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la cassazione enigmistica…

le pronunce della corte di legittimità racchiudono principi di diritto che vengono usualmente espressi in massime, per la predisposizione delle quali – atteso il grande rilievo che riveste la corretta espressione e diffusione del principio interpretativo – esiste un apposito ufficio presso la Cassazione.

Nel web non è tuttavia difficile incrociare  chi si diletta a riportare il senso di sentenze ed ordinanze, con uno spirito più degno di Bartezzaghi che del giurista.
Del resto per la stagione estiva i cruciverba ed i rebus sono da sempre ottimi alleati…

ecco due simpatici esempi di tali versioni della cassazione enigmistica

questa la massima ufficiale della prima

questo il principio di diritto espresso nella seconda, che non risulta massimata

ove si intenda controvertere sull’esistenza, o meno, in ordine ad una serie di unità immobiliari integranti porzioni di un complesso edilizio, di un condominio unico e distinto dal sovrastante complesso immobiliare, e, quindi, sulla riconducibilità di talune delle strutture della costruzione di cui si tratta alle parti comuni dell’edificio condominiale di cui all’art. 1117 c.c., con conseguente ripartizione delle spese tra i proprietari delle varie unità, è necessaria la partecipazione di tutti costoro a ciascuna delle fasi del giudizio, in una situazione di litisconsorzio necessario.

© massimo ginesi 1 agosto 2018

rimessa alle sezioni unite la questione della nullità degli atti di trasferimento di immobili urbanisticamente irregolari.

La seconda sezione della corte di legittimità (Cass.Civ. sez. II 30 luglio 2018 n. 20061), con una articolata ordinanza,  ha rimesso alle Sezioni unite la valutazione circa la nullità degli atti che abbiano ad oggetto immobili urbanisticamente non legittimi, sull’assunto che debba essere contemperata l’esigenza di contrasto all’abusivismo edilizio con quella di agile circolazione dei beni.

In sostanza si distingue fra irregolarità urbanistica, che potrebbe dar luogo ad una possibile trasferibilità del bene, e radicale abusivismo, che invece dovrebbe comportare l’applicazione della sanzione massima.

il tema è di non poco rilievo e l’ordinanza, per l’ampio excursus interpretativo, merita lettura integrale.

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© massimo ginesi 31 luglio 2018 

la proprietà degli spazi vuoti fra i piani di un condominio (intercapedini e controsoffitti)

Il proprietario del piano sovrastante installa delle condutture a proprio servizio nel vano posto fra il controsoffitto dell’appartamento sottostante e il solaio divisorio fra le due unità.

Cass.Civ. sez.II ord. 11 giugno 2018 2018  n. 15048 giudica non corretta la decisione del giudice di merito che ha negato al proprietario sottostante tutela possessoria.

“In materia condominiale, è pacifico che il solaio esistente, che separa il piano sottostante da quello sovrastante di un edificio appartenente a proprietari diversi, deve ritenersi, salvo prova contraria, di proprietà comune dei due piani perchè ha la funzione di sostegno del piano superiore e di copertura del piano inferiore. Esso infatti costituisce l’inscindibile struttura divisoria tra le due proprietà, con utilità ed uso uguale per entrambe e correlativa inutilità per altri condomini. Coerentemente con questa funzione, l’art. 1125 c.c., disciplina il regime delle spese prevedendo che le spese per la manutenzione dei soffitti siano sostenute in parti uguali dai proprietari dei due piani, restando a carico del piano superiore la copertura del pavimento ed a carico del proprietario inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto.

Tale situazione di comunione parziale inerisce solo alla parte strutturale, in quanto le eventuali opere che accedono al soffitto o al pavimento e che apportano dei benefici solo ad uno dei due proprietari, cosi come tutto ciò che non ha il carattere dell’essenzialità per la struttura, restano esclusi dalla comunione e possono essere utilizzati dal condomino nell’esercizio del diritto dominicale. La presunzione iuris tantum di proprietà comune di solai divisori tra un piano e l’altro vale, quindi, per tutte le strutture che hanno una funzione di sostegno e copertura.

