legittimazione passiva dell’amministrazione: la cassazione ribadisce una portata ampia.

Una interessante pronuncia della suprema corte (Cass.Civ. sez.II ord.26 settembre 2018, n. 22911) ritorna sul tema della legittimazione passiva dell’amministratore di condominio, cassando una pronuncia della corte di appello di Milano che l’aveva ritenuta insussistente.

i fatti: “La “Nimma” s.r.l. ed H.M.E. G., comproprietarie dello stabile in (omissis) , e del cortile facente parte del predetto stabile, citavano a comparire dinanzi al tribunale di Milano il condominio del confinante edificio di piazzetta (omissis) , edificio una cui facciata insisteva su uno dei lati perimetrali del cortile.
Chiedevano accertarsi e dichiararsi che era stata costituita in favore del condominio convenuto solo ed esclusivamente una servitù di passaggio pedonale, che il condominio convenuto aveva posizionato nel cortile di loro proprietà bidoni dell’immondizia e sacchi di rifiuti di vario genere, che siffatta condotta costituiva violazione del loro diritto di proprietà; chiedevano quindi condannarsi il condominio a ripristinare lo status quo ante e a rimuovere tutto quanto era stato indebitamente collocato.”

il contenuto della pronuncia di appello: “Con sentenza n. 689/2014 la corte d’appello di Milano rigettava ambedue i gravami e compensava integralmente le spese del grado.
Premetteva la corte – per quel che rileva in questa sede – che la legittimazione passiva dell’amministratore del condominio si radica in quanto oggetto di causa sia un bene annoverabile tra quelli di cui all’art. 1117 cod. civ.; che entro questi termini nessuna limitazione si prefigura alla legittimazione passiva dell’amministratore condominiale per qualsivoglia azione anche di natura reale promossa contro il condominio.
Indi su tale scorta evidenziava che viceversa nella fattispecie il bene per il quale era controversia – l’area cortilizia – non costituiva un bene condominiale, ma un bene di proprietà esclusiva delle attrici, sicché era da disconoscere la legittimazione passiva del condominio, tanto più che l’uso improprio del cortile era da ascrivere ai singoli condomini.”

il principio di diritto espresso dalla corte di legittimità: “È sufficiente il riferimento all’insegnamento di questa Corte di legittimità – insegnamento puntualmente richiamato dalle ricorrenti – a tenor del quale, in tema di controversie condominiali, la legittimazione dell’amministratore del condominio dal lato passivo ai sensi dell’art. 1131, 2 co., cod. civ. non incontra limiti e sussiste, anche in ordine all’interposizione d’ogni mezzo di gravame che si renda eventualmente necessario, in relazione ad ogni tipo d’azione, anche reale o possessoria, promossa nei confronti del condominio da terzi o da un singolo condomino (trovando ragione nell’esigenza di facilitare l’evocazione in giudizio del condominio, quale ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini) in ordine alle parti comuni dello stabile condominiale, tali dovendo estensivamente ritenersi anche quelle esterne, purché adibite all’uso comune di tutti i condomini (cfr. Cass. 4.5.2005, n. 9206).

Evidentemente l’ampia proiezione, segnatamente in ordine alla nozione “parti comuni (…) adibite all’uso di tutti i condomini”, del testé menzionato insegnamento sgombera il campo dalle perplessità prospettate dal condominio controricorrente (“davvero non pare sostenibile che la sentenza n. 9206/2005 (…) abbia affermato che vi sia legittimazione passiva di un condominio (…) anche quando la vertenza investa aree appartenenti a terzi, ove le stesse siano utilizzate, anche solo in via di fatto, dai condomini”: così memoria del controricorrente, pag. 3).

Per altro verso questo Giudice del diritto spiega che la legittimazione passiva dell’amministratore di condominio sussiste, con riguardo ad azioni negatorie e confessorie di servitù, anche nel caso in cui sia domandata la rimozione di opere comuni o la eliminazione di ostacoli che impediscano o turbino l’esercizio della servitù medesima, non rendendosi necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei condomini (cfr. Cass. 21.1.2004, n. 919).

Evidentemente l’indicazione giurisprudenziale testé riferita rileva viepiù nel caso de quo, caso nel quale è stata sollecitata la rimozione di res agevolmente amovibili.
In accoglimento e nei limiti del primo motivo di ricorso la sentenza n. 689 dei 28.1/18.2.2014 della corte d’appello di Milano va cassata con rinvio ad altra sezione della stessa corte d’appello.
All’enunciazione – in ossequio alla previsione dell’art. 384, 1 co., cod. proc. civ. – del principio di diritto – al quale ci si dovrà uniformare in sede di rinvio – può farsi luogo per relationem, nei medesimi termini espressi dalla massima desunta dagli insegnamenti di questa Corte (il riferimento è a Cass. n. 9206/2005; Cass. n. 919/2004) dapprima citati.
In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.”

© massimo ginesi 28 settembre 2018

condominio e compossesso: una materia assai complessa in una recentissima pronuncia della Cassazione.

