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avviso di convocazione dell’assemblea: dopo la riforma può essere solo formale.

Lo afferma Cass.Civ. sez.II ord. 7 maggio 2018 n. 10866, con riferimento alla prassi di immettere una copia dell’avviso nelle cassette dei condomini, ritenuta ammissibile solo con riferimento a condotte avvenute antecedentemente alla entrata in vigore della L. 220/2012.

Appare opportuno osservare che ratione temporis la fattispecie in esame va riferita alla normativa precedente alla L. n. 220 del 2012, (riforma del condominio) e cioè all’art. 1136 c.c., nella sua versione precedente alla riforma del condominio, e, comunque, ai principi espressi da questa Corte in materia.

Incidentalmente va detto che a norma dell’art. 66 disp. att. c.c., comma 3, così come modificato dalla L. n. 220 del 2012 (la così detta riforma del condominio) l’avviso di convocazione, contenente specifica indicazione dell’ordine del giorno, deve essere comunicato almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza in prima convocazione, a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, e deve contenere l’indicazione del luogo e dell’ora della riunione.

Prima di questa riforma. era orientamento pacifico in dottrina ed in giurisprudenza che ” in tema di condominio degli edifici, non è previsto alcun obbligo di forma per l’avviso di convocazione dell’assemblea, sicchè la comunicazione può essere fatta anche oralmente, in base al principio della libertà delle forme, salvo che il regolamento prescriva particolari modalità di notifica del detto avviso”.

Tuttavia, con l’ulteriore specificazione che l’eventuale previsione regolamentare in ordine alla forma della convocazione dei condomini all’assemblea condominiale, trattandosi di prescrizione a contenuto organizzativo, ovvero, propriamente “regolamentare”, poteva essere modificata ed anche per “facta concludentia” cioè, per una prassi seguita dagli amministratori del condominio.

D’altra parte, come è opinione della stessa giurisprudenza di questa Corte, la prescrizione regolamentare, per così dire, organizzativa, (e, non quindi, di contenuto contrattuale, ovvero, incidente sulla proprietà dei beni comuni o esclusivi), va interpretata ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, anche alla luce del comportamento posteriore avuto dai condomini al medesimo regolamento.

Correttamente, dunque, la Corte di Appello di Lecce ha ritenuto legittima la convocazione dei condomini mediante avviso immesso presso la cassetta postale dei singoli condomini posto che tale modalità di convocazione era la prassi seguita dagli amministratori del Condominio nonostante l’art. 14 del Regolamento condominiale prevedesse che la convocazione fosse effettuata mediante lettera raccomandata. “(…) Orbene, chiarisce la sentenza, non è stata contestata la prassi seguita dagli amministratori del condominio de quo di convocare le assemblee condominiali mediante avviso immesso presso la cassetta postale dei singoli condomini (…)”.

© massimo ginesi 11 maggio 2018

scivolata sulle scale condominiali: compete al danneggiato la prova del nesso di causalità.

Il condominio è custode dei beni comuni e risponde ai sensi dell’art. 2051 cod.civ. dei danni che derivino da tali beni; la norma prevede notoriamente un’inversione dell’onere della prova, sì che sarà il custode a dover dimostrare di aver fatto tutto quanto in proprio potere per evitare il danno (il.c.d. fortuito).

Rimane tuttavia in capo al danneggiato l’onere di provare il nesso  di causa fra il bene e il danno lamentato: in forza di tale principio la suprema corte (Cass.Civ. Sez. VI 8 maggio 2018 n. 10986) ha respinto il ricorso di un condomino che assumeva di aver subito lesioni in conseguenza di una caduta nelle scale condominiali, dovuta alla presenza di sostanza oleosa sui gradini, poichè risultava che lo stesso stesse percorrendo le medesime con entrambe le mani occupate dalle borse della spesa, adottando dunque  una condotta colposa che si inserisce quale elemento interruttivo del nesso causale fra la res e l’evento.

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© massimo ginesi 10 maggio 2018

 

inagibilità dell’appartamento, esonero dalle spese di riscaldamento ed interpretazione del regolamento contrattuale.

Un caso peculiare impegna i giudici di legittimità, chiamati a verificare le modalità di interpretazione di un regolamento contrattuale alla luce del mancato utilizzo di una unità abitativa per un apprezzabile lasso di tempo.