La presunzione di condominialità riguarda il solaio in se stesso considerato e non anche lo spazio pieno o vuoto che esso occupa, con la conseguenza che non è consentito al proprietario di uno degli appartamenti limitare o restringere la proprietà esclusiva dell’altro appartamento occupando gli spazi vuoti (Cass. 23.3.1991 n. 3178, Cass. 23.3.1995 n. 2286).

Poichè la situazione di comunione parziale inerisce solo alla parte strutturale, le eventuali opere che accedono al soffitto o al pavimento e che apportano dei benefici solo ad uno dei due proprietari, cosi come tutto ciò che non ha il carattere dell’essenzialità per la struttura, restano esclusi dalla comunione e possono essere utilizzati dal condomino nell’esercizio del diritto dominicale.

Va, pertanto, escluso che tra il soffitto del piano inferiore e il pavimento del piano superiore possano esistere altre opere le quali non facciano parte del solaio e delle quali bisogna accertare di volta in volta la destinazione, al fine di verificare a chi appartengano (Cass. 21.10.1976 n. 3715).”

L’affermazione del giudice d’appello, secondo cui il soffitto dell’appartamento sottostante è rappresentato dal controsoffitto in cannicciato contrasta con il principio pacificamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, (Cassazione civile, sez. 2^ 07/06/1978, n. 2868) secondo cui, quando gli spazi pieni o vuoti, che accedano al soffitto od al pavimento, non siano essenziali alla struttura divisoria, rimangono esclusi dalla comunione e sono utilizzabili rispettivamente da ciascun proprietario nell’esercizio del suo pieno ed esclusivo diritto dominicale.

Ne consegue che, facendo passare i tubi nella controsoffittatura realizzata dal B., il M. lo ha spogliato nel possesso dello spazio vuoto sovrastante il suo appartamento, poichè la controsoffittatura non ha una funzione portante o divisoria dei due appartamenti ma una funzione meramente decorativa.”

© massimo ginesi 27 luglio 2018 

cortile comune: l’utilizzo per il transito verso beni individuali è espressione di (com)proprietà e non di servitù.

Una nitida ordinanza di legittimità (Cass.Civ. sez.II 24 luglio 2018 n. 19550 rel. Scarpa)  richiama i principi cardine in tema di (com)proprietà e uso del bene comune, al fine di valutare la correttezza del provvedimento di merito con cui è stata riconosciuta la liceità della condotta di alcuni condomini, che utilizzavano il cortile comune per accedere con autovetture alla propria proprietà esclusiva.

“La Corte d’Appello di Brescia, tenuto conto che G.C ed A. C. B. avevano rinunciato alle loro domande riconvenzionali di confessoria e negatoria servitutis, ha limitato il proprio esame della fattispecie al disposto dell’art. 1102 c.c., per concludere che l’utilizzo del cortile comune a scopo di transito da parte dei medesimi appellanti C. e B. fosse compatibile con l’uso di fatto dello spazio a piazzola di parcheggio degli autoveicoli dei condomini accertato dal CTU.”

Il principio espresso dal giudice di legittimità delinea con  chiarezza il quadro normativo cui deve farsi riferimento nella individuazione dei diritti esercitati da ciascun comproprietario, che in nessun caso possono essere ricondotti allo schema della servitù ove si discuta di utilizzo – anche più intenso e a fini individuali – del bene comune: essendo inclusa nel termine “cortile”, ex art. 1117, n. 1, c.c., ogni area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti, ivi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate del fabbricato, quali, appunto, gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi (così Cass. Sez. 2, 09/06/2000, n. 7889).

