mansarde e vincolo pertinenziale

Il regime delle pertinenze è affrontato dalla corte di legittimità ( Cass.civ. sez. VI-2 ord. 17 ottobre 2017 n. 24432 rel. Scarpa)  in una vicenda assai singolare: un soggetto acquista all’asta giudiziale un appartamento e agisce poi contro i proprietari della sovrastante mansarda per accertare che tale bene deve ritenersi pertinenziale all’unità immobiliare di cui è divenuto proprietario.

G S ha domandato che venisse dichiarato inefficace il contratto di compravendita del 9 febbraio 2009 intercorso tra i compratori TT e M C ed il venditore G C, in quanto avente ad oggetto una mansarda sovrastante l’appartamento acquistato dall’attore in una procedura di vendita giudiziaria, deducendo il legame di pertinenzialità tra i due beni agli effetti degli artt. 817-818 c.c.”

Il giudice di primo grado respinge la domanda, mentre l’appello viene dichiarato inammissibile in quanto prima facie infondato (art. 348bis c.p.c.): “Il Tribunale negava quindi che emergesse dagli atti di proprietà la destinazione della mansarda a servizio dell’appartamento poi acquistato in sede giudiziale da GS, così come escludeva il rilievo del fatto che sussistessero una scala interna di collegamento tra i due immobili, nonché condutture comuni, dati fattuali che potevano incidere sul possesso ai fini di un non dedotto acquisto per usucapione. Ancora, la sentenza del Tribunale di Sassari escludeva la valenza decisiva del regolamento condominiale, ed evidenziava come il pignoramento della procedura esecutiva immobiliare avesse riguardato il solo appartamento aggiudicato a G S.”

Nonostante la debacle nei due giudizi di merito, l’attore non si da per vinto r ricorre in cassazione; la Corte di legittimità tuttavia respinge il ricorso osservando che “Il ricorso è infondato perché parte dall’errato presupposto che possa ravvisarsi il vincolo di subordinazione tra l’accessorium (nella specie, la mansarda) e il principale (nella specie, l’appartamento), richiesto dall’art. 817 c.c., e perciò affermata la natura pertinenziale del primo bene, in base alla sola relazione materiale esistente tra le due cose (nella specie, il nesso strutturale fra la mansarda e l’appartamento ad esso collegato da una scala e da un impianto idrico comune).

E’ invece consolidata l’interpretazione giurisprudenziale secondo cui per la costituzione del vincolo pertinenziale è necessario non soltanto l’elemento oggettivo, consistente nella materiale destinazione del bene accessorio ad una relazione di complementarietà con quello principale, ma anche l’elemento soggettivo, consistente nella effettiva volontà del titolare del diritto di proprietà, o di altro diritto reale di godimento, sui beni collegati, giacchè soltanto chi abbia la piena disponibilità giuridica di entrambi i beni può utilmente attuare la destinazione della “res” al servizio o all’ornamento del bene principale, occorrendo altrimenti un rapporto obbligatorio costituito tra i rispettivi proprietari (Cass. Sez. 2, 20/01/2015, n. 869; Cass. Sez. 2, 10/06/2011, n. 12855; Cass. Sez. 2, 28/04/2006, n. 9911; Cass. Sez. 2, 02/03/2006, n. 459 Cass. Sez. 2, 29/04/2003, n. 6656; Cass. Sez. 2, 30/07/1990, n. 7655).

Grava sul compratore del bene principale, che rivendichi la proprietà del bene secondario, l’onere di provare la sussistenza di un rapporto pertinenziale (Cass. Sez. 3, 27/01/1997, n. 808), e quindi anche la destinazione a pertinenza attuata dall’unico proprietario del bene principale e di quello accessorio (sicchè, solo una volta che si abbia per accertato anche l’elemento soggettivo correlato alla volontà destinatoria del comune proprietario dei beni collegati, sarebbe irrilevante, agli effetti dell’art. 2912 c.c., l’omessa menzione della pertinenza, ad esempio, nel decreto di trasferimento emesso a seguito procedimento espropriativo: Cass. Sez. 2, 20/01/2015, n. 869).

L’accertamento in ordine alla sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi che caratterizzano il rapporto pertinenziale fra due immobili, come anche della cessazione del vincolo pertinenziale ai sensi dell’art. 818 c.c., comportano, in ogni modo, un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, che, come tale, è incensurabile in sede di legittimità se espresso con motivazione adeguata ed immune da vizi logici (Cass. Sez. 2, 02/03/2006, n. 4599; Cass. Sez. 2, 10/05/2000, n. 6009).

Il Tribunale di Sassari ha accertato che l’unico comune proprietario originario dell’appartamento e della mansarda (la I CA s.r.I.) avesse separatamente venduto quest’ultima con atto pubblico del 22 novembre 1995 a M F, il quale poi ne aveva disposto per testamento in favore di G C, dante causa di T T e M C. Per effetto di tale atto volontario di disposizione separato della mansarda, anteriore alla vendita della cosa principale, era quindi in ogni caso venuto meno ogni vincolo pertinenziale tra la mansarda stessa e l’appartamento acquistato dal S, atteso che, agli effetti dell’art. 818 c.c., pur ove si sia costituito un rapporto pertinenziale tra beni a seguito della destinazione operata dal proprietario della cosa principale che ha la piena disponibilità anche della cosa accessoria, il compimento di un atto di disposizione avente ad oggetto la sola pertinenza determina comunque la cessazione della destinazione dapprima impressa (Cass. Sez. 2, 26/05/2004, n. 10147).”

© massimo ginesi 19 ottobre 2017 

 

condominio autonomo dei box e decreto ingiuntivo.

Una recentissima ordinanza della Corte di legittimità (Cass.civ. sez. VI-2 17 ottobre 2017 n. 24431 rel. Scarpa)  affronta un tema consolidato in giurisprudenza (ovvero le vicende ed eccezioni che possono essere fatte valere in sede di opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio per le quote scadute), con riferimento alla peculiare situazione in cui i box costituiscano ente condominiale autonomo rispetto all’edificio che li sovrasta.

I fatti ed il processo di merito – la vicenda inizia con un giudizio di opposizione dinanzi al giudice di pace, proseguito dinanzi al Tribunale quale giudice di appello: “Il giudizio era iniziato con ricorso per decreto ingiuntivo relativo a spese condominiali dovute dalla condomina MFB per C 924,00, approvate in sede di bilanci per gli esercizi 2008 e 2009 con delibere del 4 febbraio 2008 e del 10 febbraio 2009, e relative alla proprietà dei box nn. 1, 2, 3, 7 e 8 del complesso.

Il Tribunale di Roma nella sentenza impugnata ha posto in evidenza come nell’atto di acquisto dei box di proprietà B del 4 ottobre 2007, prodotto in atti, la gestione delle parti comuni dei medesimi box fosse oggetto di autonoma regolamentazione rispetto a quella del sovrastante edificio di via S. A M n. 70, Roma (come da regolamento dell’Il luglio 2007, che l’acquirente aveva dichiarato di accettare).

