domande tardive di ammissione al passivo fallimentare. quali termini?

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a norma dell’art. 101 L.F. è considerata tardiva la domanda di ammissione al passivo che non sia trasmessa al curatore nel rispetto del termine di  trenta giorni antecedenti alla data dell’udienza fissata per la verifica del stato passivo.

Tali istanze possono essere tuttavia inviate entro un anno dal deposito del decreto di esecutorietà dello stato passivo.

La riforma della legge fallimentare ha consentito aggiornai della procedura, maggior flessibilità nella gestione della stessa, cosicché accade che possano essere fissate più udienze di verifica dei diversi crediti e che in ciascuna di esse il Giudice  provveda a rendere esecutivo lo stato passivo relativamente alle domande esaminate in quella sede.

ebbene la Cassazione (Sez. Lav., 11 luglio 2016 n. 14099) censurando la decisione del Giudice di primo grado, ha ritenuto che il termine annuale decorra non già dalla prima udienza di verifica ma dalla data di deposito del decreto di esecutorietà dell’intero stato passivo, ovvero quando il Giudice – esaminate tutte le domande – lo rende esecutivo: ciò sulla scorta dell’art. 96 L.F. che prevede che “il giudice terminato l’esame di tutte le domande forma lo stato passivo e lo rende esecutivo con decreto depositato in cancelleria”.

Solo questo ultimo adempimento è idoneo a far decorrere il termine annuale di cui all’art. 101 L.F. poiché solo con il provvedimento finale “la procedura di accertamento del passivo è destinata a chiudersi e ad acquisire giuridica rilevanza” .

qui la sentenza per esteso

© massimo ginesi 13 luglio 2016

processo penale, la mancata comparizione dinanzi al giudice di pace comporta remissione tacita della querela

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Lo ha affermato la Cassazione V sez. pen. con sentenza 12 luglio 2016 n. 29209.

La natura del processo penale dinanzi al giudice di pace e lo scopo deflattivo e conciliativo della prima udienza, a fronte di vicende che hanno un modesto contenuto offensivo e uno scarso disvalore sociale, impone di considerare come non più sussistente la pretesa punitiva del querelante ove costui ometta consapevolmente di comparire in udienza.

Ritiene la Corte che “è la mancata collaborazione al processo (accusatorio e che vuole dunque che la prova sia formata a dibattimento) e l’assenza della voce di chi dovrebbe dare corpo e fondamento alla pretesa punitiva che consente di dubitare della persistenza di tale volontà”

Nella sentenza viene dunque espresso il seguente principio di diritto: “Tenuto conto del principio generale del favor conciliationis, cui è improntato il sistema normativo che regola il procedimento penale dinanzi al giudice di pace, e che esso è collocabile nell’ambito del più ampio principio della ragionevole durata dei processi, la mancata comparizione del querelante – previamente e chiaramente avvisato del fatto che l’eventuale successiva assenza possa essere interpretata come volontà di non perseguire nell’istanza di punizione – integra gli estremi della remissione tacita, sempre che lo stesso querelante abbia personalmente ricevuto detto avviso, non sussistano manifestazioni di segno opposto e nulla induca a dubitare che si tratti di perdurante assenza dovuta a libera e consapevole scelta”.

Attenzione dunque che anche reati assai frequenti in ambito condominiale (nelle assemblee o nei rapporti fra condomini e amministratori, quali le minacce,  la diffamazione o le lesioni)  richiedono che colui che sporge la querela sia poi attivo anche nella successiva fase processuale, dovendo altrimenti ritenersi cessato il suo interesse alla punizione del colpevole.

© massimo ginesi 13 luglio 2016

installazione ascensore, innovazione agevolata ma attenzione alle scale…

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E’ noto che, sino dalla L. 13/1989, l’installazione di ascensore è vista con favore dal legislatore, che ha in quel testo normativo  predisposto strumenti agevolati di decisione, ove tale intervento debba essere effettuato  in condominio.

Si tratta infatti di un impianto che è volto a soddisfare interessi di rilevanza costituzionale, poiché agevola la mobilità di soggetti sfavoriti e pertanto attua principi che hanno riguardo alla eguaglianza e al diritto alla salute (artt. 3 e 32 Cost.)

LA normativa è stata rivista, con un discutibile senso peggiorativo, dalla L. 220/2012 che ha modificato l’art. 1120 cod.civ. e la L. 13/1989, innalzando i quorum deliberativi.

Sin dal 1989, tuttavia, rimangono  vietate le installazioni che urtano  il divieto di cui all’ultimo comma dell’art. 1120 cod.civ. (decoro e  stabilità dell’edificio, pari uso degli altri condomini)

Uno dei casi che, con grande frequenza, comporta contenzioso è la riduzione del piano di calpestio delle scale, che viene tagliato  per far posto alla installazione della cabina ascensore.

La giurisprudenza negli anni ha  mostrato di considerare lecita una modesta compressione dei diritti degli altri condomini in favore della installazione, con limiti che tuttavia – oltre una certa misura – divengono invalicabili.

Due recenti sentenze di merito affrontano il tema .

