quando l’amministratore di condominio delinque: appropriazione indebita e truffa

Una recente sentenza della Cassazione (Cassazione penale, sez. II, 21/04/2017,  n. 25444) offre l’occasione per valutare le responsabilità penali che conseguono a condotte, meno che irreprensibili, tenute dall’amministratore di condominio nel maneggio del denaro che i condomini gli affidano per la gestione delle cose comuni.

Ad una gestione spregiudicata possono conseguire  diverse fattispecie di reato: il caso giunto all’esame della suprema corte vede un amministratore di condominio che, da un lato, pone a carico dei condomini spese per attività mai svolte e, dall’altro, trattiene per sé la cassa al momento del passaggio delle consegne.

Il soggetto è condannato in primo e secondo grado ” Con sentenza in data 5 aprile 2016 la Corte di Appello di Brescia ha integralmente confermato la sentenza del Tribunale di Bergamo del 16 febbraio 2015 con cui T.A. era stato ritenuto responsabile dei reati di cui agli artt. 646 (per essersi appropriato, quale amministratore di un condominio, di somme versate dai condomini per spese di gestione dell’immobile) e 640 c.p. (per aver indotto i condomini in errore circa l’entità delle spese di gestione da sostenere ed essersi così fatto versare dagli stessi somme non dovute) ed era stato conseguentemente condannato alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni subiti dal condominio costituitosi parte civile.”

Il disinvolto amministratore propone ricorso per cassazione con due fantasiosi motivi: da un canto sostiene che non sussisterebbe l’appropriazione indebita poiché “non vi era prova di come le somme fossero uscite dalla disponibilità condominiale, di quando l’ammanco si fosse verificato in epoca antecedente il 30 aprile 2007 e di dove i denari fossero finiti, ha sostenuto che il semplice uso del denaro, ancorché momentaneo, non integrava l’interversione del possesso, sottolineando poi che non era l’imputato a dover giustificare la destinazione delle somme mancanti ma l’accusa a dover provare gli elementi costitutivi del reato”; dall’altro afferma che non sarebbe neanche integrato il reato di truffa atteso che “la corte territoriale non aveva verificato il ricorrere degli elementi costitutivi del delitto di truffa, controllando quali attività inesistenti erano state retribuite o quali importi non dovuti o eccessivi erano stati corrisposti”.

La corte di legittimità è netta nelle sue valutazioni a sfavore del ricorrente ed osserva che: “La corte territoriale ha constatato che per gli anni di gestione del condominio 2007 – 2009, affidati all’odierno ricorrente quale amministratore dopo una precedente gestione assolutamente lineare, il saldo attivo del conto comune sarebbe dovuto essere pari a Euro 29.544,96 mentre in realtà non vi era alcuna disponibilità di cassa e ha conseguentemente ritenuto integrato il reato di appropriazione indebita in ragione del fatto che l’imputato, al subentro del nuovo amministratore, trattenne per sé le somme di pertinenza condominiale.”

Il non restituire la cassa è ipotesi paradigmatica del reato di cui all’art. 646 cod.pen.: “Una simile valutazione è del tutto conforme all’orientamento di questa Corte secondo cui il delitto di appropriazione indebita è integrato dalla interversione del possesso, che si manifesta quando l’autore si comporti uti dominus non restituendo il bene di cui ha avuto la disponibilità senza giustificazione, così da evidenziare in maniera incontrovertibile anche l’elemento soggettivo del reato (Sez. 2, n. 25288 del 31/05/2016 – dep. 17/06/2016, Trovato, Rv. 26711401). Non si presta poi a censure la valutazione operata dalla Corte d’Appello della congerie istruttoria disponibile, in quanto l’imputato che neghi la sussistenza della condotta ascrittagli ha l’onere di provare o allegare non un fatto negativo, consistente nel mancato accadimento di quanto gli è addebitato, e segnatamente nella mancata appropriazione, ma specifiche circostanze positive contrarie a quelle provate dalla pubblica accusa dalle quali possa desumersi che il fatto in contestazione non è avvenuto (Sez. 2, n. 7484 del 21/01/2014 – dep. 17/02/2014, P.G., P.C. in proc. Baroni, Rv. 25924501; nello stesso senso Sez. 2, n. 20171 del 07/02/2013 – dep. 10/05/2013, Weng e altro, Rv. 25591601).”

Con riguardo alla appropriazione indebita nel corso di un rapporto gestorio continuato, la corte precisa che “nel caso in cui l’agente abbia la disponibilità di denaro altrui in virtù dello svolgimento di un incarico gestorio il reato di appropriazione indebita è integrato dall’interversione del possesso, che si manifesta quando l’autore si comporta uti dominus non restituendo senza giustificazione le somme detenute, che non ha più ragione di trattenere, in modo da evidenziare in maniera incontrovertibile anche l’elemento soggettivo del reato”.

Quanto alla truffa, le tesi dell’imputato non hanno miglior sorte: “la Corte d’ Appello di Brescia ha riscontrato che i condomini avevano consegnato all’imputato, nella sua veste di amministratore, la complessiva somma di Euro 13.335,84 a fronte di spese inesistenti o ingiustificate o comunque non seguite dalle azioni promesse; la Corte ha poi spiegato che gli artifici e raggiri erano consistiti nella richiesta di pagamenti falsamente giustificati relativi a prestazioni fasulle che avevano comportato un’ induzione in errore dei condomini, i quali avevano versato somme non dovute che erano state incamerate dall’imputato senza alcun titolo. In questo modo la corte territoriale, una volta preso atto che l’imputato non aveva in alcun modo assolto l’onere di allegazione che su di lui incombeva di fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che fossero idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore, ha puntualmente dato conto del ricorrere degli elementi costitutivi del reato di truffa in contestazione.”

