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impianto elettrico condominiale: una interessante e recentissima ordinanza della Cassazione.

Un condomino lamenta che durante la messa norma dell’impianto elettrico condominiale non sia stata rispettata la regola dell’arte, che dai malfunzionamenti dell’impianto comune gli siano derivati danni al frigorifero e alla lavatrice  e chiede che il Tribunale condanni il condominio  “a rendere l’impianto elettrico che fornisce il suo appartamento conforme alle disposizioni di legge ed ad eseguire i necessari lavori, nonché a risarcire i danni materiali e non patrimoniali subiti.”

In particolare  “da tali continui black out e variazioni di tensione elettrica il LM. aveva sostenuto di aver ricevuto danni per la rottura del frigorifero e della lavatrice, con esborsi pari ad C 10.000,00. Il Tribunale aveva accolto la domanda risarcitoria per l’importo di C 5.000,00 ed aveva condannato il Condominio al rifacimento dell’impianto elettrico”

La Corte d’appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale della stessa città, rilevava come non risultasse dalla consulenza svolta il nesso causale fra le carenze – indubbiamente sussistenti – dell’impianto condominiale e i danni lamentati dal singolo condomino.

Costui ricorre in cassazione, rilevando – fra i diversi motivi di impugnazione – che la corte di secondo grado non si era pronunciata sulla domanda di rifacimento dell’impianto elettrico.

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI  5 luglio 2017 n. 16608 rel. Scarpa) respinge tutti i motivi di ricorso, tranne quello relativo alle spese, con una motivazione netta che chiarisce in maniera ineccepibile  la natura del  rapporto fra condominio e condomino.

Il giudice di legittimità chiarisce che non sussiste alcun rapporto contrattuale fra condominio e condomino che legittimi quest’ultimo alla richiesta di un adempimento positivo circa l’impianto elettrico; pertanto il condomino – in presenza di illegittimità afferenti i beni comuni – dovrà attivarsi con i rimedi approntati dalla disciplina condominiale, che trovano presupposto nella comproprietà dell’impianto piuttosto che in pretese di natura sinallagmatica, che non possono trovare cittadinanza nel rapporto che lega i singoli alla gestione del bene  comune.

L’art. 1117, n. 3, c.c., delimita chiaramente quale sia l’estensione dell’impianto condominiale di distribuzione e trasmissione dell’energia elettrica e quale, sia quindi, il suo “confine” rispetto all’inizio degli impianti rientranti nelle proprietà esclusive delle rispettive unità immobiliari, avendo riguardo al “punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini”.

Sicchè una responsabilità del condominio per i danni cagionati dal cattivo funzionamento dell’impianto elettrico si limita a quella parte del sistema che sia posto prima delle diramazioni negli appartamenti, rimanendo i singoli condomini tenuti alla manutenzione degli impianti interni.

Va poi chiarito come il singolo condomino non sia titolare verso il condominio di un diritto di natura sinallagmatica relativo al buon funzionamento degli impianti condominiali, che possa essere esercitato mediante un’azione di condanna della stessa gestione condominiale all’adempimento corretto della relativa prestazione contrattuale, trovando causa l’uso dell’impianto che ciascun partecipante vanta nel rapporto di comproprietà delineato negli artt. 1117 e ss. c.c.

Ne consegue che il condomino non ha comunque azione per richiedere la condanna del condominio ad un “facere”, consistente nella messa a norma dell’impianto elettrico comune, potendo al più avanzare verso il condominio una pretesa risarcitoria nel caso di colpevole omissione dello stesso nel provvedere alla riparazione o all’adeguamento dell’impianto (arg. da Cass. Sez. 2, 31/05/2006, n. 12956; Cass. Sez. 2, 15/12/1993, n. 12420), ovvero sperimentare altri strumenti di reazione e di tutela, quali, ad esempio, le impugnazioni delle deliberazioni assembleari ex art. 1137 c.c., i ricorsi contro i provvedimenti dell’amministratore ex art. 1133 c.c., la domanda di revoca giudiziale dell’amministratore ex art. 1129, comma 11, c.c., o il ricorso all’autorità giudiziaria in caso di inerzia agli effetti dell’art. 1105, comma 4, c.c.”