Il Tribunale di Torino, con la sentenza 14.6.2016, Giudice unico dr.ssa Paola Ferrero (decisamente ridondante nelle motivazioni), riperorre l’ampio dibattito giurisprudenziale sul punto: “Passando all’esame delle ulteriori doglianze attoree, va innanzitutto osservato che le stesse appaiono riconducibili al disposto dell’art. 1120, ultimo comma c.c. (nel testo applicabile ratione temporis), nella parte in cui vieta le innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio (nel caso di specie le scale), inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino, ovvero che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato. Il riferimento ai limiti stabiliti dalla norma richiamata appare pertinente, atteso che: a) secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione, l’installazione di un ascensore in un edificio in condominio che ne sia sprovvisto costituisce, ai sensi dell’art. 1120, comma 1, c.c., un’innovazione (cfr. Cass. n. 20902 del 08/10/2010; Cass. n. 9033 del 04/07/2001; Cass. n. 1529 del 11/2/2000); b) anche nel caso in cui l’innovazione sia diretta ad eliminare le barriere architettoniche, ai sensi dell’art. 2, comma 3 legge n. 13/89 resta fermo quanto disposto dall’art. 1120 c.c. nella parte sopra richiamata; c) nel caso di specie, si osserva incidentalmente, il Condominio convenuto ha comunque espressamente affermato (cfr pag. 6 comparsa di risposta) che l’aspetto relativo all’eliminazione delle barriere architettoniche non é inerente all’oggetto di causa. Ciò premesso, con specifico riguardo al limite costituito dall’inservibilità all’uso o al godimento anche di un solo condomino, si osserva quanto segue. Secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione, “l’accertare se lo stato di fatto posto in essere in conseguenza della innovazione renda o meno talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino si risolve in un accertamento di fatto, di esclusiva competenza del giudice di merito……” (Cass. n. 614/63). Quanto al concetto di “inservibilità”, lo stesso non coincide con il pregiudizio, ove questo sia tollerabile; deve invero, ad esempio, “riitenersi consentita l’innovazione utile a tutti i condomini eccetto uno al quale arrechi un pregiudizio tollerabile, come quello costituito dall’occupazione di una parte minima del cortile condominiale” (così, in motivazione, Cass. n. 10445/1998 che richiama Cass. n. 697/77 e Cass. n. 954/67). Più in generale, il limite qui in esame “é costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità” (Cass. n. 15308/2011) e la fattispecie di cui all’art. 1120, ultimo comma c.c. é quindi integrata solo nel caso in cui “l’innovazione produca una sensibile menomazione dell’utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene” (Cass. n. 20639/2005). Anche recentemente (Cass. n. 18334/2012, in motivazione), il Supremo Collegio ha riaffermato che: “nell’identificazione del limite all’immutazione della cosa comune, disciplinato dall’art. 1120 c.c., comma 2, il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione – coessenziale al concetto di innovazione – ma é costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità” e che “si può tener conto di specificità – che possono costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo condominio – solo se queste costituiscano una inevitabile e costante caratteristica di utilizzo”. Nello svolgere l’accertamento de quo, pertanto, dovrà essere inevitabilmente effettuato un confronto tra le condizioni e modalità di fruizione del bene comune anteriore e successive all’innovazione (come si desume, altresì, dal successivo passaggio motivazionale della citata Cass. n. 18334/2012, secondo cui: “con riguardo alla questione della sicurezza con riferimento alla ipotesi di necessità di passaggio di mezzi di soccorso….il giudice di secondo grado é incorso nella omissione denunciata…consistita nel mancato confronto delle condizioni di sicurezza anteriori al restringimento delle scale con quelle conseguenti alla realizzazione dell’ascensore”).”

Osserva dunque nello specifico che: “In tale prospettiva, nel caso di specie, appare rilevante evidenziare quanto segue: – allo stato attuale, anche se le dimensioni delle scale – di m. 1,11 (m. 1,08 nel primo e ultimo gradino di ogni piano) – sono inferiori a quelle – di m. 1,20 – previste dalla normativa sopra richiamata (comunque non applicabile nel caso di specie), “il fatto….che il parapetto e il corrimano siano posti all’esterno della rampa comporta che la luce di passaggio di allarghi, sopra il cordolo, di alcuni centimetri”, consentendo “di fatto il passaggio di due persone” (pag. 13 relazione peritale); – con la realizzazione dell’ascensore e il ripristino del corrimano (che, come condivisibilmente osservato dal CTU a pag. 15 della relazione peritale, oltre ad essere previsto dalla normativa sulle barriere architettoniche, “é indispensabile qualora la scala debba essere utilizzata da persone con scarsa capacità motoria o con problemi di equilibrio”), la luce libera di passaggio sarebbe invece ridotta a soli 83 centimetri (80 centimetri in corrispondenza del primo e dell’ultimo gradino di ogni piano), risultando così impedito il passaggio contemporaneo di due persone… né può sostenersi che la presenza dell’ascensore eviterebbe l’utilizzo delle scale, atteso che, come osservato dal CTU, “l’ascensore in progetto é molto piccolo e potrebbe risultare claustrofobico” (cfr. pag. 5 relazione); inoltre, come é noto, l’ascensore può subire dei guasti e, infine, non é ipotizzabile un’obbligatoria rinuncia all’utilizzo delle scale quale conseguenza dell’assenza del mancorrente, atteso che in questa ipotesi sarebbe integrata in modo ancor più evidente l’impossibilità di utilizzo del bene comune; – non solo: la drastica riduzione della larghezza delle scale renderà impossibile il trasporto di un malato o di un ferito su barella attraverso le scale (esclusa, pacificamente, la possibilità di utilizzo a tale fine dell’installando ascensore), se non con manovre potenzialmene rischiose per la salute del trasportato (cfr. pag. 14 dell’elaborato peritale, laddove si legge: “Attualmente la barella può passare, anche se con alcune difficoltà. Il punto critico é il pianerottolo intermedio n corrispondenza del quale é necessario sollevare la barella per farla passare sopra il corrimano, senza necessità di inclinarla lungo l’asse longitudinale. A seguito della realizzazione dell’ascensore, il punto di passaggio più critico sarebbe il pianerottolo di piano: in questo caso non sarebbe più possibile fare passare la barella sopra il mancorrente a causa dell’ingombro del castelletto; per fare passare la barella occorrerebbe inclinarla notevolemente…di circa 40° sull’asse del beccheggio o su quello del rollio”); – né rileva che, secondo quanto prospettato dal CTU, il passaggio della barella potrebbe essere mantenuto “se il progetto venisse modificato arretrando il castelletto di circa 30 cm.”; atteso che la delibera qui in esame ha approvato un preventivo relativo ad un progetto che non prevede tale arretramento”