Di interesse è la motivazione della Corte circa il momento consumativo della truffa, nell’ipotesi di contratto gestorio svolto dall’amministratore: “il perfezionamento della truffa è legato al verificarsi del danno patrimoniale per la vittima e dell’ingiusto profitto per l’agente (dato che è necessario che il profitto dell’azione truffaldina entri nella sfera giuridica di disponibilità dell’agente, non essendo sufficiente che esso sia fuoriuscito da quella del soggetto passivo; Sez. 5, n. 14905 del 29/01/2009 – dep. 06/04/2009, Coppola e altro, Rv. 24360801) e si verifica nel momento in cui queste evenienze vengano entrambe a esistenza o, in caso di mancata contestualità, in coincidenza con l’avverarsi dell’ultima componente.
Dunque la truffa contrattuale è reato istantaneo e di danno la cui consumazione coincide con la perdita definitiva del bene in cui si sostanzia il danno del raggirato e il conseguimento dell’ingiusto profitto da parte dell’agente (Sez. 2, n. 20025 del 13/04/2011 – dep. 20/05/2011, Pg in proc. Monti e altri, Rv. 25035801).
Nel caso di specie l’imputato ha preteso il pagamento di compensi per prestazioni professionali fasulle, condotta a cui hanno fatto seguito l’addebito al condominio degli importi fatturati descritti nel capo d’imputazione e l’incasso da parte dell’amministratore o di parenti dell’imputato dei compensi non dovutiIl perfezionamento del reato deve perciò ritenersi avvenuto nel momento in cui l’indebito esborso e il correlato ingiusto profitto si verificarono, a prescindere dalla sua constatazione da parte dell’amministratore, e dunque nei tempi indicati nel capo d’ imputazione (negli anni 2007 e 2008).

A questo amministratore il giudice di merito ha anche contestato la recidiva infraquinquennale reiterata (ovvero la commissione di più reati nell’arco di un quinquennio da chi è già recidivo), poiché “il T. annovera due precedenti per omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, conseguenti a due decreti penali divenuti esecutivi rispettivamente il 26.6.2008 e il 30.7.2010, e una condanna per appropriazione indebita divenuta irrevocabile il 2.10.2014.”

La corte esclude che possa essere contestata con tali modalità la recidiva, per ragioni legate al tempo di perfezionamento dei reati e al passaggio in giudicato delle diverse condanne “Ora, posto che perché possa configurarsi la recidiva occorre che il nuovo reato sia commesso dopo che la precedente condanna sia divenuta irrevocabile e tenuto conto di quanto in precedenza precisato in merito ai momenti consumativi dei reati ascritti all’imputato, la recidiva infraquinquennale è stata correttamente contestata rispetto al reato di appropriazione indebita, perfezionatosi, come detto, nel giugno 2009 al momento del subentro del nuovo amministratore, poiché a quella data il primo decreto penale era divenuto esecutivo (non assumendo rilievo ai fini della contestazione della recidiva il condono disposto, come ha chiarito Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015 – dep. 04/08/2015, P.G in proc. Agostino e altri, Rv. 26462901).
Diverse considerazioni devono essere fatte rispetto al reato di truffa, che si è perfezionato nei tempi indicati nel capo d’imputazione (e più precisamente nei momenti in cui vennero emesse le fatture fra l’1.6.2007 e il 1.2.2008) e dunque in epoca precedente all’esecutività del primo decreto penale.
Deve quindi essere esclusa, rispetto al reato di cui al capo B), la recidiva contestata.”

Le vicende risalgono ad anni antecedenti l’entrata in vigore della L. 220/2012, oggi – alla luce dell’art. 71 bis disp.att. cod.civ. introdotto dalla novella –  questo amministratore non avrebbe potuto assumere l’incarico, atteso che la lettera b) della norma esclude coloro che  “sono stati condannati per delitti contro la pubblica amministrazione, l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni”.

© massimo ginesi 31 maggio 2017 

scale e androne: pagano anche i fondi con accesso esterno

La Cassazione conferma un orientamento ormai consolidato, secondo il quale le scale costituiscono elemento imprescindibile per l’esistenza di un fabbricato multi piano e quindi sono comuni anche ai fondi che hanno accesso autonomo dalla strada che sono, quindi, tenuti alle spese per la loro conservazione, salvo diversa convenzione pattizia e seppure in misura ridotta.

La sentenza ( Cass. civ. sez. II 20 aprile 2017 n. 9986) richiama orientamenti risalenti, con indubbie aperture di riflessione, anche se l’iter argomentativo non brilla per linearità e armonia.

Il ricorrente, per escludere la propria obbligazione in ordine alle scale, avanza la tesi che che “ai fini della approvazione dei lavori di sistemazione dell’androne e delle scale (…) la validità della delibera debba essere verificata con riferimento ai millesimi dei soli condomini interessati ai lavori in parola (…) e non di tutti i condomini del fabbricato”, tesi che la corte disattende in maniera drastica.

A tal proposito  la corte di legittimità richiama “l’insegnamento secondo cui l’androne e le scale di un edificio sono oggetto di proprietà comune, ai sensi dell’art. 1117 cod.civ. anche dei proprietari dei locali terrene, che abbiano accesso direttamente dalla strada, in quanto costituiscono elementi necessari per la configurabilità stessa di un fabbricato come diviso in proprietà individuali, per piani o porzioni di piano, e rappresentano inoltre, tramite indispensabile per il godimento e la conservazione, da parte od a vantaggio di detti soggetti, delle strutture di copertura, a tetto od a terrazza” (Cfr. Cass. 5.2.1979 n. 761)  

Dunque “le scale, essendo elementi strutturali necessari alla edificazione di uno stabile condominiale e mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di copertura, conservano la qualità di parti comuni, così come indicato nell’art. 1117 cod.civ., anche relativamente ai condomini proprietari di negozi con accesso dalla strada, in assenza di titolo contrario, poiché anche tali condomini ne fruiscono quanto meno in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell’edificio”   

La Corte ricorda comunque un orientamento del 1994 (Cass. 27.9.1994 n. 7885) in forza del quale ben potrebbe darsi, in tale ipotesi, la figura del condominio parziale, “quantomeno in dipendenza della estraneità ad esso dei proprietari dei locali terranei aventi accesso direttamente dalla strada”

Al fine di ricondurre tuttavia la figura del condominio parziale  al solo aspetto gestionale e non relativo alla titolarità del bene, il giudice di legittimità ricorda altre due pronunce (Cass. 21.1.2000 n. 651 e Cass. 2.3.2016 n. 4127) rilevando che, salvo diversa convenzione, per  l’utilità comunque marginale che – anche in caso di più scale destinate a servire diversi ‘blocchi’ dell’edificio – le stesse rendono a tutti i condomini dell’edificio, devono comunque ritenersi comuni a tutti, che  saranno tenuti in virtù di quella utilità ridotta e astratta che si è sopra evidenziata e che impedisce l’applicazione sic et simpliciter dell’art. 1123 III comma cod.civ.