Una lite  sorta in quel di Savona e relativa ad una strada antistante il fabbricato condominiale, oggetto di scavi per la posa dei tubi, ,  approda in cassazione ed offre alla suprema Corte lo spunto per esaminare la materia del compossesso, quando dello stesso si debba riflettere in ambito condominiale.

i fatti: “Il giudizio trae fondamento dalla domanda possessoria proposta da Ge.Bo.Bi.Gi. il 26 marzo 1993 nei confronti del Condominio (…) per ottenere la sospensione delle opere iniziate dal convenuto ed il ripristino del transito con autovetture sulla strada privata di accesso al Condominio, strada che l’attore assumeva essere rimasta di sua proprietà a seguito dell’originario frazionamento dell’unico terreno in due lotti, uno destinato all’edificazione del Condominio, l’altro alla costruzione della confinante villa del signor G.B.B. .
La domanda venne accolta dal Tribunale di Savona, sezione distaccata di Albenga, con sentenza del 24 febbraio 2007, ordinandosi al Condominio (…) la eliminazione della turbativa possessoria, consistente, in particolare, nei lavori di inserimento della tubazione di una fognatura.
Sull’appello del Condominio (…), la Corte di Genova affermò: 1) che il mappale 253, identificante la strada in contesa, risultasse dai certificati catastali intestato a Ge.Bo.Bi.Gi. ; 2) che del pari dai titoli di proprietà allegati, concernenti le singole unità immobiliari comprese nell’edificio condominiale, non emergesse l’alienazione pro quota della strada; 3) che neppure il regolamento del Condominio (…), depositato da Ge.Bo.Bi.Gi. presso un notaio il 30 ottobre 1949, indicava la strada privata tra le parti comuni; 4) che i testimoni R. , A. , C. avevano dichiarato che era il G.B.B. ad occuparsi della manutenzione della strada, pur essendo le relative spese poi ripartite dal Condominio che ne faceva in concreto uso; 5) che perciò l’iniziale tracciato della fognatura condominiale non passava sotto il sedime della strada in questione, appunto non di proprietà né nel possesso del Condominio”

Cass. civ. sez.II   25 settembre 2018, n. 22642 rel. Scarpa chiarisce che Legittimato a proporre l’azione di manutenzione ex art. 1170 c.c. è il possessore (non anche il detentore), dovendosi comunque ricollegare la presunzione di possesso ex art. 1141 c.c. ad un potere di fatto sulla cosa che si manifesti, al momento delle molestie, in attività corrispondenti all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale.

La Corte di Genova, nell’ambito dell’apprezzamento di fatto rientrante, a norma dell’art. 116 c.p.c., nelle prerogative del giudice di merito, ha ritenuto dimostrato il possesso esclusivo della strada in capo a Ge.Bo.Bi.Gi. , il quale si occupava della sua manutenzione provvedendo ad apporvi paletti e segnaletica, nonché alla pulizia, pur aggiungendo che le spese di manutenzione fossero poi sostenute dal Condominio, il che “ben si giustificava con la indubbia circostanza che, servendo detta strada anche e soprattutto per l’accesso al Palazzo (…), erano proprio i condomini a fare maggior uso di detta striscia di terreno”.

Tale asserto della sentenza impugnata giustifica allora la allegazione del Condominio ricorrente, secondo cui i condomini avrebbero sempre sopportato, in relazione al bene in contesa, gli oneri afferenti alla comproprietà e, conseguentemente, esercitato a tale titolo il loro compossesso.

Questa “indubbia circostanza che, servendo detta strada anche e soprattutto per l’accesso al Palazzo (…), erano proprio i condomini a fare maggior uso di detta striscia di terreno” si pone, cioè, irriducibilmente in contrasto con la successiva affermazione esposta in motivazione circa l’assenza di ogni possesso della strada da parte del Condominio, non essendo spiegato quale diverso titolo giustificasse il potere fattuale di detenzione della strada esercitato dai condomini, in maniera da superare la presunzione di possesso ex art. 1141 c.c..

Ove, come nella specie, sia fornita la prova del possesso di colui che sostiene di essere stato molestato, come anche del convenuto in manutenzione, l’esame dei titoli di proprietà può poi essere consentito soltanto “ad colorandam possessionem”, cioè al solo fine di individuare il diritto al cui esercizio corrisponde il possesso o di determinare meglio i contorni del possesso già altrimenti dimostrato, e non certo per ricavare la prova del possesso dal regime legale o convenzionale del diritto reale corrispondente, né per escludere l’esistenza del già accertato potere di fatto sulla cosa (Cass. Sez. 2, 22/02/2011, n. 4279; Cass. Sez. 2, 27/12/2004, n. 24026).

È ancora la stessa sentenza impugnata ad affermare che dall’esame della documentazione prodotta la strada oggetto di lite fosse “destinata a servire per l’accesso al palazzo (…)”, e pure i controricorrenti espongono che agli acquirenti degli alloggi venne appunto riconosciuto il “diritto di transito”.

Nella sentenza della Corte di Genova non è invece spiegato se le opere eseguite dal Condominio R. sulla strada eccedessero rispetto all’estensione ed alle modalità di esercizio del possesso di tale servitù di passaggio, determinando un nuovo peso imposto sul fondo servente.

Come da questa Corte sostenuto in un risalente (ma tuttora condivisibile) precedente, qualora tra le parti in causa sia pacifico che una di esse sia nel compossesso di un fondo e controverso ne sia soltanto il titolo (comproprietà ovvero servitù di passaggio), non può il giudice ritenere d’ufficio non provato il compossesso stesso (Cass. Sez. 2, 19/07/1968, n. 2601); postulando, peraltro, il compossesso di più soggetti l’esercizio da parte degli stessi di attività corrispondente ad un medesimo diritto reale, onde non sono compossessori coloro che, rispettivamente, esercitino su un certo fondo l’uno il possesso corrispondente a un diritto di servitù prediale e l’altro il possesso corrispondente al diritto di proprietà (Cass. Sez. 2, 15/03/1968, n. 835).