il Tribunale dunque ritiene viziata, per violazione dell’art. 1120 u.c. cod.civ. la delibera che ha deciso l’installazione, da ricondursi alla fattispecie delle iniezioni vietate: “il limite di cui all’art. 1120, ultimo comma c.c. qui in esame non possa dirsi rispettato e che il mutamento delle condizioni di utilizzo delle scale condominiali, quale esito dell’installazione dell’ascensore per cui é causa, esorbiti dal limite della tollerabilità. Ad avviso della scrivente invero, i cambiamenti sopra evidenziati influiscono in modo rilevante sulla naturale fruibilità delle scale. In tale naturale fruibilità (e con tale affermazione la scrivente si pone in consapevole contrasto con Cass. n. 15308/2011, secondo cui l’eventuale ostacolo all’ingresso di barelle fa riferimento ad una “mera eventualità d’uso.. come tale ininfluente nella determinazione dell’innovazione tollerabile”) rientra altresì l’uso delle scale in situazioni di emergenza, anche se potenziale o comunque non frequente; ciò in quanto la funzione naturale delle scale é quella di consentire l’accesso e il recesso da ogni unità immobiliare per tutte le necessità di vita dei suoi occupanti, tra cui non può essere esclusa quella di ricorrere ad interventi sanitari d’urgenza e di poter accedere tempestivamente alle cure mediche anche in caso di impossibilità di deambulazione, non potendo gli incidenti domestici o i malori, soprattutto in caso di persone anziane, essere considerati eventi eccezionali. Né, infine, può indurre a diversa conclusione l’ulteriore insegnamento della Corte di Cassazione, secondo cui, al fine della valutazione di tollerabilità della compressione del diritto di uso sulla cosa comune, è necessario tenere conto “del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che é propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche” (così la massima di Cass. n. 18334/2012) e, pertanto, “l’impossibilità di osservare, in ragione delle particolari caratteristiche dell’edificio…..tutte le prescrizioni della normativa speciale diretta al superamento delle barriere architettoniche non comporta la totale disapplicabilità delle disposizioni di favore, finalizzate ad agevolare l’accesso agli immobili dei soggetti versanti in condizioni di minorazione fisica….qualora l’intervento (nella specie installazione di un ascensore…), produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione” (così la massima di Cass. ord. 18147/2013). Nel caso di specie, infatti (e ciò si osserva nell’ottica di contemperamento degli interessi sollecitata dalla richiamata giurisprudenza del Supremo Collegio), l’impianto oggetto di deliberazione non determinerebbe l’eliminazione delle barriere architettoniche ma, al più, un loro mero ridimensionamento fruibile da limitate categorie di soggetti; e ciò in assenza nell’immobile, per quanto consta dagli atti, di persone permanentemente non in grado di deambulare. Il CTU ha invero evidenziato: che la cabina avrebbe dimensioni interne di 90 cm. di profondità, 68 cm. di larghezza ed accesso con luce netta di soli 60 centimetri (cfr. pag. 5 relazione peritale); che per raggiungere l’ascensore sarebbe comunque necessario percorrere una breve rampa di scale; che l’apertura delle porte di piano sarebbe manuale e non automatica; che, conseguentemente, “l’impianto non sarebbe fruibile autonomamente da persone non dotate di mobilità autonoma, in particolare da utenti su sedia a ruote (che dovrebbero al limite ricorrere a sedie a ruote pieghevoli che richiedono l’ausilio di un accompagnatore)” (cfr. pag. 7 relazione peritale). Sempre nell’ottica di contemperamento degli interessi e dei sacrifici, non può non rilevarsi come in data 25.11.2009 (cfr. doc. 8 parte attrice) il Condominio avesse deliberato l’installazione dell’ascensore all’esterno e come l’assunto secondo cui tale diversa collocazione sarebbe stata abbandonata perché non praticabile non sia stato in alcun modo provato da parte convenuta. In ultimo, sotto il profilo della sicurezza, non può non considerarsi come allo stato attuale la larghezza delle scale rispetti la larghezza minima prescritta per gli edifici della sua tipologia dalla normativa antincendio; mentre con l’installazione dell’ascensore le scale avrebbero un’ampiezza inferiore a quella minima di ben 22-25 centimetri. Pertanto, a prescindere dalla possibilità di ottenere il nulla osta dei Vigili del Fuoco (possibilità che il CTU non ha escluso), l’adeguato deflusso per il caso di evacuazione ne risulterebbe pregiudicato. Sempre sotto il profilo della sicurezza va ancora evidenziato che, secondo il CTU, non il taglio delle scale (perché “le lastre si sorreggono autonomamente grazie all’incastro nella muratura”, per cui “il taglio della loro estremità per l’alloggiamento del castelletto non pregiudica, dal punto di vista della scienza delle costruzioni, la stabilità”), ma le “vibrazioni prodotte dal taglio, potrebbero aggravare eventuali fessure o cricche già presenti nelle lastre lapidee oppure punti di debolezza della muratura nel punto di incastro” (cfr. pag. 8 relazione peritale) e che il preventivo approvato non risulta avere preso in considerazione tale eventualità, omettendo di prevedere, in fase esecutiva, le indagini e gli eventuali consolidamenti prospettati dal CTU come potenzialmente necessari. Per le ragioni sin qui esposte la scrivente ritiene che l’intervento come deliberato dall’assemblea integri gli estremi di una innovazione vietata e che, pertanto la proposta impugnativa debba essere accolta con le statuizioni di cui in dispositivo (ritenuta assorbita, per il principio della ragione più liquida, ogni considerazione in punto pregiudizio al decoro architettonico e conseguente deprezzamento).”

Anche il Tribunale di Roma, con sentenza 27 maggio 2016, Giudice unico dr. Silvio Cinque,  ha affrontato il tema, con argomentazioni decisamente più sintetiche e pervenendo  a conclusioni  diverse dal giudice sabaudo:  la riduzione delle scale alla larghezza di 80 centimetri appare astrattamente legittima pur comportando un lieve aumento delle difficoltà di transito o di trasporto con barella.

La delibera viene comunque annullata per difetto delle maggioranze necessarie.

Afferma il Giudice capitolino: “È di tutta evidenza che le modificazioni apportabili alla cosa comune in forza dell’art. 1102 c.c. possono costituire anche una innovazione – nell’accezione tecnico-giuridica usata nella richiamata norma dell’art. 1120 c.c. – ed in tal caso sono consentite anche al singolo condomino, che se ne assuma l’onere, se non alterano la destinazione e non impediscono il pari uso della cosa comune agli altri partecipanti al condominio (Cass., sez. II, 27.12.2004, n. 24006). 