La Corte, con un percorso non privo di qualche scossone logico, fa proprio un precedente del 1977 (Cass. 6.6.1977 n. 2328) ” a tenor  del quale, ove nell’edificio condominiale siano compresi locali forniti di accesso diverso dall’androne e dal vano scale, anche i proprietari di detti locali sono tenuti a concorrere, sia pure in misura minore, alle spese di manutenzione … in rapporto e in proporzione alla utilità che anche essi possono in ipotesi trarne quali condomini”

Coloro che sino ad oggi hanno ritenuto l’edificio con più scale ipotesi paradigmatica della disciplina dettata dall’art. 1123 cod.civ. non possono che porsi qualche domanda e smarrirsi fra le righe della parte motiva  della sentenza chiedendosi – aldilà dell’ipotesi disciplinata in via convenzionale – se ed in quale misura debba applicarsi l’ipotesi del condominio parziale in un edificio con più scale e se davvero in tale ipotesi – come sembra affermato nella pronuncia odierna – tutti i condomini siano comunque tenuti, in qualche misura, alla contribuzione di tutte le scale in quanto potenzialmente utili a ciascuno di loro.

Per coloro che intendano meglio riflettere sull’orientamento della suprema corte,  è opportuna la lettura integrale della sentenza.

© massimo ginesi 30 maggio 2017 

parcheggi: se il costruttore non li realizza i condomini possono solo agire per il risarcimento.

La materia dei parcheggi pertinenziali, a fronte della legislazione vincolistica che si è succeduta nel corso degli ultimi 50anni, ha dato luogo a notevole contenzioso, con una coacervo interpretativo di non facile lettura.

La corte di legittimità torna sul tema ( Corte di Cassazione, sez. II Civile,  25 maggio 2017, n. 13210 Rel. Giusti), chiarendo  che – ove il costruttore non abbia materialmente realizzato le aree che a la legislazione vincolistica impone, a coloro compete un mero diritto risarcitorio ma non possono agire per richiedere il ripristino degli spazi mancanti.

I fatti e il giudizio di merito: “Con atto di citazione del 28 maggio 1984, la società CI-DI Edilizia Immobiliare a r.l. conveniva in giudizio Bo.Gi. , G.G. , L.S. , D.M. , B.T. , Ca.Ri. , Ca.Em. , D.P.F. , V.L. , D.M.M. e Ce.Br. , tutti condomini dello stabile in (omissis) , nonché il Condominio del medesimo edificio, per sentirli condannare all’immediato rilascio della spazio adibito a parcheggio antistante il fabbricato, nonché al pagamento di una indennità di occupazione, dichiarando che i convenuti non hanno diritto di comproprietà, di servitù, di parcheggio o comunque di uso dello spazio antistante il fabbricato. L’attrice chiedeva in subordine di condannare il Condominio al pagamento del valore dell’area sulla base delle spese sostenute per attrezzarla, da determinare a mezzo di consulenza.

I convenuti resistevano in giudizio, chiedendo il rigetto delle pretese avversarie e formulando domanda riconvenzionale affinché fossero riconosciuti i parcheggi vincolati ai sensi della 6 agosto 1967, n. 765, poiché realizzati in forza di licenza edilizia rilasciata dopo il 1 settembre 1967, come richiesto dall’art. 18 della citata legge.

All’esito del giudizio, il Tribunale di Roma rese la sentenza n. 10488 dell’8 agosto 1988, con cui condannò i convenuti al rilascio dell’area e al pagamento per ciascuno di Lire due milioni, con gli interessi dalla domanda. Contestualmente dichiarò il B. comproprietario del detto terreno con diritto ad utilizzarla a posto auto, poiché soltanto questi aveva dimostrato in giudizio di avere acquistato l’appartamento con le pertinenze prima del 4 giugno 1973, data di vendita dell’area dalla costruttrice a Cu.Ul. .

La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 1004 del 1995, rimetteva la causa al Tribunale di Roma quale giudice di primo grado, stante la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di Cu.Ul. .

Con sentenza in data 16 giugno 2003, il Tribunale di Roma, a parziale modifica della precedente sentenza, dichiarava l’area in questione, di proprietà della CI.DI., soggetta al vincolo legale di destinazione a parcheggio in favore del G. e degli altri litisconsorti, determinando in dodici metri quadri per ciascuno di essi la superficie assoggettata al diritto d’uso, condannando i predetti, con esclusione di B.T. , al pagamento del corrispettivo per il predetto diritto di uso da liquidarsi in separato giudizio, rigettando le ulteriori domande e confermando le altre statuizioni della precedente sentenza n. 10488 del 1988 del medesimo Tribunale.”