Con riguardo all’utilizzazione del sottosuolo di un’area esterna ad un fabbricato condominiale, effettuata dal condominio per l’installazione di un impianto destinato all’uso comune, la configurabilità di uno spoglio o di una turbativa del possesso di un terzo (denunciabile con azione di reintegrazione o manutenzione) implica, piuttosto, l’esclusione di una situazione di compossesso dell’area medesima da parte del condominio (corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà e non di un mero diritto di servitù di passaggio), desumibile anche dalla destinazione funzionale del bene al soddisfacimento di esigenze di interesse comune, oltre che, ad colorandam possessionem, dalla sua inclusione, in difetto di titolo contrario, fra le parti comuni dell’edificio, nonché l’accertamento ulteriore che l’indicata utilizzazione ecceda i limiti segnati dalle concorrenti facoltà del compossessore, traducendosi in un impedimento totale o parziale ad un analogo uso da parte di questo ultimo.

D’altro canto, per verificare la natura condominiale della strada in questione, occorrerebbe piuttosto operare una valutazione dello stato effettivo dei luoghi ed un’indagine in ordine all’ubicazione dei beni, accertando se sussiste il collegamento strumentale, materiale o funzionale, ovvero la relazione di accessorio a principale ed il rapporto di pertinenza – che è il presupposto necessario del diritto di condominio – tra la strada ed il Condominio (…), tale da far insorgere l’applicabilità della presunzione di condominialità di cui all’art. 1117 c.c..

Di seguito, nel ricostruire la volontà pattizia in base ai titoli di acquisto, dovrebbe considerarsi unicamente il titolo costitutivo del Condominio (…) (e cioè il primo atto di frazionamento di una unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggette), dovendo da esso risultare, in contrario alla presunzione di condominialità, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente la proprietà di detta strada al venditore o a terzi. Ai fini dell’accertamento della proprietà privata o condominiale ex art. 1117 c.c. della strada, non assume viceversa carattere dirimente il regolamento di condominio, non costituendo esso un titolo di proprietà (così Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012).

Conseguono l’accoglimento del ricorso e la cassazione dell’impugnata sentenza nei limiti delle censure accolte, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Genova, la quale deciderà al riguardo uniformandosi ai richiamati principi ed attenendosi ai rilievi svolti”

copyright massimo ginesi 27 settembre 2018

impugnazione di delibera ed interesse ad agire

E’ noto che, ancor prima di verificare se sussistano gli elementi costitutivi della domanda, il giudice debba verificare se sussiste interesse della parte ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c., ovvero se sussista un interesse oggettivamente valutabile della parte ad ottenere tutela processuale con riguardo alla situazione dedotta in giudizio.

Con particolare riferimento alla impugnativa di delibere annullabili, si ritiene pacificamente che l’adozione da parte del condominio di nuova decisione sul punto controverso – dopo la proposizione della domanda  -comporti cessazione della materia del contendere, mentre è plausibile ritenere che – ove la delibera venga assunta prima che il condomino proponga impugnativa – sussista carenza di interesse ad agire nei riguardi di un atto viziato e già sanato (o sostituito da altro legittimo).

Trib. Massa 21 settembre 2018 n. 651  affronta il tema con riferimento alla impugnativa di delibera relativa alla nomina di amministratore,  assunta pacificamente con maggioranze inidonee ex art 1136 comma II c.c.

L’immotivata resistenza del condominio nella lite e la mancata adesione alla mediazione comportano condanna del convenuto per lite temerararia e al versamento di somma pari al contributo unificato in favore dell’erario.

Nella sentenza si osserva “ Risulta pacifico fra le parti che in assemblea successiva a quella oggetto di impugnativa l’amministratore sia stato ritualmente nominato, così come risulta per tabulas che all’assemblea del 30.1.2014, oggetto della odierna impugnativa, costui fosse stato nominato con una maggioranza inferiore al valore millesimale prescritto dall’art 1136 comma II c.c.

Ne consegue che quel deliberato era annullabile  ed impugnabile dai dissenzienti e dagli assenti (tra cui l’attrice) nel termine di trenta giorni ai sensi dell’art. 1137 c.c.

Se l’assemblea successiva, che legittimamente intervenga sul punto oggetto di doglianza, è certamente idonea a far cessare la materia del contendere, lasciando impregiudicato l’aspetto della c.d. soccombenza virtuale nella causa medio tempore promossa, non può non ritenersi che la stessa sia idonea ad incidere sull’interesse ad agire ex art 100 c.p.c. come sostiene parte convenuta, salvo che la delibera intervenga prima della promozione del giudizio, evenienza non riconducibile al caso in esame.

Nessun rilievo può avere, sotto tale profilo, la circostanza che la domanda sia stata proposta una volta ricevuto l’avviso di convocazione della successiva assemblea, evento che non contiene alcun elemento idoneo a far cessare la materia di contesa, ben potendo la successiva riunione non costituirsi, non deliberare legittimamente e rimanendo comunque impregiudicato il diritto e l’interesse del condomino a far accertare in sede giudiziale l’annullabilità della delibera assunta con maggioranze inferiori a quelle di legge, onde non far consolidare deliberati viziati e ciò  fino a quando tale delibera non sia sostituita da un atto legittimo di identico rilievo…

Non vi è invece alcun dubbio che costituisca interesse del condomino veder annullata la delibera viziata di nomina dell’amministratore, in quanto atto idoneo ad incidere sul suo rapporto con il Condominio (Cass. civ. sez. VI, 10/05/2013,  n. 11214).

Va osservato dunque che, al momento della sua proposizione, la domanda di parte attrice si prefigurava legittima e suscettibile di essere accolta, di talchè, secondo il principio della soccombenza virtuale, le spese devono essere poste a carico di parte convenuta; tenuto conto della sostanziale modestia del contendere, della pacificità e scarsa complessità delle questioni giuridiche affrontate e della lieve attività istruttoria svolta,  vengono liquidate secondo i valori minimi di scaglione e applicata la diminuzione del 30% per assenza di specifiche questioni di fatto e diritto, ex art. 4, comma 4 D.M. 55/2014 .

