà.

L’intervento di ristrutturazione del tetto comune eseguito, nella specie, dai condomini D.D.M. e B.D. non è riconducibile alla nozione di innovazione ex art. 1120 c.c., ma a quello di modificazione ex art. 1102 c.c. Invero, secondo l’interpretazione di questa Corte, le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712).
I precedenti giurisprudenziali, che i ricorrenti invocano, hanno affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, ma sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione, e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14107; si vedano anche Cass. Sez. 6 – 2, 04/02/2013, n. 2500; Cass. Sez. 6-2, 25/01/2018, n. 1850; Cass. Sez. 6-2, 21/02/2018, n. 4256). È evidente come l’accertamento circa la non significatività del taglio del tetto praticato per innestarvi la terrazza di uso esclusivo, nonché circa l’adeguatezza delle opere eseguite per salvaguardare la funzione di copertura e protezione dapprima svolta dal tetto, è riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 1102 c.c., ma soltanto nei limiti di cui all’art. 360 c.c., comma 1, n. 5.
Non contraddicono insanabilmente l’orientamento giurisprudenziale appena richiamato e pronunce invece menzionate dai controricorrenti nella memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2, ovvero, in particolare, Cass. Sez. 2, 15/11/2016, n. 23243, che si conformava a Cass. Sez. 2, 28/02/2013, n. 5039,affermando esse l’illegittimità dellecosiddette “altane” sul presupposto dell’accertamento in fatto di modifiche strutturali comportanti non una “modifica finalizzata al migliore godimento della cosa comune”, quanto “una diversa ed esclusiva utilizzazione di una parte della porzione comune del tetto con relativo impedimento agli altri condomini dell’inerente uso”, con correlata perdita per gli altri condomini delle “potenzialità di uso” del bene comune, definitivamente sottratto “ad ogni possibilità di futuro godimento da parte degli altri comproprietari”, giacché occupato “a beneficio esclusivo” del partecipante autore delle opere.”

Nella specie, per quanto piuttosto accertato in fatto, si ha riguardo ad un intervento di trasformazione del tetto comune da tre e due falde, con inserimento di una struttura in acciaio e la realizzazione di una nuova unità abitativa al posto di una preesistente soffitta, la quale consentiva l’accesso comune al tetto tramite una botola. Essendo incontroversa la proprietà condominiale del tetto, l’accesso comune ad esso è stato inteso dalla Corte d’Appello come conforme alla destinazione tipica e normale del bene. L’illegittimità della modifica dello stato dei luoghi è stata però argomentata dai giudici di secondo grado non con riferimento alla mutata consistenza o funzione del tetto, ma quale effetto del provocato impedimento al passaggio attraverso la botola presente nella soffitta di proprietà esclusiva di D.D.M. e B.D. .
Questa Corte, con interpretazione che va qui ribadita, ha affermato che l’esistenza nell’appartamento di proprietà esclusiva sito all’ultimo piano dell’edificio condominiale di una botola sul soffitto per accedere al tetto comune, non conferisce a detto accesso, in mancanza dell’interclusione del fondo dominante, natura di servitù in favore dei condomini (cfr. Cass. Sez. 2, 04/11/2008, n. 26493). Era peraltro stata esclusa dal Tribunale, senza che sul punto venisse proposta impugnazione, l’esistenza di una servitù di passaggio costituita a titolo originario o coattivamente in favore della proprietà di D.D.S. e M.A. ed carico dell’appartamento di proprietà esclusiva di D.D.M. e B.D. .
In giurisprudenza si è altresì più volte chiarito come l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è sottoposto, secondo il disposto dell’art. 1102 c.c., a due fondamentali limitazioni, consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nell’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri condomini. Simmetricamente, la norma in parola, intesa, altresì, ad assicurare al singolo partecipante, quanto all’esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa, legittima quest’ultimo, entro i limiti ora ricordati, a servirsi di essa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità, non potendosi intendere la nozione di “uso paritetico” in termini di assoluta identità di utilizzazione della “res”, poiché una lettura in tal senso della norma “de qua”, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe il sostanziale divieto, per ciascun condomino, di fare, della cosa comune, qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio.

Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non possano fare un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che, in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali, pertanto, costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto (Cass. Sez. 2, 14/04/2015, n. 7466; Cass. Sez. 2, 30/05/2003, n. 8808; Cass. Sez. 2, 12/02/1998, n. 1499; Cass. Sez. 2, 05/12/1997, n. 12344; Cass. Sez. 2, 23/03/1995, n. 3368). Il più ampio uso del bene comune, da parte del singolo condomino, non configura, così, ex se una lesione o menomazione dei diritti degli altri partecipanti, ove, ad esempio, esso trovi giustificazione nella conformazione strutturale del fabbricato (cfr. Cass. Sez. 2, 09/06/1986, n. 3822).”