La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 23 novembre 2011, in parziale accoglimento dell’appello principale ed in riforma, sul punto, della sentenza gravata, ha condannato il G. , il L. , il D. , il D.P. , il B. , la Ca. , la Ce. , il Bo. , la Ca. , il V. e il D.M. a rilasciare in favore dell’appellante il suolo edificatorio per cui è giudizio, ha rigettato l’appello incidentale, ha confermato nel resto la pronuncia appellata e compensato integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

La Corte d’appello ha rilevato che, secondo le risultanze dell’indagine peritale, il provvedimento concessorio prevedeva la localizzazione degli spazi destinati a parcheggio al piano ingresso dell’edificio, parte in corrispondenza del fabbricato, in una sorta di piano pilotis, e parte in due zone laterali sulle testate dell’edificio.
La Corte distrettuale ha poi evidenziato che il fabbricato realizzato risultava diverso da quello rappresentato negli elaborati relativi alla concessione e non presentava aree di sosta veicolare al piano ingresso, e ciò per l’intervento di modifiche in corso d’opera, in assenza, peraltro, di concessioni in variante.
La Corte di Roma ha quindi ricordato che, in tema di disciplina legale delle aree destinate a parcheggio, interne o circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, ove lo spazio da adibire a parcheggio, pur previsto nel progetto autorizzato, non sia stato riservato a tal fine in corso di costruzione e sia stato impiegato per realizzarvi manufatti od opere di altra natura (diversamente dall’ipotesi in cui allo spazio realizzato conformemente al progetto sia stata data una diversa destinazione in sede di vendita), se possono ravvisarsi a carico del costruttore responsabilità di vario genere, non possono, per contro, individuarsi responsabilità d’ordine privatistico né oneri di ripristino dello status quo ante. Infatti, in tale caso, il bene soggetto ex lege al vincolo pertinenziale (il parcheggio) non è mai venuto ad esistenza e il contratto di trasferimento delle unità immobiliari non ha avuto ad oggetto alcuna porzione di esso né può farsi ricorso alla tutela ripristinatoria di un rapporto giuridico mai venuto ad esistenza, ma semmai solo ad una tutela risarcitoria, in ragione dell’ampio campo applicativo proprio degli artt. 871 e 872 cod. civ., in favore degli acquirenti delle singole unità immobiliari.
Per questo, la Corte d’appello ha giudicato errata la sentenza gravata nella parte in cui ha, diversamente, ritenuto di poter individuare l’area asservita sulla scorta di unilaterali manifestazioni di volontà della società costruttrice espresse per il rilascio di ulteriori provvedimenti concessori aventi ad oggetto opere diverse dall’edificio cui l’area avrebbe dovuto essere asservita.”

La Corte di legittimità conferma integralmente i principi di diritto espresso dalla Corte di Appello: “La Corte d’appello si è correttamente attenuta al principio secondo cui, in tema di spazi riservati a parcheggio nei fabbricati di nuova costruzione, il vincolo previsto al riguardo dall’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dall’art. 18 della legge n. 765 del 1967, è subordinato alla condizione che l’area scoperta esista e non sia stata adibita a un uso incompatibile con la sua destinazione: qualora lo spazio, pur previsto nel progetto autorizzato, non sia stato riservato a parcheggio in corso di costruzione e sia stato invece utilizzato per realizzarvi manufatti od opere di altra natura, non può farsi ricorso alla tutela ripristinatoria di un rapporto giuridico mai sorto, ma semmai a quella risarcitoria, atteso che il contratto di trasferimento delle unità immobiliari non ha avuto ad oggetto alcuna porzione dello stesso (Cass., Sez. II, 22 febbraio 2006, n. 3961; Cass., Sez. II, 7 maggio 2008, n. 11202).

I ricorrenti contestano l’applicazione di questo principio, negando che nella licenza del 1968 i parcheggi fossero al piano pilotis e sostenendo che il provvedimento abilitativo era subordinato alla realizzazione dei parcheggi.
Ma si tratta di deduzione generica, che non tiene conto della circostanza che il riconoscimento giudiziale del diritto reale di uso degli spazi destinati a parcheggi può avere ad oggetto soltanto le aree che siano destinate allo scopo di cui si tratta nei provvedimenti abilitativi all’edificazione, senza possibilità di ubicazioni alternative (Cass., Sez. Il, 11 febbraio 2009, n. 3393).
E, sotto questo profilo, il motivo non spiega come il terreno esterno al lotto ove è avvenuta l’edificazione, acquistato da parte dell’impresa costruttrice nell’agosto del 1970, avesse una destinazione riservata a parcheggio già secondo la licenza del 1968: non spiega, cioè, come la suddetta area risultasse vincolata in base al progetto definitivo relativo alla licenza di costruzione del 1968.
D’altra parte, la Corte d’appello ha escluso, con congruo e motivato apprezzamento delle risultanze di causa, privo di mende logiche e giuridiche, che l’asservimento di tale area possa derivare da unilaterali dichiarazioni del costruttore rivolte al rilascio di ulteriori provvedimenti abilitativi aventi ad oggetto nuove opere, diverse dall’edificio cui l’area avrebbe dovuto essere funzionalmente destinata; e ciò dopo avere accertato, in punto di fatto, sulla scorta dell’indagine compiuta dal tecnico incaricato, che il progetto originario per la costruzione dell’edificio ed il provvedimento concessorio prevedevano la localizzazione degli spazi destinati a parcheggio all’interno dello stesso lotto edificando (in una sorta di piano pilotis e, in parte, in due zone laterali sulle testate dell’edificio).”

© massimo ginesi 29 maggio 2017

quietanze di pagamento simulate rilasciate dall’amministratore: il condominio è terzo e può darne prova con ogni mezzo.

Una vicenda singolare, in cui una condomina (per giunta avvocato) propone opposizione al decreto ingiuntivo richiesto dal Condominio nei sui confronti per il pagamento di spese straordinarie, assumendo di aver già versato tali importi e adducendo a sostegno della propria opposizione delle quietanze di pagamento rilasciate dall’amministratore, che si rivelano invece frutto di un accordo fraudolento fra la condomina stessa e l’amministratore.

La vicenda giunge all’esame della Cassazione (Cass. civ. sez. VI-2 25 maggio 2017 n. 13234 rel Scarpa) dopo un esito sfavorevole per la condomina opponente sia in primo che in secondo grado.

“Tanto il Tribunale che la Corte d’Appello hanno negato che l’opponente avesse fornito prova dell’eccepito pagamento, assumendo la comprovata simulazione delle allegate quietanze rilasciate dall’amministratore condominiale pro tempore M., e richiamando le risultanze di un processo penale che aveva visto la Mo. condannata – con sentenza del Tribunale di Avezzano, confermata dalla Corte d’Appello ma non ancora definitiva – per il delitto di appropriazione indebita.”

La condomina Mo. non si da per vinta e deduce due motivi di ricorso: “Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1417 e 1135 c.c., mentre il secondo motivo di ricorso censura l’ “omesso esame circa un fatto deciso del giudizio”.