Il Tribunale superava perciò la resistenza della B., che contestava la distinta legittimazione attiva a riscuotere i contributi del Condominio Box via V 83-85. Parimenti, il giudice dell’appello negava la rilevanza pregiudiziale del giudizio pendente tra MFB e la E R s.r.I., incidente su tre dei box di proprietà B.”

La Corte di legittimità rigetta il ricorso, in quanto manifestamente infondato, con ampia e puntuale motivazione, che non si discosta da principi generali consolidati.

nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su esso gravante con la produzione del verbale dell’assemblea condominiale in cui sono state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. Sez. 2, 29 agosto 1994, n. 7569). Nello stesso giudizio di opposizione, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla annullabilità della delibera condominiale di approvazione dello stato di ripartizione.

Tale delibera costituisce, infatti, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è, dunque, ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26629; Cass. Sez. 2, 23/02/2017, n. 4672).

Tanto meno può essere oggetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo inerente il pagamento di spese condominiali, emesso sulla base di delibera assembleare di approvazione del relativo stato di ripartizione, la questione dell’autonoma esistenza del condominio intimante e della sua appartenenza ad esso del condomino opponente, il quale neppure abbia provveduto all’impugnazione della medesima delibera assembleare posta a sostegno della ingiunzione.

D’altro canto, ove si intenda controvertere sull’esistenza, o meno, in ordine ad una serie di unità immobiliari integranti porzioni di un complesso edilizio, di un condominio unico e distinto dal sovrastante complesso immobiliare, e, quindi, sulla riconducibilità di talune delle strutture della costruzione di cui si tratta alle parti comuni dell’edificio condominiale di cui all’art. 1117 c.c., con conseguente ripartizione delle spese tra i proprietari delle varie unità, è necessaria la partecipazione di tutti costoro a ciascuna delle fasi del giudizio, in una situazione di litisconsorzio necessario.

L’infondatezza del ricorso è, dunque, ancor più palese ove si consideri che non potesse comunque essere oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c., l’agitata questione dell’accertamento dell’inesistenza di un “condominio autonomo” con riferimento alle distinte unità immobiliare realizzate nel piano interrato e destinate ad autorimesse, trattandosi di domanda da rivolgersi non nei confronti dell’amministratore, e che avrebbe, piuttosto, imposto il litisconsorzio necessario di tutti quei singoli condomini (Cass. Sez. 2, 18/04/2003, n. 6328; Cass. Sez. 2, 01/04/1999, n. 3119).

Il Tribunale di Roma, con argomentazione a rilevanza decisoria che la ricorrente non confuta, ha aggiunto che avesse effetto vincolante per la B. la volontà negoziale dalla stessa manifestata nell’atto di acquisto del 4 ottobre 2007 di adesione alla gestione autonoma delle parti comuni dei box.

Non sussiste, infine, omessa pronuncia in ordine al dedotto rilievo pregiudiziale delle altre cause pendenti, avendo sul punto la sentenza impugnata espressamente motivato alle pagine 6 e 7. Basterà qui aggiungere che, per consolidate interpretazioni di questa Corte : 1) il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per il pagamento di oneri condominiali non si intende legato da nesso di pregiudizialità, tale da giustificare la sospensione del procedimento di opposizione ex art. 295 c.p.c., nemmeno con la controversia avente ad oggetto l’impugnazione della delibera assembleare posta a sostegno della ingiunzione stessa (da ultimo, Cass. Sez. 2 , 23/02/2017, n. 4672); 2) ai fini della sospensione necessaria del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c., occorrono l’identità delle parti in entrambi i processi e l’obiettiva esistenza di un rapporto di pregiudizialità giuridica, non essendo sufficiente che tra le due controversie sussista una mera pregiudizialità logica (Cass. Sez. 2, 16/03/2007, n. 6159); 3) il provvedimento di riunione previsto dall’art. 274 c.p.c., relativo a cause diverse ma connesse (riunione facoltativa), ovvero dettato da motivi di economia processuale, essendo strumentale e preparatorio rispetto alla futura definizione della controversia, è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità.”

© massimo ginesi 18 ottobre 2017

art. 1134 cod.civ., costituzione del condominio e condominio minimo.

La Suprema Corte (Cass.Civ. VI sez. ord. 10 ottobre 2017, n. 23740 rel. Scarpa)  torna sul tema delle spese anticipate dal singolo, rilevando come debba applicarsi l’art. 1134 cod.civ.  laddove sussista una realtà edilizia che vede la coesistenza di almeno due condomini, a prescindere da qualunque atto formale di costituzione del condominio.

La  vicenda prende le mosse da una sentenza del Tribunale di Roma in veste di giudice di appello: “Il Tribunale di Roma, in riforma della decisione di primo grado resa dal Giudice di Pace di Roma in data 21 maggio 2014, ha rigettato la domanda avanzata dalla stessa Cassa di Previdenza Aziendale per il Personale del Monte dei Paschi di Siena nei confronti di U.C. , volta al pagamento della somma di Euro 3.000,00, oltre accessori, a titolo di ripetizione della quota di partecipazione agli oneri condominiali dell’edificio di via (omissis) .

Il Tribunale ha evidenziato come la Cassa di Previdenza avesse dedotto di agire non quale amministratore del condominio, né in base a delibera dell’assemblea, quanto piuttosto in base ad un contratto che la chiamava ad anticipare le spese occorrenti per la conservazione delle parti comuni prima della costituzione degli organi di gestione.

Tuttavia, afferma la sentenza impugnata, alcuna clausola di tale contenuto esisteva né nel contratto di vendita né nel regolamento di condominio prodotti; e neppure, prosegue il Tribunale, sussistevano le condizioni di urgenza di cui all’art. 1134 c.c. Per di più, la Cassa di Previdenza non avrebbe neppure documentato le spese indicate come anticipate.”

Il ricorso in cassazione vede un unico motivo di doglianza: “La ricorrente assume che il Tribunale avrebbe sbagliato a ritenere applicabile l’art. 1134 c.c., essendo piuttosto applicabile nella specie l’art. 1110 c.c., in quanto ancora nessun condominio si era concretamente formato nell’edificio di via (omissis) , e non era perciò applicabile la disciplina condominiale. Quanto all’art. 1110 c.c., a dire della ricorrente emergerebbero i requisiti della necessità delle spese e della trascuranza degli altri proprietari.”

La corte di legittimità respinge il ricorso attenendosi ad elementi di interpretazione  consolidati:

il provvedimento impugnato ha deciso la questione di diritto in ordine all’applicabilità dell’art. 1134 c.c. in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte, e l’esame del motivo non offre elementi per mutare l’orientamento della stessa, con conseguente inammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1), c.p.c. (Cass. Sez. U, 21/03/2017, n. 7155).
La censura propende per l’applicazione, nel caso di specie, dell’art. 1110 c.c., piuttosto che dell’art. 1134 c.c., non essendosi ancora “concretamente formato” alcun condominio nell’edificio di via (omissis) . Questa Corte ha però costantemente spiegato come non occorra, ai fini della costituzione del condominio, una manifestazione di volontà dei partecipanti diretta a produrre l’effetto dell’applicazione degli artt. 1117 e seguenti del codice civile.

