uso della cosa comune: il singolo condomino ha diritto di possedere le chiavi degli ingressi comuni.

in un supercondominio il regolamento contrattuale indica specificatamente quali debbano intendersi le porte di accesso comuni, fra cui non ne è ricompresa una che pure affaccia su parti comuni e di cui un condomino chiede di avere le chiavi, per poter accedere da quel varco ad un suo box esterno, posto nel perimetro del condominio.

I giudice di merito (Giudice di Pace e, in appello, Tribunale di Milano) hanno negato tale facoltà, ritenuta invece del tutto legittima dalla Cassazione (Cass.civ. sez. VI 12 giugno 2019 n. 15851),   che ha rilevato come la circostanza che quella porta non fosse indicata nel regolamento quale accesso comune non ne fa venir meno la sua natura sostanziale di bene comune, sì che della stessa ben potrà giovarsi in maniera più intensa un condomino, secondo quanto previsto dall’art. 1102 c.c., essendo peraltro vietato unicamente collegare beni comuni a beni individuali esterni al condominio, poichè ciò darebbe luogo a costituzione di servitù, mentre è perfettamente ammissibile giovarsi di parti comuni per accedere  a proprietà individuali poste nel condominio.

La sentenza impugnata ha ritenuto desumibile la non destinazione della porta in questione all’apertura come varco verso l’esterno dall’elencazione contenuta nell’art. 10 del regolamento contrattuale degli accessi pedonali e carrabili al condominio, che non la contempla pur essendo coeva all’edificazione (cfr. pp. 4 e 5 della sentenza impugnata); secondo il tribunale la non destinazione della porta ad accesso non inciderebbe sul diritto dei condomini a far pari uso della cosa comune garantito da detta norma, trattandosi di un mero divieto contrattuale di accesso generalizzato nell’interesse comune.

La statuizione non è in linea con la giurisprudenza di questa corte (v. recentemente Cass. n. 2114 del 29/01/2018) secondo cui l’art. 1102 c.c. prescrive che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, salvo il limite della non alterazione della destinazione, chiarendosi che l’art. 1102 c.c. non pone una norma inderogabile, potendo detto limite essere reso perfino più rigoroso dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con il “quorum” prescritto dalla legge, fermo restando che non è consentita l’introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni.

Ciò posto, è evidente che, nel caso di specie, la decisione del giudice d’appello concreta l’introduzione di un siffatto divieto di uso generalizzato, peraltro attraverso una visione peculiare secondo la quale gli unici accessi a parti comuni sarebbero da ritenere quelli elencati nel regolamento. Erroneamente dunque il giudice d’appello, in base all’interpretazione del regolamento condominiale contrattuale, ha ritenuto – in ragione di una malintesa tassatività dell’elencazione degli accessi pedonali e carrabili – doversi ritenere precluso l’accesso mediante la porta in questione, pur se parte comune; esclusione che viola il diritto dei condomini all’uso delle parti comuni.

Neppure coerente con l’interpretazione corretta dell’art. 1102 c.c. come sopra accolta è la considerazione, svolta dal tribunale, secondo cui – avendo l’Immobiliare Poasco s.r.l. edificato un complesso di box all’esterno del supercondominio, ed immettendo la porta in questione su una striscia di terreno comune interclusa, ma separata da un cancello dall’esterno, ove sono siti i box (cfr. p. 5 della sentenza impugnata) – il libero accesso alla porta realizzerebbe, attraverso il cancello, un varco all’esterno non autorizzato.

In sé infatti, in relazione all’indimostrata sussistenza di un divieto contrattuale di creazione di ulteriori accessi all’esterno, l’uso della porta e dell’ulteriore cancello al fine di entrare e uscire dal condominio non potrebbe essere in contrasto con la menzionata norma, a meno che non si alterni la destinazione del cancello o della striscia di terreno interclusa; temi, questi, su cui però il tribunale non si è soffermato.

Parimenti il tribunale non si è soffermato in merito all’eventuale ricorrere, nel caso di specie, dei presupposti per cui l’utilizzo della parte comune per dar accesso a un fabbricato contiguo (nel caso di specie, adibito a box), estraneo al condominio, sia tale da alterare la destinazione della parte comune ex art. 1102 c.c., comportandone (per la possibilità di far usucapire al proprietario del fabbricato contiguo una servitù) lo scadimento ad una condizione deteriore rispetto a quella originaria (così ad es. Cass. n. 76 del 15/01/1970, sulla base di più remoti precedenti; per le successive, ad es. Cass. n. 2960 del 09/10/1972, n. 939 del 15/03/1976, n. 939 del 15/03/1976, n. 3963 del 24/06/1980, n. 2175 del 08/04/1982, n. 5628 del 16/11/1985, n. 2973 del 27/03/1987, n. 5780 del 25/10/1988, n. 2773 del 07/03/1992, n. 360 del 13/01/1995, n. 24243 del 26/09/2008; v. anche la fattispecie particolare di Cass. n. 23608 del 06/11/2006); l’uso della parte comune per creare un accesso a favore di parte esclusiva è legittimo, ai sensi dell’art. 1102 c.c., se l’unità del condomino avvantaggiata è inserita nel condominio, fermi gli altri limiti, in quanto, pur realizzandosi un utilizzo più intenso del bene comune da parte di quel condomino, non si esclude il diritto degli altri di farne parimenti uso e non si altera la destinazione, restando esclusa la costituzione di una servitù per effetto del decorso del tempo (Cass. n. 24295 del 14/11/2014).