Cass.Civ.  sez. VI 3 maggio 2018, n. 10478 richiama gli ordinari canoni di interpretazione del contratto per verificare l’effettiva portata di clausole regolamentari di natura convenzionale, mettendo in luce come la ratio delle clausole regolamentari debba essere intesa in ottica ampia e complessiva e non alla luce del significato circoscritto della singola disposizione.

Nel caso in esame il regolamento prevedeva due norme distinte: l’una che , in caso di temporanea inagibilità del bene individuale, prevedeva una riduzione delle spese del 50% e l’altra che, viceversa, impediva al singolo di sottrarsi alla contribuzione in caso di omessa costante  utilizzazione del bene (disposizione peraltro in linea con quanto disposto dall’art. 1118 cod.civ.)

Nel caso di specie accade che “C.G. impugnava davanti al Tribunale di Roma la delibera del 14.10.2010 del Condominio (omissis) con cui erano stati approvati il bilancio consuntivo del 2009 e il bilancio preventivo del 2010, relativamente alle spese di riscaldamento e ad altri oneri condominiali. Affermava che, a seguito di un incendio sviluppatosi nell’appartamento di sua proprietà in data 19.04.2005, il Comando dei VV.FF. aveva dichiarato l’appartamento inagibile sino al ripristino delle condizioni di sicurezza, sicché aveva diritto alla riduzione del 50% della quota inerente alle spese di riscaldamento, come previsto dall’art. 5 del regolamento condominiale”

Il Tribunale di Roma accoglie la domanda e  la Corte d’Appello capitolina respinge la successiva impugnazione del Condominio, che ricorre in cassazione.

Il giudice di legittimità osserva che “Il Condominio lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto l’inagibilità dell’appartamento temporanea e dipendente dall’incendio.
La Corte d’appello ha ritenuto la fattispecie inquadrabile nell’art. 5 del regolamento condominiale secondo cui “se un’unità rimanesse disabitata durante il periodo invernale per un periodo superiore a due mesi il condomino interessato potrà ottenere una riduzione del 50 % della quota a suo carico facendone richiesta con lettera raccomandata chiudendo i corpi radianti e facendolo constatare all’amministrazione o a un suo incaricato”.
Secondo il Condominio tale disposizione andava coordinata con l’art. 13 del regolamento, secondo cui “nessun condomino può sottrarsi al pagamento della quota parte di spese che gli compete, nemmeno mediante abbandono o rinunzia delle proprietà comuni”.
Parte ricorrente sostiene che secondo una valutazione alla luce del principio di buona fede contrattuale la persistente mancata riattivazione dell’impianto di riscaldamento aveva mutato l’iniziale temporaneità dell’inagibilità in inagibilità permanente, tale da integrare “abbandono… delle cose comuni” ai sensi dell’art. 13 del regolamento e non temporanea inagibilità ai sensi dell’art. 5 del medesimo atto.
Parte ricorrente sostiene, in definitiva, che le disposizioni del regolamento condominiale e, in particolare, l’art. 5 e l’art. 13 dovevano essere interpretate in modo sistematico alla stregua dei canoni di ermeneutica contrattuale ex artt. 1362 e 1363 c.c..

Con il secondo mezzo, il Condominio deduce la violazione degli artt. 281 sexies, 132 n. 4 e 277, comma 1, c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c..

La Corte d’appello avrebbe omesso di confrontarsi con la circostanza della inagibilità permanente per scelta del condomino, obliterando così la valutazione su tale specifico punto.

I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro attinenza alla medesima problematica interpretativa del regolamento condominiale, sono fondati nei termini che seguono.

In tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 cod. civ. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. nn. 14460/2011;4670/09, 18180/07, 4176/07 e 28479/05).

Di qui l’erroneità dell’esegesi fissata esclusivamente su di una singola parola o frase, astratta dal resto della stessa o di altre clausole del contratto, cui pure deve applicarsi il medesimo canone interpretativo.

Nello specifico la sentenza impugnata ha adoperato in modo non conforme agli enunciati anzidetti i canoni ermeneutici dell’interpretazione complessiva della clausole (1363 c.c.) e dell’interpretazione secondo l’intenzione delle parti contraenti (art. 1362 c.c.).

L’interpretazione isolata dell’art. 5 del regolamento conduce a qualificare erroneamente il caso di specie come provvisoria sospensione dell’utilizzo dell’impianto di riscaldamento.