La situazione di condominio edilizio si ha per costituita nel momento stesso in cui l’originario unico proprietario opera il frazionamento della proprietà di un edificio, trasferendo una o alcune unità immobiliari ad altri soggetti, e così determinando la presunzione legale di cui all’art. 1117 c.c. con riguardo alle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali (cfr., tra le tante, Cass. Sez. 2, 18/12/2014, n. 26766).

Costituitosi, pertanto, da tale momento ex facto il condominio, si applica la relativa disciplina codicistica, ivi compreso l’art. 1134 c.c. il quale, a differenza dell’art. 1110 c.c., che opera in materia di comunione ordinaria, regola il rimborso delle spese di gestione delle parti comuni sostenute dal partecipante non alla mera trascuranza degli altri comunisti, quanto al diverso e più stringente presupposto dell’urgenza, intendendo la legge trattare nel condominio con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nell’amministrazione dei beni in comproprietà.

Ne discende che, instaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali, situazione che si riscontra anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile solo nel caso in cui abbia i requisiti dell’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 c.c. (così Cass. Sez. U, 31/01/2006, n. 2046; Cass. Sez. 2, 12/10/2011, n. 21015).

Tale requisito dell’urgenza (neppure prospettato dalla ricorrente a sostegno della sua pretesa) condiziona il diritto al rimborso del condomino gestore, e si spiega come dimostrazione che le spese anticipate dal singolo fossero indispensabili per evitare un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune, e dovessero essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini (da ultimo, Cass. Sez. 6 2, 08/06/2017, n. 14326).”

© massimo ginesi 12 ottobre 2017

il condomino apparente è una chimera, anche per il terzo creditore.

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI ord.  9 ottobre 2017 n. 23621 rel. Scarpa) affronta un tema peculiare,   cogliendo l’occasione per una interessante disamina del sorgere dell’obbligazione condominiale e della sua natura, temi che in diverse recenti sentenze stanno acquisendo una interpretazione organica e di grande interesse per l’operatore del diritto.

Il caso nasce da una opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dall’appaltatore,  terzo creditore del condominio,  nei confronti di colui che riteneva condomino e che si è, invece, rivelato essere l’amministratore della società di capitali effettiva proprietaria del bene.

Assai singolarmente la Corte di appello di Salerno ha ritenuto che il principio del condomino apparente, spazzato dalle aule di giustizia dalla Cassazione ormai una ventina di anni fa – sulla considerazione che la proprietà immobiliare è soggetta a pubblicità erga omnes e debba  dunque obbligatoriamente essere accertata  da chi agisce – fosse invece applicabile al terzo, “poiché  l’apparenza della qualità di condomino (manifestata dalla partecipazione alle assemblee condominiali senza mai manifestare tale qualità) rileva nei confronti di soggetti terzi, i quali non possono farsi carico di accertare la proprietà dell’immobile”.

Il giudice di legittimità, su ricorso dell’ingiunto, ripercorre con interessante motivazione sia la genesi dell’obbligazione, che presuppone necessariamente la qualità di condomino, sia l’obbligo, per chiunque, di accertare l’effettiva titolarità del bene, non potendo affatto invocarsi l’apparenza del diritto in simili contesti.

“Questa Corte ha più volte affermato che in materia condominiale, quanto meno con riferimento alle azioni promosse dall’amministratore per la riscossione delle spese condominiali di competenza delle singole unità immobiliari di proprietà esclusiva, sono passivamente legittimati soltanto i rispettivi proprietari effettivi di dette unità, e non anche coloro che possano apparire tali, a nulla rilevando la reiterazione continuativa di comportamenti propri del condomino, né sussistendo esigenze di tutela dell’affidamento di un terzo di buona fede nella relazione tra condominio e condomino (Cass. Sez. U, 08/04/2002, n. 5035; Cass. Sez. 2, 03/08/2007, n. 17039; Cass. Sez. 2, 25/01/2007, n. 1627).”

Con riguardo alla bizzarra affermazione della Corte d’Appello di Salerno, la Cassazione rileva che “Questo argomentare non tiene conto che la costruzione giurisprudenziale del principio della diretta riferibilità ai singoli condomini della responsabilità per l’adempimento delle obbligazioni contratte verso i terzi dall’amministratore del condominio per conto del condominio, tale da legittimare l’azione del creditore verso ciascun partecipante, poggia comunque sul collegamento tra il debito del condomino e la res, in quanto è comunque la contitolarità delle parti comuni che ne costituisce il fondamento.

D’altro canto, la stessa conclusione raggiunta in giurisprudenza, per cui la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, nel senso che le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, è stata costruita spiegando che l’amministratore possa vincolare i singoli comunque “nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote” (Cass. Sez. U, 08/04/2008, n. 9148).

E’ pacifico che occorra l’autorizzazione dell’assemblea (o, comunque, l’approvazione mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell’art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., e con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 4, c.c., per l’approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell’edificio condominiale.

E’ poi dalla deliberazione dell’assemblea, e non dal rapporto contrattuale con l’appaltatore, che discende l’obbligo dei singoli condomini di partecipare agli esborsi derivanti dall’esecuzione delle opere, ponendosi il condominio (e non ciascun condomino) come committente nei confronti dell’appaltatore stesso.

Anche, dunque, la vicenda obbligatoria che si imputa pro quota al singolo partecipante è geneticamente correlata al diritto reale condominiale (si vedano, indicativamente, i commi 1 e 2 dell’art. 63 disp. att. c.c., come modificato dalla legge n. 220/2012, pur non applicabile nella specie ratione temporis), ed è quindi quanto meno indirettamente collegata alla situazione resa pubblica nei libri fondiari.

Ai fini dell’invocabilità dell’apparentia iuris a garanzia dell’affidamento maturato dal terzo creditore del condominio, non può quindi negarsi, come fatto dalla Corte d’Appello di Salerno, la sussistenza di un legame con il dato pubblicitario emergente dalla trascrizione nei registri immobiliari, trattandosi di trarre conseguenze ai fini dell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria comunque connessa con la titolarità di un diritto reale di proprietà.

D’altro canto, è decisivo osservare come nel nostro ordinamento il principio dell’apparenza del diritto (art. 1189 c.c.) trova applicazione quando sussistono uno stato di fatto difforme dalla situazione di diritto ed un errore scusabile del terzo in buona fede circa la corrispondenza del primo alla realtà giuridica, assumendo comunque rilievo giuridico l’apparenza ai soli fini della individuazione del titolare di un diritto soggettivo, ma non anche per fondare una pretesa di adempimento nei confronti di un soggetto non debitore, atteso che l’affidamento del terzo può legittimare una richiesta di risarcimento danni per il subito pregiudizio, e non invece trasformare in debitore un soggetto che non rivesta tale qualità (cfr. Cass. Sez. U, 01/07/1997, n. 5896; Cass. Sez. 1, 10/11/1997, n. 11041; Cass. Sez. 1, 10/11/1997, n. 11040).”