Si fa presente che la condanna penale è stata annullata dalla Corte di cassazione per intervenuta prescrizione del reato e quindi si nega ogni significatività delle emergenze di quel giudizio. Si critica il ricorso alle presunzioni fatto dalla Corte d’appello per ritenere simulate le quietanze e se ne contestano le valutazioni probatorie”

LA Corte di legittimità rigetta l’impugnativa, con interessante argomentazione sulla  possibilità del condominio di provare l’accordo simulatorio intervenuto fra amministratore e condomina morosa circa le quietanza di pagamento delle quote oggetto di lite: ” E’ in ogni caso da affermare che il condominio, non partecipe ed ignaro dell’accordo simulatorio intervenuto tra un condomino e l’ex amministratore, ove deduca la simulazione delle quietanze relative all’avvenuto pagamento delle spese condominiali, è da considerarsi “terzo” rispetto a quell’accordo, con la conseguenza che lo stesso condominio può fornire la prova della simulazione “senza limiti”, ai sensi dell’art. 1417 c.c., e, quindi, sia a mezzo di testimoni, sia a mezzo di presunzioni, dovendosi inoltre escludere che, in dipendenza della natura di confessione stragiudiziale della quietanza, possano valere, riguardo alla sua posizione, i limiti di impugnativa della confessione stabiliti dall’art. 2732 c.c., che trovano applicazione esclusivamente nei rapporti fra il mandatario e il preteso simulato acquirente (arg. da Cass. Sez. 2, 24 aprile 2008, n. 10743; Cass. Sez. 2, 22 novembre 2016, n. 23758, non massimata).

In tema di prova per presunzioni della simulazione assoluta di una quietanza, spetta poi al giudice del merito apprezzare l’efficacia sintomatica dei singoli fatti noti, che debbono essere valutati non solo analiticamente, ma anche nella loro globalità all’esito di un giudizio di sintesi, giudizio non censurabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, come appunto quella espressa dalla Corte di L’Aquila.

Né rileva la dedotta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione nel giudizio che vedeva imputata l’attuale ricorrente, in quanto la Corte d’Appello, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, ha autonomamente rivalutato i fatti oggetto della presente causa.

Spettando al condomino ingiunto dal condominio per il pagamento dei contributi dare prova dell’avvenuto adempimento, l’affermata simulazione delle quietanze allegate dall’opponente ha inevitabilmente condotto i giudici del merito a respingere la proposta opposizione.”

© massimo ginesi 26 maggio 2017

il regolamento non contrattuale può essere modificato per facta concludentia

Lo afferma la Suprema Corte in una recente sentenza (Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 18 maggio 2017, n. 12579 Rel. Scarpa).

La pronuncia riafferma anche un consolidato principio anteriore alla riforma del 2012 e che deve ritenersi tutt’ora valido:   l’attività di controllo del condomino deve essere esercitata senza costituire intralcio per l’attività dell’amministratore.

a proposito di tale art. 16 del regolamento condominiale (che imponeva all’amministratore di trasmettere copia dei preventivi e dei rendiconti ad ogni condomino almeno dieci giorni prima del giorno fissato per la riunione e di tenere per lo stesso periodo a disposizione dei condomini documenti e giustificativi di cassa), la Corte di Messina ha accertato che lo stesso avesse avuto pratica attuazione da parte dagli amministratori succedutisi nel Condominio (omissis) nell’ultimo decennio nel senso di fissare nell’avviso di convocazione dell’assemblea una data, da concordare, finalizzata a consentire la visione della contabilità, prassi rispettata anche con riguardo all’assemblea del 18/19 febbraio 2009. Trattandosi di prescrizione di contenuto organizzativo, ovvero propriamente “regolamentare”, del regolamento di condominio (e, non quindi, di contenuto contrattuale, ovvero incidente sulla proprietà dei beni comuni o esclusivi), ha certamente rilievo a fini interpretativi, ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c., anche il comportamento posteriore al medesimo regolamento avuto dai condomini, così com’è ammissibile che la stessa norma regolamentare venga modificata per “facta concludentia”, sulla base di un comportamento univoco.”

D’altro canto, se è vero che l’art. 1129, comma 2, c.c., dopo la Riforma introdotta con la legge n. 220 del 2012, prevede ora espressamente che l’amministratore debba comunicare il locale dove si trovano i registri condominiali, nonché i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta, possa, appunto, prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia firmata, è anche costante, e meritevole tuttora di conferma, l’orientamento di questa Corte secondo cui la vigilanza ed il controllo, esercitati dai partecipanti essenzialmente, ma non soltanto, in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea, non devono mai risolversi in un intralcio all’amministrazione, e quindi non possono porsi in contrasto con il principio della correttezza, ex art. 1175 c.c. (Cass. Sez. 2, 21 settembre 2011, n. 19210; Cass. Sez. 2, 29 novembre 2001, n. 15159; Cass. Sez. 2, 19 settembre 2014, n. 19799).”

© massimo ginesi 25 maggio 2017

Tribunale di Milano e terrazze a tasca: una pronuncia che fa acqua da tutte le parti.

Il problema dalla realizzazione di una  terrazza a tasca sul manto di copertura condominiale, da parte del condomino proprietario del sottotetto,   ha avuto una costante interpretazione  sfavorevole della giurisprudenza di legittimità sino al 2012.