Deve ancora rilevarsi come il condominio abbia pervicacemente resistito in controversia di rilievo bagatellare ed abbia anche rifiutato di proseguire nella mediazione, come risulta dal verbale 30 luglio 2015 prodotto in atti, circostanze che – anche alla luce della pacificità dei diritti controversi secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità –  comportano condanna ex art. 96 comma III c.p.c. (che si stima equo commisurare in misura prossima alla metà delle spese liquidate)  ex art. 8, comma 4 bis, D.Lgs. n. 28/2010.”

© massimo ginesi 25 settembre 2018

mediazione concordata: il giudice deve concedere termine per darvi corso

Ove le parti abbiano inserito nel contratto una clausola che impone il preventivo esperimento di mediazione , pur trattandosi di materia in cui tale mezzo non è considerato obbligatorio dalla legge, il giudice di fronte al quale sia instaurata controversia relativa a quel contratto dovrà concedere termine per l’avveramento della condizione di procedibilità, ove la parte convenuta avanzi eccezione in tal senso.

E’ quanto stabilisce Trib. Bologna ord. 25 giugno 2018:  

La prima eccezione di improcedibilità, reiterata anche in sede di conclusioni finali, si fonda sull’art. 13, commi 1° e 2° del contratto 20 dicembre 2013, a norma del quale <> (il 3° comma prevede la <>, in caso di <>, di chiedere allo stesso organismo di mediazione <>).
L’articolo 13 del contratto inter partes va qualificato come clausola di mediazione.

Si applica dunque l’art. 5, 5° co., d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 nel testo come modificato dall’art. 84, comma 1 lettera e), d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013, n. 98) che, in sostanza, ha riprodotto il testo previgente, quale risultante dalla declaratoria di incostituzionalità pronunciata da Corte cost., 6 dicembre 2012, n. 272, e ha aggiunto le parole <>.

L’art. 5, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, rubricato <>, così dispone al comma 5°: ‘Fermo quanto previsto dal comma 1-bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, se il contratto, lo statuto ovvero l’atto costitutivo dell’ente prevedono una clausola di mediazione o conciliazione e il tentativo non risulta esperito, il giudice o l’arbitro, su eccezione di parte, proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo il giudice o l’arbitro fissa la successiva udienza quando la mediazione o il tentativo di conciliazione sono iniziati, ma non conclusi. La domanda è presentata davanti all’organismo indicato dalla clausola, se iscritto nel registro, ovvero, in mancanza, davanti ad un altro organismo iscritto, fermo il rispetto del criterio di cui all’articolo 4, comma 1. In ogni caso, le parti possono
concordare, successivamente al contratto o allo statuto o all’atto costitutivo, l’individuazione di un diverso organismo iscritto’.

La previsione relativa alla mediazione obbligatoria per volontà delle parti non è stata oggetto diretto della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata da Corte cost., 6 dicembre 2012, n. 272 (commentata, sotto il profilo qui rilevante, in Giur. it., 2013, 894), salvo il riflesso sull’inciso iniziale <> (v. ora il testo vigente, sopra richiamato)

L’art. 5, 5° co., d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 è stato oggetto di differenti interpretazioni in dottrina e giurisprudenza, in particolare quanto agli effetti dell’omesso esperimento del procedimento di mediazione (cfr. ad es. Trib. Roma, sez. VIII, 4 novembre 2017, n. 20690, sentenza che ha dichiarato l’improcedibilità della domanda; Trib. Milano, 18 luglio 2016, secondo cui l’omesso esperimento del tentativo di conciliazione contrattualmente previsto non comporta improcedibilità della domanda; Trib. Taranto, sez. I, 22 agosto 2017; Trib. Ragusa, 1 dicembre 2017, in materia locatizia, che ha ritenuto assorbita la questione riguardante la clausola di mediazione a fronte del provvedimento del giudice che, ravvisata una ipotesi di mediazione obbligatoria, aveva assegnato il termine di quindici giorni per esperire la mediazione; in tema di mediazione obbligatoria v. invece Cass., sez. III, ord. 13 aprile 2017, n. 9557; a proposito di tentativo obbligatorio di conciliazione, con riferimento ad un caso particolare, e procedimento per decreto ingiuntivo, v. Cass., sez. III, 14 dicembre 2016, 25611 o anche Cass., sez. III, ord. 21 settembre 2017, n. 22017 che richiama il noto precedente Cass., sez. III, 3 dicembre 2015, n. 24629).

Per quanto rileva in questa fase del processo, non risultando <>, ossia non essendo stato esperito il procedimento di mediazione (cfr. la simile, ma non identica, formula prevista dall’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28) e a fronte della tempestiva eccezione sollevata (e non rinunciata) dalla convenuta, va assegnato alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione, così come prescritto dall’art. 5, 5° co., d.lgs. cit.”

copyright massimo ginesi 24 settembre 2018

l’amministratore che resiste in giudizio senza informare l’assemblea può essere condannto a rimborsare al condominio le spese.

E’ quanto ha stabilito Tribunale Roma, sez. V, 21/08/2018,  n. 16596 in un’ articolata sentenza relativa ad una causa promossa dal condominio nei confronti dell’amministratore che – a fronte di infiltrazioni protratte per lungo tempo nell’appartamento di uno dei condomini – aveva resistito in giudizio con esisti infausti per il condominio,  senza informare l’assemblea e costituendosi in proprio nella sua qualità di avvocato.

Con riguardo ai danni promananti da parti comuni dell’edificio condominiale è pacificamente individuata la figura del custode in capo al condominio.

L’amministratore può rispondere non già tout court come custode ma per violazione contrattuale ove non abbia posto in essere quanto avrebbe potuto per impedire la causazione o l’aggravamento del danno.