© massimo ginesi 10 ottobre 2017

la nullità della delibera è rilevabile d’ufficio, anche in appello.

Lo afferma Cass.civ. sez. II 27 settembre 2017, n. 22678 Rel. Scarpa in relazione ad una vicenda nata in terra di Sardegna, in cui l’0assembela aveva autorizzato un condomino alla costruzione di una tettoia a copertura del suo posto auto, delibera impugnata da un condomino.

I fatti e il processo: “Nel giudizio di primo grado, svolto dinanzi al Tribunale di Cagliari, S.T. agiva nei confronti del Condominio (omissis) , affinché l’autorità giudiziaria adita accertasse la nullità della delibera condominiale, datata 10 marzo 1992, con la quale il Condominio aveva annullato la delibera adottata in data 22 aprile 1991, che lo autorizzava alla realizzazione di una tettoia (pergolato) nel cortile condominiale da utilizzare quale copertura del posto auto. Il giudice adito, con sentenza n. 1344 del 2008, nella resistenza del condominio che formulava domanda riconvenzionale al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità della costruzione realizzata dal S. nonostante il dissenso espresso dall’assemblea, rigettava la domanda attorea e nel contempo accoglieva la domanda riconvenzionale del condominio.
Avverso la menzionata sentenza proponeva appello il medesimo S. che impugnava la decisione del giudice di prime cure sostenendo la tesi dell’illegittimità della condizione apposta alla delibera iniziale, ossia l’assenso dell’Istituto Autonomo per le case popolari, proprietario di oltre un terzo dell’edificio, e l’assenza di modifiche nella destinazione dell’area, la Corte di appello di Cagliari, con sentenza n. 307 del 2013, dichiarava inammissibile il gravame, stante la novità delle questioni dedotte con l’atto di appello.”

Il principio di diritto affermato dalla Cassazione: “La questione attinente la nullità della delibera condominiale derivante dalla illiceità della condizione apposta alla delibera del 1991, che subordinava l’autorizzazione alla realizzazione del pergolato al consenso dello I.A.C.P., non può ritenersi nuova ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ. e, quindi, inammissibile, per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, perché l’allora appellante, oggi ricorrente, non ha “arricchito” con diversi profili la propria originaria domanda, ma si è difeso sulla “nuova” prospettazione adottata con la sentenza che aveva deciso il giudizio.

Deve dunque escludersi la novità della domanda, agli effetti dell’art. 345 c.p.c., risultando la stessa comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio con la citazione introduttiva, e tale, perciò, da non determinare la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, né l’allungamento dei tempi processuali (Cass. Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).

Nello stesso senso si è di recente chiarito che: “Il divieto di proporre domande nuove in appello implica che è preclusa la facoltà di avanzare pretese che involgano la trasformazione obiettiva del contenuto intrinseco della domanda proposta in primo grado, ma non quella di prospettare rilievi che importino una diversa qualificazione giuridica del rapporto e l’applicazione di una norma di diritto non invocata in primo grado, tanto più quando la nuova ragione giuridica dedotta in sede di gravame derivi da una norma di legge che il giudice è tenuto ad applicare” (Sez. 2 -, n. 6854 del 2017).

La seconda ragione di fondatezza del ricorso risiede nel fatto che il ricorrente, con l’appello, ha prospettato un presunto ulteriore vizio di nullità della delibera condominiale, rispetto a quelli fatti valere con la domanda introduttiva del giudizio di primo grado.

In relazione ai motivi di nullità delle delibere condominiali deve richiamarsi l’orientamento di questa Corte secondo cui: “Alle deliberazioni prese dall’assemblea condominiale si applica il principio dettato in materia di contratti dall’art. 1421 cod. civ., secondo cui è attribuito al giudice il potere di rilevarne d’ufficio la nullità” Sez. 2, n. 12582 del 2015 (Rv. 635891).

Ne consegue che, anche in relazione alla nullità delle delibere condominiali, deve trovare applicazione il principio affermato in materia contrattuale, secondo cui: “La domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta, per la prima volta, in appello è inammissibile ex art. 345, primo comma, cod. proc. civ., salva la possibilità per il giudice del gravame – obbligato comunque a rilevare di ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la sua necessaria indicazione alle parti ai sensi dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ. – di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall’appellante, giusta il secondo comma del citato art. 345” Sez. U, n. 26243 del 2014 (Rv.633566).

Alla luce di quanto esposto la Corte d’Appello di Cagliari ha errato nel dichiarare domanda nuova quella esposta con il motivo di appello relativo alla dedotta nullità della delibera condominiale del 1992 per l’illiceità della condizione, motivo che, invece, andava esaminato nel merito.”

La sentenza è dunque cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Cagliari.

© massimo ginesi 2 ottobre 2017 

se l’edificio manifesta gravi errori di esecuzione: la responsabilità di progettista e appaltatore.

Nella realizzazione di un edificio emerge, poco dopo la conclusione dei lavori, che il pavimento del piano terra risulta non orizzontale e con un dislivello di oltre  31 centimetri. LA CTU svolta in primo grado accerta che la responsabilità del problema è attribuibile per il 80% al progettista – che ha omesso le necessarie indagini geologiche – e per il 10% all’appaltatore, che ha male realizzato il fabbricato, e stima il danno in oltre 200.000 euro.

Nel corso del giudizio di primo grado  interviene transazione fra committente e appaltatore,  il Tribunale dichiara l’estinzione parziale del giudizio relativamente  a tale rapporto e – stimata nel 10% la responsabilità di costui – condanna il progettista, che ha svolto anche la direzione lavori, a risarcire la residua parte, pari a circa 202.000 euro.

La Corte di appello di Venezia giungeva alle stesse conclusioni nel merito, ma rideterminava la somma dovuta in circa 140.000 euro, sottraendo all’importo risarcitorio determinato dal Tribunale le spese per la palificazione e per le indagini geognostiche. Escludeva inoltre che sussistesse solidarietà fra appaltatore e progettista, a seguito della intervenuta transazione fra il primo e il committente.

La vicenda giunge all’esame della corte di legittimità, che con una complessa e articolata pronuncia (Cass.civ. sez. II  ord. 27.9.2017 n. 22672 rel. Scarpa) affronta i due interessanti temi:

a) la natura della responsabilità che lega appaltatore e progettista/direttore lavori

b) gli effetti, in un rapporto trilaterale di risarcimento con solidarietà fra i condebitori, della transazione stipulata fra uno solo degli obbligati e il creditore.