Risultano manifestamente infondati gli altri motivi di ricorso, relativi alla responsabilità ex art. 2043 cod.civ. del Condominio e alla sussistenza del nesso di causalità fra vizi dell’impianto e danni subiti dal condomino, poiché volti – ad avviso della Corte – a sottoporre al giudice di legittimità valutazioni nel merito.

Viene invece accolto un unico motivo, relativo alle spese: in primo grado al condominio – rimasto contumace – erano state liquidate le spese di lite; osserva la Corte che “La condanna alle spese processuali, a norma dell’art. 91 c.p.c., ha, invero, il suo fondamento nell’esigenza di evitare una diminuzione patrimoniale alla parte che ha dovuto svolgere un’attività processuale per ottenere il riconoscimento e l’attuazione di un suo diritto; sicché essa non può essere pronunziata in favore del contumace vittorioso, poiché questi, non avendo espletato alcuna attività processuale, non ha sopportato spese al cui rimborso abbia diritto (da ultimo, Cass. Sez. 2, 19/08/2011, n. 17432).”

© massimo ginesi 5 luglio 2017

responsabilità per immissioni rumorose da bar, è responsabile chi le provoca.

La Cassazione ( Cass.civ. sez. II  4 luglio 2017 n. 16407) esamina una vicenda che – con l’arrivo dell’estate – è frequente in condominio: il pub a piano terra dell’edificio tiene musica ad alto volume sino a tarda notte e turba i sonni dei condomini.

Due di costoro promuovono azione giudiziale sia nei confronti del proprietario dei locali che verso il conduttore, che è il soggetto titolare dell’attività commerciale molesta.

Il Tribunale di Sondrio condanna proprietario e locatore a pagare a ciascuno dei condomini attori l’importo di 15.000 euro (diecimila per danno biologico e 5.000 per danno morale).

LA Corte d’appello di Milano, in riforma della sentenza, rigetta la domanda contro il proprietario dei fondi,  lasciando integra la sola condanna in capo al conduttore dei locali, esercente l’attività commerciale.

La Corte milanese rilevava che dalla relazione dell’Arpa risultava che le immissioni intollerabili derivassero dalla musica tenuta ad alto volume all’interno dei locali fino a tarda notte, dal vociare degli avventori fuori dal locale e che il locatore avesse saputo della situazione solo poco prima del giudizio, che avesse più volte richiamato i conduttori e che nel contratto di locazione fosse stata inserita una clausola che vietava al conduttore attività rumorose. Riduceva inoltre il risarcimento a 6.000 euro per ciascun condomino, determinati in via equitativa, sull’assunto che non vi fosse prova del danno biologico nella misura lamentata.

Occorre premettere che, secondo l’indirizzo interpretativo di questa corte, l’azione di natura reale, asperità per l’accertamento dell’illegittimità dell’immissione e per la realizzazione delle modifiche strutturali necessarie al fine di far cessare le stesse nei confronti del proprietario del fondo da cui tali immissioni provengono è distinta e può essere cumulata con la domanda verso altro convenuto, per responsabilità aquiliana ex articolo 2043 c.c., volta ad ottenere il risarcimento del pregiudizio di natura personale da quelle cagionate (Cass.civ. sez. un. 27 febbraio 2013 n. 4848).

Quest’ultima domanda risarcitoria va proposta secondo i principi della responsabilità aquiliana e cioè nei confronti del soggetto individuato da criterio di imputazione della responsabilità. E, quindi nei confronti dell’autore del fatto illecito (materiale o morale), allorché il criterio di imputazione è la colpa o il dolo (art. 2043) e nei confronti del custode della cosa allorché i criterio di imputazione è il rapporto di custodia (art. 2051).