Nel caso di specie, le infiltrazioni erano pregresse ma perduranti: posto che non risulta possibile determinare compiutamente in quali momenti esse si siano verificate, appare equo ritenere che la causazione delle stesse e l’aggravamento dei danni debbano essere poste a carico solo per 2/3 al A.M., per come liquidate nella ATP di cui alla causa F./Condominio e quindi per l’importo di euro 12.516,66.

Quanto al secondo profilo, è patente la violazione da parte dell’amministratore dell’obbligo di riferire delle lettere di diffida da parte del F., della problematica in atto relativa alla mancata ultimazione di tali lavori, della citazione ricevuta e molto grave è che lo stesso si sia costituito in giudizio senza mandato assembleare né successiva ratifica, privando l’assemblea della legittima scelta se transigere o resistere alla citazione.

Orbene, al fine di valutare la sussistenza del nesso causale tra la violazione dell’obbligo di informare il Condominio della diffida e poi dell’atto di citazione del F. e la costituzione del A.M. nella sua qualità di avvocato nella detta causa in mancanza di autorizzazione dell’assemblea, pare sottolineare come, nel diverso ambito della responsabilità dell’avvocato, si sia affermato che il professionista, nel suo rapporto con il cliente, è tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole, dimostrando l’assolvimento del dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno di iniziare un processo o intervenire in giudizio (così la recente Cass. del 19/04/2016, n. 7708).

D’altro conto la verifica della diligenza dell’avvocato (ed in questo caso dell’amministratore che decide autonomamente di costituirsi in giudizio) nell’espletamento dell’obbligazione – che è di regola di mezzi e non di risultato – va compiuta attraverso un giudizio prognostico circa l’attività astrattamente esigibile dal legale tenendo conto della adozione di quei mezzi difensivi che, al momento del conferimento dell’incarico professionale e, quindi, dell’instaurazione del giudizio, dovevano apparire funzionali alla migliore tutela dell’interesse della parte dal medesimo difesa (Cassazione civile, sez. II, 08/09/2015, n. 17758). E’, dunque, configurabile imperizia del professionista allorché questi ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità, mentre la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito “ex ante” e non “ex post”, sulla base dell’esito del giudizio, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità – in astratto, o con riferimento al caso concreto – tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente (così la recente Cass. del 10/06/2016, n. 11906). L’affermazione della responsabilità del difensore, di conseguenza, non può essere desunta de plano dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, dal momento che il professionista non può garantire l’esito favorevole della lite.

Posto che la presenza delle infiltrazioni era circostanza nota ed aveva determinato l’aggiudicazione in ben due occasioni di lavori di rifacimento del lastrico a terrazza, che mai era stata contestata l’origine delle infiltrazioni dal bene comune, che vi era stata anche una perizia assicurativa che aveva affermato la causa delle infiltrazioni a carico del condominio, era ben difficile ipotizzare che il Condominio uscisse vittorioso da detta lite, senza peraltro validamente chiamare in giudizio le due imprese aggiudicatarie dei lavori. Non risulta, tra l’altro, che nelle more siano state rimborsate al F. le spese relative al ripristino dell’immobile danneggiato, neppure nella minor somma richiesta in data 14.07.2009 di euro 3000: pertanto, quantomeno in relazione a detto obbligo di ripristino mai attuato, il Condominio non poteva che essere condannato.

Inoltre, come giustamente osservato dal Giudice nella sentenza F./Condominio n. 14324/14 Tribunale di Roma (allegata al doc. 13 di parte attrice), non poteva sostenersi l’esonero da responsabilità del Condominio per essere la disponibilità del bene nelle mani delle due imprese, dovendosi in tal caso provare che i lavori erano stati ininterrotti e comunque rimanendo in capo al committente il controllo dello svolgimento dei lavori.

Invero, il A.M., nella sua veste di amministratore ha precluso all’assemblea di autodeterminarsi in merito all’opportunità di coltivare la lite ed ha esposto il Condominio alla certa condanna per le spese legali per l’importo di euro 3200, nonché per le spese di CTU e Ct di parte, per importo non individuato.

Pertanto, il A.M. sarà tenuto a rimborsare ai condomini odierne parti attrici, i 2/3 della quota parte corrisposta da ognuno di loro per il risarcimento del danno e dall’intero per le spese di lite.

Il A.M. restituirà a ciascuna parte, secondo il piano di riparto, i 2/3 dell’importo corrispondente al risarcimento del danno comprensivo del danno emergente e l’intera parte dell’importo corrispondente alla liquidazione delle spese di lite liquidate.”

© massimo ginesi 21 settembre 2018

Tribunale di Roma: in assenza di consenso degli aventi diritto la registrazione della assemblea di condominio non può essere utilizzata in giudizio.

Una sentenza che non brilla per chiarezza ma che affronta un tema peculiare e assai sentito in tempi di telefonini e di strumenti che consentono  con facilità la registrazione sonora o visiva di eventi e conversazioni.

Tribunale di Roma, sentenza 3 luglio 2018, n. 13692 sembrerebbe affermare che la registrazione della assemblea è comunque consentita ma che l’utilizzo di quella regsitrazione sia invece vietato in assenza del consenso di tutti gli aventi diritto (ovvero dei partecipanti).