Dal complesso delle clausole contrattuali, artt. 5 e 13 del regolamento, raccordate tra loro, si evince chiaramente che lo scopo delle previsioni era nel senso di tutelare il singolo condomino in caso di temporaneo non utilizzo dell’impianto e, al contempo, salvaguardare le ragioni del Condominio da una eventuale mancata contribuzione alle spese condominiali per una scelta prolungata, si potrebbe dire “strutturale”, della proprietà quale l’abbandono o la rinuncia alla proprietà comune di un impianto.

In tale prospettiva, risulta operazione contraria alle regole di ermeneutica contrattuale sancite dagli artt. 1362 e 1363 c.c. ricondurre il caso in esame all’ambito di applicazione dell’art. 5 del regolamento condominiale, quando in base ai fatti accertati nei giudizi di merito, risultava all’evidenza integrata l’ipotesi contemplata dall’art. 13.

In tale operazione di qualificazione giuridica e esegesi sistematica occorreva tenere conto del fatto per cui la mancata riattivazione dell’impianto, perdurante nel tempo già per quattro anni al momento della delibera, alla stregua del principio di buona fede contrattuale, mutava l’iniziale situazione di temporaneità dell’inagibilità in inagibilità permanente.

Il limite alla qualificabilità di una sospensione temporanea con pagamento ridotto ex art. 5 Reg., era da trarre dalla connessione con l’art. 13 che negava la facoltà di trasformare la transitorietà di utilizzo in condizione permanente di esonero totale dal pagamento, tale da integrare “abbandono… delle cose comuni”.

Significativamente il ricorso evidenzia che in citazione la richiesta principale del condomino era di esonero totale ex art. 13, circostanza che è verificabile perché emerge dalla sentenza del tribunale 10 ottobre 2013.

Il tutto trova conferma anche nel comportamento complessivo tenuto posteriormente dal condomino. Condotta rilevante ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c..

A tal proposito, parte ricorrente deduce che già in appello aveva denunciato il fatto che dopo otto anni dal risarcimento assicurativo l’appartamento era ancora disusato per scelta, sicché se l’iniziale inagibilità non era imputabile al C. , non altrettanto poteva dirsi a seguito del risarcimento del danno che lo metteva nella condizione di ripristinare l’agibilità dell’appartamento.

Simile circostanza, acclarata nella sentenza di secondo grado, riscontra che già nel 2009 il comportamento di mancato ripristino dell’impianto equivaleva ad abbandono o rinunzia, con conseguente applicabilità dell’art. 13 del regolamento condominiale, nel cui perimetro ricade la fattispecie in esame.”

© massimo ginesi 7 maggio 2018 

lastrico solare di proprietà esclusiva o condominiale: l’accertamento della sua natura pertinenziale rispetto ad una unità individuale.

 

Ove il titolo non disponga espressamente circa la proprità di un lastrico solare, il giudice di merito, onde accertarne la natura condominiale verificare se – viceversa – sia attribuibile ad un condomino in via esclsuiva, deve compiere un accertamento di fatto volto a verificre se tale bene possa essere identificato come pertinenza dell’immobile di proprità del condomino che ne rivendica la titolarità.

E’ quanto afferma Cass.civ. sez. VI ord. 2 maggio 2018 n. 10411, sottolineando come la pertinenza debba configurarsi quale bene accessorio, destinato ad arrecare utilità al bene principale e non al suo propritario: osserva la corte che il giudice di secondo grado

 

operazione ermeneutica che appare perfettamente in liena con la consolidata giurisprudenza di legittimità:

© massimo ginesi 3 maggio 2018

art. 1669 cod.civ. – gravi vizi nell’appalto: la responsabilità del venditore, del direttore lavori e la nozione di grave difetto.

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Secondo  un orientamento ormai diffuso della giurisprudenza di legittimità, la disciplina dell’art. 1669 cod.civ. – che prevede una responsabilità decennale dell’appaltatore per i gravi difetti costruttivi – ha natura di ordine pubblico, in quanto volta a garantire la sicurezza  degli edifici, si applica, a determinate condizioni,  anche al venditore che ponga in commercio immobili di nuova costruzione e vede sempre più ampliati i limiti dei difetti che possono rientrare nel perimetro della norma.

