una chiara sentenza della Cassazione (Cassazione civile, sez. II, 04/05/2018, n. 10733) traccia il discrimine fra il canone per l’occupazione di suolo pubblico, dovuto qualora al privato sia concesso in godimento un bene appartenente alla PA, dalla tassa di occupazione, che attiene invece alla situazione particolare e contingente in cui un bene pubblico sia sottratto alla sua normale destinazione e funzione per soddisfare un interesse privato.
“Il canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, istituito dall’art. 63 del d.lg. n. 446 del 1997, come modificato dall’art. 31 della legge n. 448 del 1998, è stato concepito dal legislatore come un quid ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dalla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche.
Esso è, infatti, configurato come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici ed è dovuto non in base alla limitazione o sottrazione all’uso normale o collettivo di parte del suolo, ma in relazione all’utilizzazione particolare (o eccezionale) che ne trae il singolo.
Ne deriva che è obbligato al pagamento del canone il condominio che abbia sostituito con griglie una parte del piano di calpestio di un’area gravata da servitù pubblica di passaggio, al fine di migliorare il godimento dei locali sottostanti al suolo, e ciò in quanto esso gode di un’utilizzazione particolare dell’area medesima.“
La corte di legittimità (Cass.Civ. sez. II 21 maggio 2018, n. 12525 rel. Scarpa) torna su un tema tormentato e complesso, che – sotto il profilo dei principi – ha trovato una definitiva consacrazione nelle sezioni unite 18331/2010 e che, tuttavia, continua a manifestare una complessità applicativa che non sempre consente all’amministratore o ai condomini di percepire la correttezza del loro operato.
La Corte – coordinando due pronunce a sezioni unite – esprime un concetto di significativo e pericoloso rilievo per il condominio: il criterio espresso dalle sezioni unite del 2010, ovvero la possibilità che – per le controversie che esulano dalla competenza dell’amministratore e in assenza di delibera – venga assegnato un termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c. per munirsi della ratifica assembleare vale anche in sede di legittimità, ma solo ove il rilievo della carenza di legittimazione autonoma sia compiuto dal Giudice, poichè ove sia eccepito dalla controparte la sussistenza del potere rappresentativo processuale dovrà essere immediatamente giustificata dall’amministratore.
Nè si può ritenere, afferma la corte, che l’opposizione a decreto ingiuntivo rientri di per sé nei poteri dell’amministratore, poichè anche tali controversie vedranno una legittimazione autonoma di tale figura ratione materiae, ovvero secondo le attribuzioni previste dall’art 1130 c.c.
I fatti: “Il Condominio (omissis) ha proposto ricorso in cassazione articolato in sette motivi avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 2921/2013, depositata il 21 maggio 2013. Resiste con controricorso R.S. , il quale propone ricorso incidentale in unico motivo, dal quale a sua volta si difende con controricorso il Condominio (omissis) . La Corte d’Appello accolse il gravame di R.S. contro la sentenza del Tribunale di Rieti n.576/2005 e rigettò perciò l’opposizione proposta dal Condominio (omissis) contro il decreto ingiuntivo per la somma di Euro 11.298,33, emesso il 25 febbraio 2002 su domanda del R. , ex amministratore condominiale, a titolo di compenso aggiuntivo per la cura dei lavori straordinari. La Corte di Roma superò l’eccezione del difetto di legittimazione del Condominio a proporre l’opposizione a decreto ingiuntivo, stanti i tempi ristretti per proporre la stessa. Quanto però al merito, i giudici di appello ritennero che dal verbale di assemblea del 14 marzo 1999 emergessero un riconoscimento del debito del Condominio in favore del R. di Lire 22.000.000, nonché una riduzione transattiva dell’importo del 50%, quale “gesto di collaboratrice sensibilità” dell’ex amministratore, con l’impegno del Condominio stesso di accreditare la somma nelle future quote “a copertura” del debito viceversa gravante sul R. . Questo accordo transattivo contenuto nel verbale del 14 marzo 1999 non poteva perciò essere modificato dall’assemblea nell’adunanza del 1 maggio 1999, che invece deliberò una riduzione della somma da accordare al R. , liquidata in Lire 8.000.000. Avendo poi il Condominio (omissis) azionato decreto ingiuntivo contro il R. , questo, a dire della Corte di Roma, ritenne “correttamente annullato l’accordo transattivo”, e perciò richiese a sua volta in via monitoria l’intera somma oggetto di riconoscimento nel verbale 14 marzo 1999.”
Le parti hanno articolato diversi motivi di censura in sede di legittimità, tuttavia: “Il Collegio antepone tuttavia una valutazione di tipo pregiudiziale.
Secondo l’insegnamento reso da Cass. Sez. U, 06/08/2010, n. 18331, l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni, ed essendo però tenuto a dare senza indugio notizia all’assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131, commi 2 e 3, c.c., può costituirsi in giudizio ed impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione.