Una condomina impugna un deliberato assembleare, dolendosi di numerose irregolarità e per fondare i propri assunti produce in giudizio la registrazione della riunione. Il tribunale osserva che  “Con atto di citazione notificato in data 17.4.2014, la signora MCN ha convenuto in giudizio il Condominio di Piazza (…), chiedendo dì voler dichiarare la nullità ovvero l’annullabilità della delibera assembleare del 5.2.2014, previa sua sospensione.
L’attrice ha fondato la domanda su:
1. pretesa irregolarità della assemblea condominiale per falso materiale nella redazione del verbale;
2. mancanza di fogli firme e non intelligibilità delle effettive presenze;
3. sistema di voto delle deliberazioni inesistente o non regolare;
4. approvazione del bilancio presentato solo parzialmente e redatto secondo criteri non conformi;
5. stesura del verbale ad opera di persona diversa dal segretario non facente parte del condominio;
6. redazione del verbale con spazi bianchi riempiti successivamente.
Con richiesta di vittoria di spese, competenze ed onorari, oltre accessori di legge.
Si è costituito in giudizio il convenuto Condomino chiedendo il rigetto delle domande attrici che contestava analiticamente, poiché destituite di fondamento.
Nel prosieguo del giudizio, il Giudice precedente assegnatario, ha dichiarato il non luogo a provvedere circa la richiesta di sospensione della delibera impugnata, per avervi rinunciato parte attrice.
Successivamente, dopo la concessione dei termini di cui all’art. 183, VI comma, c.p.c., la causa, di natura documentale, veniva rinviata all’udienza deputata alla precisazione delle conclusioni ed indi rinviata per trattazione orale ex art. 281-sexies, con termine per note conclusive.
Le domande tutte dell’attrice non possono trovare accoglimento e sono da rigettare poiché infondate e/o non provate, rimanendo valida ed efficace la delibera impugnata.
Quanto al merito, si osserva che:
1. Il primo assunto si basa su quanto registrato senza previa autorizzazione da parte attrice in sede dell’impugnata assemblea dell’assise condominiale.

Al riguardo si osserva che ogni condomino ha diritto di chiedere all’amministratore che la riunione condominiale sia registrata.
La Corte di Cassazione ha anche chiarito che, ciascun partecipante ad una conversazione, sia essa una riunione di condominio o un colloquio tra amici, accetta il rischio di essere registrato (Cass. 18908/2011).

Inoltre, non si verifica la lesione alla privacy dei partecipanti, in quanto la registrazione non dà luogo alla «compromissione del diritto alla segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente appreso solo da chi palesemente vi partecipa o assiste» (Cass. S.U. 36747/2003).

È importante sottolineare però che nonostante ogni partecipante all’assemblea abbia il diritto di registrare durante l’assemblea, egli è tenuto a non divulgare il contenuto a terzi non presenti durante l’assemblea.

In questo caso si verificherebbe un reato (art. 167 D.Lgs. 196/2003), salvo il caso in cui si sia ottenuto il consenso alla divulgazione da parte di tutti i partecipanti all’adunanza o che la diffusione si renda necessaria per tutelare un proprio diritto.

Le norme giuridiche in merito a ciò sanciscono che la registrazione su nastro magnetico di una conversazione telefonica può costituire fonte di prova, a norma dell’art. 2712 cod. civile – colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta e che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, sempre che non si tratti di conversazione svoltasi tra soggetti estranei alla lite (Cass. 8219/1996; Cass. 122016/1993).

Ed infine va sottolineato che l‘autorità garante per la protezione dei dati personali nel vademecum “il condominio e la privacy”, a tal proposito, ha chiarito che l’assemblea condominiale può essere registrata, ma solo con il consenso informato di tutti i partecipanti.
Ipotesi diversa dal caso che ci occupa, ove la proponente non è stata autorizzata.
Ciò premesso e considerato non sembra raggiunto l’onere della prova che compete a parte attrice.”

VA rilevato che la pronuncia appare travisare il dictum dell’autorità garante, che vieta la sola videoregistrazione in assenza del consenso e si discosta da altre pronunce di merito che hanno invece ritenuto consentita la registrazione, previa rischiesta al presidente della assembela:  ” “… in assenza di puntuali disposizioni del regolamento contrattuale/condominiale, il presidente dell’assemblea non può discrezionalmente negare la registrazione fonografica, stante il diritto del singolo condomino di controllare il procedimento di formazione della volontà assembleare, al punto che il rifiuto del presidente può essere impugnato ex articolo 1137 del Codice civile, per vizio del procedimento assembleare»   Tribunale di Foggia 11.6.2009  e Tribunale di Bologna 25 marzo 1999, n. 596”.

© massimo ginesi 19 settembre 2018

parcheggi vincolati: le modalità di calcolo della integrazione del prezzo che compete al venditore.

Cass.Civ. sez.VI-2 ord. 12 settembre 2018 n. 22514 rel. Scarpa  chiarisce le modalità di calcolo della integrazione del prezzo che compete al costruttore che abbia trasferito l’immobile privo dell’area obbligatoriamente destinata a parcheggio.

E’ noto che la disciplina vincolistica stabilisce una integrazione ex lege della volontà delle parti, con riguardo alle aree che devono essere obbligatoriamente essere destinate a parcheggio negli edifici di  abitazione residenziale. Ove il costruttore ometta di trasferire detta area, riservandosene la proprietà, la volontà delle parti viene sopravanzata dal dettato normativo, sì che tale bene viene comunque trasferito in capo all’acquirente dell’unità abitativa. Tuttavia, a seguito di tale trasferimento ex lege, sorge in capo all’acquirente l’obbligo di versare il corrispettivo del bene inizialmente pretermesso: la corte, nell’ordinanza  in commento, indica le modalità di calcolo con cui deve essere individuato il prezzo dovuto.