La Corte , dunque, cassa con rinvio poiché “È quindi necessario accertare non la legittimità delle opere attuate da D.D.M. e B.D. nell’unità immobiliare di loro proprietà esclusiva (non essendo più in discussione l’esigenza di dare tutela al passaggio realizzato nell’appartamento dei ricorrenti a beneficio della proprietà dei controricorrenti tramite la botola di accesso al tetto), quanto se le modifiche direttamente eseguite sul tetto dagli attuali ricorrenti valgono a mutare la destinazione del bene comune ed ad escluderne il pari uso da parte degli altri condomini, avendo comportato una definitiva sottrazione del tetto ad ogni possibilità di futura utilizzazione degli altri condomini o una compromissione della sua funzione di copertura e protezione delle sottostanti unità immobiliari.”

© massimo ginesi 22 gennaio 2019

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art. 1134 cod.civ. e condominio minimo

La Suprema Corte (Cass.Civ. sez.VI-2 14 gennaio 2019 n. 620 rel. Scarpa) conferma due orientamenti consolidati, l’uno in ordine alla applicabilità al condominio minimo della disciplina ordinaria di cui agli arti. 1117 e s.s. cod.civ., l’altro sulla necessità del requisito dell’urgenza per gli interventi di manutenzione effettuati dal singolo su beni comuni ai sensi dell’art. 1134 cod.civ.

“Stante la qualificazione della domanda di rimborso avanzata da B.L. e N.M. come spese fatte dal condomino ex art. 1134 c.c., non può che riconoscersi la legittimazione attiva al singolo partecipante al condominio che abbia sostenuto le spese per la gestione della cosa comune nell’interesse degli altri proprietari (e non quindi al terzo che si sia altrimenti ingerito nella gestione delle parti comuni), e la legittimazione passiva ai restanti condomini che sarebbero altrimenti stati tenuti alla spesa ai sensi dell’art. 1123 c.c. L’obbligo del singolo condomino di contribuire in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare alle spese necessarie per la manutenzione e riparazione delle parti comuni dell’edificio trova, infatti, la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell’edificio.”

osserva ancora la corte che “la Corte d’Appello di Napoli ha deciso la questione di diritto, inerente all’applicabilità dell’art. 1134 c.c. con riferimento ad un condominio cd. minimo, in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte. Anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile soltanto nel caso in cui abbia i requisiti dell’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 c.c. (testo previgente alla modifica operata con la L. n. 220 del 2012). Ai fini dell’applicabilità dell’art. 1134 c.c., va dunque considerata “urgente” non solo la spesa che sia giustificata dall’esigenza di manutenzione, quanto la spesa la cui erogazione non possa essere differita, senza danno o pericolo, fino a quando l’amministratore o l’assemblea dei condomini possano utilmente provvedere. Spetta al singolo condomino, che agisca per il rimborso, dare dimostrazione che le spese anticipate fossero indispensabili per evitare un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune, e dovessero essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini, sulla base di accertamento di fatto spettante al giudice del merito (Cass. Sez. 6 -2, 08/06/2017, n. 14326). Nulla è invece dovuto in caso di mera trascuranza degli altri comproprietari, non trovando applicazione le norme in materia di comunione (art. 1110 c.c.). Ciò vale anche per i condomini composti da due soli partecipanti, la cui assemblea si costituisce validamente con la presenza di tutti e due i condomini e all’unanimità decide validamente. Se non si raggiunge l’unanimità e non si decide, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto, diventa necessario ricorrere all’autorità giudiziaria, come previsto dagli artt. 1139 e 1105 c.c. (Cass. Sez. 2, 16/04/2018, n. 9280; Cass. Sez. 2, 12/10/2011, n. 21015; Cass. Sez. U, 31/01/2006, n. 2046).”

© massimo ginesi 16 gennaio 2019

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l’arbitraria occupazione di aree comuni non necessariamente da luogo a risarcimento

Cass.Civ. sez.II ord. 10 gennaio 2019 n. 468 afferma un principio significativo: non necessariamente l’occupazione illecita di un’area comune da parte di un singolo condomino comporta risarcimento del danno in favore degli altri contitolari, ove risulti che tale condotta non ha di fatto impedito l’uso del bene.

Nel caso all’esame della corte un condomino aveva occupato una porzione del parcheggio condominiale con un ampiamento della propria unità, opera abusiva e oggetto di successiva demolizione: la Corte ha tuttavia statuito che “In materia di comunione, infatti, laddove sia provata l’utilizzazione da parte di uno dei comunisti della cosa comune in via esclusiva in modo da impedirne l’uso, anche potenziale, agli altri comproprietari, il danno deve ritenersi “in re ipsa” (Cass. n. 11486 del 2010). Nel caso di specie, la corte d’appello, con accertamento in fatto non suscettibile di sindacato in questa sede, ha ritenuto che, nel caso in esame, non vi fossero elementi per affermare che l’occupazione del suolo condominiale operata dai coniugi C. – L.P. sia stata a tal punto estesa da impedire alla R., in quanto condomina, l’uso, anche solo potenziale, dell’area comune destinata a parcheggio. Ed una volta escluso, in fatto, che l’occupazione, ancorché abusiva e protratta nel tempo, abbia effettivamente impedito alla R. l’uso della area comune, deve, per l’effetto, necessariamente escludersi la sussistenza di un danno risarcibile.