Nel ricostruire la portata dell’art. 1131, comma 2, c.c., Cass., sez. un., 6 agosto 2010, n. 18331, ha invero affermato che, ferma la possibilità dell’immediata costituzione in giudizio dell’amministratore convenuto, ovvero della tempestiva impugnazione dell’amministratore soccombente (e ciò nel quadro generale di tutela urgente di quell’interesse comune che è alla base della sua qualifica e della legittimazione passiva di cui è investito), non di meno l’operato dell’amministratore deve poi essere sempre ratificato dall’assemblea, in quanto unica titolare del relativo potere. La ratifica assembleare vale a sanare retroattivamente la costituzione processuale dell’amministratore sprovvisto di autorizzazione dell’assemblea, e perciò vanifica ogni avversa eccezione di inammissibilità, ovvero ottempera al rilievo ufficioso del giudice che abbia all’uopo assegnato il termine ex art. 182 c.p.c. per regolarizzare il difetto di rappresentanza.
La regolarizzazione ai sensi dell’art. 182 c.p.c., in favore dell’amministratore privo della preventiva autorizzazione assembleare, come della ratifica, può operare in qualsiasi fase e grado del giudizio, con effetti “ex tunc” (Cass. Sez. 6 – 2, 16/11/2017, n. 27236).
Peraltro, come di seguito ribadito da Cass. Sez. 2, 23 gennaio 2014, n. 1451, e da Cass. Sez. 2, 25/05/2016, n. 10865, la necessità dell’autorizzazione o della ratifica assembleare per la costituzione in giudizio dell’amministratore va riferita soltanto alle cause che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1131, commi 2 e 3, c.c.
Non può dunque sostenersi, come fatto dalla Corte d’Appello di Roma sul presupposto dell’urgenza dell’opposizione, che, poiché l’opponente a decreto ingiuntivo ha la posizione processuale di convenuto e così di legittimato passivo rispetto alla pretesa azionata con il ricorso monitorio, e tale posizione non muta nei successivi gradi del giudizio, indipendentemente dall’iniziativa dei mezzi di gravame adoperati, l’amministratore di un condominio che proceda a siffatta opposizione, nonché alla successiva impugnazione della pronuncia che l’abbia decisa, non ha, per ciò solo, necessità dell’autorizzazione dell’assemblea condominiale, a termini del secondo comma dell’art. 1131 c.c.
Piuttosto, l’amministratore di condominio può proporre opposizione a decreto ingiuntivo, e altresì impugnare la relativa decisione del giudice di primo grado, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea, ad esempio, nella controversia avente ad oggetto il pagamento preteso nei confronti del condominio dal terzo creditore in adempimento di obbligazione assunta dal medesimo amministratore nell’esercizio delle sue attribuzioni in rappresentanza dei partecipanti, ovvero dando esecuzione a deliberazione dell’assemblea o erogando le spese occorrenti per la manutenzione delle parti comuni o per l’esercizio dei servizi condominiali, e quindi nei limiti di cui all’art. 1130 c.c. (così Cass. Sez. 2, 03/08/2016, n. 16260).
Diversa è la causa, quale quella in esame, in cui il precedente amministratore, cessato dall’incarico, agisca in sede monitoria nei confronti del nuovo amministratore del condominio per ottenerne la condanna al pagamento del compenso suppletivo inerente all’attività svolta con riguardo all’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell’edificio. Si tratta di controversia non rientrante tra quelle per le quali l’amministratore è autonomamente legittimato ad agire ai sensi dell’art. 1130 e 1131 c.c., sicché, ai fini della sua costituzione in giudizio come della proposizione delle impugnazioni, gli occorre l’autorizzazione assembleare, eventualmente richiesta anche in via di ratifica del suo operato (cfr. per analoga fattispecie Cass. Sez. 2, 31/01/2011, n. 2179).
Il Collegio ritiene tuttavia, per ciò che segue, di discostarsi da quanto disposto nell’ordinanza interlocutoria del 27 settembre 2017, e così di revocare la stessa, ai sensi dell’art. 177 c.p.c., norma applicabile anche al giudizio di cassazione (cfr. Cass. Sez. 2, 11/02/2011, n. 3409; Cass. Sez. L, 26/03/1999, n. 2911; Cass. Sez. U, 25/03/1988, n. 251).
Secondo quanto stabilito da Cass. Sez. U, 04/03/2016, n. 4248, il difetto di rappresentanza o autorizzazione può essere sanato ex art. 182 c.p.c. (come nella specie) in sede di legittimità, dando prova della sussistenza del potere rappresentativo o del rilascio dell’autorizzazione, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., sempre che il rilievo del vizio nel giudizio di cassazione sia officioso, e non provenga dalla controparte, come invece appunto qui fatto dal controricorrente R.S. , giacché, in tal caso, l’onere di sanatoria sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine da parte del giudice (a meno che lo stesso non sia motivatamente richiesto, il che neppure risulta avvenuto, nella specie), in quanto sul rilievo di parte l’avversario è chiamato prima ancora a contraddire (si veda già Cass. Sez. 2, 31/01/2011, n. 2179).
IV. Deve perciò essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dall’amministratore del Condominio (omissis) senza l’autorizzazione assembleare, trattandosi di controversia riguardante un credito per compenso straordinario preteso dal precedente amministratore cessato dall’incarico, e perciò non rientrante tra quelle per le quali l’amministratore è autonomamente legittimato ai sensi degli artt. 1130 e 1131 c.c.; né può essere concesso il termine per la regolarizzazione ai sensi dell’art. 182 c.p.c., atteso che il rilievo del vizio in sede di legittimità è stato operato dalla controparte nel suo controricorso, e non d’ufficio, sicché l’onere di sanatoria dell’amministratore ricorrente doveva intendersi sorto immediatamente.