Secondo consolidato orientamento di questa Corte, ribadito altresì nella sentenza rescindente Cass. 1 agosto 2008, n. 21003, la sostituzione automatica della clausola che riservi al venditore la proprietà esclusiva dell’area destinata a parcheggio ai sensi dell’art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942, come introdotto dall’art. 18 della l. n. 765 del 1967, con la norma imperativa che sancisce il proporzionale trasferimento del diritto d’uso a favore dell’acquirente di unità immobiliari comprese nell’edificio, attribuisce al venditore, ad integrazione dell’originario prezzo della compravendita, il diritto al corrispettivo del diritto d’uso sull’area medesima, il quale ha la funzione di riequilibrare il sinallagma funzionale del contratto e, in difetto di pattuizione tra le parti, va determinato in base al prezzo di mercato, presumendosene la coincidenza con il prezzo normalmente praticato dall’alienante, cui occorre in tal caso riferirsi ex art. 1474, comma 1, c.c..

Nel determinare il prezzo normalmente praticato dall’alienante, al quale ci si deve rapportare ai sensi dell’art. 1474, comma 1, c.c., corrispondente, appunto, a quello di mercato, occorre far riferimento al tempo della conclusione del contratto (nella specie, 21 gennaio 1971).

Il prezzo determinato ai sensi dell’art. 1474, comma 1, c.c. ha natura di debito di valuta, con conseguente applicabilità della disciplina dettata dall’art. 1277 c.c. e, in caso di ritardo nell’adempimento, della disciplina ex art. 1224, comma 2, c.c., per cui, al contrario di quanto compiuto dalla Corte d’Appello di Lecce, il liquidato corrispettivo del diritto d’uso sull’area non può essere suscettibile di automatica rivalutazione per effetto del processo inflattivo della moneta, né vanno accordati interessi con funzione compensativa sulla somma dovuta aumentata gradualmente nell’intervallo di tempo trascorso fra la conclusione del contratto e la liquidazione operata in sentenza (cfr. Cass. Sez. 2, 04/07/2017, n. 16411; Cass. Sez. 3, 06/09/2007, n. 18691; Cass. Sez. 2, 10/03/2006, n. 5160; Cass. Sez. 2, 01/08/2001, n. 10459; Cass. Sez. 2, 14/11/2000, n. 14731; Cass. Sez. U, 05/11/1996, n. 9631).”

© massimo ginesi 18 settembre 2018

ascensore e fondi terranei: il regime delle spese

una recente ordinanza della Corte di legittimità (Cass. civ. sez. VI-2 12 settembre 2018 n. 22157  rel. Scarpa)  richiama la disciplina della imputazione delle spese per la sostituzione dell’impianto di ascensore, con alcuni interessanti riferimenti alla valenza del regolamento condominiale sul tema.

Una condomina, proprietaria di un immobile al piano terra, si doleva che la corte d’appello di Roma non avesse tenuto in debito conto che il regolamento di condominio non prevedeva un obbligo di contribuzione dei proprietari dei fondi terranei alle spese di ascensore.

La Corte di Cassazione, con ampia motivazione, rileva che in realtà è la legge (ancor prima dell’espresso dettato letterale dell’art. 1124 cod.civ. novellato) a prevedere tale obbligo, che può essere derogato solo da una disposizione di natura contrattuale o da una delibera unanime, inesistenti nel caso di specie.

“Il costante orientamento interpretativo di questa Corte ha più volte affermato (nella vigenza della disciplina, qui operante, antecedente alla riformulazione dell’art. 1124 c.c. introdotta dalla legge n. 220 del 2012, ove espressamente si contempla l’intervento di sostituzione degli ascensori) che, a differenza dell’installazione “ex novo” di un ascensore in un edificio in condominio (le cui spese vanno suddivise secondo l’art. 1123 c.c., ossia proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condomino), quelle relative alla manutenzione e ricostruzione dell’ascensore già esistente vanno ripartite ai sensi dell’art. 1124 c.c. (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20713, non massimata; Cass. Sez. 2, 25/03/2004, n. 5975; Cass. Sez. 2, 17/02/2005, n. 3264).

Stante l’identità di ratio delle spese di manutenzione e di ricostruzione delle scale ex art. 1124 c.c. e delle spese relative alla conservazione e alla manutenzione dell’ascensore già esistente, deve dirsi che, al pari delle scale, l’impianto di ascensore, in quanto mezzo indispensabile per accedere al tetto ed al terrazzo di copertura, riveste la qualità di parte comune (tant’è che, dopo la legge n. 220 del 2012, esso è espressamente elencato nell’art. 1117 n. 3, c.c.) anche relativamente ai condomini proprietari di negozi o locali terranei con accesso dalla strada, poiché pure tali condomini ne fruiscono, quanto meno in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell’edificio, con conseguente obbligo gravante anche su detti partecipanti, in assenza di titolo contrario, di concorrere ai lavori di manutenzione straordinaria ed eventualmente di sostituzione dell’ascensore, in rapporto ed in proporzione all’utilità che possono in ipotesi trarne (arg. da Cass. Sez. 2, 20/04/2017, n. 9986; Cass. Sez. 2, 10/07/2007, n. 15444; Cass. Sez. 2, 06/06/1977, n. 2328).

Come tutti i criteri legali di ripartizione delle spese condominiali, anche quello di ripartizione delle spese di manutenzione e sostituzione degli ascensori può essere derogato, ma la relativa convenzione modificatrice della disciplina legale di ripartizione deve essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si definisce “di natura contrattuale”), o in una deliberazione dell’assemblea che venga approvata all’unanimità, ovvero col consenso di tutti i condomini (Cass. Sez. 2, 04/08/2016, n. 16321; Cass. Sez. 2, 17/01/2003, n. 641; Cass. Sez. 2, 19/03/2010, n. 6714; Cass. Sez. 2, 27/07/2006, n. 17101; Cass. Sez. 2, 08/01/2000, n. 126).