Allorché le immissioni intollerabili originano da un immobile condotto in locazione, dunque, la responsabilità ex articolo 2043 cod.civ. per i danni da essi derivanti può essere affermata nei confronti del proprietario, locatore dell’immobile, solo se il medesimo abbia concorso alla realizzazione del fatto dannoso, non già per aver omesso di rivolgere al conduttore una formale diffida ad adottare gli interventi necessari ad impedire pregiudizio a carico di terzi (Cass.civ. sez. III  28/5/2015 n 11125)”

© massimo ginesi 5 luglio 2017

opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, una sentenza interessante

Cass.civ. sez. II  28 giugno 2017, n. 16211 affronta con pragmatismo e rigore interpretativo una questione interessante, che coinvolge le notifiche effettuate in proprio dal difensore.

La legge 53/1994 consente all’avvocato  di procedere in via autonoma alla notifica degli atti giudiziari a mezzo posta – dunque senza ricorrere all’ufficiale giudiziario – provvedendo alla spedizione del plico mediante raccomandata ed annotando in apposito registro cronologico i dati relativi all’inoltro, peraltro con una puntigliosità e una burocraticità borboniche (va annotato numero della raccomandata, costo, numero dell’ufficio postale di spedizione diversi altri dati).

Nel caso di specie un soggetto, nei cui confronti la spedizione era stata effettuata correttamente, seppur con qualche imprecisione nella registrazione di tali dati, e per il quale – in suo assenza – il plico aveva effettuato regolare compiuta giacenza, pretende di proporre opposizione tardiva al decreto ingiuntivo oggetto della notificazione, adducendo irregolarità formali della notifica e la circostanza che sia stato molto tempo lontano dalla propria abitazione per problemi familiari documentati in giudizio.

La Corte afferma due principi netti:

a) può essere ammesso ad opposizione tardiva solo chi dimostri che dalla irregolarità della notifica sia derivata per il destinatario l’impossibilità di conoscere tempestivamente l’atto, non rilevando la mera irregolarità formale ove la notifica abbia raggiunto lo scopo

b) colui che si assenta per lunghi periodi da casa ha l’onere di curare il ritiro della posta o di organizzare metodi alternativi che gli consentano di essere raggiunto dal servizio, senza che possa addossare al mittente – in difetto – le conseguenze della sua assenza.

La Corte ha rilevato due errori del procedimento notificatorio: la mancanza del numero cronologico dell’atto sul registro del professionista e dell’ufficio giudiziario (tribunale di Sassari che aveva emesso il provvedimento). Ha però osservato che tali vizi non potevano determinare la mancata conoscenza e non erano quindi rilevanti ex art. 650 c.p.c…

non ogni irregolarità – quali quelle appena descritte – rileva per giustificare l’opposizione tardiva, ma solo quelle decisive per impedire la conoscenza della notificazione. Ciò non può certo dirsi né quanto alla tenuta del registro notifiche del mittente, né quanto alla modulistica degli avvisi di ricevimento, posto che questi ultimi non furono ritirati.

Era quindi stato assolto l’onere della notifica ed era conseguente onere del destinatario dimostrare sia i vizi di nullità sia che da essi fosse dipesa la mancata conoscenza della notificazione e la mancata opposizione…

chi si assenta per lunghi periodi dalla propria residenza e non effettui la modifica anagrafica conoscibile ai terzi ha l’onere di provvedere al ritiro della corrispondenza, organizzandone l’inoltro o tramite servizi di posta o tramite soggetti incaricati, dall’altro perché privi di riscontro.”

conclude dunque la Corte che “Ed è vero anche che il regime delle nullità delle notificazioni è stato rivisitato da Cass. SU 14916/16 in senso opposto a quanto dedotto in ricorso circa l’insanabilità di ogni vizio formale e sostanziale…

Orbene, le irregolarità – tutte formali – non incidono sulla mancata conoscenza; l’assenza protratta nel tempo non eliminava l’obbligo imposto dal dovere di comportarsi secondo l’ordinaria diligenza nel presidiare la residenza anagrafica conoscibile dai terzi.”