© Massimo Ginesi 14 gennaio 2019

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regolamento di condominio e divieto di destinazione dei locali a ristorazione: una vicenda peculiare


un recente provvedimento della corte di lettimità (Cass.Civ. sez. II ord. 7 gennaio 2019 n. 129) affronta il problema di divieto di destinazione di unità immobiliari poste in condominio contenuto nel regolamento.

Nel caso specifico si trattava di un divieto limitato solo ad alcuni fondi e derivato da un accordo stipulato fra l’originario proprietario e l’acquirente di detta unità, patto poi trasfuso nel regolamento di condominio, e che stabiliva il divieto di adibire ad attività di ristorazione i fondi del piano terrà, salvo quello che si affacciava su un solo lato dell’edificio.

LA Corte di merito (e poi il giudice di legittimità) hanno ritenuto illecito – alla luce di tale divieto, il collegamento di altro fondo – contiguo ma non prospiciente su quella via e di proprietà dello stesso condomino – in quanto , ampliando la superficie destinata ad attività vietata, aggirava il divieto convenzionale.

La Corte di merito ha rilevato, con argomentazione logica e coerente, che l’art. 12 del regolamento condominiale vietava, in via generale, la destinazione di unità immobiliari ad attività di ristorazione, con la sola eccezione di quelle poste al piano terra e prospicenti la via P S.

In presenza di tale inequivoca disposizione, la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante la mancanza di porzioni evidenziate nella planimetria unita al regolamento condominiale, non potendo attribuirsi a tale mancanza l’ abrogazione o inefficacia della menzionata clausola n.12 del regolamento, in forza della quale era consentito svolgere attività di ristorazione nella sola porzione che, al momento dell’approvazione del regolamento condominiale, era prospicente a via P S., vale a dire il sub 815.

Secondo quanto ritenuto dal giudice di merito, l’art 18 del Regolamento condominiale attribuiva a Caladan la facoltà di unificare più porzioni di sua proprietà, ma non anche quella di aggirare il divieto del citato art. 12, ampliando lo spazio destinato alla ristorazione.

L’ interpretazione della corte territoriale appare dunque conforme non solo al significato letterale del Regolamento condominiale, ma anche al principio di conservazione del contratto ( art. 1367 c.c.) ed alla conformità alla natura ed oggetto del regolamento condominiale (art. 1369 c.c.), che esprimeva la comune intenzione dei contraenti di limitare l’esercizio di attività potenzialmente foriere di immissioni (di rumore, fumo etc. ) nocive , quale quella di ristorazione.”

© Massimo Ginesi 9 gennaio 2019

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bar discoteca in condominio e rumore: il regolamento prevale sull’art. 844 cod.civ.


Una signora ottantanovenne lamenta che nel bar al primo piano del Condominio, nei weekend, si tengano feste danzanti che creano grave disturbo per la musica ad alto volume e il rumore.

“La ricorrente ha dedotto che, durante il fine settimana, City Bar srl adibisce il locale a discoteca, provocando “emissioni rumorose e vibrazioni intollerabili che si protraggono fino alle quattro del mattino”, che le impediscono di riposare, hanno addirittura provocato crepe nei muri dell’appartamento e le hanno cagionato danni alla salute, quali insonnia, cardiopatia, aritmia cardiaca, ansia e stress, danni aggravati dalle “intimidazioni” ricevute a seguito delle sue richieste di cessare tale condotta. Ha aggiunto che gli avventori del locale si trattengono numerosi sul marciapiede antistante il ristorante, che non può contenerli tutti, e producono schiamazzi notturni, rompono bicchieri ed altro, ostacolano il passaggio e l’accesso all’edificio.

Tale situazione l’ha costretta, nei giorni di giovedì, venerdì e sabato, a pernottare in albergo ovvero presso conoscenti ed a chiedere altresì “l’assistenza domiciliare del figlio Th. Vi.”.

Ha aggiunto che City Bar srl esercita l’attività di discoteca in assenza delle necessarie autorizzazioni comunali, che tale attività si svolge nel piano seminterrato, privo di uscite di sicurezza, e che essa “utilizza il marciapiede come cosa propria”.