In primo luogo, per ciò che concerne l’impianto, nel caso di innovazioni a vecchi edifici i lavori per l’installazione di un ascensore non sono soggetti alle prescrizioni del DM 236/89, né per quanto riguarda le dimensioni minime delle scale, né per quanto riguarda le dimensioni minime dell’ascensore (pag. 9 e 10 relazione peritale). Il fabbricato non ricade, inoltre, tra quelli per i quali è necessario ottenere dai VV.FF. il certificato di prevenzione incendi (pag. 10). Quanto agli standard edilizi, questi prevedono, per il passaggio di una persona sulle scale, un modulo di larghezza minima di 60 cm. Il regolamento del Comune di Roma non impone nessuna misura minima riguardo la riduzione di larghezza delle rampe e la dimensione dell’ascensore (pag. 11). La nota del Ministero dell’Interno, C.N.V.FF. del 9.11.2005, ha recepito la posizione dei Vigili del Fuoco, secondo cui è necessaria una larghezza residua delle scale di almeno 80 cm. La larghezza residua delle scale nel progetto di parte convenuta, pari proprio a 80 cm., è pertanto conforme alla suddetta regolamentazione. Ancora, nessuna particolare lesione del decoro architettonico del fabbricato si verificherebbe, mentre si pongono, obiettivamente, inconvenienti alla concreta fruibilità delle parti comuni (le rampe), come l’aumento di difficoltà di transito per le scale di due individui affiancati o il trasporto di un soggetto su una lettiga. Al di là di detti inconvenienti, il progetto è comunque conforme alla normativa vigente in materia.”

ascensore sicurezza sentenza 1

ascensore sicurezza sentenza 2

 

© massimo ginesi 12 luglio 2016

per la rimozione di fioriere in facciata è sufficiente la C.I.L.A.

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Così afferma il T.A.R. Lazio con sentenza 24.5.2016 in cui h accelerato la condotta del Comune di Roma che aveva irrogato una sanzione di 7.500 euro al condominio.

Afferma il Giudice amministrativo: “la sanzione pecuniaria in questione è stata irrogata sul presupposto dell’avvenuta violazione dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001, a seguito dell’accertamento dell’esecuzione della seguente opera edilizia: “rimozione fioriere, per una lunghezza di circa m. 25, lungo il prospetto dell’edificio su via San Lucio, posta al piano primo rispetto a tale strada”; f) che è fondato il profilo di censura relativo all’erroneità dell’avvenuta applicazione della normativa in tema di lavori effettuati in assenza di S.C.I.A. da parte dell’Amministrazione; g) che in particolare deve ritenersi corretta la qualificazione di detto intervento come manutenzione straordinaria che non riguarda parti strutturali dell’edificio ed è quindi assoggettata al regime dell’edilizia libera previa presentazione di C.I.L.A. ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. a) e comma 4 del D.P.R. n. 380/2001, con la conseguenza dell’inapplicabilità della sanzione pecuniaria nella misura irrogata dall’Amministrazione nel caso di specie; h) che il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento dell’atto impugnato”

Il Comune è condannato anche alla refezione delle spese di giudizio in favore del Condominio.

© massimo ginesi 12 luglio 2016

quando la firma dell’amministratore nella procura alle liti è illeggibile

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la causidicità delle parti nei processi italiani non ha spesso limiti né confini…

L’amministratore del Condominio firma la procura al difensore e appone il proprio segno grafico che risulta non leggibile, il difensore sbaglia nell’indicare correttamente le sue generalità nel corpo dell’atto (sostituisce una R con una S) e la controparte recepisce la nullità della procura.

Peraltro il condomino che eccepisce il vizio conosce perfettamente il nome del suo amministratore e lo ha reiteratamente citato nel proprio atto (!).

Afferma la Cassazione (Cassazione civile, sez. II, 14/04/2016,  n. 7406) che  si tratta di nullità relativa che la parte, a fronte della eccezione sollevata dall’avversario, può sanare alla prima udienza utile:

“Preliminarmente deve rilevarsi l’infondatezza dell’eccezione di nullità della procura speciale del ricorrente, sollevata dall’intimata in considerazione della divergenza esistente tra il cognome dell’amministratore del condominio riportato nell’intestazione del ricorso ( M.) e quello invece rilevabile dal corpo della procura speciale ( M.), aggiungendosi da parte della P., al fine di corroborare la proposta eccezione, che la corretta individuazione delle generalità dell’amministratore non sarebbe nemmeno evincibile dalla firma in calce alla procura, trattandosi di sottoscrizione illeggibile.
Rileva il Collegio che trattasi all’evidenza di un mero lapsus calami e che, come si ricava dalla stessa lettura del controricorso, le corrette generalità dell’amministratore del condominio erano ben note alla stessa attrice, atteso che nel controricorso, nel riepilogare il contenuto del materiale istruttorio raccolto nel corso del giudizio di primo grado, si fa menzione delle dichiarazioni rese da tal M.F., espressamente qualificato come amministratore del condominio convenuto.
E’ evidente pertanto che non sussisteva alcun dubbio, anche in considerazione delle pregresse conoscenze acquisite dalla parte nel corso del giudizio, in ordine a quale fosse la corretta identità di colui che aveva sottoscritto la procura in qualità di amministratore del condominio.
In ogni caso, appaiono applicabili alla fattispecie i principi desumibili dall’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza del 7/3/2005 n. 4810, nella quale si è affermato che l’illeggibilità della firma del conferente la procura alla lite, apposta in calce od a margine dell’atto con il quale sta in giudizio una società esattamente indicata con la sua denominazione, è irrilevante, non solo quando il nome del sottoscrittore risulti dal testo della procura stessa o dalla certificazione d’autografia resa dal difensore, ovvero dal testo di quell’atto, ma anche quando detto nome sia con certezza desumibile dall’indicazione di una specifica funzione o carica, che ne renda identificabile il titolare per il tramite dei documenti di causa o delle risultanze del registro delle imprese. In assenza di tali condizioni, ed inoltre nei casi in cui non si menzioni alcuna funzione o carica specifica, allegandosi genericamente la qualità di legale rappresentante, si determina nullità relativa, che la controparte può opporre con la prima difesa, a norma dell’art. 157 c.p.c., facendo così carico alla parte istante d’integrare con la prima replica la lacunosità dell’atto iniziale, mediante chiara e non più rettificabile notizia del nome dell’amore della firma illeggibile; ove difetti, sia inadeguata o sia tardiva detta integrazione, si verifica invalidità della procura cd inammissibilità dell’atto cui accede.
Da tali affermazioni, e seppur con specifico riferimento al condominio, qualificabile, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, quale mero ente di gestione, appare possibile affermare la regola secondo cui ove emergano delle contraddittorie indicazioni in ordine alle esatte generalità del sottoscrittore della procura, contraddittorietà non risolvibile mediante il riscontro con la firma, per l’incomprensibilità dei segni grafici utilizzati, a fronte della specifica eccezione sollevata dalla controparte, è data la possibilità nella prima difesa di poter chiarire quale sia l’effettivo nominativo del rappresentante. Nella vicenda in esame il Condominio, nel controricorso al ricorso incidentale ha chiarito che il cognome dell’amministratore era ” M.”, provvedendo in tal modo a sanare la nullità denunziata dalla P., e risultando pertanto superfluo anche il rilascio di una nuova procura a ratifica del precedente operato del difensore del condominio.”