Sino a quell’anno la giurisprudenza della Cassazione era stata costante nell’affermare che la creazione  di una terrazza a tasca da parte del singolo, in luogo del tetto originario, costituisse alterazione della cosa comune che sottraeva agli altri condomini una porzione del tetto e, come tale, travalicava  i limiti di cui all’art. 1102 cod.civ.; richiedeva  quindi – per la sua realizzazione – il consenso unanime dei condomini: “trasformando il tetto dell’edificio condominiale in terrazza adibita al servizio esclusivo della sua proprietà singola, il ricorrente aveva alterato la destinazione della cosa comune, sottraendola in tal modo al godimento collettivo: il diritto riconosciuto al proprietario dell’ultimo piano di sopraelevare (art. 1127 cod.civ.) era comunque subordinato ai limiti sanciti dagli artt. 1102 e 1120 cod.civ.  in materia di uso e godimento dei beni comuni.” (Cassazione civile, sez. II, 28/01/2005,  n. 1737; Cassazione civile, sez. II, 20/05/1997,  n. 4466″

Nel 2012 la Corte di legittimità, con una pronuncia innovativa,  ha mutato orientamento in maniera drastica (e discutibile) affermando che: “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene“. Cassazione civile, sez. II, 03/08/2012,  n. 14107

La sentenza vede immediata conferma poco dopo, con altra pronuncia della stessa corte (Cassazione civile, sez. II, 03/08/2012,  n. 14109) e recepisce  una lettura dinamica e socialmente orientata dell’art. 1102 cod.civ., introdotta dalla Cassazione nello stesso anno in tema di ascensore installato dal singolo (Cassazione civile, sez. II, 14/02/2012,  n. 2156).

Se, tuttavia, in tema di abbattimento delle barriere architettoniche, la compressione dei diritti dei condomini vede un contraltare importante nelle ragioni di solidarietà sociale che impone l’art. 42 Costituzione, in tema di terrazze a tasca tali presupposti paiono difettare e la compressione del diritto dei singoli si confronta  unicamente con la utilitas materiale che  dall’intervento trae il proprietario del sottotetto.

La Corte afferma che “Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune, può effettuare la trasformazione di una parte del tetto dell’edificio in terrazza ad uso esclusivo proprio, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene.

La Corte, con ampia motivazione, ha richiamato  principi solidaristici per superare la ristretta lettura dell’art. 1102 cod.civ. sino ad allora forniti: “Muovendo da questi principi, che contengono pertinenti richiami al principio solidaristico, si impone una rilettura delle applicazioni dell’istituto di cui all’art. 1102 c.c., che sia quanto più favorevole possibile allo sviluppo delle esigenze abitative.

Questo sviluppo si ripercuote favorevolmente sulla valorizzazione della proprietà del singolo, ma mira soprattutto a moderare le istanze egoistiche che sono sovente alla base degli ostacoli frapposti a modifiche delle parti comuni come quella in esame. In una visione del regime condominiale tesa a depotenziare i poteri preclusivi dei singoli e a favorire la correntezza dei rapporti (si pensi a Cass. SU 4806/05 in tema di deliberazioni nulle o annullabili) non è coerente, nè credibile, intendere la clausola del “pari uso della cosa comune” come veicolo per giustificare impedimenti all’estrinsecarsi delle potenzialità di godimento del singolo.

Qualora non siano specificamente individuabili i sacrifici in concreto imposti al condomino che si oppone, non si può proibire la modifica che costituisca uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche in assenza di un beneficio collettivo derivante dalla modificazione.

Non lo si può chiedere in funzione di un’astratta o velleitaria possibilità di alternativo uso della cosa comune o di un suo ipotetico depotenziamento (cfr Cass. 4617/07), ma solo ove sia in concreto ravvisabile che l’uso privato toglierebbe reali possibilità di uso della cosa comune agli altri potenziali condomini-utenti”

La motivazione non è priva di suggestione e si attaglia comunque a modifiche di limitata portata che non stravolgano la funzione essenziale della copertura: “La destinazione della cosa, di cui è vietata l’alterazione, è da intendere in una prospettiva dinamica del bene considerato. La possibilità, dianzi ricordata, di applicare finestre da tetto con notevole efficacia coibente e gradevoli esteticamente contribuisce senz’altro a far ritenere compatibile tale utilizzo con il rispetto della destinazione del bene.

Altrettanto può valere per la realizzazione di piccole terrazze che sostituiscano efficacemente il tetto spiovente nella funzione di copertura dell’edificio.

Non è funzionalmente alterata la destinazione del tetto, se alla falda si sostituisce un’opera di isolamento e coibentazione inserita nel piano di calpestio.

Rimane da chiedersi se la materiale soppressione di una porzione limitata della falda sia di per sè alterazione della destinazione della cosa.

La risposta deve essere negativa, perchè per destinazione della cosa si intende la complessiva destinazione di essa, che deve essere salva in relazione alla funzione del bene e non alla sua immodificabile consistenza materiale.

Pertanto la soppressione di una piccola parte del tetto, se viene salvaguardata diversamente la funzione di copertura e si realizza nel contempo un uso più intenso da parte del condomino, non può esser intesa come alterazione della destinazione, comunque assolta dal bene nel suo complesso.

Ovviamente il giudizio sul punto andrà formulato caso per caso, in relazione alle circostanze peculiari e si risolve in un giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità solo avendo riguardo alla motivazione.”

Non sono mancate, successivamente, letture restrittive della giurisprudenza di merito, rimasta ancorata all’orientamento ante 2012: Tribunale Todi, 22/04/2014,  n. 771All’uopo, si è anche evidenziato come la modifica di una parte del tetto condominiale in una terrazza deve ritenersi illecita, non potendosi invocare l’art. 1102 c.c., poiché non si è in presenza di una modifica finalizzata al miglior godimento della res comune, bensì nell’appropriazione di una parte di questa che viene definitivamente sottratta a ogni possibilità di futuro godimento da parte degli altri, non avendo rilevanza il fatto che la parte di tetto sostituita continui a svolgere una funzione di copertura dell’immobile.”

La realizzazione di terrazze a tasca è generalmente malvista dai restanti condomini del fabbricato che, da un lato, temono che l’intervento possa arrecare pregiudizio alla funzionalità e durata della copertura, dall’altro vivono come un sopruso l’attività del singolo che utilizza in via esclusiva il bene comune e tendono a riconnettere a tale iniziativa un obbligo patrimoniale, che pretendono spesso di imporre al condomino che realizza la modifica.

Va a tal proposito osservato che, se l’intervento si pone nel rispetto dei canoni indicati dalla Corte nel 2012, va ascritto alle previsioni dell’art. 1102 cod.civ. e che pertanto costituisce facoltà del singolo, cui non è preordinata alcuna autorizzazione assembleare e a cui gli altri condomini potranno eventualmente opporsi – anche giudizialmente – adducendo motivi  di lesione del decoro, della statica o dei propri diritti individuali.