Questa Corte ha più volte affermato che, in tema di contratto di appalto, il vincolo di responsabilità solidale fra l’appaltatore ed il progettista e direttore dei lavori (come nella specie, per i difetti della costruzione dipendenti dal cedimento del terreno dovuto alle caratteristiche geologiche del suolo, rientrando nei compiti di entrambi l’indagine sulla natura e consistenza del terreno edificatorio), i cui rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dal committente, trova fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale (Cass. Sez. 2, 27/08/2012, n. 14650; cfr. altresì Cass. Sez. 2, 23/07/2013, n. 17874; Cass. Sez. 3, 31/05/2006, n. 12995; Cass. Sez. 2, 23/09/1996, n. 8395).

La responsabilità solidale dell’appaltatore e del progettista e direttore dei lavori per l’intero danno arrecato al committente, stabilita dall’art. 2055, comma 1 c.c., obbliga, peraltro, il giudice, quando sia stata a tal fine formulata apposita domanda, all’accertamento ed all’attribuzione delle rispettive quote di ripartizione della colpa, potendosi applicare il criterio sussidiario della parità delle cause, di cui all’ultimo comma dello stesso art. 2055, solo se non sia possibile provare le diverse entità degli apporti causali e residui perciò una situazione di dubbio oggettivo e reale.

Tuttavia, gli apprezzamenti qui svolti dalla Corte d’Appello di Venezia sulla sussistenza della colpa dei vari soggetti e del concorso di più fatti colposi nella determinazione dell’evento dannoso (nella specie, la sorpresa geologica e il riporto di terreno), nonché sulla valutazione dell’efficienza causale di ciascuna delle colpe concorrenti, si risolvono in un giudizio di fatto immune da errori logici e di diritto, e che perciò si sottrae al sindacato in sede di legittimità.

Sotto il profilo processuale, del resto, l’esistenza di un vincolo di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c. tra appaltatore e progettista non genera un litisconsorzio necessario, avendo il creditore committente titolo per valersi per l’intero nei confronti di ogni debitore, con conseguente possibilità di scissione, anche in appello, del rapporto processuale, che può utilmente svolgersi nei confronti di uno solo dei coobbligati.

Nel caso in esame, era avvenuto che il giudice di primo grado, con la sentenza del 29/08/2009, aveva dichiarato estinto il giudizio nei rapporti tra Bon. ed il condebitore Bar., a seguito della transazione intervenuta tra di loro, mentre aveva condannato l’altro condebitore Z al risarcimento della rispettiva quota-parte attribuitagli, pari al 90% del danno complessivo, in quanto non assorbita dalla transazione.

F Zor, unico convenuto soccombente, ha poi proposto appello nei soli confronti del creditore G Bon., sicchè non è stata riproposta in appello nei confronti dell’altro convenuto nel giudizio di primo grado, C. Bar., una domanda di regresso, ai sensi dell’art. 2055, comma 2, c.c. In sostanza, il Tribunale di Vicenza, dichiarando estinto per l’intervenuta transazione il giudizio tra il Bon. ed il Bar., aveva altresì sciolto la solidarietà passiva tra il debitore liberato e l’altro debitore Z., con l’accertamento delle reciproche quote di responsabilità in misura del 10% e del 90%.

in ordine ai riflessi della transazione fra il creditore e uno dei debitori solidali, la Corte rileva che:

la Corte d’Appello di Venezia, accertata, appunto, nella misura del 90% la responsabilità del progettista Zor., e stimata quella concorrente dell’appaltatore Bar. nella misura del 10%, ha sottratto all’importo totale dei danni liquidati in favore di G. Bon. la somma di Lire 70.000.000, in quanto cifra corrisposta a seguito di transazione pro quota dal condebitore Zor.. La conclusione cui è pervenuta la Corte di merito è perciò corretta, anche se è errata l’invocazione che essa ha fatto dell’art. 1304 c.c.

Secondo consolidato orientamento, infatti, l’art. 1304, comma 1, c.c., si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto l’intero debito (accordando al condebitore solidale la facoltà di avvalersene pur non avendo partecipato alla sua stipulazione), e non la sola quota del debitore con cui è stipulata. Se la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali ha avuto ad oggetto la sola quota del condebitore che l’ha stipulata (secondo quanto accertato in fatto nel caso in esame, atteso che nella transazione intervenuta del 17 gennaio 2000 C. Bar. dichiarava di versare l’indicato importo “a saldo e stralcio della quota parte del debito da risarcimento danni che fosse a suo carico”, con l’aggiunta che “l’ing Zor. … non potrà profittare della presente transazione”), occorre distinguere:

nel caso in cui il condebitore che ha transatto abbia versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito (come qui avvenuto, dovendo il Barban soltanto il 10% del debito totale), il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato, proprio come fatto dalla Corte di Venezia;

nel caso in cui, invece, il pagamento sia stato inferiore, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto.

Questa interpretazione giurisprudenziale ha anche chiarito come lo stabilire se, in concreto, la transazione tra il creditore ed uno dei debitori in solido ha avuto ad oggetto l’intero debito o solo la quota del debitore transigente comporti, evidentemente, un’indagine sul contenuto del contratto e sulla comune volontà che in esso i contraenti hanno inteso manifestare, da compiere ad opera del giudice di merito secondo le regole di ermeneutica fissate negli artt. 1362 e segg. c.c.

E la Corte di Venezia ha ben spiegato le ragioni per le quali la transazione del 17 gennaio 2000 riguardasse la sola quota debitoria facente capo al Bar. (accertata nei rapporti tra i coobbligati in base alle ricordate argomentazioni di fatto) e non anche l’intero debito, ed ha conseguentemente quantificato il debito residuo gravante sullo Zor. (cfr. Cass. Sez. 1, 17/11/2016, n. 23418; Cass. Sez. 1, 07/10/2015, n. 20107; Cass. Sez. U, 30/12/2011, n. 30174).”

© massimo ginesi 29 settembre 2017

PROCESSO TELEMATICO E IMPUGNAZIONI: ATTENZIONE ALLE COMUNICAZIONI DI CANCELLERIA

Il processo telematico e la progressiva informatizzazione dell’attività delle cancellerie ha comportato significative variazioni nelle modalità di gestione delle normali attività processuali.

Per operatore del diritto molti sono i vantaggi delle nuove modalità operative, a partire dalla possibilità di depositare nel fascicolo telematico in ogni ora, sino alle 24 del giorno di scadenza, atti e memorie che prima era necessario correre a consegnare in cancelleria entro l’orario di chiusura.

Tuttavia la normativa non nasconde insidie, ad esempio in tema di notifiche a mezzo PEC, anch’esse svincolate dai rigidi orari degli sportelli degli Ufficiali Giudiziari ma che mantengono una zona franca dalle 21 alle 7, di tal che la notifica eseguita dopo le 21 si intende effettuata il giorno successivo, senza che si possa applicare alla notifica telematica neanche il differenziarsi degli effetti per notificante e notificato: lo stabilisce  l’art. 16 septies del d.l. 179/2012 il quale ha espressamente previsto che “la disposizione dell’articolo 147 del codice di procedura civile si applica anche alle notificazioni eseguite con modalità telematiche. Quando è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo”.