Il ricorso incidentale di R.S. , giacché proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, e relativo a questioni preliminari di merito e pregiudiziali di rito (quale, nella specie, il difetto di legittimazione processuale del condominio e la carenza dei poteri rappresentativi del nuovo amministratore), oggetto di decisione esplicita da parte della Corte d’Appello, ha natura di ricorso condizionato all’accoglimento del ricorso principale, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte. Ne consegue che, attesa l’inammissibilità del ricorso principale, il ricorso incidentale rimane assorbito per difetto di attualità dell’interesse. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza (con condanna del Condominio (omissis) , e non dell’amministratore personalmente, ex art. 94 c.p.c., avendo comunque l’assemblea, sia pure tardivamente agli effetti dell’ammissibilità del ricorso, ratificato l’operato dell’amministratore stesso) e vengono liquidate come in dispositivo in favore del controricorrente R.S. .”
E’ noto che la riforma del 2012 ha introdotto all’art. 1138 cod.civ. il divieto per i regolamenti di condominio di porre limiti alla detenzione di animali da compagnia da parte dei condomini.
Disposizione che molto ha fatto discutere con riguardo alla valenza e alla sopravvivenza di quei regolamenti, antecedenti alla riforma, che invece contenevano tale divieto.
In realtà uno dei problemi principali posti dalla norma è identificare il genus “animale da compagnia, in assenza di specifiche indicazioni sul punto da parte della legislazione italiana.
Con riguardo agli aspetti amministrativi relativi alla detenzione di animali, non può non far sorridere – alla luce delle implicazioni condominiali che tale lettura potrebbe avere – una recente decisione dei giudici amministrativi (Tar Lecce 6 marzo 2018 n. 388) che ha ritenuto il pony riconducibile alla categoria degli animali da compagnia.
La pronuncia, per una volta, sembra finalmente tenere conto anche del dato emozionale sotteso alla vicenda e consente di ripristinare una situazione affettiva fra uomo e animale troppo spesso sottovalutata: il pony abitava con un anziano per il quale era fonte di grande sostegno psicologico ed era stato allontanato dall’autorità comunale su istanza di alcuni vicini.
Il Tar, su istanza dei parenti dell’anziano, ha annullato il provvedimento amministrativo, ritenendo sussistente una carenza di motivazione; a tal fine ha osservato che ““il mero richiamo al fatto che allo stato non vi sono riferimenti legislativi di ambito nazionale tali da equiparare l’equide ad un animale da compagnia, come peraltro avvalorato da parere ministeriale ivi allegato non era sufficiente a soddisfare l’obbligo di motivazione di cui all’art. 3 della legge 241/90”.
Ed ancora che “la Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia approvata a Strasburgo il 13 novembre 1987, definisce “animale da compagnia ogni animale tenuto o destinato a essere tenuto dall’uomo, in particolare presso il suo alloggio domestico, per diletto e compagnia”.
Lo chiarisce Cass.Civ. sez. II ord. 17 maggio 2018 n. 12120, a fronte di vicenda che si colloca anteriormente alla riforma del 2012 (che all’art. 1129 comma VIII ha espressamente disciplinato gli obblighi ed i diritti dell’amministratore uscente)
I fatti: “Il Condominio “(omissis) ” ha proposto appello, avverso la sentenza n.473 del 2011 con la quale il Giudice di Pace di Montecchio Emilia aveva accolto la domanda di pagamento dell’ex amministratore, N.U.U. , per l’importo di Euro 1.338,12, asseritamente dovuto a titolo di compenso per l’attività svolta fino all’11.03.2010. Il Giudice di prime cure, secondo l’appellante, avrebbe errato nel riconoscere tale importo a favore del N. , stante la documentata cessazione del medesimo dall’incarico di amministratore del Condominio (omissis) fin dal 27.11.09, con contestuale nomina del nuovo attuale amministratore. Si è costituito N.U.U. per ottenere il rigetto del gravame e la conferma della sentenza gravata, atteso che la nomina di Home Service S.r.l. era effettivamente avvenuta soltanto il 01.02.2010, data fino alla quale si era protratta la propria amministrazione condominiale. Il Tribunale di Reggio Emilia con sentenza n. 828 del 2014 accoglieva l’appello e in riforma della sentenza del GdP revocava il decreto ingiuntivo condannando N. a restituire tutte le somme pagate dal predetto Condominio in esecuzione della sentenza impugnata, condannava lo stesso al pagamento delle spese del giudizio. Secondo il Tribunale di Reggio Emilia risultando dal verbale di assemblea dei condomini del 27 novembre 2009 la delibera all’unanimità della nomina di un nuovo amministratore e l’autorizzazione all’amministratore uscente a prelevare dal conto corrente del condominio la somma di Euro 461,12 a saldo delle sue competenze nonché la fissazione del termine per il passaggio di consegne dal vecchio al muovo amministratore. Pertanto, essendo la volontà dei condomini di porre fine fin dal 27 novembre 2009 al rapporto professionale instaurato con N. lo stesso non ha diritto al compenso richiesto.”