Deve dirsi in tal senso corretta la decisione della Corte d’Appello di Roma, la quale ha escluso che la condomina B. potesse dirsi esonerata dalla spesa intimatale in sede monitoria, non avendo rinvenuto nel regolamento del Condominio (…) alcuna esplicita disciplina convenzionale che differenziasse tra loro gli obblighi dei partecipanti di concorrere agli oneri di manutenzione e sostituzione degli ascensori, attribuendo gli stessi secondo criteri diversi da quelli scaturenti dall’applicazione degli artt. 1124, 1123, 1117 e 1118 c.c.

È perciò evidente l’errore di prospettiva della ricorrente, la quale si duole nelle sue censure dell’interpretazione delle clausole del regolamento del Condominio (…) prescelta dalla Corte d’Appello, e contesta che non sia in esse ravvisabile il fondamento del suo obbligo di partecipazione alla spesa di sostituzione dell’ascensore, laddove il fondamento di tale obbligo discende, come visto, direttamente dalla legge, e le clausole regolamentari analizzate, secondo la plausibile interpretazione privilegiata dai giudici del merito, non contengono, al contrario, alcuna convenzione espressa che deroghi alla disciplina codicistica.”

La Corte richiama anche il consolidato orientamento che ritiene rilevabile la nullità della delibera nel giudizio di opposizone a decreto ingiuntivo, a differenza della annullabilità, che deve essere fatta valere unicamente entro i termini di cui alll’art . 1137 c.c. e che può avere incidenza nel giudizio di opposizone solo ove il giudice abbia internalmente sospeso l’efficacia del deliberato oppure sia inetrvenuta sentenza di annnullamento.

È da ribadire in premessa che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla annullabilità della delibera condominiale di approvazione dello stato di ripartizione. Tale delibera costituisce, infatti, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è, dunque, ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26629; da ultimo, Cass. Sez. 2, 23/02/2017, n. 4672).

Il giudice deve quindi accogliere l’opposizione solo qualora la delibera condominiale abbia perduto la sua efficacia, per esserne stata l’esecuzione sospesa dal giudice dell’impugnazione, ex art. 1137, comma 2, c.c., o per avere questi, con sentenza sopravvenuta alla decisione di merito nel giudizio di opposizione ancorché non passata in giudicato, annullato la deliberazione (Cass. Sez. 2, 14/11/2012, n. 19938; Cass. Sez. 6 – 2, 24/03/2017, n. 7741).

Questa Corte ha però anche chiarito, con orientamento che va ribadito, come nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali, il limite alla rilevabilità, anche d’ufficio, dell’invalidità delle sottostanti delibere non opera allorché si tratti di vizi implicanti la loro nullità, trattandosi dell’applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda (Cass. Sez. 2, 12/01/2016, n. 305).

Ora, una deliberazione adottata a maggioranza di ripartizione degli oneri derivanti dalla manutenzione di parti comuni, in deroga ai criteri di proporzionalità fissati dagli artt. 1123 e ss. c.c., va certamente ritenuta nulla, a differenza di quanto argomenta la Corte d’Appello in motivazione, occorrendo a tal fine una convenzione approvata all’unanimità, che sia espressione dell’autonomia contrattuale (Cass. Sez. 2, 16/02/2001, n. 2301; Cass. Sez. 2, 04/12/2013, n. 27233; Cass. Sez. 2, 04/08/2017, n. 19651).

La nullità di una siffatta delibera può, quindi, essere fatta valere anche nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione dei discendenti contributi condominiali, trattandosi di vizio che inficia la stessa esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa (esistenza che il giudice dell’opposizione deve comunque verificare) e che rimane sottratto al termine perentorio di impugnativa di cui all’art. 1137 c.c..”

art. 1127 cod.civ.: sopraelevazione e aspetto architettonico.

La corte di legittimità (Cass.Civ.  sez.VI-2 ord. 12 settembre 2018 n. 22156 rel. Scarpa)   ritorna sui differenti concetti di aspetto e decoro architettonico, cod.civ. riguardo alla tutela  accordata dal codice in caso di sopraelevazione: il nuovo corpo  – per essere lecito – deve  rispettare le linee estetiche del fabbricato, inserendosi armonicamente nel suo aspetto complessivo.

La vicenda riguarda la demolizione di una veranda in vetro e alluminio  realizzata sulla terrazza sommitale di un fabbricato romano, ritenuta dai giudici di merito illecita in quanto destinata ad alterare l’aspetto complessivo dell’edificio, pronuncia che ha resistito al vaglio della Cassazione, che ha osservato:

E’ noto come l’art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell’edificio che non la consentono, ovvero dall’aspetto architettonico dell’edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti.

L’aspetto architettonico, cui si riferisce l’art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l’intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.

Il giudizio relativo all’impatto della sopraelevazione sull’aspetto architettonico dell’edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile condominiale, e verificando l’esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato (cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2, 15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048; Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865;    Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).

D’altro canto, questa Corte ha anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l’una dall’altra, sicché anche l’intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. Sez. 6 – 2, 25/08/2016, n. 17350).

Ora, perché rilevi la tutela dell’aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell’art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che l’edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia.

Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento.

Ciò premesso, è agevole osservare che la Corte di Roma, riconoscendo — in conformità ai principi sopra ricordati – il carattere lesivo dell’aspetto architettonico della veranda realizzata da N. T., ha fornito una motivazione adeguata e pienamente condivisibile alla stregua del comune senso estetico, sottolineando come il manufatto disperda quella uniformità che attribuisce all’edificio un aspetto ancora ordinato e dignitoso.

La preesistenza di una veranda, oggetto di precedente giudizio, è stata correttamente ritenuta non determinante dalla Corte d’appello, perché essa non rende certamente ininfluenti gli ulteriori fatti lesivi e, quindi, non ne può costituire valida giustificazione.”

© massimo ginesi 14 settembre 2018