La Corte ha dunque cassato la decisione di merito, con rinvio ad altra sezione del Tribunale di Milano.

© massimo ginesi 14 giugno 2019

 

l’apertura nel muro condominiale che consente a terzi il passaggio è illecita ed esula dalle previsione dell’art. 1102 cod.civ.

Ormai da tempo la Corte di legittimità ha chiarito come, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ.,  sia  consentito un uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche per trarne utilità esclusive, e che a tale uso possa essere anche manifestarsi nell’apertura di ulteriori varchi su muri perimetrali per accedere dalla parte comune alla proprietà esclusiva, sempre fatti salvi i limiti previsti dalla norma (decoro, statica e diritti degli altri condomini).

Allo stesso modo la Cassazione afferma con costanza che ove tale apertura sia volta a mettere in comunicazione la parte comune con una unità estranea al condominio, seppur di proprietà del singolo condomino, si tratta invece di uso non consentito in quanto idoneo a creare una servitù sul bene comune a favore di un fondo terzo, sì che la fattispecie non può essere ricondotta all’art. 1102 cod.civ.

Cass.Civ. sez.II ord. 2 ottobre 2018 23858  ribadisce tale orientamento, seppur in una fattispecie particolare in cui il diritto di passo era comunque destinato ad essere fruito da terzi estranei al condominio.

Alcuni condomini si erano dunque attivati dinanzi al Tribunale di Venezia contro gli autori della nuova apertura: deducendo che costoro avevano trasformato senza il consenso di tutti i condomini una finestra esistente sul muro perimetrale dello stabile condominiale in una porta, mettendo in tal modo in comunicazione un locale destinato a bar con altro spazio esterno di proprietà dei medesimi convenuti.
Ad avviso degli attori, in tal modo era stata realizzata un’opera illegittima idonea a costituire una servitù a carico del bene comune a tutti i condomini”

Gli esiti di merito erano stati contrastanti: il Tribunale respingeva la domanda ritenendo che gli attori non avessero adeguatamente dimostrato che l’area scoperta non facesse parte dello stesso condominio.
Interponevano appello gli attori in prime cure e la Corte di Appello di Venezia, con la sentenza impugnata n. 2534/2013, riformava la prima sentenza ritenendo che la trasformazione della finestra in porta alterasse la destinazione e la funzione dell’apertura e costituisse evento idoneo a costituire una nuova servitù a carico del condominio. Riteneva inoltre che l’intervento costituisse una possibile via di accesso di terzi estranei, avventori del bar, agli spazi condominiali, attraverso l’area esterna ed il bar degli appellati.”

La corte di legittimità, adita dai soccombenti in appello, ha così statuito: “Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione dell’art.1102 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché il vizio della motivazione, perché la Corte di Appello avrebbe configurato un uso abnorme del bene comune, rappresentato dal muro di cinta, sul presupposto che una delle due proprietà dei ricorrenti (in particolare, lo spazio aperto) non fosse compreso nello stesso condominio del quale faceva parte il locale ad uso commerciale, mentre avrebbe dovuto piuttosto ritenere i due beni compresi nel medesimo condominio e configurare pertanto un uso più intenso della cosa comune, ammesso dall’art. 1102 c.c.. Inoltre, i ricorrenti deducono che l’apertura da loro praticata non sarebbe idonea a costituire una nuova servitù a carico del condominio, da un lato poiché il possesso del diritto non poteva essere esercitato dal gestore del bar e dai suoi avventori, e dall’altro lato perché l’uso più intenso della cosa comune ammesso dall’art. 1102 c.c. non si riferirebbe necessariamente al solo proprietario del bene, ma riguarderebbe anche i terzi utilizzatori autorizzati dal proprietario medesimo.

Le due censure, che vanno esaminate congiuntamente poiché tra loro connesse, sono infondate.

Contrariamente a quanto ritenuto dai ricorrenti, infatti, la questione della ricomprensione o meno nel medesimo condominio delle due proprietà poste in comunicazione tra loro ha costituito oggetto del giudizio di secondo grado, come si evince dalla lettura del fatto contenuta a pag. 4 della sentenza impugnata. Anche dall’esame dell’atto di impugnazione, del resto, emerge che gli appellanti avevano lamentato proprio che gli odierni ricorrenti, mediante la trasformazione della finestra in porta, avessero creato una servitù di passaggio a favore di terzi estranei al condominio, con ciò evidentemente sottointendendo l’estraneità di una delle due proprietà poste in comunicazione dalla predetta apertura alla compagine condominiale in cui ricadeva invece l’altra.

Non essendosi formato quindi alcun giudicato interno sull’appartenenza o meno delle due proprietà di cui è causa allo stesso condominio, la Corte di Appello ha correttamente statuito sul punto, ritenendo – all’esito di un giudizio di fatto non utilmente censurabile in questa sede – che nel caso di specie una delle due predette proprietà fosse estranea al condominio e che quindi la nuova apertura praticata dagli odierni ricorrenti nel muro perimetrale dello stabile costituisse uso non consentito del bene comune, idoneo tra l’altro a costituire una nuova servitù a carico del condominio.