i principi espressi dalla Corte di Cassazione a fronte del ricorso proposto dall’amministratore soccombente: “il giudice di appello nell’escludere una perpetuatio di poteri in capo all’amministratore uscente, si è uniformato, alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, la quale ha avuto modo di precisare che la perpetuatio di poteri in capo all’amministratore uscente, dopo la cessazione della carica per scadenza del termine di cui all’art. 1129 c.c. o per dimissioni, fondandosi su una presunzione di conformità di una siffatta perpetuatio all’interesse ed alla volontà dei condomini, non trova applicazione quando risulti, viceversa, (come nel caso in esame) una volontà di questi ultimi, espressa con delibera dell’assemblea condominiale, contraria alla conservazione dei poteri di gestione da parte dell’amministratore, cessato dall’incarico.
La decisione censurata è coerente con i principi espressi da questa Corte in materia di prorogatio della carica di amministratore. Infatti come ha avuto modo di chiarire il Giudice di appello “(…..) nel caso in esame osta al riconoscimento in favore di N.U.U. della somma portata dal decreto ingiuntivo, già opposto dal condominio, odierno appellante risultando dal verbale di assemblea di condomini del 27 novembre 2009 la delibera all’unanimità della nomina di nuovo amministratore nella Home Service S.r.l. e l’autorizzazione all’amministratore uscente a prelevare, dal conto corrente del condominio, la somma di Euro 461,12 a saldo delle sue competenze (…) tale verbale, dunque, contiene manifesta ed inequivoca volontà dei condomini tutti di porre fine, fin dal 27 novembre 2009 al rapporto professionale in essere con il N. e di iniziare analogo rapporto con diverso soggetto (...)”.
A fronte ti tale accertamento appare del tutto irrilevante, comunque, non provata, e non proponibile per la prima volta in questa sede, l’affermazione del ricorrente secondo cui “(….) l’assemblea dei condomini nella seduta del 27 novembre 2009 aveva autorizzato il sig. N. a compiere tutte le attività di gestione e di amministrazione dovute e necessarie fino al passaggio di consegne (….)”. D’altra parte, è nell’ordine delle cose che l’amministratore uscente predisponga tutto il necessario per favorire il subingresso del nuovo amministratore.”
ed ancora: “il Tribunale non ha omesso di esaminare anche il dato cui fa riferimento il ricorrente. Come chiarisce il Tribunale “(….) Non vi sono in atti elementi di prova rivelatori di una modificata volontà dei condomini orientata al recupero del rapporto fiduciario con il N. .
Tale non è senz’altro la convocazione assembleare del gennaio 2010, in quanto effettuata dall’appellato in epoca antecedente alla sostituzione nella carica (la lettera di convocazione porta la data del 28.10.2009 e dunque attiene ad attività amministrativa imputabile all’anno 2009 già saldata dal Condominio); peraltro, neppure, risulta dagli atti che le assemblee del 27-28 gennaio 2010 si siano effettivamente tenute.
Al contrario, la chiara intenzione dei condomini di dare seguito alla sostituzione dell’amministratore, deliberata all’unanimità, risulta dai diversi solleciti inviati a N.U.U. e finalizzati ad ottenere il passaggio di consegne alla Home Service S.r.l., nonché dalla reiterata volontà di sostituzione espressa dall’assemblea in data 01.02.2010, avente ad oggetto, ancora una volta, la richiesta all’amministratore uscente di consegnare tutta la documentazione del condominio e l’espresso richiamo alla volontà già espressa “all’ultima assemblea”, quella del 27.11.2009 appunto, nel senso di sostituire a N. la società sopra nominata, come ben noto all’odierno appellato, il quale nella propria missiva del 30 novembre 2009 scriveva che contrariamente a quanto stabilito con deliberato condominiale del 27 novembre 2009 il sottoscritto si è trovato nella impossibilità di eseguire il passaggio di consegne posto che il soggetto che doveva subentrare nella carica di nuovo amministratore non ha comunicato l’accettazione dell’incarico” e su tale impossibilità sebbene consapevole di non essere più legittimato dall’assemblea condominiale prorogava unilateralmente un’amministrazione priva di consenso del mandate (….)”. Appare evidente dunque che il Tribunale ha avuto cura di ricostruire la volontà del Condominio “(OMISSIS) ” tenendo conto sia del verbale del 27 novembre 2009 e sia dell’assemblea del 1 febbraio 2010.”
Cass.Civ. sez. II 8 maggio 2018 n. 11141 ritorna su un tema complesso e oggetto di diversi interventi legislativi e giurisprudenziali.
Le vicende traslative delle aree destinate a parcheggio e soggette a disciplina vincolistica sono spesso fonte di contenzioso, con riflessi interpretativi non sempre lineari e di facile comprensione.
L’ipotesi all’esame della Corte ha origini lontanissime e contiene interessanti implicazioni sulla tutela dell’acquirente pretermesso e sulle responsabilità di venditore e acquirenti successivi.