© massimo ginesi 4 luglio 2017

sopraelevazione ex art. 1127 cod.civ. e decoro architettonico

La cassazione (Cass.civ. sez. VI 28 giugno 2017, n. 16258 rel. Scarpa) sottolinea come la nazione di  decoro architettonico dell’edificio abbia peculiare natura in tema di sopraelevazione, ove deve tener conto delle caratteristiche preesistenti del fabbricato, badando a non stravolgerle.

E’ noto come l’art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell’edificio che non la consentono, ovvero dall’aspetto architettonico dell’edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti.

L’aspetto architettonico, cui si riferisce l’art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l’intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.

Il giudizio relativo all’impatto della sopraelevazione sull’aspetto architettonico dell’edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile condominiale, e verificando l’esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito (cfr. Cass. Sez. 2 -, Sentenza n. 23256 del 15/11/2016 Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10048 del 24/04/2013; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2865 del 07/02/2008; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1025 del 22/01/2004).

Non rileva decisivamente il distinguo che pone la ricorrente fra facciata principale, o meno, dell’edificio, in quanto, nell’ambito del condominio edilizio, le facciate stanno ad indicare l’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che connotano il fabbricato, imprimendogli una fisionomia autonoma e un particolare pregio estetico. La facciata rappresenta, quindi, l’immagine stessa dell’edificio, la sua sagoma esterna e visibile, nella quale rientrano, senza differenza, sia la parte anteriore, frontale e principale, che gli altri lati dello stabile.

Una volta riscontrato, poi, il pregiudizio all’aspetto architettonico, esso si traduce in una diminuzione del pregio estetico e quindi pure economico del fabbricato.

Deve ancora una volta ribadirsi (visto il concreto contenuto delle censure in esame, che invocano sotto certi profili a questa Corte una rivalutazione delle emergenze istruttorie, e non un controllo di legittimità) che l’indagine rivolta a stabilire se in concreto ricorra il denunciato danno all’aspetto della facciata rientra nei poteri del giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1297 del 07/02/1998), se non nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”

© massimo ginesi 3 luglio 2017

furto tramite ponteggio: il condominio non è responsabile ex at. 2051 cod.civ.

La Cassazione (Cassazione civile, sez. III, 20/06/2017,  n. 15176) ridimensiona la responsabilità del Condominio in caso di furto nell’appartamento di un condomino agevolato dalla esistenza di un ponteggio installato per l’esecuzione di opere nel fabbricato.

Il Condominio può essere ritenuto responsabile ai sensi dell’art. 2043 cod.civ., in concorso con l’appaltatore, ma non quale custode ai sensi dell’art. 2051 cod.civ. m con ovvi riflessi di alleggerimento in ordine alla sua responsabilità, quanto meno sotto il profilo probatorio.

ai fini della sussistenza della responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., sono necessari due presupposti: a) una relazione diretta tra la cosa e l’evento dannoso, intesa nel senso che la prima, per il suo intrinseco dinamismo o per l’insorgere in essa di un evento dannoso, abbia prodotto direttamente il secondo, e non sia stata invece solo lo strumento mediante il quale l’uomo abbia causato il danno con la sua azione od omissione; b) un effettivo potere fisico del soggetto sulla cosa, comportante a carico del predetto l’obbligo di vigilare la cosa medesima e di mantenerne il controllo, in modo da impedire che essa produca danni a terzi (cfr. espressamente in tal senso: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 520 del 22/01/1980, Rv. 403906 – 01; nel medesimo senso; Sez. 3, Sentenza n. 3722 del 21/10/1976, Rv. 382419 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3994 del 28/08/1978, Rv. 393591 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 1682 del 15/02/2000, Rv. 533878 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11275 del 27/05/2005, Rv. 581920 – 01; cfr. altresì Sez. 3, Sentenza n. 26901 del 19/12/2014, Rv. 633783 – 01 e, per certi aspetti, Sez. 3, Sentenza n. 2660 del 05/02/2013, Rv. 625158 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6306 del 13/03/2013, Rv. 625465 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 21212 del 20/10/2015, Rv. 637445 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 5910 del 11/03/2011, Rv. 617369 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 8005 del 01/04/2010, Rv. 612274 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 28811 del 05/12/2008, Rv. 605943 – 01).