Una volta ritenuto il nesso di condominialità corrente tra l’unità immobiliare di proprietà esclusiva dei signori C. e B. e l’area compresa nel mappale 1…, l’uso di tale bene da parte dei medesimi convenuti ed attuali controricorrenti deve trovare regolamentazione nella disciplina del condominio di edifici, la quale è costruita sulla base di un insieme di diritti e obblighi, armonicamente coordinati, contrassegnati dal carattere della reciprocità, che escludono la possibilità di fare ricorso alla disciplina in tema di servitù, presupponente, invece, fondi appartenenti a proprietari diversi, nettamente separati, uno al servizio dell’altro.

Né può quindi astrattamente ipotizzarsi, come fatto a fondamento del secondo e del terzo motivo di ricorso, un’azione negatoria ex art. 949 c.c. per la cessazione delle molestie attribuite ai controricorrenti C. e B., i quali transitano con automezzi nel cortile, in quanto la qualità di condomini riconosciuta in capo a quest’ultimi deve, appunto, essere regolata, come fatto dalla Corte d’Appello di Brescia, sulla base dell’art. 1102 c.c., norma avente per oggetto l’uso legittimo delle cose comuni (cfr. di recente Cass. Sez. 2, 16/01/2018, n. 884).

Ai sensi dell’art. 1102, comma 1, c.c. l’uso della cosa comune da parte del singolo partecipante al condominio è consentito in conformità alla destinazione della cosa stessa, considerata non già in astratto, con esclusivo riguardo alla sua consistenza, bensì con riguardo alla complessiva entità delle singole proprietà individuali cui la cosa comune è funzionalizzata.

Ciascun condomino ha, così, diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest’ultimi.

In particolare, per stabilire se l’uso più intenso da parte del singolo sia da ritenere consentito ai sensi dell’art. 1102 c.c., non deve aversi riguardo all’uso concreto fatto della cosa dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; l’uso deve ritenersi in ogni caso consentito, se l’utilità aggiuntiva, tratta dal singolo comproprietario dall’uso del bene comune, non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene.”

Tale valutazione di fatto, che compete dal giudice di merito, nel caso di specie ha avuto esito positivo e congruamente motivato: ” la Corte d’Appello, in conformità a tali principi, ha  accertato che l’utilizzo dell’area comune a scopo di transito veicolare da parte dei condomini C. e B. fosse compatibile con l’uso ad essa impresso, come risultante dalla CTU, di parcheggio di autoveicoli, esistendo, del resto, l’accesso carrabile dalla proprietà C.-B. sin dal momento di costruzione delcomplesso immobiliare (cfr. Cass. Sez. 2, 01/08/2001, n. 10453; Cass. Sez. 2, 06/06/1988, n. 3819)”.

© massimo ginesi 26 luglio 2018

le azioni reali che non siano mero atto conservativo richiedono delibera assembleare

E’ quanto ribadisce, seguendo un principio consolidato, Cass.Civ. sez. II 23 luglio 2018, n. 19489.

L’ordinanza del giudice di legittimità riguarda una vicenda in cui un condomino, titolare di un box auto, aveva annesso alla sua proprietà un cospicuo tratto della contigua intercapedine condominiale. Il condominio agiva in rivendica e otteneva sentenza favorevole sia in primo che i  secondo grado.

I proprietari delibera box ricorrono in cassazione, ma il ricorso è rigettato: “Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la nullità della sentenza impugnata per mancata declaratoria del difetto di legittimazione dell’amministratore del condominio, in relazione all’oggetto del giudizio, trattandosi di azione reale, concernente le parti comuni dell’edificio.
Il motivo è infondato.

In tema di condominio le azioni reali da esperirsi contro i singoli condomini (o contro terzi) e dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali dei condomini su cose o parti dell’edificio comune che esulino dal novero degli atti meramente conservativi (al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130 n.4 c.c.) possono essere esperite dall’amministratore solo previa autorizzazione dell’assemblea ex art. 1131 comma 1, adottata con la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 c.c. (Cass. 5147/2003; 40/2015).

