Una società stipula un contratto preliminare per l’acquisto di un fondo commerciale posto in condominio e, prima dell’atto di vendita, viene immessa nella disponibilità del bene. In questo periodo realizza opere che si rivelano illecite sotto il profilo condominiale e per le quali il Condominio agisce congiuntamente nei suoi confronti e del propritario del bene, ancora condomino.
Costui eccepisce di non essere legittimato passivo, tesi respinta dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Milano e confermata da Cass. civ. Sez. II 12 marzo 2018 n. 5915
Il Giudice di legittimità osserva: “il ricorrente contesta alla Corte d’appello di non avere, come il giudice di primo grado, valutato che al momento della proposizione della domanda egli non aveva più la detenzione di fatto o di diritto dell’immobile in quanto in ottemperanza al contratto preliminare, e poi definitivo di compravendita, i locali erano stati consegnati alla società Q., il che avrebbe dovuto portare i giudici di merito a escludere ogni sua legittimazione e/o titolarità passiva.
Il motivo è infondato. Il rapporto tra M. e l’immobile, lungi dall’essere stato omesso, è infatti stato considerato dalla Corte d’appello che – appunto valutando la eccepita carenza di legittimazione passiva di M. – ha osservato (cfr. in particolare le pp. 13-15 del provvedimento) che la qualità di possessore del bene non viene meno con la stipula di un contratto preliminare di compravendita e che ciò vale anche in dipendenza dell’immissione in possesso di altri soggetti, scindendo poi il profilo del difetto di legitimatio ad causam del ricorrente dalla diversa questione della titolarità degli obblighi ripristinatori e risarcitori (e quindi non soltanto ripristinatori come afferma invece M. nel ricorso) facenti a lui capo.”
E’ quanto afferma Cass. civ. sez. III 27 marzo 2018 n. 72527 con riguardo ad una vicenda in cui la rottura del contatore della rete idrica a servizio di un’unita immobiliare di proprietà esclusiva aveva cagionato gravi danni ad un esercizio condominiale posto al piano terra.
La corte rileva che, ove il contatore non si trovi all’interno della abitazione ma in parti comuni, non possa ravvisarsi una effettiva custodia da parte dell’utente e che la responsabilità del gestore del servizio va indiviuata in forza dell’art. 2043 c.c. e non già in forza dell’art. 2051 c.c., posto che neanche a costui può applicarsi la norma sulla custodia ma deve piuttosto ravvisarsi una sua negligenza nel non aver vigilato e predisposto adeguate cautele.
E’ quanto afferma Trib. Milano 25 gennaio 2018 n. 843 sulla scorta dell’art. 67 disp.att. cod.civ., novellato dalla L. 220/2012.
La sentenza definisce, respingendola, l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta dalla nuda proprietaria, sull’assunto che “l’art. 1026 c.c. prevede che le disposizioni relative all’usufrutto si applicano, in quanto compatibili, all’uso e all’abitazione, in relazione alle spese di manutenzione ordinaria che competono all’usufruttuario” ed osserva che
“A seguito dell’entrata in vigore della L. n. 220 del 2012, recante normativa di riforma del condominio, avvenuta in data 18/6/2013, il nuovo dettato dell’articolo 67 delle disposizioni di attuazione al codice civile introduce per la prima volta nel nostro ordinamento il principio della solidarietà tra il nudo proprietario e l’usufruttuario per il pagamento di tutti i contributi dovuti per spese condominiali, sia per spese straordinarie che per quelle ordinarie.”
Conclude dunque il Tribunale lombardo che per le spese maturate successivamente alla entrata in vigore della novella del 2012 ” Gli opponenti, pertanto, sono tenuti a rispondere in solido per il pagamento di tutti i contributi dovuti, senza alcuna distinzione tra spese ordinarie e straordinarie.
Ne ha alcun rilievo l’eccezione sollevata dalla sig.ra S. di non aver usufruito deldiritto di abitazione; non avendo rinunciato formalmente al suo diritto, sono dovuti i pagamenti a favore del condominio.