Cass.Civ.sez. II, del 24 aprile 2018, n. 10048 compie una ampia disamina sul punto, spingendosi a valutare anche la responsabilità concorrente del direttore lavori, figura che troppo spesso assume invece una posizione defilata nelle controversie in tema di responsabilità del costruttore.

termine per la denunzia – ormai da tempo la giurisprudenza ritiene che il termine per la denunzia dei vizi all’appaltatore (che l’art. 1669 cod.civ. indica in un anno dalla scoperta) decorra da quando il committente (o compratore, nel caso di specie) abbia una chiara conoscenza non solo della manifestazione esteriore del problema ma anche della sua connessione causale con operato dell’appaltatore. sul punto la pronuncia in commento conferma tale orientamento: “il ricorrente principale si duole che la corte territoriale abbia ritenuto avvenuta la scoperta dei vizi – ai fini della decorrenza dei termini per la denuncia e l’azione ex art. 1669 cod. civ. – al momento del deposito della relazione peritale nel corso del procedimento di accertamento tecnico preventivo, in luogo che in uno dei momenti anteriori quali la redazione della relazione del consulente tecnico di parte, ciò che avrebbe imposto di ritenere tardive denuncia e azione. La censura, in entrambe le articolazioni, è infondata. Invero, con motivazione congrua rispetto al parametro di cui al n. 5 dell’art. 360 primo comma cit. (p. 6 della sentenza), la corte d’appello ha dato atto delle ragioni per le quali si dovesse ritenere che il condominio avesse avuto una conoscenza imperfetta dei vizi e dell’impatto di essi sulla complessiva struttura sino al completamento dell’accertamento tecnico preventivo all’uopo richiesto, non essendo a tanto idonea la parziale consapevolezza prima acquisita, a livello ancora di sospetto.

Tanto, dall’altro punto di vista della conformità al diritto ex n. 3 dell’art. 360 primo comma cit., è in linea con l’orientamento di questa corte (v. ad es. Cass. n. 9966 del 2014) secondo cui il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 cod. civ. a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua una sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause, e tale termine può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale. L’importanza a tal fine di accertamenti tecnici è stata sottolineata anche (da Cass. n. 1463 del 2008) per il fatto che, ai fini del decorso del termine, è necessaria la piena comprensione del fenomeno e la chiara individuazione ed imputazione delle sue cause, non potendosi onerare il danneggiato della proposizione di azioni generiche a carattere esplorativo”

la responsabilità del venditore/committente – “la parte ricorrente pare attribuire alla sentenza impugnata l’affermazione dell’applicabilità dell’art. 1669 cod. civ. per disciplinare la responsabilità della venditrice, sulla base del riconoscimento all’appaltatrice di un ruolo di nudus minister che, nella sentenza impugnata, non trova riscontro. In questa, piuttosto, si afferma che la s.r.l. venditrice-committente, per avere essa mantenuto autonomia decisionale e sorvegliato i lavori, dovesse ritenersi costruttrice a fianco dell’appaltatrice ai fini dell’art. 1669 cod. civ., e in base a tale ingerenza responsabile…

Ove la parte ricorrente principale abbia, invece, inteso contestare l’applicazione di tale regula iuris, quale innanzi ricostruita, essa peraltro non è difforme dall’orientamento applicativo di questa corte, che in più pronunce – anche richiamate dalla corte di merito – ha affermato che la responsabilità ex art. 1669 cod. civ. trova applicazione, anche in via concorrente, quando il venditore- costruttore abbia realizzato l’edificio servendosi dell’opera di terzi, se la costruzione sia a esso riferibile, in tutto o in parte, per aver partecipato in posizione di autonomia decisionale, mantenendo il potere di coordinare lo svolgimento di attività altrui o di impartire direttive e sorveglianza, sempre che i difetti siano riportabili alla sua sfera di esercizio e controllo (così ad es. Cass. n. 16202 del 2007), accogliendo in tal senso una nozione di riferibilità più ampia rispetto a quella tra committente dominante e nudus minister; in tal senso l’art. 1669 cod. civ., mirando a finalità di ordine pubblico, è applicabile non solo nei casi in cui il venditore abbia con propria gestione di uomini e mezzi provveduto alla costruzione, ma anche nelle ipotesi in cui, pur avendo utilizzato l’opera di soggetti professionalmente qualificati, come l’appaltatore, il progettista, il direttore dei lavori, abbia mantenuto il potere di impartire direttive o di sorveglianza sullo svolgimento dell’altrui attività, sicché anche in tali casi la costruzione dell’opera è a lui riferibile (così Cass. n. 567 del 2005).”

responsabilità del direttore lavori – “DG contesta poi l’affermazione di sua responsabilità quale direttore dei lavori contenuta nella sentenza impugnata, e tanto con copia di massime giurisprudenziali in ordine al riparto dell’onere della prova in tema di danno extracontrattuale quale quello ex art. 1669 cod. civ., all’ambito di controllo sui lavori edili lasciato al professionista officiato quale direttore di essi, nonché all’esigenza che – anche per completezza della motivazione – sussistano elementi che facciano emergere scelte tecniche erronee o mancato controllo sull’esecuzione. Contesta, in particolare, la natura a suo dire meramente presuntiva delle affermazioni contenute in sentenza.