Dall’applicazione di tale principio deriva la ritualità dell’azione intrapresa dal condominio, giacché, nel caso di specie, l’iniziativa giudiziaria è stata deliberata all’unanimità, presente la maggioranza dei condomini dei millesimi: detta delibera è pertanto idonea ad attribuire all’amministratore condominiale il potere rappresentativo e la legittimazione processuale.”

© massimo ginesi 25 luglio 2018 

 

l’assemblea può decidere di dilazionare in più rate il pagamento della nuova caldaia? la Cassazione non lo ha detto…

E’ il principio che sinteticamente sembra essere espresso da una  stringata ordinanza resa da Cass.civ. sez. VI 14 giugno 2018 n. 15587.

In realtà è opportuno limitare la portata della pronuncia al singolo procedimento, evitando di trarne principi generali, poiché  la Corte di legittimità censura l’impostazione della impugnazione, senza affermare invece in senso positivo che il pagamento dilazionato non costituisca di per sé pregiudizio.

In sostanza la Corte afferma che il ricorrente non ha correttamente dedotto i vizi che assume sussistenti, non che tali vizi non sussistano e unicamente per tale ragione dichiara inammissibile la censura.

i fatti ed il processo di merito: ”  La Corte d’Appello di Roma, con sentenza 30.9.2016 ha respinto il gravame proposto dal condomino G.G. contro la sentenza di primo grado (n. 10525/10 del locale Tribunale) che a sua volta aveva respinto l’impugnativa, da lui proposta, di una delibera adottata in sua assenza l’8.5.2008 dal Condominio dell’edificio di via (OMISSIS).

Per giungere a tale soluzione, la Corte di merito, per quanto ancora interessa, ha rilevato:

– che l’obbligo di preventiva informazione risultava assicurato dall’avviso di convocazione spedito ai partecipanti;

– che la stipula di un contratto di finanziamento per la sostituzione della caldaia era un’appendice priva di autonomia rispetto all’approvazione dei lavori di sostituzione della caldaia, in quanto contenuta proprio nel preventivo che l’assemblea aveva deciso di scegliere nell’esercizio dei suoi poteri di scelta sui costi da affrontare, anche con previsione di interessi in alternativa ad una immediata ripartizione dei costi;

– che il riparto era frutto di mero conteggio matematico e l’appellante aveva omesso di indicare eventuali errori o profili in relazione ai quali la ripartizione non sarebbe corretta.”

la valutazione della corte di legittimità: ” secondo la tesi del ricorrente la delibera non poteva prevedere il pagamento rateale, cioè un’operazione finanziaria pluriennale (priva dell’indicazione delle condizioni di restituzione) implicante anche il pagamento di interessi (di cui non si conosceva neppure il tasso) e, in ipotesi di vendita dell’immobile, anche il sorgere di una obbligazione solidale di pagamento con l’acquirente, ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c..

Il motivo è inammissibile per difetto di interesse (art. 100 c.p.c.).

 Secondo il costante orientamento di questa Corte, l’interesse ad impugnare va apprezzato in relazione all’utilità concreta che deriva alla parte dall’eventuale accoglimento dell’impugnazione stessa, non potendo esaurirsi in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, priva di riflessi pratici sulla decisione adottata (tra le tante, Sez. 2, Sentenza n. 15353 del 25/06/2010 Rv. 613939; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 25712 del 04/12/2014 Rv. 633763; Sez. 1, Sentenza n. 8934 del 12/04/2013 Rv. 626025).

Sulla scorta di tale principio il ricorrente aveva l’onere di dimostrare quale concreto pregiudizio gli sarebbe derivato da un pagamento rateale, di cui non riporta neppure l’incidenza in termini di maggiorazione per interessi (elemento certamente verificabile), non bastando i riferimenti a ipotetici obblighi futuri per il condomino alienante.”

copyright massimo ginesi 24 luglio 2018