E lo ha confermato, con riguardo agli effetti, anche la Suprema Corte (Cass. civ. sez. lavoro 4 maggio 2016 n. 8886): il citato art. 16-septies d.l. 179/12 “non prevede la scissione tra il momento di perfezionamento della notifica per il notificante ed il tempo di perfezionamento della notifica per il destinatario espressamente disposta, invece, ad altri fini dal precedente art. 16 quater

Oggi il giudice di legittimità ritorna su un aspetto del processo telematico che richiede grande attenzione, ovvero l’idoenità della comunicazione di cancelleria del provvedimento integrale a far decorrere – in taluni casi – il termine breve per l’impugnazione.

Cass. civ., sez. II, ord. 27 settembre 2017 n. 22274 rel. Scarpa, con riferimento al procedimento ex art. 702 bis c.p.c,  chiarisce che “E’ tuttavia di per sé conforme ai principi costantemente affermati da questa Corte in tema di comunicazioni e notificazioni, la conclusione secondo cui la comunicazione telematica di un provvedimento del giudice emesso in formato cartaceo, effettuata in data antecedente all’entrata in vigore del comma 9-bis dell’art. 16 bis d.l. n. 79/2012, seppur priva della firma digitale del cancelliere, deve ritenersi validamente avvenuta, ai fini della decorrenza del termine perentorio di trenta giorni di cui all’art. 702-quater, c.p.c., in presenza dell’attività del cancelliere consistita nel trasmettere all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario il testo integrale dell’ordinanza, comprensivo del dispositivo e della motivazione, in maniera che vi sia comunque certezza che il provvedimento sia stato portato a compiuta conoscenza delle parti e sia altresì certa la data di tale conoscenza (si veda indicativamente Cass. Sez. 3, 19/12/2016, n. 26102, che ha ritenuto superflua per la regolarità delle notifica del ricorso per cassazione la sottoscrizione con firma digitale della copiai nformatica dell’atto originariamente formato su supporto analogico, essendo sufficiente che la copia telematica sia attestata conforme all’originale).”

Si tratta di ipotesi peculiare, relativa al solo procedimento sommario di cognizione, ma che è opportuno tenere in debito conto: “L’art. 702 quater c.p.c. stabilisce che, in tema di procedimento sommario di cognizione, l’ordinanza emessa ai sensi del sesto comma dell’articolo 702-ter c.p.c. produce gli effetti di cui all’articolo 2909 del codice civile se non è appellata (con citazione, ovvero comunque avendo riguardo alla data di notifica dell’atto di gravame alla controparte) nel rispetto del termine di trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione.

Ai fini della decorrenza del termine di trenta giorni, occorre quindi far riferimento alla data della notificazione del provvedimento ad istanza di parte ovvero, se anteriore, della sua comunicazione di cancelleria, comunicazione che deve avere ad oggetto il testo integrale della decisione, comprensivo del dispositivo e della motivazione, in maniera da consentirne alla parte destinataria la piena conoscenza (Cass. Sez. 3 – 23/03/2017, n. 7401; Cass. Sez. 6 – 2, 09/05/2017, n. 11331).

Tale comunicazione dell’ordinanza emessa ai sensi del comma 6 dell’art. 702-ter c.p.c. può essere eseguita anche a mezzo posta elettronica certificata: questa Corte ha infatti già chiarito come il periodo aggiunto in coda al secondo comma dell’art. 133 c.p.c. dall’art. 45 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 114, secondo cui la comunicazione, da parte della cancelleria, del testo integrale del provvedimento depositato non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c., è finalizzato a neutralizzare gli effetti della generalizzazione della modalità telematica della comunicazione, se integrale, di qualunque tipo di provvedimento, ai fini della normale decorrenza del termine breve per le impugnazioni, solo nel caso di atto di impulso di controparte, ma non incide sulle norme processuali, derogatorie e speciali (come appunto l’art. 702 quater c.p.c.), che ancorino la decorrenza del termine breve di impugnazione alla mera comunicazione di un provvedimento da parte della cancelleria (cfr. Cass. Sez. 6 – 3, 05/11/2014, n. 23526).

Il caso concreto, posto all’attenzione della Corte, consente di meglio comprendere il principio di diritto esposto in apertura, onde  mantenere costante attenzione alle nuove modalità telematiche che, fra le molte agevolazioni, nascondono non poche insidie, evitando una interpretazione eccessivamente formale delle norme .

Nel caso in esame, la ricorrente ha ricevuto comunicazione telematica del testo integrale dell’ordinanza del Tribunale di Catanzaro in data 21 gennaio 2014, ma deduce la violazione dell’art. 15, comma 4, del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, secondo cui “se il provvedimento del magistrato è in formato cartaceo, il cancelliere o il segretario dell’ufficio giudiziario ne estrae copia informatica nei formati previsti dalle specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34 e provvede a depositarlo nel fascicolo informatico, apponendovi la propria firma digitale”.

Dalla mancanza della firma digitale del cancelliere la ricorrente desume la nullità della comunicazione e quindi l’inidoneità della stessa a far decorrere il termine di trenta giorni di cui all’art. 702 quater c.p.c. Va detto che il comma 9-bis dell’art. 16 bis d.l. n. 79/2012, convertito con modificazioni in legge n. 221/2012 (norma però aggiunta in epoca successiva al compimento della comunicazione per cui è causa – e ciò ai fini del principio tempus regit actum – dall’art. 52, d.l. n. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014, poi ancora modificato dal d.l. n. 83/2015, convertito in legge n. 132/2015) dispone che “Le copie informatiche, anche per immagine, di atti processuali di parte e degli ausiliari del giudice nonchè dei provvedimenti di quest’ultimo, presenti nei fascicoli informatici o trasmessi in allegato alle comunicazioni telematiche dei procedimenti indicati nel presente articolo, equivalgono all’originale anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale (…)” (si veda al riguardo Cass. Sez. 6 – 3, 22/02/2016, n. 3386).”

© massimo ginesi 28 settembre 2017

 

anche la terrazza a livello si presume comune ex art. 1117 cod.civ., salvo il titolo contrario.

Lo afferma la Suprema Corte  (Cass.civ. sez. VI-2 ord. 14 settembre 2017 n. 21340 rel. Scarpa), affrontando un caso peculiare, deciso in maniera difforme dal Tribunale e dalla Corte d’appello e infine giunto al vaglio di legittimità.

La Corte ribadisce che anche per la terrazza a livello che funga da copertura ai piani sottostanti vige la presunzione di condominialità stabilità dall’art. 1117 cod.civ.;  non vale a superarla la circostanza che il bene sia destinato pertinenza ed uso dell’appartamento all’ultimo piano, potendo solo il titolo attribuire diritti esclusivi.