La sentenza impugnata sfugge alle mosse censure. Essa si diffonde adeguatamente sulla figura e sul ruolo dell’arch. DG, figlio del legale rappresentante e socio di maggioranza della F s.r.I., “con studio nello stesso stabile ove questa aveva sede”; afferma come altamente verosimile quindi che questi svolgesse non solo l’alta sorveglianza sui lavori, ma anche “ulteriori e più pregnanti controlli e più specifiche e ingerenti direttive per realizzare l’interesse della società e del genitore”, ponendo anche in luce il nesso tra il suo legame e la tutela interessi della F s.r.I., che egli “rappresentava a tutti gli effetti” nelle “assemblee di condominio ove si trattava dei vizi e difetti, proponendo soluzioni tecniche, interventi riparatori o anche proposte conciliative”. La corte locale, poi, integrando sul punto la decisione del tribunale, si è rettamente posta il problema – al di là del richiamo del principio di corresponsabilità del direttore dei lavori – di individuare “la prova, quantomeno presuntiva, del contributo causale in concreto ascrivibile”; nel ciò fare, ha richiamato ampiamente le considerazioni già svolte circa il ruolo dell’architetto eccedente “l’espletamento dei compiti istituzionali del direttore dei lavori” (che venivano citati), con lo svolgimento di “ulteriori e più incisive ingerenze sotto il profilo della sorveglianza e delle direttive alla ditta appaltatrice” . La sentenza è poi passata a considerare “la tipologia, la consistenza e la natura dei vizi e difetti” oggetto di lite, e ha – categoria per categoria di opere – diffusamente giustificato l’affermazione di responsabilità di un professionista non avvedutosi che nessuna impermeabilizzazione era stata adottata, che mancavano le protezioni di copertura, che sussistevano disfunzioni dell’impianto fognario e di adduzione del gas con utilizzo di tubazioni non appropriate e scorretta collocazione di pozzetti e connessioni. Ha concluso dunque reputando che la responsabilità non fosse “affermata in modo automatico, come sostiene nei suoi atti difensivi” l’arch. G.”

la natura dei gravi difettiil ricorrente lamenta che fra i vizi ricondotti all’art. 1669 cod.civ. vi sia anche la realizzazione della condotta di adduzione gas, non di proprietà del condominio ma dell’ente erogatore, che è stata tuttavia realizzata dall’appaltatore.

“…quanto all’inclusione tra i danni risarcibili di quelli all’impianto di adduzione del gas, che non rileva a fini risarcitori l’assetto proprietario di un bene, quanto la circostanza che l’utilità data da quel bene sia persa per l’utilizzatore, per cui rettamente la corte di merito ha considerato priva di rilievo l’opinione del c.t.u., su cui si impernia un’argomentazione di DG, secondo cui il risarcimento idoneo a ricostruire tubazioni da realizzarsi dal costruttore sarebbe incompatibile con l’eventuale ricadere in proprietà delle stesse (per accessione o altrimenti) in capo all’ente erogatore (e senza che il c.t.u. si sia posto il problema del se dette opere, pur accedute in proprietà altrui, fossero state realizzate dall’appaltatrice). Quanto alle dilavazioni e ai percolamenti, poi, con congrua motivazione la corte d’appello ha posto in luce che essi, lungi dall’essere un dato secondario, rivelavano il grave difetto della mancanza di protezioni di copertura sulle murature, con imbibizione delle strutture sottostanti”

il condominio ha avanzato un unico motivo di controricorso, relativo alle cavillature in facciata, ritenute della corte territoriale non ascrivibili alla disciplina dell’art. 1669 cod.civ. : “Secondo il condominio (che richiama l’opinione del proprio consulente di parte) dette fessurazioni sulle facciate sarebbero suscettibili anche in relazione ai fenomeni di dilavamento di causare rigonfiamenti di intonaci e infiltrazioni, e sarebbero da qualificarsi come gravi vizi.