E’ quindi da escludere, in linea di principio, che – in caso di furto reso possibile dall’omessa adozione delle necessarie misure di sicurezza in relazione all’impalcatura di proprietà e/o installata, come nella specie, dall’appaltatore per effettuare lavori nello stabile condominiale – possa automaticamente affermarsi sussistere a carico del condominiocommittente, ai sensi dell’art. 2051 c.c., una responsabilità oggettiva o presunta, “da custodia” della struttura, della quale quest’ultimo ha semplicemente consentito l’installazione, laddove si riconosca a carico dello stesso appaltatore (proprietario e/o quanto meno diretto installatore e utilizzatore della predetta struttura) esclusivamente una responsabilità ordinaria per colpa, ai sensi dell’art. 2043 c.c..

In una siffatta ipotesi, la responsabilità del condominio committente può essere affermata esclusivamente ai sensi dell’art. 2043 c.c., in concorso con quella dell’appaltatore, per omissione degli obblighi di vigilanza sull’attività di quest’ultimo.

Ed in tale ottica costituisce questione di fatto stabilire in quali limiti ed in quali termini lo stesso condominio disponga, nella vicenda concreta, di tali poteri di vigilanza, ed eventualmente anche in che termini ed in che limiti sia comunque esigibile, secondo l’ordinaria diligenza che, nell’affidamento a terzi di lavori in appalto da svolgersi sulle parti comuni dell’edificio, esso si riservi in ogni caso siffatti poteri, a tutela dei condomini e dei terzi ai quali dai lavori stessi possano derivare eventuali pregiudizi.

Nella specie, i giudici di merito, sulla base dell’esame delle circostanze di fatto rilevanti e della prudente valutazione del materiale istruttorio, ed in virtù di adeguata motivazione, da una parte hanno in concreto escluso la sussistenza di un concreto potere di fatto, da parte del condominio, in relazione all’impalcatura montata dall’appaltatore, così negando in radice il presupposto del rapporto di custodia con la struttura che avrebbe agevolato il danno, e dall’altra parte hanno altresì accertato che non era stato dedotto, ancor prima che provato, un difetto di vigilanza sull’impresa da parte del condominio.”

© massimo ginesi 30 giugno 2017 

utilizzo del lastrico solare comune da parte del singolo condomino

La Cassazione ( Cass.civ. sez.VI 28 giugno 2017 n. 16260 rel. Scarpa) fornisce una lettura ampia e orientata al principio di solidarietà dell’art. 1102 cod.civ.

Una condomina trasforma la propria finestra in porta finestra per accedere al lastrico comune, che dota di ringhiera e occupa con alcuni arredi da giardino.

Il Condominio si duole che tale iniziativa costituisca illecito utilizzo del bene comune in quanto idoneo a sottrarlo al pari uso degli altri condomini e come tale costituirebbe violazione del  disposto dell’art. 1102 cod.civ.

Questa corte ha più volte affermato come l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è sottoposto, secondo il disposto dell’articolo 1102 c.c., a due fondamentali limitazioni, consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nell’obbligo di consentire un uso paritetico gli altri condomini.

Simmetricamente, la norma in parola,  intesa, altresì, ad assicurare al singolo partecipante, quanto all’esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa, legittima quest’ultimo entro i limiti ora ricordati a servirsi di essa anche per fini esclusivamente ai propri, traendone ogni utilità, non potendosi intendere la nozione di uso paritetico in termini di assoluta identità di utilizzazione della res, poiché una lettura in tal senso della norma de qua, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe sostanziale divieto, per ciascun qua il domino, di fare, della cosa comune, qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio.

I rapporti condominiali, invero, sono informati al principio di solidarietà il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione. Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non possono fare un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che, in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è data dagli interessi altrui, i quali, pertanto, costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possono volere accrescere il pari uso cui hanno diritto.