© massimo ginesi 11 luglio 2016 

condomino apparente e dissenso alle liti, una discutibile sentenza di merito…

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Il legislatore del 2016 ha ritenuto, assai inopportunamente, di attribuire la competenza esclusiva della materia condominiale al giudice di pace, o meglio a quella ibrida figura che esce dalla discutibile riforma della magistratura onoraria introdotta con la L. 57/2016.

La materia del condominio ancora una volta patisce l’ingiusta qualificazione di diritto minore, quando invece sottende l’applicazione di alcuni fra i più complessi istituti del diritto civile (diritti reali, obbligazioni, responsabilità extracontrattuale) nella peculiare realtà di un contesto plurisoggettivo.

Del resto l’intervento frequentissimo delle Sezioni Unite della Cassazione in questa materia altro non è che indice della sussistenza di contrasti anche al massimo livello, che sono l’indice evidente di una grande complessità dei temi di decisione.

Spesso accade, nelle corti di merito, di trovare pronunce che sembrano uscite da un’altra epoca e che lasciano spiazzati, a fronte di orientamenti giurisprudenziali di legittimità che affermano da anni principi contrari.

E’ il caso di una sentenza del Tribunale di Firenze, che esprime due valutazioni su cui l’amministratore e il difensore accorti faranno bene a non fare eccessivo affidamento.

A proposito di condomino apparente, il giudice fiorentino afferma che ove il vecchio condomino non abbia provveduto a comunicare all’amministratore l’avvenuta cessione della propria unità a terzi, ai fini dell’aggiornamento della anagrafe condominiale, l’amministratore potrà continuare a convocare legittimamente il vecchio propritario. E’ pur vero che la L. 220/2012 ha introdotto nell’art. 1130 cod.civ. l’obbligo di tale comunicazione in capo al cedente – con contestuale possibilità di autonomo accertamento da parte dell’amministratore a spese dell’inadempiente – e che l’art. 63 u.s. disp.att. cod.civ. ha previsto che in difetto il vecchio proprietario rimarrà solidalmente responsabile per le quote dovute, ma non pare di leggere nella riforma alcuna altra conseguenza diretta né tantomeno una deroga ai criteri che prevedono la partecipazione all’assemblea degli effettivi aventi diritto.

Non pare quindi che la riforma del 2012 vada ad incidere su un consolidato orientamento giurisprudenziale che sin dagli inizi degli anni 2000, a fronte del regime di pubblicità dei registri immobiliari, ha escluso la rilevanza di qualunque apparenza, sia per quel che attiene alle azioni recupero dei crediti sia per ciò che attiene alla convocazione.  “In caso di azione giudiziale dell’amministratore del condominio per il recupero della quota di spese di competenza di una unità immobiliare di proprietà esclusiva, è passivamente legittimato il vero proprietario di detta unità e non anche chi possaapparire tale come il venditore il quale, pur dopo il trasferimento della proprietà (non comunicato all’amministratore), abbiacontinuato a comportarsi da proprietario -, difettando, nei rapporti fra condominio, che è un ente di gestione, ed i singolipartecipanti ad esso, le condizioni per l’operatività del principio dell’apparenza del diritto, strumentale essenzialmente adesigenze di tutela dell’affidamento del terzo in buona fede, ed essendo, d’altra parte, il collegamento della legittimazionepassiva alla effettiva titolarità della proprietà funzionale al rafforzamento e al soddisfacimento del credito della gestione condominiale” Cass. SS.UU.  8 aprile 2002 n. 5035

“In tema di convocazione dell’assemblea condominiale deve essere convocato solo il vero proprietario della porzioneimmobiliare e non anche colui che si sia comportato, nei rapporti con i terzi, come condomino senza esserlo, difettando neirapporti tra il condominio (nella specie, l’amministratore) ed i singoli partecipanti ad esso, le condizioni per l’operatività delprincipio dell’apparenza del diritto, strumentale essenzialmente all’esigenza di tutela dei terzi in buona fede”.
Cass. Sez. II 22 ottobre 2007 n. 22089

Ancor più singolari le tesi fiorentine sull’espressione del dissenso alle liti ai sensi dell’art. 1132 cod.civ.

Se appare condivisibile la valutazione che, in caso di unità di proprietà di più soggetti, tale dissenso debba essere unitariamente espresso da tutti costoro e non sia ammesso pro quota, decisamente singolare appare il richiamo unicamente alle forme di cui all’art. 1132 cod.civ., ritengo che non valga invece la sua comunicazione una assemblea: in tal senso la Cassazione si è espressa da tempo immemore “La manifestazione di dissenso di un condomino, rispetto alla promozione di lite deliberata dall’assemblea, va notificata all’amministratore senza bisogno di forme solenni comprese fra queste quelle previste dal codice di procedura civile”. Cassazione civile, sez. II, 15/06/1978, n. 2967

Giova invece segnalare l’opportuna notazione del Giudice fiorentino delle spese di coibentazione del lastrico di proprietà esclusiva a tutti i condomini in quanto si tratta di intervento che, pur eseguito su un bene di proprietà esclusiva, è diretto a produrre vantaggi per tutti i condomini.

© massimo ginesi 11 luglio 2016

maggio 2016 -DANNI DA LASTRICO SOLARE ESCLUSIVO: Le Sezioni unite risolvono il dilemma fra gli artt. 1123 e 1126 cod.civ.?