Il giudice di legittimità delinea con chiarezza l’oggetto della contesa: “la controversia in esame contrappone due aventi causa dall’unico originario proprietario di un complesso immobiliare, poi suddiviso in due distinti condomìni (P I e P II), ed attiene alla proprietà di una terrazza a livello, sovrapposta ad uno dei due condomìni (P II). La ricorrente I R.R. assume che la terrazza svolga funzione di copertura dei sottostanti piani dell’edificio ormai costituente il Condominio P II, sicchè opera al riguardo l’attribuzione legale della medesima terrazza in proprietà condominiale ai proprietari delle rispettive unità immobiliari, a norma dell’art. 1117 c.c., quale parte necessaria all’esistenza del fabbricato da essa coperto. La Corte d’Appello di Milano ha invece accolto la tesi degli originari convenuti, signori T, sostenendo che si trattasse di terrazza a livello sottratta alla presunzione di comunione ex art 1117 c.c., e piuttosto oggetto di proprietà esclusiva, giacchè costituente, in senso funzionale e strutturale, parte integrante dell’appartamento di proprietà T., che è però compreso nel distinto Condominio P I.”

La Corte censura le valutazioni dei giudici di appello: “Ora, è certamente ammissibile, per quanto si desume dall’art. 61 disp. att. c.c., che, pur in presenza di fabbricati che presentino elementi di congiunzione materiale, allorchè vengano costituiti condomìni separati per le parti aventi i connotati di autonomi edifici, uno dei titolari di porzioni esclusive si ritrovi proprietario di un appartamento ricadente in entrambi i condomìni (arg. da Cass. Sez. 6 – 2, 23/03/2017, n. 7605; Cass. Sez. 2, 01/03/1995, n. 2324; Cass. Sez. 2, 07/08/1982, n. 4439).

Nella sua decisione, la Corte d’Appello ha però malamente applicato l’art. 1117 c.c., alla stregua dell’interpretazione affermata da Cass. Sez. 2, 22/11/1996, n. 10323, che il Collegio intende qui ribadire.

Invero, l’art. 1117, n. 1, c.c. menziona tra i beni comuni i tetti ed i lastrici solari, i quali sono parti essenziali per l’esistenza del fabbricato, in quanto per la struttura e per la funzione servono da copertura all’edificio e da protezione per i piani o per le porzioni di piano sottostanti dagli agenti atmosferici, mentre tale norma non fa espresso riferimento alle terrazze a livello, le quali, tuttavia, pur offrendo rispetto al lastrico utilità ulteriori, quali il comodo accesso e la possibilità di trattenersi, svolgono altresì le medesime funzioni di copertura dell’edificio e di protezione dagli agenti atmosferici, e devono perciò ritenersi di proprietà comune ex art. 1117, n. 1, c.c., rimanendo attribuite in condominio ai proprietari delle singole unità immobiliari.

Tale identità di funzione tra terrazza a livello e lastrico solare è del resto alla base della comune pacifica applicazione ad entrambi dell’art. 1126 c.c.

La deroga all’attribuzione legale al condominio e l’attribuzione in proprietà esclusiva della terrazza a livello possono, allora, derivare solo dal titolo, mediante espressa disposizione di essa nel negozio di alienazione, ovvero mediante un atto di destinazione da parte del titolare di un diritto reale.”

Non vale, come fatto dalla Corte d’Appello di Milano, considerare la terrazza a livello come pertinenza dell’appartamento da cui vi si accede, in quanto ciò supporrebbe l’autonomia ontologica della terrazza e l’esistenza del diritto reale su di essa, che consenta la sua destinazione al servizio dell’appartamento stesso, in difformità dall’attribuzione ex art. 1117 c.c., laddove, a norma dell’art. 819 c.c., la destinazione al servizio pertinenziale non pregiudica i diritti dei terzi, e quindi, non può pregiudicare i diritti dei condomini sulla cosa comune”

La decisione di secondo grado viene cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano che dovrà attenersi al principio di diritto enunciato molto chiaramente dal giudice di legittimità: “Nella controversia fra due aventi causa dall’unico originario proprietario di un complesso immobiliare, poi suddiviso in due distinti condomìni, la proprietà di una terrazza a livello, svolgente funzione di copertura dei sottostanti piani di uno dei due edifici ed attigua ad un’unità immobiliare ricompresa nell’altro edificio condominiale, è da ritenersi oggetto di proprietà comune dei proprietari delle unità immobiliari da essa coperte, a norma dell’art. 1117, n. 1), c.c., quale parte necessaria all’esistenza del fabbricato, salvo che non risulti dal titolo l’espressa disposizione o destinazione della proprietà superficiaria della terrazza in favore del proprietario del contiguo appartamento estraneo al condominio”.

© massimo ginesi 21 settembre 2017

l’abbattimento delle barriere architettoniche non giustifica le innovazione lesive dei diritti degli altri condomini.

Si tratta di principio ormai consolidato in giurisprudenza, affermato sulla scorta del disposto dell’art. 2 comma 3 della L. 13/1989 che – nel dettare una disciplina di favore alla installazione di sistemi volti all’abbattimento delle barriere architettoniche – fa  salvo il disposto dell’art. 1120 u.c. cod.civ. in tema di innovazioni vietate.

In una lettura del diritto di proprietà  costituzionalmente orientata, ai sensi dell’art. 42 Cost.,  volta a contemperare il diritto soggettivo dei singoli condomini con la funzione sociale che i loro beni sono chiamati a svolgere, i giudici di legittimità hanno sempre dato interpretazione  ampia alle facoltà del singolo di comprimere il diritto di godimento al fine di realizzare opere volte all’abbattimento delle barriere architettoniche, dovendosi tuttavia tale facoltà arrestare ove quella compressione si traducesse in una lesione della effettiva possibilità di utilizzo del bene comune o individuale.

Il principio è ripreso in una recentissima pronuncia (Cass.civ. sez. VI-2 ord.  14 settembre 2017 n. 21339 rel. Scarpa),  ove si ritiene legittima la censura svolta dal giudice di merito sulla installazione di un ascensore che avrebbe di fatto compromesso l’utilizzo del pianerottolo per uno dei condomini.

La delibera assembleare che – seppur ai sensi della L. 13/1989 – decida l’installazione dell’impianto in violazione dell’art. 1120 u.c. cod.civ. è affetta da nullità.

La Corte di appello di Torino “ ha comunque ritenuto che l’innovazione costituita dalla realizzazione dell’ascensore avrebbe violato il limite di cui all’art. 1120, comma 2, c.c., nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220. La C H s.r.l. è, invero, proprietaria di un’unità immobiliare destinata ad esercizio commerciale, dotata di due accessi, dei quali l’uno si percorre provenendo dal pianerottolo. Basandosi sull’espletata CTU, la Corte di Torino ha concluso che l’installazione dell’ascensore avrebbe gravemente limitato la possibilità per la C H s.r.l. di accedere alle parti comuni dell’immobile, dovendosi a tal fine utilizzare lo stesso ascensore, sempre che avesse le porte aperte e non fosse guasto.”