Il motivo è fondato e va accolto. Fermo restando che compete al giudice del merito, con accertamento in fatto insuscettibile di riesame in sede di legittimità, qualificare in concreto una determinata anomalia costruttiva di edificio, va richiamato che al fine di distinguere dal punto di vista giuridico il concetto di vizi che incidano sulla conservazione e funzionalità dell’edificio ex art. 1669 cod. civ. dalla diversa nozione di vizi dell’opera ex art. 1667 cod. civ. questa corte è di recente intervenuta a sezioni unite (Cass. sez. U n. 7756 del 2017) chiarendo che sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c., anche quelli che riguardino elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi, etc.), purché tali da comprometterne la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo.

Ciò posto, va considerato che, al fine di pervenire all’esclusione delle cavillature in concreto accertate dal novero delle poste risarcibili, la corte milanese – dopo aver ricordato che il c.t.u. aveva distinto due tipologie di cavillature “entrambe non … dovute a debolezza della struttura” e non tali da provocare “infiltrazioni all’interno delle abitazioni” – ha affermato, con valutazione che, come si dirà, concreta error in iudicando pur se costituente citazione di precedenti (ora superati) di questa corte, che “l’articolo 1669 cod. civ. non trova applicazione per quei vizi che non incidano negativamente sugli elementi strutturali essenziali … e, quindi, sulla … solidità, efficienza e durata, ma solamente sul[V] … aspetto decorativo ed estetico” del manufatto (p. 4 della sentenza impugnata).

Tale affermazione contrasta con la linea interpretativa fatta propria dalle sezioni unite (alla cui pronuncia del 2017 cit. si rinvia per i richiami, tra i quali, ad es., quello a Cass. n. 22553 del 2015 concernente fessurazioni incidenti però in maniera infiltrativa).

Secondo l’indirizzo ora accolto anche vizi che riguardino elementi secondari ed accessori, come i rivestimenti, devono ritenersi tali da compromettere la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo.

Come noto, in edilizia il rivestimento (verticale o murale e orizzontale, quest’ultimo se sottostante definito pavimento – v. per l’utilizzo delle nozioni ad es. art. 1125 cod. civ.) è applicato agli elementi strutturali di un edificio con finalità di accrescimento della resistenza alle aggressioni degli agenti chimico-fisici, anche da obsolescenza, e atmosferici, svolgendo anche funzioni estetiche; in tale quadro le fessurazioni o microfessurazioni (tra le quali le cavillature) di intonaci (o anche di altri tipi di rivestimento), se non del tutto trascurabili, a prescindere dalla possibilità di dar luogo o no a infiltrazioni, realizzano comunque nel tempo una maggiore esposizione alla penetrazione di agenti aggressivi sugli elementi strutturali, per cui esse – pur se ascrivibili a ritrazione dei materiali – sono prevenute mediante idonee preparazioni dei rivestimenti in senso compensativo e idonea posa.

A prescindere da ciò, peraltro, quand’anche le fessurazioni o crepe siano inidonee a mettere a rischio altri elementi strutturali e quindi impattino solo dal punto di vista estetico, e siano eliminabili con manutenzione anche meramente ordinaria (Cass. n. 1164 del 1995 e n. 1393 del 1998), esse – in quanto incidenti sull’elemento pur accessorio del rivestimento (di norma, l’intonaco) – debbono essere qualificate in via astratta, ove non siano del tutto trascurabili, idonee a compromettere la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene e, quindi, a rappresentare grave vizio ex art. 1669 cod. civ. (così Cass. sez. U n. 7756 del 2017).

In tal senso, deve ritenersi superato, all’esito dell’arresto nomofilattico richiamato, il precedente indirizzo – cui si è invece ispirata la sentenza impugnata – per cui lesioni – anche sottoforma di microfessurazioni – ai rivestimenti (pur se d’intonaco) possano considerarsi irrilevanti in quanto incidenti solo dal punto di vista estetico (v. ad es. Cass. n. 13268 del 2004 e n. 26965 del 2011, ma in senso contrario v. già n. 12792 del 1992). Ciò, del resto, è coerente anche con il sempre maggior rilievo che il decoro degli edifici svolge ai fini del loro godimento e commerciabilità secondo l’evoluzione sociale.”

© massimo ginesi 2 maggio 2018

art. 1117 cod.civ. e beni comuni: nel silenzio del titolo vale la funzione.