I fatti: “Dal dicembre 1986 pende controversia per far valere i diritti sugli spazi di parcheggio proposta da sei condomini (P., T., L., M., D.J. e D. ), acquirenti di unità immobiliari in due stabili del “Centro direzionale e commerciale di via (omissis)”, nei confronti della proprietaria costruttrice (Bestat spa, poi incorporata in Italscai spa – convenuta iniziale – fusasi con Italstrade spa, ora divenuta Astaldi spa). Venivano chiamati in causa, come risulta in atti, gli acquirenti delle “aree esterne e interrate in contestazione” Banco di Roma spa, srl 2 D (ora Alfa Immobiliare), spa SOGET e srl D’Addario, tutte costituitesi. Il giudizio veniva più volte interrotto e riassunto per le vicende societarie delle varie società parti nel giudizio, che resistevano alle domande. Il tribunale di Taranto nel 2006, in parziale accoglimento della domanda dei condomini, dichiarava la parziale invalidità dei contratti di compravendita nella parte in cui veniva omesso il contestuale trasferimento agli attori del diritto vantato e dichiarava trasferito in loro favore il diritto reale d’uso di parcheggio, nei limiti dello standard urbanistico, sulle aree da individuarsi tra le parti, restando la proprietà in capo ad Astaldi e alle sue aventi causa. Dichiarava il diritto della convenuta a percepire l’integrazione del corrispettivo nella misura determinata dal ctu. Investita da appello principale di P., T., L., D.J. e D. e da appelli incidentali delle società resistenti, la Corte di appello di Lecce sezione di Taranto il 4 febbraio 2012 così decideva: in accoglimento dell’appello T. condannava gli appellati Astaldi – per il periodo in cui è stata proprietaria – e gli altri soggetti chiamati in causa – per i periodi successivi – al risarcimento dei danni per il mancato godimento delle aree, da liquidare in favore degli appellanti in separata sede. Accoglieva l’appello incidentale di Astaldi, sancendone il diritto esclusivo di percepire il corrispettivo ad integrazione del prezzo gravante sugli appellanti principali. Rigettava i restanti appelli incidentali.”
il giudizio di legittimità affronta diversi motivi di ricorso:
“La Corte di appello ha inteso dire che, avendo la originaria costruttrice trattenuto per sé le aree destinate a parcheggio che avrebbe dovuto trasferire agli attori al momento della vendita a loro delle unità immobiliari, era formalmente piena proprietaria dei beni venduti ad Alfa, cosicché questa non poteva dirsi acquirente a non domino nel senso dell’art. 1159 c.c., dovendo evidentemente reagire in altro modo alla pretesa azionata dai condomini, In ogni caso il rigetto del motivo discende dall’insegnamento di questa Corte secondo la quale: “Non è configurabile l’usucapione decennale, ai sensi dell’art. 1159 cod. civ., in favore di colui che abbia acquistato un’area di parcheggio vincolata al diritto d’uso riservato “ex lege” ai proprietari delle unità immobiliari comprese nei fabbricati di nuova costruzione, trattandosi di atto nullo per contrarietà a norme imperative e, perciò, di titolo inidoneo a trasferire la proprietà, a prescindere dalla sua trascrizione. (Cass. n. 12996 del 24/05/2013).”
“Il fatto posto a base della pretesa risarcitoria era inequivocabile, essendo costituito dal mancato godimento del bene. Questo atto lesivo deriva dalla violazione della norma urbanistica posta dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, a causa dell’elusione del vincolo di destinazione dell’area di parcheggio edificata e fa sorgere in capo ai soggetti in favore dei quali tale vincolo è previsto, il conseguente danno. La violazione è addebitabile, come ha ritenuto la Corte di appello, sia al venditore che abbia trattenuto per sé il diritto reale d’uso, sia, per il tempo in cui è coinvolto, all’acquirente successivo, il quale ha concorso nella violazione acquistando un bene che urbanisticamente spettava al danneggiato e ha protratto gli effetti della violazione rifiutando la consegna, nonostante la richiesta in sede giudiziaria.”
a fronte di un’espressa dichiarazione del venditore di poter disporre integralmente dei diritti dominicali che cede, questi assume la responsabilità nei confronti dell’acquirente (nella specie Alfa), indotto a credere che l’immobile sia libero da vincoli. Parte ricorrente ha fatto rilevare opportunamente: che esistono spazi di parcheggio condominiali che sono liberamente negoziabili perché costruiti in eccedenza rispetto agli standards di legge; che l’indicazione della destinazione urbanistica a garages non era sufficiente a far supporre l’esistenza del vincolo, posto che garages erano oggetto dell’acquisto e che la venditrice con le clausole riportate in ricorso ne garantiva “la buona proprietà”; che pertanto il proprio obbligo di diligenza nei confronti del venditore Astaldi era attenuato. Questi rilievi, potenzialmente decisivi, non sono stati considerati dalla Corte di appello, la quale ha governato alla stessa maniera la responsabilità dell’acquirente successivo nei confronti degli attori (rispetto ai quali il suo acquisto non era giustificato potendo egli accertare l’effettiva condizione urbanistica dei beni, cfr in proposito, in motivazione, Cass. SU 25454/13) e i diritti nei confronti del proprio dante causa, che gli aveva venduto un bene gravato dal vincolo di destinazione garantendo che fosse libero da pesi.