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In tema di condominio negli edifici, allorquando l’uso del lastrico solare non sia comune a tutti i condomini, dei danni che derivino da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario o l’usuario esclusivo del lastrico solare (o della terrazza a livello), in quanto custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia il condominio, in quanto la funzione di copertura dell’intero edificio, o di parte di esso, propria del lastrico solare (o della terrazza a livello), ancorché di proprietà esclusiva o in uso esclusivo, impone all’amministratore l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni (art. 1130, primo comma, n. 4, c.c.) e all’assemblea dei condomini di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria (art. 1135, primo comma, n. 4, c.c.). Il concorso di tali responsabilità, salva la rigorosa prova contraria della riferibilità del danno all’uno o all’altro, va di regola stabilito secondo il criterio di imputazione previsto dall’art. 1126 cod. civ., il quale pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell’usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 28 aprile – 10 maggio 2016, n. 9449
Presidente Rovelli – Relatore Petitti

Un contrasto giurisprudenziale sul quale, da molti mesi, si attendeva una pronuncia che lo appianasse. Sul punto le Sezioni Unite si erano già pronunciate nell’ormai lontano 1997, con sentenza n. 2672, ove si affermava: “poiché il lastrico solare dell’edificio (soggetto al regime del condominio) svolge la funzione di copertura del fabbricato anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, all’obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo. Pertanto, dei danni cagionati all’appartamento sottostante per le infiltrazioni d’acqua provenienti dal lastrico, deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti gli obbligati inadempienti alla funzione di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dal citato art. 1126, vale a dire, i condomini ai quali il lastrico serve da copertura, in proporzione dei due terzi, e il titolare della proprietà superficiaria o dell’uso esclusivo, in ragione delle altre utilità, nella misura del terzo residuo”.
Per molti anni gli operatori del diritto e gli amministratori si erano attenuti a tale indirizzo, anche se la giurisprudenza e la dottrina degli anni successivi, aveva individuato comunque soluzioni contrastanti: “La sentenza ora richiamata non ha uniformato la giurisprudenza successiva, essendosi registrate decisioni (Cass. n. 6376 del 2006; Cass. n. 642 del 2003; Cass. n. 15131 del 2001; Cass. n. 7727 del 2000) che hanno ricondotto la vicenda in esame all’ambito di applicazione dell’art. 2051 cod. civ.. Si è, infatti, sostenuto che il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comuni, essendo obbligato ad adottare tutte la misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, risponde, in base al disposto dell’art. 2051 cod. civ., dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini. Secondo questo indirizzo, dunque, la legittimazione passiva del condominio sussiste anche per quanto riguarda i danni subiti dai singoli condomini (Cass. n. 6849 del 2001; Cass. n. 643 del 2003), in quanto, a tal fine, i criteri di ripartizione delle spese necessarie (ex art. 1126 cod. civ.) non incidono sulla legittimazione del condominio nella sua interezza e del suo amministratore, comunque tenuto a provvedere alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1130 cod. civ. (Cass. n. 3676 del 2006; Cass. n. 5848 del 2007; Cass. n. 4596 del 2012).”
La Seconda Sezione civile della Corte, con la ordinanza interlocutoria n. 13526 del 2014, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, sollevando diverse perplessità e in particolare: “Il Collegio ha condiviso gli orientamenti critici della dottrina e della giurisprudenza discordante e ha ritenuto condivisibile la tesi che sostiene la responsabilità ex art. 2051 cod. civ., sottolineando, in particolare, l’indebita applicazione degli artt. 1123 e 1126 cod. civ., che vengono interpretati dalla sentenza del 1997, non più come norme che disciplinano la ripartizione delle spese interne, ma come fonti da cui scaturiscono le obbligazioni propter rem. Nell’ordinanza interlocutoria vengono individuati i seguenti passaggi qualificanti dell’orientamento criticato delle S.U. del 1997: 1. l’esclusione, in via di principio, che la responsabilità per danni prodotti nell’appartamento sottostante dalle infiltrazioni d’acqua provenienti dal lastrico solare per difetto di manutenzione si ricolleghi al disposto dell’art. 2051 cod. civ.; 2. l’affermazione che “dall’art. 1123 e dall’art. 1126 cod. civ. discendono obbligazioni poste dalla legge a carico ed a favore dei condomini dell’edificio, da qualificare come obbligazioni propter rem di cui i partecipanti al condominio sono ad un tempo soggetti attivi e soggetti passivi”; 3. la deduzione da tali premesse che “le obbligazioni reali di conservazione riguarderebbero tutti i rapporti reali inerenti, con la conseguenza che la susseguente responsabilità per inadempimento concerne i danni arrecati ai beni costituenti il fabbricato”; 4. l’assimilazione delle “condizioni materiali di dissesto e di degrado del lastrico” come species dell’unico concetto tecnico “di difetto di manutenzione” e quale coincidente conseguenza “dell’inadempimento delle obbligazioni propter rem”; 5. la conclusione per cui la responsabilità e il risarcimento dei danni sono regolati secondo gli stessi criteri di imputazione e di ripartizione, cioè quelli prescritti dall’art. 1126 cod. civ.”

Nel provvedimento di remissione si osserva che “il fatto costitutivo dell’illecito risale alla condotta omissiva o commissiva dei condomini, che fonda una responsabilità aquiliana, la quale deve essere scrutinata secondo le rispettive colpe dei condomini e, in caso di responsabilità condominiale, secondo i criteri millesimali, senza utilizzare la normativa coniata ad altro fine”.
In sostanza, afferma la sezione che ha sollevato il contrasto, se vi è stata omessa manutenzione del lastrico dal quale deriva danno, tale omessa manutenzione deve essere ricondotta all’obbligo di custodia che grava su tutti i condomini ex art. 2051 cod.civ., le conseguenze che ne derivano devono essere ascritte alla categoria del fatto illecito relativo ad una parte comune e di tale illecito dovranno rispondere tutti i condomini che ne sono responsabili per i propri millesimi, prescindendo dalla minore o maggior utilità che il bene possa arrecare nello specifico, atteso che – secondo tale giudice – la norma specifica di cui all’art. 1126 cod.civ. non è volta a disciplinare la responsabilità dei condomini ma unicamente a determinare il loro contributo alla spesa.

Le Sezioni Unite non mutano orientamento rispetto al 1997 quanto alla soluzione finale, cui tuttavia pervengono con un articolato logico del tutto differente. Allora la Corte aveva fondato la responsabilità dei condomini sullo schema delle obbligazioni propter rem ritenendo che “la responsabilità per danni prodotti all’appartamento sottostante dalle infiltrazioni d’acqua provenienti dal lastrico solare (lastrico condominiale o in proprietà o uso esclusivo), per difetto di manutenzione, si ricollegasse, piuttosto che al disposto dell’art. 2051 cod. civ., ed al generale principio del neminem laedere, direttamente alla titolarità del diritto reale e, perciò, dovesse considerarsi come conseguenza dell’inadempimento delle obbligazioni di conservare le parti comuni, poste a carico dei condomini (art. 1123, primo comma, cod. civ.) e del titolare della proprietà superficiaria o dell’uso esclusivo (art. 1126 cod. civ.).” Quella particolare obbligazione – secondo la pronuncia degli anni 90 – era declinata secondo le regole previste dagli artt. 1123 e 1126 cod. civ., con la conseguenza che al risarcimento dei danni cagionati all’appartamento sottostante per difetto di manutenzione dovrebbero essere tenuti gli obbligati inadempienti.