Né assume alcun rilievo, al riguardo, il fatto che il locale commerciale dei ricorrenti, posto certamente all’interno del condominio, sia stato concesso in locazione a terzi, giacché il titolo legittimante la detenzione in capo a costoro è soltanto idoneo ad escludere il loro diritto di possedere la servitù di passaggio ad usucapionem nei confronti degli odierni ricorrenti, proprietari del bene locato, ma non impedisce in termini assoluti la possibilità di questi ultimi di usucapire il predetto diritto di passaggio, anche per effetto del possesso mediato, nei confronti del condominio, né vale comunque a rendere lecita una condotta oggettivamente risolventesi in un uso abnorme e non autorizzato del bene comune.

Del pari irrilevante è la deduzione secondo cui l’uso più intenso della cosa comune non postula l’utilizzazione esclusiva della stessa da parte del solo condomino, ma ammette anche un uso da parte di terzi, autorizzati dal primo, posto che quel che rileva, nel caso di specie, è in ultima analisi la natura illecita dell’utilizzazione, che rende superflua qualsiasi considerazione relativa alla sua effettiva estensione, oggettiva o soggettiva.”

© massimo ginesi 4 ottobre 2018 

anticipazioni dell’amministratore uscente e ricognizione di debito da parte del condominio

Accade con frequenza che l’amministratore uscente reclami la restituzione di somme, che assume di aver personalmente anticipato nell’interesse del condominio  durante la propria gestione.

Il tema della prova di tali anticipazioni e, soprattutto, la condotta del condominio, che può comportare riconoscimento del debito, sono oggetto di una recente ed interessante pronuncia  della Suprema Corte.

Cass.Civ. sez. II ord. 12 aprile 2018, n. 9097 esamina la vicenda di un amministratore torinese che ha convenuto dinanzi al Tribunale sabaudo il condominio per vedersi restituiti i denari, che afferma di aver anticipato per la gestione del fabbricato. A tal fine  esponeva: “di esserne stato amministratore sino al 3.8.2006; di avere l’assemblea approvato il consuntivo della gestione ordinaria 2006 ed il relativo riparto, pari ad Euro 42.782,96; di avere egli sostenuto spese nell’interesse del Condominio per Euro 11.916,57, nel corso della gestione 2005 e per Euro 16.486,56 nel corso della gestione 2006 e di avere, invece, i condomini, versato la sola somma di Euro4.129,35; di avere, quindi, egli anticipato la complessiva somma di Euro 28.534,53, vedendosi rimborsare solo il suddetto importo, con un credito residuo pari, quindi, ad Euro 24.405,18. Esponeva, inoltre, di avere il nuovo amministratore, Francesco Bove, sottoscritto apposito documento da cui si evinceva la situazione contabile del Condominio al 3.8.2006 ed il debito verso l’amministratore uscente; di avergli il Condominio corrisposto tre acconti (il 10.11.2006 di Euro 4.500,00, il 18.12.2006 di Euro 5.000,00 ed il 30.6.2007 di Euro 6.000,00), rimanendo debitore di Euro 8.905,18.”

Il Tribunale accoglieva la domanda e la  Corte d’appello di Torino ha confermato la sentenza; la vicenda giunge  in cassazione su ricorso del condominio, che fonda la propria impugnazione sul fatto che l’amministratore non avrebbe fornito adeguata prova delle anticipazioni e che la sottoscrizione, da parte del nuovo amministratore, del documento in cui tale credito è indicato non costituirebbe ricognizione di debito.

Il condominio, tuttavia, vede esito sfavorevole anche in sede di legittimità, ove si chiarisce che se l’amministratore appena nominato sottoscrive – in sede di passaggio delle consegne – un documento da cui risulta il saldo passivo relativo alle somme anticipate dall’amministratore uscente e,  successivamente, il condominio ratifica tale operato, versando acconti su detti importi senza contestazione alcuna, tali condotte non possono che avere valenza ricognitiva del debito, così che si inverte l’onere della prova e deve essere il condomino a dar dimostrazione dell’inesistenza del credito azionato in giudizio.

Osserva a tal proposito  la Corte di Cassazione   che : “La Corte distrettuale (ma ancor prima il Tribunale) ha ampiamente chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto dimostrata la sussistenza del credito di M.L. .

Il ragionamento della Corte distrettuale che conduce ad affermare il riconoscimento del debito del Condominio nei confronti di M. , si snoda su due coordinate essenziali la cui sussistenza è stata dimostrata, e cioè: da un verso, la Corte distrettuale ha preso atto che il M. aveva prodotto un documento intitolato “Situazione contabile al 3 agosto 2006”, il quale recava l’indicazione del passivo complessivo a tale data (composto dal passivo di bilancio relativo al 2005 e 2006 nonché da un residuo c/c evidentemente passivo e ripianato dal M. secondo la prospettazione dello stesso), dei versamenti effettuati dai condomini per l’anno 2006, di un’ulteriore somma a credito del Condominio, nonché il debito nei confronti dell’ex amministratore pari ad Euro 24.405,18.