La Suprema Corte (Cass.Civ. sez. II 24 aprile 2018 n. 10073) ribadisce un prinpcio consolidato in tema di beni condominiali: ove il titolo non  disponga espressamente in ordine alla proprietà comune o individuale del bene, il Giudice dovrà valutare la funzione cui detti beni sono destinati ad assolvere, ritenendoli individuali (o comunque comuni solo ad una parte di condomini ai sensi dell’art. 1123 comma 3 cod.civ.) ove non siano destinati a recare utilità a tutta la collettività condominiale.

l’accertamento relativo alla sussistenza del legame di essenziale indissolubilità e/o di accessorietà tra il bene di proprietà singola e gli altri beni, è demandato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se non affetto da vizi logici e giuridici della motivazione; allo stesso giudice è demandata anche l’interpretazione dei titoli allegati per escludere il diritto di condominio (Cass. 21.12.2007, n. 27145; Cass. 16.2.2004, n. 2943).

La verifica di detta relazione di accessorietà è indispensabile e preliminare per ritenere operante la presunzione dell’art. 1117 c.c., nel senso che ove quell’accessorietà manchi in concreto, detti beni non possono presumersi – già solo per questo fatto – comuni a tutti i condomini senza che occorra verificare la sussistenza di un titolo contrario alla suddetta presunzione, e, a tal fine, fare riferimento all’atto costitutivo del condominio (Cass. 16.1.2018, n. 884; Cass. 2.3.2007, n. 4973; Cass. 25.1.2007, n. 1625).

Quando il bene, anche se rientrante nell’elencazione di cui all’art. 1117 c.c., per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, serva in modo esclusivo al godimento di una parte dell’edificio in condominio, la quale formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, viene meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini, giacché la destinazione particolare vince la presunzione legale di comunione, alla stessa stregua di un titolo contrario (Cass. 29.12.1987, n. 9644; Cass. 25.2.1975, n. 758).

Questa Corte ha anche precisato che per escludere la presunzione di proprietà comune, di cui all’art. 1117 cod. civ., non è necessario che il contrario risulti in modo espresso dal titolo, essendo sufficiente che da questo emergano elementi univoci che siano in contrasto con la reale esistenza di un diritto di comunione, dovendo la citata presunzione fondarsi sempre su elementi obiettivi che rivelino l’attitudine funzionale dei bene al servizio o al godimento collettivo, con la conseguenza che, quando il bene, per le sue obiettive caratteristiche strutturali, serva in modo esclusivo all’uso o al godimento di una sola parte dell’immobile, la quale formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, ovvero risulti comunque essere stato a suo tempo destinato dall’originario proprietario dell’intero immobile ad un uso esclusivo, in guisa da rilevare – in base ad elementi obiettivamente rilevabili, secondo l’incensurabile apprezzamento dei giudici di merito – che si tratta di un bene avente una propria autonomia e indipendenza, non legato da una destinazione di servizio rispetto all’edificio condominiale, viene meno il presupposto per l’operatività dell’art. 1117 c.c. (cfr., in motivazione, Cass. 23.9.2011, n. 19490; Cass. 28.4.2004, n. 8119; Cass. 27.12.2004, n. 24015).

Avendo quindi la Corte stabilito, con accertamento in fatto, che mancava la suddetta relazione di accessorietà funzionale, non occorreva attribuire più rilievo al contenuto dei titoli né considerare che l’atto di accatastamento compiuto dall’unico proprietario prima della costituzione del condominio non era stato richiamato nella prima vendita, potendo esso rilevare solo quale titolo contrario alla presunzione ex art. 1117 c.c., già esclusa, per le ragioni evidenziate, dalla Corte distrettuale (cfr., Cass. 7.5.2010, n. 11195; Cass. 23.2.2011, n. 2670; Cass. 23.2.1991, n. 1915).”

© massimo ginesi 27 aprile 2018

responsabilità da cosa in custodia e per rovina di edificio: imputabilità a proprietario e conduttore

Proprietario e conduttore rispondono verso i terzi l’uno per i danni derivanti dalle strutture dell’immobile e l’altro dagli accessori, sicché – stante anche la natura di norma speciale dell’art. 2053 cod.civ. rispetto all’art. 2051 cod.civ., la responsabilità di entrambi non può concorrere con riguardo ad un unico evento generatore di danno, che dovrà essere ascritto all’uno o all’altro in virtù della sua causa, salvo che nel fatto non possa riconoscersi una genesi multifattoriale.