Le Sezioni Unite attuali virano di 90 gradi rispetto a tale lettura ed affermano principio del tutto diverso: “Tuttavia, la configurabilità di un siffatto rapporto obbligatorio non sembra tenere conto che il proprietario dell’appartamento danneggiato dalla cosa comune, anche se in uso esclusivo, è un terzo che subisce un danno per l’inadempimento dell’obbligo di conservazione della cosa comune (in tal senso, v., di recente, Cass. n. 1674 del 2015); il che implica la chiara natura extracontrattuale della responsabilità da porre in capo al titolare dell’uso esclusivo del lastrico e, per la natura comune del bene, dello stesso condominio. Nell’ambito di tale tipo di responsabilità, poi, deve ritenersi che le fattispecie più adeguate di imputazione del danno siano quella di cui all’art. 2051 cod. civ., per il rapporto intercorrente tra soggetto responsabile e cosa che ha dato luogo all’evento, ovvero quella di cui all’art. 2043 cod. civ., per il comportamento inerte di chi comunque fosse tenuto alla manutenzione del lastrico. In tal senso deve quindi escludersi la natura obbligatoria, sia pure nella specifica qualificazione di obbligazione propter rem, del danno cagionato dalle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare o dalla terrazza a livello, e deve affermarsi la riconducibilità della detta responsabilità nell’ambito dell’illecito aquiliano”

Afferma la Suprema Corte quindi che “In quest’ambito, come detto, non può essere posta in discussione la specificità del lastrico solare, quando questo sia anche solo in parte in uso esclusivo. Esso, invero, per la parte apparente, e quindi per la superficie, costituisce oggetto dell’uso esclusivo di chi abbia il relativo diritto; per altra parte, e segnatamente per la parte strutturale sottostante, costituisce cosa comune, in quanto contribuisce ad assicurare la copertura dell’edificio o di parte di esso. Risultano allora chiare le diverse posizioni del titolare dell’uso esclusivo e del condominio: il primo è tenuto agli obblighi di custodia, ex art. 2051 cod. civ., in quanto si trova in rapporto diretto con il bene potenzialmente dannoso, ove non sia sottoposto alla necessaria manutenzione; il secondo è tenuto, ex artt. 1130, primo comma, n. 4, e 1135, primo comma, n. 4, cod. civ. (nei rispettivi testi originari), a compiere gli atti conservativi e le opere di manutenzione straordinaria relativi alle parti comuni dell’edificio”

Non più dunque obbligazione propter rem ma responsabilità extracontrattuale, per il cui riparto – per la specifica natura del bene destinato a diverse funzioni – si dovrà comunque mutuare un criterio tratto dall’art. 1126 cod.civ. : “La naturale interconnessione esistente tra la superficie del lastrico e della terrazza a livello, sulla quale si esercita la custodia del titolare del diritto di uso in via esclusiva, e la struttura immediatamente sottostante, che costituisce cosa comune – sulla quale la custodia non può esercitarsi nelle medesime forme ipotizzabili per la copertura esterna e in relazione alla quale è invece operante il dovere di controllo in capo all’amministratore del condominio ai sensi del richiamato art. 1130, primo comma n. 4, cod. civ. induce tuttavia ad individuare una regola di ripartizione della responsabilità mutuata dall’art. 1126 cod. civ. … il criterio di riparto previsto per le spese di riparazione o ricostruzione dalla citata disposizione costituisce un parametro legale rappresentativo di una situazione di fatto, correlata all’uso e alla custodia della cosa nei termini in essa delineati, valevole anche ai fini della ripartizione del danno cagionato dalla cosa comune che, nella sua parte superficiale, sia in uso esclusivo ovvero sia di proprietà esclusiva, è comunque destinata a svolgere una funzione anche nell’interesse dell’intero edificio o della parte di questo ad essa sottostante”
L’aver ricondotto la fattispecie alla ipotesi della responsabilità extracontrattuale, e non più ad una ipotesi di obbligazione di altra natura, comporta rilevanti conseguenze applicative che la Corte sottolinea e a cui anche l’operatore sul campo dovrà prestare adeguata attenzione: “Dalla attrazione del danno da infiltrazioni nell’ambito della responsabilità civile discendono conseguenze di sicuro rilievo. Trovano, infatti, applicazione tutte le disposizioni che disciplinano la responsabilità extracontrattuale, prime fra tutte quelle relative alla prescrizione e alla imputazione della responsabilità, dovendosi affermare che del danno provocato dalle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare o dalla terrazza a livello risponde il proprietario o il titolare di diritto di uso esclusivo su detti beni al momento del verificarsi del danno. Una volta esclusa la applicabilità della disciplina delle obbligazioni, deve infatti escludersi che l’acquirente di una porzione condominiale possa essere ritenuto gravato degli obblighi risarcitori sorti in conseguenza di un fatto dannoso verificatosi prima dell’acquisto, dovendo quindi dei detti danni rispondere il proprietario della unità immobiliare al momento del fatto. Trova applicazione altresì la disposizione di cui all’art. 2055 cod. civ., ben potendo il danneggiato agire nei confronti del singolo condomino, sia pure nei limiti della quota imputabile al condominio. In tal senso, del resto, si è già affermato che “il risarcimento dei danni da cosa in custodia di proprietà condominiale soggiace alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, primo comma, cod. civ., norma che opera un rafforzamento del credito, evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota, anche quando il danneggiato sia un condomino, equiparato a tali effetti ad un terzo, sicché devono individuarsi nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili, poiché la custodia, presupposta dalla struttura della responsabilità per danni prevista dall’art. 2051 cod. civ., non può essere imputata né al condominio, quale ente di sola gestione di beni comuni, né al suo amministratore, quale mandatario dei condomini” (Cass. n. 1674 del 2015). Trova, infine, applicazione l’intera disciplina dell’art. 2051 cod. civ., anche per i limiti alla esclusione della responsabilità del soggetto che ha la custodia del bene da cui è stato provocato il danno.”