Il novellato art. 1122 cod.civ. prevede oggi che il singolo comunichi all’amministratore le proprie intenzioni, cosicché questi possa riferirne in assemblea, non già per sollecitare una delibera di approvazione (ove sussistessero lesioni dei limiti sopra evidenziati, nessuna decisione a maggioranza potrebbe porvi rimedio) ma semplicemente per facilitare il controllo e l’eventuale attivazione dell’amministratore o dei singoli condomini, ove l’intervento si preannunci illegittimo per modalità e contenuti.

Va ancora osservato che una lettura difforme dall’orientamento del 2012 pare invece essere fornita dalla Cassazione in una recente pronuncia in tema di altane.

Non vi è però dubbio che, se un ripensamento deve intervenire sulla realizzazione delle terrazze a tasca, questo non possa che passare attraverso una rivisitazione della lettura dell’art. 1102 cod.civ.

In questo contesto interviene invece la sentenza  Tribunale di Milano 7.4.2017 n. 4049 che  trae i propri argomenti circa l’illiceità della realizzazione di terrazze a tasca da una lettura poco  condivisibile sotto il profilo sistematico, poiché appare amalgamare  in maniera  inammissibile la portata dell’art. 1102 cod.civ. – che attiene agli interventi effettuati dai singoli sulle cose comuni – e quella dell’art. 1120 cod.civ. – che attiene alle innovazioni decise dalla maggioranza su parti comuni e nell’interesse della collettività – pervenendo alla inaccettabile conclusione che la terrazza a tasca,  realizzata dal singolo, debba essere approvata dalla assemblea con le maggioranze di cui all’art. 1120 cod.civ.

Giova osservare che si tratta di pronuncia di primo grado che, plausibilmente, potrebbe non reggere al vaglio dell’appello o, comunque, dell’eventuale giudizio di legittimità e che pare opportuno evitare di utilizzare come punto di riferimento interpretativo.

Il Giudice milanese afferma che: “l’intervento operato dalla società convenuta sulla falda del tetto condominiale è da ritenersi illegittimo , trattandosi di innovazione non autorizzata dall’assemblea condominiale. A norma dell’art. 1120 c.c., le innovazioni alla cosa comune sono consentite solo previa approvazione assembleare e sono comunque vietate qualora pregiudichino la sicurezza o la stabilità del fabbricato e ne alterino il decoro architettonico o rendano alcune parti comuni inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.”

La tesi, assolutamente bizzarra, contrasta con il costante orientamento giurisprudenziale che distingue le innovazioni (art. 1120 cod.civ.) dall’uso della cosa comune da parte del singolo (art. 1102 cod.civ.); tale netta distinzione  è stata reiteratamente affermata in ordine a diversi interventi:

terrazza a tasca –  “Una terrazza a tasca non può essere considerata innovazione che, ai sensi dell’art. 1120 c.c., rende talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e godimento anche di un solo condomino. Come tale può essere realizzata dai condomini stessi. Ciò perché esulano dalla nozione di innovazione, quelle modificazioni eseguite dal singolo che si sostanziano in funzione di un più intenso e migliore uso della cosa comune e non conducano ad una totale o parziale alterazione che ecceda il limite della conservazione.” Tribunale Firenze, sez. III, 09/05/2005

apertura muro comune – “Aprire un vano nel muro perimetrale comune ad opera di un condomino, di una o più finestre o porte del suo appartamento, anche ampliando le finestre già esistenti a livello del suo appartamento, non importa una innovazione della cosa comune, a norma dell’art. 1120 c.c., bensì soltanto quell’uso individuale della cosa comune il cui ambito ed i cui limiti sono disciplinati dagli art. 1102 e 1122 c.c..” Tribunale Salerno, sez. II, 08/01/2016,  n. 67

canna fumaria – “In materia condominiale costituisce opera lecita l’installazione di una canna fumaria sulla facciata comune, consentita ai sensi dell’art. 1102 c.c. Per costante orientamento della giurisprudenza, infatti, l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale, integra una modifica della cosa che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese, sempre che non impedisca l’altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro architettonico. L’esecuzione di tale opera non costituisce innovazione ma una modifica lecita finalizzata all’uso migliore e più intenso previsto dall’art. 1102 c.c., conforme alla destinazione del muro perimetrale che ciascun condomino può legittimamente apportare a sue spese, se non impedisce agli altri condomini di farne un pari uso, non pregiudichi la stabilità e la sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro.” Tribunale Trento, 16/05/2013,  n. 432

© massimo ginesi 24 maggio 2017

distacco e regolamento contrattuale, la Cassazione da una lettura diversa

A pochi giorni dalla pronuncia con cui ha ritenuto nulla la clausola del regolamento contrattuale che vieti il distacco (o lo consenta obbligando comunque il condomino al pagamento  delle spese di consumo), sull’assunto  che  la legislazione pubblica in tema di energia abbia carattere cogente anche per l’autonomia privata, la corte di legittimità offre una diversa chiave di lettura.

Una discrasia  che dovrà necessariamente vedere nel prossimo futuro una composizione.

Cass. civ. Sez. VI-2 18 maggio 2017 n. 12580 rel. Scarpa riconosce la legittimità delle clausole convenzionali del regolamento che dispongano in materia di distacco.

Nel caso di specie il regolamento di natura contrattuale prevedeva che “del regolamento condominiale di natura
contrattuale, il quale dispone che “la rinuncia al servizio di riscaldamento centrale può essere ammessa purché per un’intera stagione e con le opportune garanzie ed importa l’obbligo di pagare la metà del contributo che il rinunciante avrebbe dovuto pagare se avesse usufruito del servizio”.

Osserva la corte che “la disposizione regolamentare in esame, limitandosi ad obbligare il condomino rinunziante a concorrere parzialmente anche alle spese per l’uso del servizio centralizzato, non va intesa come clausola impeditiva del distacco (il che, ad avviso di precedenti decisioni di questa Corte, renderebbe il contratto non meritevole di tutela: Cass. Sez. 2, 29 settembre 2011, n. 19893; Cass. Sez. 2, 13 novembre 2014, n. 24209).