Deve quindi rigettarsi l’opposizione e confermarsi il decreto ingiuntivo opposto emesso dal Tribunale di Milano nei confronti dei sig.ri. B. e S., ben potendo gli stessi rivalersi in ripetizione l’uno nei confronti dell’altro.”
Anche ove il condominio inserisca nel contratto di appalto una clausola che imponga all’appaltatore di perseguire i soli condomini morosi, tale accordo non incide sulla legittimazione del condominio a riscuotere le quote, che rimane assolutamente integra e doverosa.
Lo afferma, in una condivisibile sentenza, Trib. Grosseto 8 marzo 2018 n. 249:
“Vale la pena osservare preliminarmente che il vincolo di esclusione della solidarietà passiva tra i condomini pattuito tra il Condominio e la società esecutrice dei lavori, non rileva in questa sede, atteso peraltro che il Condominio ha richiesto solo il pagamento delle spese di competenza di M.G. e non di altri condomini.
Inoltre, la stipula di un simile accordo non priva in alcun modo il Condominio, in persona del proprio amministratore pro tempore del potere/dovere di attivarsi per il recupero delle spese condominiali. È evidente come l’adesione ad una diversa opzione interpretativa finirebbe per porre a carico esclusivo della società che ha eseguito i lavori l’onere di attivarsi contro i condomini morosi. Sotto altro profilo deve altresì che già all’epoca di instaurazione del presente giudizio era ormai pacifica la natura parziaria delle obbligazioni condominiali (SS.UU. 9148/2008) la cui affermazione, peraltro, non ha mai avuto l’effetto di elidere la legittimazione del Condominio a far valere la pretesa creditoria.”
Meno condivisibile appare la pronuncia laddove, plausibilmente per una imprecisione di stesura, afferma che le tabelle millesima che non hanno contenuto negoziale si approvino con la maggioranza semplice, richiamando le sezioni unite 18477/2010: “Va, inoltre, evidenziato che è approdo ormai consolidato in giurisprudenza che relativamente all’approvazione delle tabelle millesimali, la deliberazione assembleare non ha natura negoziale e non è pertanto necessaria, contrariamente a quanto sostenuto dall’opponente l’unanimità, essendo sufficiente la maggioranza semplice (SS.UU. n. 18477/18478 del 2010).“
La suprema Corte nel 2010finalmente chiarì che le tabelle millesima hanno natura regolamentare e -ove non deroghino ai criteri previsti dagli arti. 1123 e s.s. – si approvano con la maggioranza prevista dall’art 1138 cod.civ., ovvero quella qualificata prevista dal secondo comma dell’art. 1136 cod.civ.
Il consuntivo condominiale, laddove in sede di ripartizione determina le somme dovute da ciascuno condomino, reca usualmente anche i saldi delle gestioni precedenti che Fano capo a ciascun partecipante.
Tale voce, in assenza di espresso riconoscimento dell’interessato, non costituisce elemento che il condominio può usare a proprio favore come le altre ordinarie portate dal consuntivo, che invece costituiscono dato probatorio idoneo ad ottenere decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 63 disp.att. cod.civ.
E’ prinpcio affermato di recente da Cass.Civ. sez II. ord. 22-02-2018, n. 4306 che ha confermato una decisione della Corte di appello di Genova
la vicenda processuale: ” La Corte distrettuale, con la decisione oggi gravata innanzi a questa Corte, in parziale riforma della sentenza inter partes in data 23 ottobre 2008 del Tribunale di Genova ed in parziale accoglimento dell’appello del Condominio stesso, condannava il P. al pagamento in favore del medesimo Condominio della somma di Euro 19.865,10.
In precedenza – va specificato, per completezza – il Tribunale del capoluogo ligure, a seguito di opposizione del P.G., aveva revocato il D.I. del 30 novembre 2004, con cui – su ricorso del Condominio – era stato ingiunto il pagamento della somma di Euro 23.812,07 a titolo di dovute spese condominiali arretrate.