Una sentenza lunga e complessa, di grande rilievo interpretativo e di sicura incidenza pratica, di cui è apparso utile riportare ampi stralci ma che non sarà inopportuno che il soggetto che opera professionalmente nel campo del diritto condominiale legga per esteso.

Una sentenza, infine, che contribuisce a dare una ulteriore spallata alla categoria delle obbligazioni propter rem, che la migliore dottrina dell’ultimo decennio e parte della giurisprudenza – con sempre maggior vigore – ritengono avere scarsa cittadinanza nell’edificio in condominio, ove più spesso prevalgono obblighi legati a parametri che prescindono dalla mera titolarità del bene e sono correlati unicamente alla funzione o utilità che lo stesso bene rende ai condomini.

© massimo ginesi maggio  2016

pubblicato su “amministrare immobile” maggio  2016

qui la sentenza per esteso

qui le prime considerazioni

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la nullità della delibera può essere fatta valere anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo

E’ nota la posizione ormai consolidata della giurisprudenza sulla proprietà esclusiva dei balconi aggettanti, da riconoscere in capo ai titolari delle unità cui servono,  laddove gli stessi non abbiano caratteristiche decorative e architettoniche che consentano di qualificarli come elementi costituenti il prospetto architettonico dell’edificio. (Cass. 1156/2015)

Ove i balconi siano di proprietà esclusiva, la decisione in ordine al loro ripristino e alle relative spese è materia che esorbita dalla competenza della assemblea di condominio e da luogo a nullità della delibera. In tal senso si è espressa anche di recente la Suprema Corte  (  Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 1 dicembre 2015 – 12 gennaio 2016, n. 305), la quale ha rilevato che, in tal caso, il vizio radicale può essere fatto valere da chi vi abbia interesse anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo.

Non altrettanto può dirsi del vizio che dia luogo a semplice annullabilità della delibera (tardiva o omessa convocazione, maggioranza insufficiente), di cui il giudice della opposizione non può essere investito e che deve essere fatto tempestivamente valere dall’interessato in autonomo giudizio. (Cassazione civile, sez. II, 12/11/2012, ud. 12/07/2012, n. 19605

Sui rapporti fra giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e vizi delle delibere e sullo spinosissimo tema del c.d. supercondominio e della sua gestione secondo le modalità delineate dall’art. 67 disp.att. cod.civ. si è svolto ieri a Roma un interessante convegno cui hanno partecipato come relatori il dr. Claudio Tedeschi, Giudice presso il Tribunale di Roma, e il dr. Alberto Celeste, noto studioso del diritto condominiale e sostituto procuratore presso la Corte di Cassazione.

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il ricorso in cassazione in tema di accertamento di diritti reali richiede delibera assembleare

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Lo afferma la Cassazione con una pronuncia (Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza interlocutoria 14 aprile – 6 giugno 2016, n. 11566 Presidente Mazzacane – Relatore Falabella) che non si discosta da orientamenti già espressi dalle lezioni unite del 2010.

Osserva la corte che “In via preliminare va esaminata una questione sollevata dai controricorrenti. Essa ha ad oggetto la mancata autorizzazione dell’assemblea condominiale alla proposizione del ricorso per cassazione da parte dell’amministratore del condominio.
L’impugnazione proposta nella presente sede investe la statuizione della corte di merito con cui è stato accertato l’acquisto per usucapione del diritto di proprietà sulla strada privata denominata via (OMISSIS) da parte dei controricorrenti: statuizione resa con riferimento a una domanda dagli stessi proposta nei confronti del Condominio.
Rispetto a tale domanda l’odierno ricorrente ha affermato, nel corso del giudizio, che la strada fosse di sua proprietà: locuzione, questa, che va intesa nel senso dell’appartenenza di essa al novero dei beni comuni oggetto della proprietà indivisa dei condomini.
Va allora fatta applicazione del principio, espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni ma essendo tenuto a dare senza indugio notizia all’assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131 2 e 3 co. c.c., può costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione (Cass. S.U. 6 agosto 2010, n. 18331).
Consegue da ciò che va assegnato un termine al Condominio per il deposito dell’atto di ratifica dell’operato dell’amministratore, ovvero della delibera, non presente agli atti, che abbia preventivamente autorizzato la proposizione del ricorso.”

© massimo ginesi 7 luglio 2016 

il mancato esperimento della mediazione travolge anche il decreto ingiuntivo

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Lo afferma il Tribunale di Grosseto con una sentenza recentissima (7 giugno 2016).

Il Tribunale toscano osserva che il D.lgs. 28/2010 prevede che il procedimento monitorio, anche per le materie in cui l’esperimento della mediazione costituisce condizione di procedibilità, sia  svincolato dall’obbligo iniziale di integrare detta condizione.

In ambito condominiale, le esigenze di celerità e di corretta amministrazione che costituiscono la ratio dell’art. 63 disp.att. cod.civ., consentono di ottenere decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo (e così l’ingiunto potrà proporre opposizione) senza alcun obbligo preventivo di mediazione, almeno sino alla fase di decisione cautelare sulla sospensione o meno della provvisoria esecutorietà.

Esaurita la fase preliminare ed emanati in sede di opposizione i provvedimenti sulla eventuale sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, la controversia assume una naturale connotazione di procedimento di merito sulla pretesa creditoria avanzata dal condominio che, pur assumendo nel giudizio di opposizione  veste formale di convenuto, rimane l’attore sostanziale del procedimento (ovvero colui che aziona la pretesa creditoria).

L’opponente potrebbe a sua volta, in quella sede, avanzare domande ulteriori che assumono natura riconvenzionale, pur avendo a sua volta veste formale di attore (in opposizione).

L’onere di proporre la mediazione, esaurite le fasi preliminari, incombe dunque all’attore sostanziale e, laddove abbia proposto domanda riconvenzionale, anche all’ingiunto che propone opposizione.

Ove nessuno dei due si attivi, afferma il Tribunale toscano, il giudice dovrà dichiarare l’improcedibilità della domanda (statuizione che chiude il procedimento, ma non incide sull’azione che può essere successivamente  proposta con nuova domanda) e tale sanzione dovrà travolgere sia il giudizio di opposizione che il provvedimento monitorio.

La tesi non è pacifica in giurisprudenza e ha visto, anche di recente, orientamenti opposti ( Tribunale Vasto )

© massimo ginesi 7 luglio 2016