…i giudici del merito non hanno considerato che il più ampio uso del bene comune, da parte del singolo condomino, non configura ex se una lesione o menomazione dei diritti degli altri partecipanti, ove, ad esempio esso trovi giustificazione  nella conformazione strutturale del fabbricato (giacché, come sosteneva la stessa appellante, trattasi di lastrico solare al quale sia possibile accedere da uno solo degli appartamenti di proprietà esclusiva)”

il giudice di legittimità  cassa con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma che dovrà accertare in concreto se la misura dell’utilizzo posta in essere dalla condomina sia idoneo a pregiudicare la funzione di copertura del lastrico o abbia sottratto in maniera irrimediabile la porzione ad ogni possibile futuro utilizzo dei condomini.

© massimo ginesi 29 giugno 2017

il condominio è sempre consumatore

Lo ha affermato il Tribunale di Massa con sentenza 26 giugno 2017 n. 552, in una controversia ove il condominio – cui era stata notificato decreto ingiuntivo da parte di un fornitore – nel proporre opposizione eccepisce l’incompetenza territoriale del giudice, rilevando che – ove il condominio sia composto unicamente da operatori commerciali – non possa applicarsi il c.d. foro del consumatore.

Il Tribunale respinge l’eccezione, sull’assunto che al condominio – quale che sia la natura dei soggetti che lo compongono – deve sempre essere riconosciuta natura privatistica.

Va preliminarmente rilevato come risulti infondata come risulti infondata territoriale sollevata dall ’op ponente sull’assunto che al condominio non si debba riconoscere la qualifica di consumatore e non sarebbe dunque  applicabile il relativoforo disciplinato dal D.lgs 206/2005.  

La tesi risulta non accoglibile, atteso che la qualifica di consumatore è ricondotta  dalla giurisprudenza al condominio in quanto tale (da ultimo  Cassazione civile, sez. VI, 22/05/2015,  n. 10679), sull’assunto che “Al contratto concluso con un professionista da un amministratore di condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applica la disciplina di tutela del consumatore, agendo l’amministratore stesso come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale”.

Pur non apparendo condivisibile il percorso logico che ancora oggi conduce la giurisprudenza di legittimità – sulla scorta di Cass. SS.UU. 914872008 – a ritenere che il contratto concluso dall’amministratore produca effetti direttamente in capo ai singoli condomini in virtù del rapporto di mandato, dovendosi viceversa ritenere che tale pattuzione vincoli il condominio in quanto tale all’unica e totale prestazione ivi dedotta (a mente di Cass. 9 8630/1996), salvo poi la possibilità per il creditore di attuarla esecutivamente in via parziaria nei confronti dei singoli ex art. 63 Ii comma disp. Att. C.c., paiono comunque condivisibili gli approdi circa la qualifica di consumatore da riconoscere al soggetto condominio.

Emerge dalla stessa giurisprudenza delle sezioni unite citata dall’opponente (Cassazione civile, sez. un., 18/09/2014,  n. 19663) che al condominio in quanto tale debba riconoscersi una soggettività autonoma, seppur imperfetta ed attenuata, rispetto ai suoi componenti e che lo stesso persegua scopi che non sono del tutto coincidenti con quelli dei singoli che lo compongono; affermano infatti le sezioni unite che il principio della necessaria concorrenza di legittimazione processuale fra amministratore e singoli – da sempre affermato dalla giurisprudenza per determinate controversie – “non trova applicazione relativamente alle controversie aventi ad oggetto non i diritti su di un servizio comune, bensì la gestione di esso, ed intese, dunque, a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale, o l’esazione delle somme dovute in relazione a tale gestione da ciascun condomino, nelle quali non vi è correlazione immediata con l’interesse esclusivo d’uno o più partecipante

Ne deriva che al condominio, quale centro di imputazione di interessi dotato di autonomia soggettiva  non perfetta (si rientrerebbe altrimenti nella categoria delle persone giuridiche, cui il codice del consumo non può applicarsi) si debbano riconoscere scopi  e funzioni secondo i parametri delineati dagli artt. 1117/1139 c.c., volti alla fruizione, gestione e manutenzione del bene immobile in cui il condominio è posto; a tali funzioni teleologicamente orientate – proprio per la non immediata correlazione fra i la natura/funzione del condominio e gli interessi esclusivi di uno o più partecipanti così come evidenziato dalle sezioni unite, deve essere riconosciuta una caratteristica ontologicamente privatistica, che sfugge alla natura imprenditoriale e agli scopi per cui agiscono i singoli che lo compongono.