Ha perciò lamentato la violazione degli artt. 844 e 2043 c.c. nonché degli articoli 5 e 6 del Regolamento dell’Edificio, che vietano “feste da ballo”, “riunioni rumorose” e “di recare disturbo” ai vicini, specie di notte; ha altresì dedotto la illiceità penale della condotta, ai sensi dell’art. 659 c.p., per la sua idoneità al disturbo del riposo e delle occupazioni di un numero indeterminato di persone.

Con specifico riguardo al proprietario, ha dedotto la sua responsabilità contrattuale, ai sensi dell’art. 1585 c.c., nonché anche quella extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2051 c.c..”

Il Giudice (Trib. Milano sez. XIII, 05/12/2018, , n.12316), accogliendo accoglie la domanda, rilevando come le previsioni del regolamento contrattuale, ove siano più restrittive, prevalgano sulla disposizione di cui all’art. 844 cod.civ., consentendo di prescindere dall’accertamento sulla normale tollerabilità previsto da detta norma.

il caso peculiare, poiché riguarda un immobile che non costituisce condominio, trattandosi di bene in comunione , ma che è comunque dotato di un regolamento interno, di cui il giudice sottolinea la differenza cogente rispetto a quello condominiale: aldilà di tale fatto specifico e particolare consente comunque al Tribunale di ribadire un principio consolidato: “In materia di rapporti condominiali, quando l’attività posta in essere da uno dei condomini di un edificio è idonea a determinare il turbamento del bene della tranquillità degli altri partecipi, tutelato espressamente da disposizioni contrattuali del regolamento condominiale, non occorre accertare, al fine di ritenere l’attività stessa illegittima, se questa costituisca o meno immissione vietata ex art. 844 c.c., in quanto le norme regolamentari di natura contrattuale possono imporre limitazioni al godimento della proprietà esclusiva anche maggiori di quelle stabilite dall’indicata norma generale sulla proprietà fondiaria. Ne consegue che, quando si invoca, a sostegno dell’obbligazione di non fare, il rispetto di una clausola del regolamento contrattuale che restringa poteri e facoltà dei singoli condomini sui piani o sulle porzioni di piano in proprietà esclusiva, il giudice è chiamato a valutare la legittimità o meno dell’immissione, non sotto la lente dell’art. 844 c.c., ma esclusivamente in base al tenore delle previsioni negoziali di quel regolamento, costitutive di un vincolo di natura reale assimilabile ad una servitù reciproca.trattandosi – nel caso della comunione, di fonte contrattuale che vincola i soli locatori e non anche i conduttori, che non hanno preso parte alla pattuizione”

© massimo ginesi 8 gennaio 2019

L’amministratore non risponde della raccolta differenziata

è quanto ha stabilito la Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  24.10.2023 n. 29427) con riguardo al regolamento comunale di Roma, osservando che la norma sanzionatoria non può essere contenuta in testo regolamentare:

“L’amministratore condominiale non è responsabile, in via solidale con i singoli condomini, della violazione del regolamento comunale concernente l’irregolare conferimento dei rifiuti all’interno dei contenitori destinati alla raccolta differenziata collocati all’interno di luoghi di proprietà condominiale, potendo egli essere chiamato a rispondere verso terzi esclusivamente per gli atti propri, omissivi e commissivi, non potendosi fondare tale responsabilità neanche sul disposto di cui alla l. n. 689 del 1981, art. 6 avendo egli la mera gestione dei beni comuni, ma non anche la relativa disponibilità in senso materiale.”

l’ampia disamina effettuata dai giudici di legittimità ne consiglia lettura integrale
© MG 7.11.2023

i metodi di convocazione dell’assemblea sono tassativi e inderogabili

E’ quanto ribadisce una recente sentenza capitolina (Trib. Roma 9.10.2023 n.  14299), che ha dichiaro nulla la delibera che, in deroga al regolamento condominiale contrattuale e all’art. 66 disp. att. c.c., aveva stabilito che le assemblee future potessero essere convocate via email.

“Al riguardo, l’art. 72 disp. att. c.c. prevede l’inderogabilità, da parte del regolamento di condominio, dell’art. 66 disp. att. c.c., il quale, al terzo comma, indica in via tassativa le modalità di invio dell’avviso di convocazione (posta raccomandata, PEC, fax o consegna a mano), non ricomprendendo tra le stesse la convocazione via e-mail.

Nel caso di specie, la delibera di convocazione delle future assemblee tramite e-mail ordinaria (punto 2 o.d.g.) risulta non solo essere contraria a norma dichiarata espressamente inderogabile (ossia l’art. 66 disp. att. c.c.) ma anche allo stesso regolamento di condominio (la cui natura contrattuale è stata riconosciuta dallo stesso convenuto), il quale, per le ragioni sopra esposte, non potrebbe essere modificato dai condomini, neppure in via convenzionale, con il risultato di derogare a tale norma di legge.”

© MG 2.11.2023