E, tale documento veniva sottoscritto dal nuovo amministratore.

Successivamente, si dava atto di ulteriori pagamenti per complessivi Euro 15.500,00. Per altro, (la Corte distrettuale ha preso atto) che il versamento delle somme di cui si è già detto, successive alla sottoscrizione del documento del 3 agosto 2006 non era controverso ed, anzi, la circostanza era stata posta a base delle difese svolte in via subordinata dal Condominio stesso, che non ha contestato, neppure, la legittimità di tali pagamenti, tanto che, relativamente ad essi, nessuna domanda di tipo restitutorio, o eccezione, è stata proposta.

Ora, si deve considerare che il riconoscimento di un debito non esige formule speciali e può essere contenuto in una dichiarazione di volontà diretta consapevolmente all’intento pratico di riconoscere l’esistenza di un diritto, ma, può risultare, implicitamente, anche da un atto compiuto dal debitore per una finalità diversa e senza la consapevolezza dell’effetto ricognitivo.

L’atto di riconoscimento, infatti, non ha natura negoziale, né carattere recettizio e non deve necessariamente essere compiuto con una specifica intenzione riconoscitiva. Ciò che occorre è che esso rechi, anche implicitamente, la manifestazione della consapevolezza dell’esistenza del debito e riveli i caratteri della volontarietà (Cass. n. 15353 del 30/10/2002).

Non vi è dubbio che i dati accertati dalla Corte distrettuale integrano gli estremi di un riconoscimento di debito. La Corte distrettuale, ha ulteriormente aggiunto: a) che il versamento delle somma di cui si dice era imputabile a tutti i condomini poiché in difetto di una diversa allegazione i suddetti pagamenti andavano imputati ad essi secondo le rispettive quote millesimali; b) che il comportamento dei condomini andava, altresì, qualificato quale ratifica dell’operato del nuovo amministratore, non potendo ad esso essere attribuito altro significato, se non quello di dar corso al riconoscimento del debito da questi sottoscritto e, quindi, di adesione ad esso. E, significativamente, la Corte ha concluso, come è giusto che fosse, che in forza del riconoscimento incombeva sul Condominio dimostrare l’inesistenza del debito e tale prova, non solo non è stata fornita, ma, sarebbe stata del tutto in contrasto con il suo adempimento, seppure parziale.

Il ricorrente, per altro, non tiene conto che il riconoscimento del quale si discute costituisce un atto giuridico in senso stretto, la cui identificazione, non implica l’applicazione di specifiche norme di diritto, ma, più semplicemente, la ricostruzione di un accadimento, di un fatto umano, la quale deve essere solamente motivata in modo congruo e corretto e, se priva, come nel caso in esame, da vizi logici non è suscettibile di sindacato nel giudizio di cassazione.”

© massimo ginesi 17 aprile 2018 

condominio e servitù: chi pagala manutenzione?

La questione è affrontata da Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza  15 marzo 2017, n. 6653,  Relatore Scarpa:  fra diversi condominii palermitani esiste un diritto di servitù a favore di alcuni edifici e a carico del fondo di proprietà di altro condominio,  la strada su cui si esercita tale passaggio necessita di manutenzione e sorge fra le parti contrasto su chi debba assumerne gli oneri.

La vicenda passa all’esame del Tribunale e poi della Corte di Appello di Palermo: “Tale domanda era volta ad ottenere dai Condomini convenuti il rimborso della quota, pari ad Euro 21.172,54, loro spettante, delle spese sostenute (pari ad Euro 31.750,80) per la manutenzione della stradella rientrante nella proprietà del Condominio di via (omissis) ma gravata di servitù di passaggio a vantaggio dei medesimi condomini convenuti, e danneggiata dal continuo transito di mezzi meccanici ad opera dei partecipanti a questi ultimi. La Corte d’Appello di Palermo ha posto in evidenza come, agli effetti dell’art. 1069 c.c., il titolare del fondo servente non ha alcun obbligo di legge ad eseguire sul proprio immobile le opere necessarie per l’esercizio della servitù, e che lo stesso non può, peraltro, servirsi di tale norma per far gravare sul titolare del fondo dominante (che pur ne tragga vantaggio) le spese di manutenzione della sua proprietà. La Corte d’Appello ha pure aggiunto che, nel caso di specie, le opere eseguite dal Condominio di via (omissis) riguardavano un complessivo risanamento dell’edificio condominiale, a causa di suoi difetti costruttivi-progettuali, risanamento che, a dire dell’espletata CTU, avvantaggiava solo in minima parte i Condomini di (omissis)”

La Suprema Corte censura la decisione del giudice siciliano, richiamando un orientamento risalente ma ancora attuale: “ La Corte d’Appello di Palermo ha deciso la questione di diritto ad essa sottoposta in maniera difforme dalla giurisprudenza di questa Corte, espressa in orientamento risalente, ma che comunque va qui confermato, non sussistendo elementi per mutare lo stesso.

Un conto, invero, è affermare, come fanno i giudici di appello, che il proprietario del fondo dominante ha il diritto di eseguire le opere necessarie per conservare la servitù, operando a sue spese, mentre non ha l’obbligo ex lege di eseguire sul fondo servente le opere necessarie per l’esercizio della servitù (così Cass. 22/11/1978, n. 5449).