Il condominio ricorre in cassazione, ove l’impugnazione viene respinta osservando che “In tema di condominio, l’installazione di un ascensore su area comune, allo scopo di eliminare le barriere architettoniche, costituisce un’innovazione che, ex art. 2, commi 1 e 2, della I n. 13 del 1989, va approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, commi 2 e 3, c.c., ovvero, in caso di deliberazione contraria o omessa nel termine di tre mesi dalla richiesta scritta, che può essere installata, a proprie spese, dal portatore di handicap, con l’osservanza dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c., secondo quanto prescritto dal comma 3 del citato art. 2 (Cass. Sez. 6 – 2, 09/03/2017, n. 6129).

Poiché resta dunque fermo il disposto dell’art. 1120, comma 2, c.c. (formulazione ratione temporis applicabile, antecedente alle modifiche apportate dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), sono vietate le innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell’utilità, secondo l’originaria costituzione della comunione.

Tale concetto di inservibilità della parte comunenon può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione – coessenziale al concetto di innovazione – ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della “res communis” secondo la sua naturale fruibilità (cfr. Cass. Sez. 2, 12/07/2011, n. 15308).

Nella specie, la Corte d’Appello di Torino ha accertato in fatto, secondo apprezzamento che spetta al giudice di merito e che non è sindacabile in cassazione sotto il profilo della violazione di legge, come denunciato dal ricorrente, che la realizzazione dell’ascensore avrebbe comportato un rilevante pregiudizio, per la condomina C H s.r.I., dell’originaria possibilità di utilizzazione del pianerottolo occupato dall’impianto di ascensore deliberato dall’assemblea, risultando perciò l’innovazione lesiva del divieto posto dall’art. 1120, comma 2, c.c., in quanto alla possibilità dell’originario godimento della cosa comune sarebbe stato sostituito un godimento di diverso contenuto, necessariamente condizionato alla disponibilità ed al funzionamento dell’ascensore stesso.”

Interessante il rilievo sulla carenza di interesse ad ottenere un riforma  della pronuncia sulla nullità, avanzata dal condomino controricorrente “Ove, infatti, il giudice abbia dichiarato nulla una deliberazione dell’assemblea condominiale, deve escludersi l’interesse della parte ad impugnare la sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della qualificazione del vizio di annullabilità, e non di nullità, della delibera, salvo che a quest’ultima sia ricollegabile una diversa statuizione contraria all’interesse della parte medesima, quale, ad esempio, la non soggezione della relativa impugnazione al termine di decadenza di trenta giorni previsto dall’art. 1137 c.c.

E’ comunque da qualificare nulla la deliberazione, vietata dall’art. 1120 c.c., che sia lesiva dei diritti individuali di un condomino su una parte comune dell’edificio, rendendola inservibile all’uso e al godimento dello stesso, trattandosi di delibera avente oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea (arg. da Cass. Sez. U, 07/03/2005, n. 4806; Cass. Sez. 2, 24/07/2012, n. 12930).”

© massimo ginesi 19 settembre 2017 

per il cortile che funge da copertura ai box e per il lastrico che copre un solo vano spese ex art. 1125 cod.civ.

La Cassazione (Cass.civ. sez. II  ord. 14 settembre 207 n. 21337 rel. Scarpa)  ribadisce un principio più volte affermato: ove il viale di accesso al condominio svolga anche funzione di copertura dei sottostanti box, le relative spese di manutenzione andranno ripartite in forza del disposto dell’art. 1125 cod.civ.

La vicenda ha origine in un supercondominio, ove tali spese sono state invece ripartite secondo il disposto dell’art. 1126 cod.civ. ed alcuni condomini hanno impugnato la delibera, ottenendo ragione sia in primo che in secondo grado:   il Tribunale di Frosinone e poi  la corte d’appello di Roma hanno dato affermato l’applicabilità al caso di specie dell’art. 1125 cod.civ., questione che viene risproposta dal supercondominio ricorrente  dinanzi al giudice di legittimità.

Nel respingere il ricorso, la cassazione osserva che: ” Come correttamente statuito dalla Corte d’Appello di Roma, qualora si debba procedere alla riparazione del cortile o viale di accesso all’edificio condominiale, che funga anche da copertura per i locali sotterranei di proprietà esclusiva di un singolo condomino, ai fini della ripartizione delle relative spese non si può ricorrere al criterio previsto dall’art. 1126 c.c. (sul presupposto dell’equiparazione del bene fuori dalla proiezione dell’immobile condominiale, ma al servizio di questo, ad una terrazza a livello), ma si deve, invece, procedere ad un’applicazione analogica dell’art. 1125 c.c., il quale accolla per intero le spese relative alla manutenzione della parte della struttura complessa identificantesi con il pavimento del piano superiore a chi, con l’uso esclusivo della stessa, determina la necessità dell’inerente manutenzione, in tal senso verificandosi un’applicazione particolare del principio generale dettato dall’art. 1123, comma 2, c.c. di tal che è fondata l’impugnativa della deliberazione assembleare dell’8 marzo 2005 proposta da P A, M A, M A e V A, avendo l’assemblea erroneamente posto le spese di rifacimento del piazzale a carico per un terzo del condominio e per due terzi degli attori, proprietari esclusivi del sottostante locale (così Cass., sez. VI- 2, 16/05/2017, n. 12177; Cass., sez. II, 19/07/2011, n. 15841; Cass., sez. II, 05/05/2010, n. 10858; Cass., sez. II, 14/09/2005, n. 18194).

La Corte trae spunto dalla vicenda per estendere il principio anche alla ipotesi di lastrico solare o terrazza a livello che funga da copertura ad un solo vano: “D’altro canto, anche nelle ipotesi in cui ad una terrazza a livello sia sottoposto un solo locale, ove le relative spese di manutenzione vengano regolate alla stregua dell’art. 1126 c.c., e non dell’art. 1125 c.c., si finisce per porre a carico dell’unico condomino “coperto” i due terzi della spesa di rifacimento, ovvero il doppio di quanto dovuto dall’utilizzatore esclusivo della terrazza, così vanificandosi la ratio dell’art. 1126 c.c.: tale norma, infatti, intende dare maggiore rilievo alla utilitas ricavabile dal bene ulteriore a quella insita nella generale funzione di copertura, sicché essa mira non soltanto a compensare il più rapido deterioramento del lastrico dovuto al diuturno calpestio sullo stesso, quanto soprattutto a non far gravare iniquamente sui soli condomini, ai quali il lastrico serve da copertura, una spesa che avvantaggia in maniera particolare chi da esso è in grado di trarre altri e diversi vantaggi. Pertanto, in caso comunque di riparazione di terrazza a livello sovrastante un’unica unità immobiliare, ovvero un unico piano, si rende plausibile un’applicazione analogica dell’art. 1125 c.c., in maniera da dare pari incidenza alle funzioni di separazione in senso orizzontale, di sostegno e di copertura svolte dalla res”

Tale  ultima interpretazione pare invece prendere le distanze da alcuni precedenti della stessa Cassazione (Cass.civ. sez. II  15 luglio 2003 n. 11029, Cass.civ. sez. II  16 maggio 1963, n. 1124).

© massimo ginesi 18 settembre 2017