E così la sentenza viene cassata con rinvio ad altra sezione della stessa corte di appello, per un giudizio che ormai supera i trent’anni di durata.
una ponderosa sentenza di legittimità (Cass.Civ. sez. II 14 maggio 2018 n. 11687 rel. Scarpa) affronta una complessa e peculiare vicenda relativa alla opponibili ai creditori di un trasferimento immobiliare di un bene per il quale, al momento della cessione, era in corso variazione catastale.
Il bene era stato aggredito dai creditori e sia il Tribunale di Paola che la Corte di Appello di Catanzaro avevano respinto l’opposizione di terzo all’esecuzione, proposta da coloro che si ritenevano titolari del bene.
La Corte di Cassazione censura le valutazioni dei giudici di merito con ampia motivazione: “I due motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi, e si rivelano fondati. La Corte d’Appello di Catanzaro (avendo affermato che l’immobile, cui si riferiva il titolo della nota di trascrizione inerente alla donazione del 2 giugno 1989, non fosse sufficientemente identificato mediante il rinvio alla denuncia di variazione n. 6243/1985, attenendo tale denuncia “unicamente all’ampliamento della palazzina” e perciò occorrendo comunque l’indicazione dei dati catastali indicati nella formalità immediatamente precedente) ha deciso la questione di diritto in modo non conforme alla giurisprudenza di questa Corte, senza offrire in motivazione elementi idonei a mutare l’orientamento pure da essa richiamato.
Il precedente di questa Corte, citato nella stessa sentenza impugnata, affermava proprio che “per i fabbricati per i quali è stata presentata denuncia di variazione e ai quali il Catasto non ha ancora attribuito l’identificazione catastale definitiva, la mancata indicazione, nel Quadro B della nota compilata secondo i modelli approvati con Decreto Interministeriale 10 marzo 1995, dei dati catastali con i quali l’immobile era individuato nella formalità di trascrizione o iscrizione precedente, non incide sulla validità della trascrizione, allorché nella nota sia riportato il numero di protocollo della denuncia di variazione presentata per ciascun immobile” (Cass. Sez. 2, 19/10/2015, n. 21115).
Si ha riguardo, nella specie, a giudizio per opposizione di terzo, ex art. 619 c.p.c., proposto da M F F e B F, donatari degli immobili oggetto delle esecuzioni forzate promosse dalla Caricai s.p.a. e dal Banco di Napoli, i quali hanno dedotto di aver trascritto il 13 giugno 1989 il proprio titolo d’acquisto, costituito dalla donazione del 2 giugno 1989, anteriormente alla trascrizione dei pignoramenti eseguiti in danno della propria dante causa E. P., e fanno perciò valere il loro diritto di nuda proprietà sui beni in questione al fine di sottrarre gli stessi all’espropriazione.
E’ stato accertato in fatto, in particolare, che il bene donato consistesse in una palazzina di un solo piano con lastrico solare, sita in via G. di Tortora, località Impresa, composta da nove vani ed annesso garage ripostiglio.
Nella nota di trascrizione del 13 giugno 1989 l’immobile veniva descritto come non ancora rappresentato nel N.C.E.U. del Comune di Tortora, aggiungendosi, tuttavia, che erano state presentate le relative planimetrie in data 28 dicembre 1985 all’Ufficio Tecnico Erariale di Cosenza “con denuncia di variazione n. 6243/1985”.
La nota di trascrizione, pertanto, non riportava i nuovi dati catastali definitivi degli immobili, non ancora assegnati dai competenti uffici, ma indicava che era stata presentata denuncia di variazione.
La costante interpretazione degli artt. 2659 e 2665 c.c. conclude che, per stabilire se e in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci e di incertezze, gli estremi essenziali del negozio ed i beni ai quali esso si riferisce, in maniera che non sia nemmeno necessario esaminare il contenuto del titolo, il quale, insieme con la nota, viene depositato presso la Conservatoria dei registri immobiliari (cfr.Cass. Sez. 3, 31/08/2009, n. 18892; Cass. Sez. 2, 14/10/1991, n. 10774; anche Cass. Sez. 2, 07/06/2013, n. 14440).
In particolare, in virtù del richiamo alle indicazioni richieste dall’art. 2826 c.c. contenuto nell’art. 2659, comma 1, n. 4, c.c., alla nota di trascrizione è attribuita la funzione di consentire la inequivoca individuazione (oltre che del titolo trascritto e dei suoi estremi soggettivi, altresì) dei beni cui il titolo si riferisce, compresi proprio i dati di identificazione catastale, come espressamente voluto dall’art. 13 della legge 27 febbraio 1985, n. 52 (Cass. Sez. 2, 11/08/2005, n. 16853; Cass. Sez. 3, 08/03/2005, n. 5002; Cass. Sez. 3, 11/01/2005, n. 368).
La disciplina di riferimento è poi completata dall’appena richiamata legge 27 febbraio 1985, n. 52, la quale introdusse il sistema informatizzato di trascrizione basato su modelli standard di redazione delle note, specificati con d.m. 10 marzo 1994 ed illustrati nella Circolare del Ministero delle Finanze 128/T, recante le istruzioni per la relativa compilazione dei modelli.