Altro conto è escludere quel che afferma espressamente il comma 3 dell’art. 1069 c.c., ovvero che, se le opere necessarie per conservare la servitù giovano a entrambi i fondi, servente e dominante, le relative spese debbano essere ripartite in proporzione dei rispettivi vantaggi. Dalle norme di cui all’art. 1069 c.c. si desume, perciò, in via di interpretazione estensiva, per il caso in cui l’esercizio della servitù si attui solo per mezzo del fondo servente, e senza l’ausilio di opere autonome, l’obbligo del proprietario del fondo dominante di contribuire alle spese di manutenzione del fondo servente, in misura proporzionale all’uso (Cass. Sez. 2, 12/01/1976, n. 72, proprio relativa a fattispecie di servitù di passaggio gravante su parti di un edificio condominiale e di obbligo del titolare della servitù di concorrere nelle spese di manutenzione di tali beni condominiali insieme con i partecipanti al condominio, in misura proporzionale all’uso).

Si è pure affermato che l’art. 1069, comma 3, c.c. (allorché stabilisce che, nel caso in cui le opere necessarie alla conservazione della servitù, eseguite dal proprietario del fondo dominante sul fondo servente, giovano anche a quest’ultimo, le relative spese debbano essere sostenute da entrambi i soggetti del rapporto giuridico di servitù in proporzione dei rispettivi vantaggi), non costituisce una norma eccezionale, ma, al contrario, rappresenta l’applicazione di un più generale principio di equità ispirato all’esigenza di evitare indebiti arricchimenti. Pertanto, tale norma è applicabile anche nel caso, da essa non specificamente contemplato, in cui sia stato il proprietario del fondo servente ad eseguire su quest’ultimo, sia pure nel proprio interesse, opere necessarie alla conservazione della servitù (Cass. Sez. 2, 05/07/1975, n. 2637; Cass. 15/02/1982, n. 949).
Il ricorso va pertanto accolto, va cassata la sentenza impugnata e la causa va rinviata ad altra sezione della Corte d’Appello di Palermo, che deciderà uniformandosi al seguente principio di diritto:
“Agli effetti dell’art. 1069, comma 3, c.c., allorché il proprietario del fondo servente abbia eseguito su quest’ultimo, sia pure nel proprio interesse, opere necessarie alla conservazione della servitù, le relative spese devono essere sostenute sia dal proprietario del fondo dominante che da quello del fondo servente in proporzione dei rispettivi vantaggi”.

© massimo ginesi 17 marzo 2017

INTERVENTO SULLE PARTI COMUNI E DIRITTI DEI SINGOLI – L’AMPIEZZA DEL PASSAGGIO.

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La Suprema Corte, (Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 7 luglio – 23 novembre 2016, n. 23889 Presidente Bianchini – Relatore Oricchio) affronta un tema ricorrente e strettamente contiguo ad altra pronuncia commentata ieri in tema di installazione di ascensore, ove l’innovazione rechi pregiudizio ai singoli.

Se la pronuncia sulla installazione dell’ascensore attiene alla lettura ed applicazione dell’art. 1120 cod.civ., la sentenza oggi in commento riguarda invece l’altra norma fondamentale sulntema, ovvero l’art. 1102 cod.civ.

La norma, dettata in tema di comunione e pacificamente applicabile al condominio in virtù del richiamo dell’art. 1139 cod.civ. e della costante giurisprudenza sul punto, disciplina i limiti delle facoltà di intervento del singolo sulle parti comuni (mentre l’art. 1120 cod.civ. disciplina i limiti degli interventi deliberati dalla assemblea).

I fatti: un condomino cita in giudizio, dinanzi al al Tribunale di Bolzano altro condomino: “L’attrice chiedeva la condanna della convenuta alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi relativamente alle parti comuni che erano state inglobate dalla stessa, senza autorizzazione dei condomini, in occasione dei lavori di ristrutturazione del di lei alloggio”.

Domanda accolta sia dal Tribunale e confermata dalla Corte di Appello di Trento. La cassazione cassava la sentenza e rinviava per altro giudizio, che le perviene nuovamente a seguito di nuova decisone della Corte di secondo grado.