E’ quanto afferma Cass. civ. sez. III, 27/03/2018,  n. 7526 a fronte di vicenda nata in terra piemontese: “C.P. conveniva in giudizio I.W. e la Gallesi s.r.l., rispettivamente quali conduttore e proprietaria di un immobile sito in (OMISSIS), chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni fisici e patrimoniali subiti a causa della caduta di un cancello di ferro che delimitava il piazzale interno dell’immobile e che, mentre lo stava chiudendo, essendo a scorrimento manuale, era fuoriuscito dalle proprie guide rovinandole addosso.

Il tribunale di Torino pronunciava sentenza nel contraddittorio con i resistenti convenuti e con la Sinatec s.p.a. chiamata in garanzia dalla Gallesi quale venditrice dell’immobile, e accoglieva la domanda attorea rigettando quella di manleva.

La corte di appello della stessa città, statuendo sull’appello principale interposto dalla Gallesi e su quello incidentale dell’ I., rigettava entrambi, affermando la concorrente responsabilità del proprietario ex art. 2053, cod. civ., e del conduttore ex art. 2051, cod. civ.”

Osserva la Corte di legittimità che “Secondo la condivisibile giurisprudenza di legittimità poichè la responsabilità ex art. 2051 c.c., implica la disponibilità giuridica e materiale del bene che dà luogo all’evento lesivo, al proprietario dell’immobile locato sono riconducibili in via esclusiva i danni arrecati a terzi dalle strutture murarie e dagli impianti in esse conglobati, di cui conserva la custodia anche dopo la locazione, mentre grava sul solo conduttore la responsabilità per i danni provocati a terzi dagli accessori e dalle altre parti dell’immobile, che sono acquisiti alla sua disponibilità (Cass., 27/10/2015, n. 21788). Anche in questo senso la nomofilachia parla di “specialità” della previsione di cui all’art. 2053 c.c., rispetto a quella contenuta nell’art. 2051 c.c. (Cass., 14/10/2005, n. 19975; Cass., 08/09/1998, n. 8876). E nella medesima logica si nega che rispetto allo stesso fatto causativo possano concorrere le responsabilità del proprietario e del conduttore (Cass., 09/06/2010, n. 13881, pagg. 4 e 5 della motivazione).

Può logicamente sussistere la responsabilità sia del proprietario dell’immobile che del conduttore solo quando i pregiudizi siano derivati non solo dal difetto di costruzione dell’impianto conglobato nelle strutture murarie, ma anche da una negligente utilizzazione di esso da parte del conduttore (Cass., 09/06/2016, n. 11815, in un caso di danni cagionati da un difetto dell’impianto idraulico e da un cattivo uso della connessa caldaia fatto dal conduttore). Ciò in quanto le condotte imputabili sono differenti.

Nella fattispecie qui in scrutinio, la condotta-fatto causale accertata è unica, è quella relativa al malfunzionamento per difetto di costruzione del cancello stesso.

Ciò posto, nel momento in cui sulla sussunzione di tale condotta nella cornice dell’art. 2053 c.c., è sceso, pacificamente, il giudicato, ne deriva che la stessa condotta-fatto non può sussumersi sub art. 2051, cod. civ., ai fini dell’eventuale responsabilità del conduttore.”

© massimo ginesi 24 aprile 2018 

attenzione alla notifica al portiere del condominio!

Laddove il portiere del condominio riceva sic et simpliciter la  notifica destinata all’ente collettivo e non menzioni la sua qualifica, la notifica si intenderà perfezionata con la consegna a sue mani ai sensi dell’art. 139 II comma c .p.c. che prevede che “Se il destinatario non viene trovato in uno di tali luoghi, l’ufficiale giudiziario consegna copia dell’atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace” e non ai sensi del IV comma della stessa norma, ove invece è previsto per l’ufficiale giudiziario un onere aggiuntivo: “Il portiere o il vicino deve sottoscrivere una ricevuta, e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto, a mezzo di lettera raccomandata”.

Il principio  è affermato da   Cass. civ. sez. lav., 16/04/2018,  n. 9315: Nell’ipotesi in cui il portiere di un condominio riceva la notifica della copia di un atto qualificandosi come “incaricato al ritiro”, senza alcun riferimento alle funzioni connesse all’incarico afferente al portierato, ricorre la presunzione legale della qualità dichiarata la quale per essere vinta necessita di rigorosa prova contraria da parte del destinatario, in difetto della quale deve applicarsi il secondo comma (e non il quarto) dell’art. 139 cod. proc. civ.”

 © massimo ginesi 23 aprile 2018