Come già argomentava Cass. Sez. 2, 19/10/2015, n. 21115, tale Circolare del Ministero delle Finanze 128/T (dopo aver affermato al punto 2.3.4.1. che, per gli immobili aventi il codice di identificazione catastale definitivo, occorre indicare, negli appositi spazi del modello di nota, il foglio, la particella ed il subalterno), al punto 2.3.4.2.1., per i fabbricati in corso di accatastamento, ovvero, in particolare, per i fabbricati per i quali sia stata presentata denuncia di variazione ed ai quali il Catasto non abbia ancora attribuito l’identificazione catastale definitiva, richiede la descrizione degli immobili sulla nota “mediante l’indicazione del numero ed anno del protocollo ….della variazione”.
Per il periodo, allora, intercorrente fra la presentazione della denuncia di variazione e l’attribuzione della identificazione catastale definitiva, perché la nota di trascrizione adempia all’onere di contenuto di cui all’art. 2659, comma 1, n. 4, c.c., e così consenta di individuare gli estremi essenziali del bene al quale si riferisce il titolo, è dunque sufficiente l’indicazione del numero e dell’anno del protocollo della denuncia di variazione, senza che sia perciò comunque necessario, come sostenuto dalla Corte d’Appello di Catanzaro, riportare nell’apposito riquadro della medesima nota gli estremi identificativi dell’immobile nella formalità immediatamente precedente.
Ciò a conferma di un’ancora più risalente interpretazione, secondo la quale, ai fini della trascrizione del bene alienato, l’indicazione del numero catastale e delle mappe censuarie è richiesta soltanto quando tali dati “esistono”, di tal che risultano soddisfatte le esigenze di individuazione del bene quando lo stesso sia sufficientemente individuato nel contratto (Cass. Sez. 2, 04/04/1981, n. 1914).
Siffatta interpretazione trova conforto negli studi della dottrina, la quale osserva come nessuna norma vigente imponga che i dati catastali indicati nel titolo e nella nota di trascrizione siano già acquisiti al sistema della banca dati catastale. Questa conclusione è stata convalidata altresì alla luce della mancata emanazione del decreto ministeriale che, a norma dell’art. 9, comma 12, del d.l. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito con modificazioni in legge 26 febbraio 1994, n. 133, avrebbe dovuto segnare l’attivazione della completa automazione delle procedure di aggiornamento degli archivi catastali e delle conservatorie dei registri immobiliari, in maniera da consentire al conservatore di rifiutare, ai sensi dell’art. 2674 c.c., di ricevere note e titoli e di eseguire la trascrizione di atti tra vivi contenenti dati identificativi degli immobili oggetto di trasferimento o di costituzione di diritti reali, non conformi a quelli acquisiti al sistema alla data di redazione degli atti stessi, ovvero, nel caso di non aggiornamento dei dati catastali, di atti non conformi alle disposizioni contenute nelle norme di attuazione dell’art. 2, commi 1-quinquies e 1-septies del d.l. 23 gennaio 1993, n. 16, convertito dalla legge 24 marzo 1993, n. 75.
E’ quindi piuttosto possibile inserire nella parte libera della nota di trascrizione informazioni pure diverse dagli identificativi catastali (essenzialmente allorché tali dati non si rivelino idonei, come quando la porzione immobiliare non sia ultimata o non risulti ancora censita o frazionata in catasto), che possano tuttavia rivelarsi utili, in un regime di pubblicità immobiliare su base personale, ai fini dell’opponibilità a terzi, nonché della validità della formalità eseguita, in maniera da far prevalere le esigenze della circolazione rispetto a quelle, pure rilevanti, della compiuta identificazione dei cespiti.”
Il ricorso è dunque ascolto e la causa rinviata ad altra sezione della stessa corte di appello per un nuovo esame alla luce dei principi esposti.
L’art. 2051 cod.civ. non è il grimaldello per ottenere sempre e comunque un risarcimento per danni occorsi in seguito a cadute accidentali, anche se nei Tribunali continuano ad abbondare controversie promosse da soggetti che asseriscono di essere inciampati in un gradino troppo alto oppure di essere scivolati nel vialetto condominiale in un giorno di pioggia.
Il primo caso è affrontato da Tribunale Massa 16 maggio 2018 e il secondo da Tribunale Pordenone 5 aprile 2018.
Due sentenze che pongono l’accento su un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità: deve essere dimostrato il nesso causale fra la cosa oggetto di custodia e l’evento e , soprattutto, la condotta colposa dell’agente integra il caso fortuito idonea ad interromperlo.
Insomma vale il vecchio adagio di guardare bene dove si posano i piedi, perché solo ciò che non è prevedibile con l’ordinaria diligenza o contiene comunque una intrinseca insidiosità può costringere il custode a risarcire il danno.