Questo il principio di diritto affermato, con  un interessante inciso – anche in questo caso – sulla ampiezza minima del passaggio: “In ogni caso il nucleo della svolta censura attiene alla pretesa erroneità della gravata decisione in punto di indagine sulla “esistenza o meno di pregiudizio…. in relazione all’esercizio del diritto di transito sulle cose comuni”, anche alla stregua di quanto statuito da questa Corte con la precedete sentenza n. 28025/2011 e di quanto risultante dalle risultanze peritali.
La censura, quanto a tale precipuo punto, non può essere accolta. La citata pregressa decisione di questa Corte non aveva escluso in toto il pregiudizio conseguente alle opere realizzate dalla parte odierna parte ricorrente, ma si era limitata al rinvio alla Corte territoriale al fine dell’accertamento del carattere pregiudizievole delle stesse.
Legittimamente e correttamente la decisione oggi gravata innanzi a questa Corte ha svolto adeguata valutazione del detto carattere pregiudizievole.
Tanto a mezzo della propria valutazione delle risultanze di causa, costituenti elemento proprio del giudizio di merito, nonché considerando anche la normativa in materia di abbattimento delle barriere architettoniche.
Invero appare corretto, quanto alla inammissibile e comunque infondata la svolta censura che attinge al merito, in considerazione dei due già accennati elementi e profili.
Innanzitutto il restringimento (attraverso l’utilizzo di una parte del bene comune) ha comportato una impossibilità di uso del ballatoio secondo la naturale destinazione dello stesso.
In secondo luogo (ed anche in senso contrario alla relazione peritale) il restringimento ad 80 cm. della larghezza dell’accesso al detto ballatoio sarebbe comunque inferiore a quanto normativamente previsto e quindi inidoneo per il passaggio di persone diversamente abili (DD.LL.PP. 16 giugno 1989, n. 236).

© massimo ginesi 1 dicembre 2016

costituisce appropriazione indebita la mancata consegna di cassa e documenti

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L’amministratore revocato che trattiene la cassa condominiale e i documenti relativi al fabbricato commette il reato di appropriazione indebita, previsto dall’art. 646 c.p., anche se ritiene che la sua revoca sia illegittima.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione II sez. penale con sentenza 38660/2016, decisa all’udienza del 10 giugno  2016 e depositata in data 19 settembre 2016.

I fatti: “Con sentenza del 22/20/2015 la Corte di Appello di Palermo ha confermato la pronuncia del Tribunale di Palermo che il 29/11/2014 aveva riconosciuto la penale responsabilità di C. A. in ordine al reato di cui agli artt. 646 e 61 n. 1 cod. pen. per essersi appropriato, abusando della sua nomina di amministratore condominiale dello stabile sito in Palermo al viale Regione Siciliana n. 476, della somma di euro 2.050,00, di tutti i libri contabili e della documentazione amministrativa in suo possesso

I motivi di ricorso: adduce il ricorrente che sussisterebbe “violazione degli artt. 646 cod. pen., 125 e 546 cod. pen. per avere la Corte territoriale omesso di considerare che ai fini della configurazione del reato contestato è necessario che la restituzione della cosa posseduta venga rifiutata senza alcuna legittima ragione, da ravvisarsi invece nel caso di specie nell’irritualità della convocazione dell’assemblea condominiale chel’aveva revocato dalla carica di amministratore, sicché doveva ritenersi che lo stesso condominio era ancora amministrato dal ricorrente in regime di prorogatio imperii, tanto che lo stesso ricorrente aveva convocato una nuova assemblea

Adduce ancora il ricorrente che non sussisterebbe prova che le somme versate dai condomini siano state destinate a suo profitto e che sussisterebbe comunque particolare tenuità del fatto.

Le motivazioni della Cassazione sono di grande rigore e devono richiamare con particolare energia l’attenzione degli amministratori su un momento cruciale, quale il passaggio delle consegne, e su condotte delle quali, troppo spess,o si ignorano le possibili conseguenze a rilievo penale.

Afferma infatti il Giudice di legittimità che: “ai fini della configurazione del delitto di appropriazione indebita non può ritenersi determinante la ritualità o meno della convocazione dell’assemblea che aveva revocato il ricorrente dalla carica di amministratore del condominio, convocazione alla quale, peraltro, lo stesso aveva risposto esternando comunque la volontà di dimettersi da tale carica, risultando evidenziato dalla sentenza che comunque il Chetta non ebbe a restituire la somma percepita ed i libri contabili neanche successivamente, nemmeno a seguito della richiesta formulatagli con raccomandata speditagli dal legale del condominio”

Infondati anche gli altri motivi di ricorso: quanto al profitto la Corte rileva che i giudici di merito hanno ritenuto correttamente e senza contraddizioni che il mancato versamento delle ritenute di acconto per il Condominio, relativamente alle quali l’amministratore aveva ricevuto i denari necessari dai condomini integrasse la prova della distrazione a proprio profitto  per costui.

Quanto alla particolare tenuità del fatto, non riconosciuta dai giudici di merito e che comporterebbe la non punibilità ai sensi dell’art. 131 bis  c.p., la Cassazione sottolinea che la modestia delle somme non è solo elemento di rilevanza: “Per la giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, condivisa dal Collegio, infatti, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo. La sentenza impugnata risulta essersi rigorosamente attenuta a tali principi, atteso che non solo, nel determinare la pena, ha sottolineato la “pervicacia” del C., per essersi questo “..addirittura spinto a lamentare la mancanza di pagamenti a suo favore da parte del condominio, nonché esponendo il medesimo all’eventuale pagamento della sanzione amministrativa cui la stessa difesa ha fatto riferimento”.

© massimo ginesi 20 settembre 2016

servitù, il passaggio coatto e il passaggio necessario

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La Suprema Corte  ( CAss. civ. Sez.II 5 luglio 2016 n. 13655) fa il punto sulla interclusione del fondo, a  seconda che la stessa sia assoluta o relativa.