Appare ragionevole ritenere che il condomino, nel momento in cui agisce come tale, ovvero per la gestione dei beni comuni e strumentali a proprietà solitarie, agisca comunque quale soggetto privatistico che persegue fini estranei alla natura imprenditoriale dei suoi componenti; fini che sono semplicemente volti alla fruizione e conservazione delle parti comuni di un fabbricato, in cui la destinazione funzionale delle singole unità che lo compongono non può essere necessariamente identitaria anche della connotazione soggettiva di consumatore.

Si dovrebbe altrimenti ritenere che il soggetto condominio possa repentinamente cambiare identità al solo mutare della destinazione di qualche unità, né si riuscirebbe a fornire la tutela prevista dal d.lgs 206/2005 a quei fabbricati misti composti da immobili con diversa destinazione, atteso che alla luce delle sezioni unite del 2014 si deve comunque aver riguardo al centro di imputazione collettivo e non già ai singoli individui che lo compongono.

Appare dunque più lineare e conforme allo spirito della legge, della interpretazione di legittimità sulla natura del condominio e a quella di tutela del consumatore ritenere che l’interesse condominiale – quale che sia la natura dei condomini – sfugge alla loro natura imprenditoriale, per rimanere circoscritto alla sola caratterizzazione privatistica che gli profilano gli artt. 1117/1139 c.c.

Ne deriva che, correttamente, il decreto ingiuntivo sia stato richiesto al Giudice del luogo ove il convenuto consumatore ha sede.”

© massimo ginesi 28 giugno 2017 

il vizio di convocazione può essere fatto valere solo dall’interessato.

La suprema corte (Cass.civ. sez. VI 22 giugno 2017 15550 rel. Scarpa)  riafferma un principio consolidato, con una motivazione di pregio, che consente un ottimo inquadramento della materia.

Legittimato ad impugnare la delibera per vizio di convocazione è solo il condomino che assuma di non essere stato ritualmente convocato, atteso che tale fatto da luogo ad annullabilità e non a nullità.

La sentenza riafferma anche atro principio noto: la domanda volta all’accertamento di un autonomo condominio relativo ai box va posta nei conforti dei condomini interessati – comportando litisconsorzio necessario – e non dell’amministratore.

Ora, è noto come l’art. 66, comma 3, disp. att. c.c., a seguito della riformulazione operatane dalla legge n. 220/2012 (nella specie, non applicabile ratione temporis) precisa che, in caso di avviso omesso, tardivo o incompleto degli aventi diritto, la deliberazione adottata è annullabile, ma su istanza (soltanto) dei dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati.

La Riforma del 2012 ha così tratto le necessarie conseguenze sotto il profilo processuale dalla sistemazione della fattispecie dell’omessa convocazione nell’ambito dei rimedi sostanziali operata da Cass. Sez. U, Sentenza n. 4806 del 07/03/2005.

Una volta condiviso il principio per cui la mancata comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale, in quanto vizio procedimentale, comporti non la nullità, ma l’annullabilità della delibera condominiale, è inevitabile concludere che la legittimazione a domandare il relativo annullamento spetti, ai sensi degli artt. 1441 e 1324 c.c., unicamente al singolo avente diritto pretermesso.

L’interesse del condomino che faccia valere un vizio di annullabilità, e non di nullità, di una deliberazione dell’assemblea, non può, infatti, ridursi al mero interesse alla rimozione dell’atto, ovvero ad un’astratta pretesa di sua assoluta conformità al modello legale, ma deve essere espressione di una sua posizione qualificata, diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che quella delibera genera quanto all’esistenza dei diritti e degli obblighi da essa derivanti: la delibera assembleare è annullabile sulla base del giudizio riservato al soggetto privato portatore di quella particolare esigenza di funzionalità dell’atto collegiale tutelata con la predisposta invalidità, esigenza che si muove al di fuori del complessivo rapporto atto-ordinamento.