A proposito della caduta sul vialetto bagnato dalla pioggia il tribunale friulano afferma che : “In caso analogo a quello per cui è causa condivisibile giurisprudenza ha ritenuto che: “In tema di danno causato da cose in custodia, costituisce circostanza idonea ad interrompere il nesso causale e, di conseguenza, ad escludere la responsabilità del custode di cui all’art. 2051 cod. civ., il fatto della vittima la quale, non prestando attenzione al proprio incedere, in un luogo normalmente illuminato, inciampi in una pedana (oggettivamente percepibile) destinata all’esposizione della merce all’interno di un esercizio commerciale, con successiva sua caduta, riconducendosi in tal caso la determinazione dell’evento dannoso ad una sua esclusiva condotta colposa configurante un idoneo caso fortuito escludente la suddetta responsabilità del custode” (Cass. 993/2009).
Nel caso di specie il sig. B. afferma di essere caduto nel vialetto del Condominio in cui risiedeva già da quattro mesi, sicché deve ritenersi che lo stesso fosse a conoscenza sia dello stato dei luoghi che della asserita “pericolosità” degli stessi in caso di precipitazioni piovose.
Il B., pertanto, consapevole delle condizioni metereologiche e del contesto in cui si inseriva il vialetto e considerate le caratteristiche esteriori dello stesso (l’incidente si sarebbe verificato, secondo quanto allegato, in pieno giorno e con condizioni di visibilità ottimali), avrebbe dovuto prestare particolare attenzione alla pavimentazione bagnata e prevedibilmente scivolosa.”
Per ciò che invece attiene alla caduta dovuta ad un gradino di diversa altezza il tribunale apuano rileva che: “Lo stato dei luoghi oggetto di causa è raffigurato da alcune fotografie, che peraltro rappresentano la scalinata della piscina comunale che non nasconde insidia di sorta, che è perfettamente visibile a chi la percorre e che – tuttavia – è ritenuta dalla attrice quale elemento generatore di danno per la differente altezza del suo ultimo gradino, su cui ella stessaasserisce di essere caduta.
Già tali elementi, in ossequio alla copiosa giurisprudenza sul punto (ampiamente richiamata dal convenuto nella propria difesa finale), consentono di escludere qualunque responsabilità dell’Ente proprietario dell’impianto, poiché non vi è dubbio che è onere del soggetto che percorra un tracciato perfettamente visibile adeguare il proprio passo alle caratteristiche del terreno: appare quantomeno bizzarro sostenere che la caduta sia ascrivibile alle caratteristiche del bene quando un utente mediamente accorto e diligente avrebbe semplicemente adeguato il proprio passo all’ostacolo concreto da superare, né si può ritenere che l’attrice si muovesse con una sorta di camminata presuntiva, sulla scorta dell’altezza degli scalini precedentemente superati, poiché era suo ovvio e intuitivo onere valutare il terreno dinanzi a sè e adeguare allo stesso la propria camminata. ..
La caduta, stando così i fatti e alla luce di quanto testè evidenziato, pare dunque ascrivibile ad una mancata attenzione o ad una inadeguata condotta in capo alla attrice.
In ogni caso, come si è rilevato, i testi non descrivono il dinamismo della caduta, hanno solo riferito di aver visto (o addirittura sentito) cadere la L. e di aver poi verificato che in quel punto vi è un gradino di diversa altezza, sicchè difetta anche prova adeguata sul nesso fra bene ed evento: su caso del tutto analogo, Cassazione Civile, sez. III, sentenza 21/03/2013 n° 7112…
Quel nesso tuttavia ben può essere mitigato, sino ad eliderlo completamente, dalla concorrenteresponsabilità dell’agente, condotta che laddove risultiidonea – come nel caso di specie – ad essere da sola causa dell’evento, esclude la responsabilità del custode…
L’elemento selettivo in base al quale limitare la portata dell’art. 2051 c.c. riguarda pertanto, esclusivamente, il nesso di causalità, essendo estraneo alla natura dell’imputazione il profilo del comportamento del custode.
Tuttavia, la prova del nesso causale si presenta particolarmente delicata nei casi in cui il danno non sia l’effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento (ad es. scoppio della caldaia, frana della strada etc.), ma richieda che al modo di essere della cosa si unisca l’agire umano ed in particolare quello del danneggiato, essendo essa di per sè statica ed inerte (cfr. Cass. 29.11.2006, n. 25243); pertanto, la buca nella strada, il tombino sporgente, il dislivello delle pertinenze stradali et similia non manifestano di per sè soli il collegamento causale – necessario ed ineliminabile – con la caduta del passante, ove questi non provi che lo stato dei luoghi presentava un’obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, la caduta.
In ipotesi di tal fatta, risultano dunque necessari ulteriori accertamenti quali la maggiore o minore facilità di evitare l’ostacolo, il grado di attenzione richiesto ed ogni altra circostanza idonea a stabilire se effettivamente la cosa avesse una potenzialità dannosa intrinseca, tale da giustificare l’oggettiva responsabilità del custode (cfr. Cass. 5.2.2013, n. 2660). Del resto, anche in relazione all’ipotesi di responsabilità gravante sul custode, la giurisprudenza ha più volte precisato che il comportamento colposo del danneggiato può – secondo un ordine crescente di gravità – atteggiarsi come concorso causale colposo, valutabile ai sensi dell’art. 1227 co. 1 c.c., ovvero addirittura giungere ad escludere del tutto la responsabilità del custode” (Tribunale Massa 16.6.2016 n. 623)”