Nella interessante e recente   sentenza chiarisce che si da luogo a passaggio necessario ai sensi dell’art. 1051 cod.civ. ove il fondo non abbia materialmente accesso alla via pubblica  debba quindi costituirsene uno (Art. 1051 cod.civ. ) mentre si deve dar luogo a sentenza costitutiva di passaggio coatto ove esista comunque un accesso al fondo, ma si riveli inidoneo per le esigenze di conveniente sfruttamento dello stesso (art. 1052 cod.civ. )

In tal caso compete al Giudice, con applicazione discrezionale e motivata dei criteri indicati  dall’art. 1051 II comma cod.civ., la valutazione sulla sussistenza della interclusione e sulle modalità opportune per superarla.

Le premesse in diritto alla decisione sono una ottima sintesi degli orientamenti giurisprudenziali sul punto: “In giurisprudenza si distingue tra passaggio coatto, cioe’ passaggio che puo’ essere concesso officio iudicis a norma dell’articolo 1052 c.c., e passaggio necessario di cui all’articolo 1051. Quest’ultima ipotesi ricorre quando il fondo sia circondato da fondi altrui e non abbia uscita sulla strada pubblica (interclusione assoluta) o non possa procurarsela senza eccessivo dispendio o disagio (interclusione relativa) mentre il passaggio coatto puo’ disporsi quando il fondo abbia un accesso alla via pubblica e sia, quindi, non intercluso, ma l’accesso sia inadatto o insufficiente ai bisogni del fondo medesimo e non possa essere ampliato (Cass. 27 giugno 1994, n. 6184; Cass. 5 luglio 19 (OMISSIS), n. 2270). In particolare, il diritto potestativo alla costituzione della servitu’, per il fondo non intercluso, e’ accordato in presenza della inadeguatezza del passaggio sulla via pubblica rispetto alle esigenze dell’agricoltura e dell’industria, oltre che dell’impossibilita’ di ampliamento di detto passaggio (Cass. 21 febbraio 2001, n. 2515; Cass. 18 dicembre 1997, n. 12814). L’interclusione del fondo necessaria per ottenere il passaggio coattivo sul fondo del vicino, a norma dell’articolo 1051 c.c. – e’ esclusa solo allorche’ esista un diritto reale (jure proprietatis o servitutis) di passaggio (Cass. 18 luglio 1991, n. 7996; Cass. 6 dicembre 1975, n. 4060). La possibilita’ di costituire un passaggio coattivo in favore di un fondo che, benche’ circondato da altri, fruisca di accesso alla via pubblica in forza di servitu’ volontaria su altro fondo, al fine di consentirne un altro sbocco sulla via pubblica, esula, dunque, dalla previsione dell’articolo 1051 c.c., restando regolata dal successivo articolo 1052 c.c.; in questo caso il diritto alla costituzione della servitu’ e’ condizionato all’esistenza dei seguenti presupposti: che il preesistente accesso sia inidoneo od insufficiente, che il suo ampliamento sia materialmente irrealizzabile od eccessivamente oneroso e che il nuovo passaggio risponda in concreto alle esigenze di sfruttamento agricolo od industriale del fondo dominante, senza impedire o compromettere analoghe utilizzazioni del fondo servente (Cass. 20 febbraio 2012, n. 3125; Cass. 8 giugno 1984, n. 3451). Compete poi al giudice di merito verificare l’esistenza dell’interclusione e accertare il luogo di esercizio di una servitu’ di passaggio coattivo: accertamento che deve essere compiuto alla stregua dei criteri enunciati dall’articolo 1051 c.c., comma 2 (Cass. 19 ottobre 1998, n. 10327; Cass. 5 ottobre 2009, n. 21255). Nel caso in cui la domanda abbia ad oggetto un fondo non intercluso e l’attore lamenti l’insufficienza del passaggio rispetto ai bisogni del fondo, lo stesso giudice di merito dovra’ accertare se ricorrono le condizioni, sopra richiamate, atte a giustificare la costituzione della servitu’ a norma dell’articolo 1052 c.c.”

© massimo ginesi 18 luglio 2016 

l’appropriazione indebita si perfeziona al passaggio delle consegne

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Se l’amministratore si appropria di somme del condominio può commettere il reato previsto dall’art. 646 cod.pen. Tuttavia il momento consumativo di tale fattispecie non si verifica, in caso di più atti di appropriazione (nel caso concreto l’amministratore si bonificava periodicamente somme dal conto del condominio al proprio conto personale), in occasione di ogni singola condotta ma quando quella condotta diviene irreversibile, manifestando l’agente un atto di signoria sul bene idoneo a far ritenere il provento  acquisito al patrimonio dell’agente.

La Cassazione penale , con una recente sentenza, ha chiarito che è solo al passaggio delle consegne al nuovo amministratore che si cristallizza la volontà dell’agente di non restituire quanto indebitamente trattenuto, a quel momento dunque si deve  intendere perfezionato il reato con ogni conseguenza anche in termine di prescrizione .