E’ stato, piuttosto, stabilmente affermato dalla giurisprudenza, con orientamento che deve trovare conferma e depone per l’infondatezza del ricorso, come sia legittima la delibera assembleare che disponga (proprio come nel caso in esame), in esecuzione di apposita disposizione del regolamento condominiale avente natura contrattuale posta in deroga al criterio legale di ripartizione delle spese dettato dall’art. 1123 c.c., che le spese di gestione dell’impianto centrale di riscaldamento siano a carico anche delle unità immobiliari che non usufruiscono del relativo servizio (per avervi rinunciato o essersene distaccati), tenuto conto che la predetta deroga è consentita, a mezzo di espressa convenzione, dalla stessa norma codicistica (Cass. Sez. 2, 23 dicembre 2011, n. 28679;
Cass. Sez. 2, 20 marzo 2006, n. 6158; Cass. Sez. 2, 28 gennaio 2004, n. 1558).

E’ del resto derogabile dai condomini, nell’esercizio della loro autonomia privata, anche la disciplina dell’art. 1118 c.c., che correla diritti ed obblighi dei condomini al valore millesimale di contitolarità, prescegliendo un accordo di valore negoziale che si risolve in un impegno irrevocabile di determinare quantitativamente le quote di contribuzione alle spese in un certo modo (cfr. Cass. Sez. 2, 26/03/2010, n. 7300).

Non è dunque ravvisabile nella previsione che il rinunziante all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento debba concorrere alle sole spese per la manutenzione straordinaria o alla conservazione dell’impianto stesso, una norma imperativa non derogabile nemmeno con accordo unanime di tutti i condomini, in forza di vincolo pubblicistico di distribuzione degli oneri condominiali dettato dall’esigenza dell’uso razionale delle risorse energetiche e del miglioramento delle condizioni di compatibilità ambientale, ed essendo perciò i condomini liberi di regolare mediante convenzione il contenuto dei loro diritti e dei loro obblighi mediante una disposizione regolamentare di natura contrattuale che diversamente suddivida le spese relative all’impianto, ferma l’indisponibilità del diritto al distacco

La tesi oggi avanzata appare maggiormente condivisibile alla luce dei principi generali in tema di energia e riscaldamento, atteso che la normativa imperativa è indubitabilmente volta alla ottimizazione dei consumi e alla riduzione dell’inquinamento atmosferico, sicche quello appare  lo scopo pubblico da  doversi ritenere inscalfibile dalla autonomia privata, potendo invece rimanere  nella disponibilità dei singoli la facoltà  di statuire sui  risvolti patrimoniali di vicende quali il distacco (che dovrà comunque rispondere alle norme tecniche in materia, anche e non solo per quanto stabilito dall’art. 1118 Iv comma cod.civ.).

massimo ginesi 19 maggio 2017

le spese per il cortile-lastrico si ripartiscono secondo l’art. 1125 cod.civ.

Lo ribadisce Cass. civ. sez. VI-2 16 maggio 2017 12177 rel. Scarpa, confermando un orientamento già espresso in precedenza. Laddove il cortile condominiale funga da copertura a locali di proprietà esclusiva rimasti danneggiati da infiltrazioni, il criterio di ripetizione applicabile alle spese necessarie risulta quello di cui all’art. 1125 cod.civ.

Ove poi le infiltrazioni derivanti da detta copertura derivino da omessa manutenzione della struttura, il condominio ne risponde ai sensi dell’art. 2051 cod.civ., norma che – essendo ascrivibile all’area della responsabilità da fatto illecito – comporta solidarietà fra gli obbligati.

“Ora, questa Corte ha già precisato che, qualora si debba procedere, come nel caso di specie, alla riparazione del cortile o viale di accesso all’edificio condominiale, che funga anche da copertura per i locali sotterranei di proprietà esclusiva di un singolo condomino, ai fini della ripartizione delle relative spese non si può ricorrere ai criteri previsti dall’art. 1126 c.c., ma si deve, invece, procedere ad un’applicazione analogica dell’art. 1125 c.c., il quale costituisce ipotesi particolare del principio generale dettato dall’art. 1123, comma 2, c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10858 del 05/05/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18194 del 14/09/2005).

Aggiunge la corte: ” il risarcimento dei danni da cosa in custodia di proprietà condominiale – trattandosi, nella specie, di infiltrazioni di acqua provenienti dalla corte comune a cagione della sua mancata manutenzione – soggiace alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, comma 1, c.c., norma che opera un rafforzamento del credito, evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori “pro quota”, anche quando il danneggiato sia – come ancora nella specie – un condomino, equiparato a tali effetti ad un terzo danneggiato rispetto agli altri condomini, sicché i singoli condomini devono intendersi solidalmente responsabili rispetto ai danni derivanti dalla violazione dell’obbligo di custodia (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1674 del 29/01/2015).

Nello stesso senso, poi, Cass. Sez. U, Sentenza n. 9449 del 10/05/2016, ha sostenuto l’ “attrazione del danno da infiltrazioni nell’ambito della responsabilità civile”, con conseguente applicazione di tutte le disposizioni che disciplinano la responsabilità extracontrattuale, ivi compreso l’art. 2055 c.c.“.

© massimo ginesi 18 maggio 2017

decreto ingiuntivo e fallimento

Il decreto ingiuntivo non provvisoriamente esecutivo,  non opposto, la cui esecutorietà sia stata richiesta dopo la dichiarazione di fallimento non è opponibile alla procedura concorsuale.

Lo ha stabilito Cass. civ. sez. VI-1  26/04/2017 n.10208in assenza di opposizione, il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c.

Tale funzione si differenzia dalla verifica affidata al cancelliere dall’art. 124 o dall’art. 153 disp. att. cod. proc. civ. e consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo.

Ne consegue che il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 cod proc civ venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito, deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’art. 52 legge fallimentare”

© massimo ginesi 17 maggio 2017