Da tali premesse, a confutazione delle doglianze contenute nel ricorso, richiamando l’orientamento già proprio di questa Corte, deve affermarsi che: “il condomino regolarmente convocato non può impugnare la delibera per difetto di convocazione di altro condomino, trattandosi di vizio che inerisce all’altrui sfera giuridica, come conferma l’interpretazione evolutiva fondata sull’art. 66, comma 3, disp. att. c.c., modificato dall’art. 20 della legge 11 dicembre 2012, n. 220” (Cass. Sez. 2, 23/11/2016, n. 23903; Cass. Sez. 2, 18/04/2014, n. 9082; Cass. Sez. 2, 13/05/2014, n. 10338).

L’infondatezza del ricorso è ancor più palese ove si consideri che non potesse comunque essere oggetto del giudizio di impugnazione della deliberazione asssembleare, ai sensi dell’art. 1137 c.c., l’agitata questione dell’accertamento dell’esistenza di un “condominio autonomo” con riferimento alle distinte unità immobiliare realizzate nel piano interrato e destinate ad autorimesse, trattandosi di domanda rivolta nei confronti dell’amministratore, e che avrebbe, piuttosto, imposto il litisconsorzio necessario di tutti quei singoli condomini (Cass. Sez. 2, 18/04/2003, n. 6328; Cass. Sez. 2, 01/04/1999, n. 3119).”

© massimo ginesi 27 giugno 2017 

nel procedimento di revoca dell’amministratore non è necessaria la difesa tecnica

Lo ha stabilito la suprema Corte ( Cass.civ. sez. VI 23 giugno 2017 n. 15706, rel. Scarpa), osservando che .

  • avverso il provvedimento della corte di appello, che statuisce sul reclamo contro il provvedimento di revoca emesso dal Tribunale, è inammissibile il ricorso per cassazione se non sul capo delle spese.
  • Il procedimento di revoca dell’amministratore, che può essere intrapreso su ricorso di ciascun condomino, riveste un carattere eccezionale d’urgenza oltre che sostitutivo della volontà assembleare ed è  ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, a fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore. Non è quindi ammessa la partecipazione al giudizio dei condomini e del condominio interessato:  legittimato a contraddire  soltanto l’amministratore, non sussistendo litisconsorzio degli altri condomini.”
  • il giudizio è improntato a rapidità, informalità e ufficiosità, potendo peraltro il provvedimento essere adottato sentito l’amministratore in contraddittorio con il ricorrente (art. 64 comma 1, disp.att. cod.civ.). Il decreto del tribunale di revoca incide, quindi, sul rapporto di mandato fra condomini ed  amministratore, al culmine di un procedimento camerale plurilaterale, nel quale, tuttavia, l’intervento giudiziale è pur sempre diretto all’attività di gestione di interessi. Pertanto il provvedimento del tribunale non riveste alcuna efficacia decisoria e lascia salva al mandatario revocato la facoltà di chiedere la tutela giurisdizionale del diritto provvisoriamente inciso, facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (pur non ponendosi questo come un riesame del decreto)
  • poiché, allora, il giudizio di revoca dell’amministratore di condominio da luogo ad un procedimento camerale plurilaterale tipico nel quale l’intervento del giudice è diretto all’attività di gestione di interessi e non culmina in un provvedimento avente efficacia decisori,a in quanto non incide su situazioni sostanziali di diritti o di status, non è indispensabile il patrocinio di un difensore legalmente esercente ai sensi dell’articolo 82 comma III c.p.c.

Per tali ragioni, conclude la Corte, salvo che la parte non rivesta essa stessa qualifica di difensore legalmente esercente, non può chiedere che il rimborso delle spese vive, senza che possano essergli liquidate competenze professionali.

© massimo ginesi 26 giugno 2017