Sino a quel momento, invece, i flussi di denaro (seppur sconsigliati alla luce di quanto previsto dall’art. 1129 XII comma n. 4 cod.civ. ) possono trovare ragion d’essere anche in motivi di rilievo non penale, legati alla gestione del condominio: la condotta illecita  si perfeziona “nel momento in cui l’agente, volontariamente negando la restituzione della contabilità detenuta, si era comportato “uti dominus” rispetto alla “res”. Analogamente deve pertanto ritenersi che l’utilizzo delle somme versate nel conto corrente da parte dell’amministratore durante il mandato non profila l’interversione nel possesso che si manifesta e consuma soltanto quando terminato il mandato le giacenze di cassa non vengano trasferite al nuovo amministratore con le dovute conseguenze in tema di decorrenza dei termini di prescrizione. E difatti avendo l’amministratore la detenzione nomine alieno delle somme di pertinenza del condominio sulle quali opera attraverso operazioni in conto corrente, solo al momento della cessazione della carica si può profilare il momento consumativo dell’appropriazione indebita poiché in questo momento rispetto alle somme distratte si profila l’interversione nel possesso”

© massimo ginesi 5 luglio 2016 

T.A.R. Liguria, il Comune non ha potestà impositiva su aree condominiali private

Su un cortile condominiale si affacciano alcuni box e un fondo commerciale destinato a  supermercato, l’area è utilizzata come accesso veicolare sia dai proprietari dei box, in favore dei quali è costituito  un diritto di servitù sulla stessa, sia dai clienti del supermercato che viceversa sono terzi senza alcun titolo.

Il Condominio, per tutelare la proprietà condominiale e impedire l’indiscriminato accesso a chiunque, ha apposto due paletti e una catena all’ingresso. Ciò ha indotto il Comune a notificare un provvedimento al Condominio con cui ingiunge di “rispristinare lo stato preesistente dei luoghi mediante la rimozione dei paletti metallici con catenella” e  con cui  subordina il rilascio del richiesto titolo paesistico all’accordo di tutti i partecipanti.

Il provvedimento è stato ritenuto illegittimo dal TAR, cui ha fatto ricorso il Condominio, che ha rilevato come “L’esclusiva proprietà della via abilita infatti gli interessati a posizionare idonei strumenti volti ad impedire il transito dei terzi sul fondo, eccezion fatta per chi deve accedere e recedere alle proprietà che vantano il diritto di servitù come osservato in precedenza; la correttezza della destinazione del piano terreno del condominio (box ovvero magazzini utilizzati come autorimesse) non esclude l’interesse dei condomini all’accesso ed al recesso che presuppongono l’utilizzo della piccola strada privata”

Quanto all’assenso paesistico per l’installazione dei dissuasori a scomparsa  osserva il TAR che ” In proposito il comune impone che: il condominio dovrà presentare una dichiarazione giurata sull’esclusiva proprietà del fondo in contestazione; l’installazione dei dissuasori dovrà essere preceduta dall’assenso degli aventi diritto, e che costoro avranno comunque una facoltà interdittiva sul rilascio del successivo titolo edilizio. Al riguardo il tribunale nota che, sempre nei limiti fissati dall’art. 8 del d.lvo 2.7.2010, n. 204, è sufficientemente appurata la proprietà dei condomini sulla fascia di terreno per cui è lite, sì che la determinazione è illegittima a tale riguardo. In ordine alla volontà dell’amministrazione di assumere funzioni simili a quelle giurisdizionali si osserva che ad essa non compete la preventiva soluzione dei contrasti tra i privati: è verosimile che l’amministrazione sia stata da tempo interessata dai differenti interessi tra le parti sul bene di che si tratta, ma il corretto rapporto tra la regolamentazione di diritto comune e quella che pertiene ad un’amministrazione postula che il titolo venga eventualmente rilasciato agli aventi diritto sulla base delle norme edilizie, mentre competono al giudice ordinario le controversie sulle eventuali doglianze relative all’esercizio dei diritti esistenti sul bene interessato dal titolo di fonte amministrativa”.

In sostanza la P.A. non può e non deve spingersi oltre il proprio ruolo di tutela imposta dalla norma pubblicistica, spettando la valutazione e la soluzione delle controversie fra privati al Giudice ordinario.

Una sentenza interessante, a fronte di condotte spesso non lineari dei Comuni.

© massimo ginesi giugno 2013

niente servitù coattiva per i tubi del gas

Così ha stabilito la Cassazione con sentenza 11563 del 6 giugno 2016.

Mentre con il consenso delle parti si può costituire qualunque servitù che sia ascrivibile allo schema generale previsto dalla norma (un peso imposto sopra ad un fondo per il vantaggio di un altro), le servitù coattive costituiscono un numero chiuso di fattispecie tipiche e non è consentito al Giudice procedere alla applicazione analogica delle relative norme.

Ne consegue che non è consentito richiamarsi alle norme sulla servitù coattiva di acquedotto per imporre a carico di un fondo (ed a vantaggio di altro c.d. intercluso) il passaggio di tubazioni di adduzione di gas riconducendo tale fattispecie alla previsione dell’art. 1033 cod.civ.

Precisa la Corte che, inoltre,  l’adduzione di acqua e gas – per la diversità di funzione, la diversa pericolosità e le diverse caratteristiche del fluido condotto non sono riconducibili ad identica ratio che consenta di applicare la medesima norma, che il legislatore ha previsto solo per il passaggio dell’acqua.

per chi volesse leggere l’intera sentenza

 © massimo ginesi giugno 2016