In particolare va evidenziato che il Tribunale di prima istanza aveva accolto l’opposizione a D.I. per difetto della delibera di spesa (riapprovazione di consuntivo e non delibera ad hoc) nel mentre la Corte di Appello genovese – per effetto di nuova documentazione prodotta dal Condominio – aveva condannato, in parte, il condomino moroso.”
il principio di diritto: “Il motivo ripropone innanzi a questa Corte la problematica della questione della “rideliberazione delle spese”, in particolare con riguardo ai residui passivi, in relazione ai quali un tal genere di “rideliberazione” non sarebbe idonea a costituire prova del credito.
Viceversa il Condominio de quo contesta la soluzione di inidoneità della Corte distrettuale ritenendo che, ai sensi delle norme invocate col motivo qui in esame, vi sia comunque attribuzione di valore prescrittivo al consuntivo approvato dall’assemblea condominiale senza distinzione alcuna fra debiti dell’anno di esercizio in corso e debiti pregressi.
La questione è, nella sostanza, quella del valore probatorio attribuibile al riconoscimento, in sede di approvazione di bilancio condominiale, di debiti pregressi dei condomini: tale specifico riconoscimento è – in assenza di partecipazione e di idoneo atto ricognitivo del singolo condomino – riconoscimento/accertamento effettuato dal creditore condominio in proprio favore, quindi, come tale non utilizzabile a proprio favore dal condominio stesso.
Nella concreta fattispecie in esame, mancando ogni opportuna allegazione circa la partecipazione del P. all’assemblea di riapprovazione del bilancio con indicazione dei debito pregressi, deve ritenersi non sussistente la necessaria partecipazione ed il riconoscimento da parte del singolo condominio dei medesimi debiti.”
Non servirà osservare che il problema non si pone ove quei saldi risultino da somme ritualmente approvato negli esercizi precedenti, con l’avviso che tuttavia saranno quelle delibere a costituire prova e non quelle che procedono, successivamente, alla riapprovazione dei saldi di esercizio, di talchè – in sede di richiesta monitoria – sarà opportuno produrre tutte le delibere che si riferiscono agli esercizi in cui sono state approvate le somme richieste e ancora dovute dal condomino. .
Per alcune materie (individuate dal D.L. 132/2014) la negoziazione assistita costituisce condizione di procedibilità della relativa azione, così come la mediazione – ai sensi del dlgs 28/2010 – la i integra per le liti condominiali.
Il Tribunale di Verona con sentenza 28 febbraio 2018 ha ritenuto il-procedimento di negoziazione assistita contrario all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea e ha direttamente disapplicato la normativa.
Osserva il giudice scaligero che
i costi del procedimento, dovuti al necessario compenso degli avvocati coinvolti, lo renderebbe di fatto imprevedibilmente oneroso e, come tale, incompatibile con la disciplina europea
la tesi non è priva di suggestione, resta tuttavia da osservare che si presta ad analoga applicazione alla mediazione obbligatoria, posto che il contenimento dei costi per tale procedimento – cui fa riferimento la sentenza – attiene unicamente al compenso del mediatore mentre i difensori delle parti, essendo l’assistenza tecnica obbligatoria per le materie in cui la mediazione costituisce condizione di procedibilità, finisce per far parimenti lievitare i costi della ADR.
Interessantissima e significativa pronuncia della suprema Corte (Cass.Civ. sez.II 19 marzo 2018 n. 6769 rel. Scarpa) che affronta un tema per molti aspetti inedito e già oggetto di ordinanza interlocutoria.
La vicenda trae origine dalla controversia promossa da un condominio nei confronti di un proprietario e di un conduttore che avevano mutato l’utilizzo della unità immobiliare posta nel fabbricato, destinandola ad affittacamere, nonostante il regolamento di condominio prevedesse divieto in tal senso.
I convenuti eccepiscono solo in sede di precisazione delle conclusioni l’inopponibilità della clausola del regolamento, per difetto di trascrizione. Il Tribunale di Lucera e poi la Corte d’appello di Bari hanno ritenuto tardiva l’eccezione, qualificandola non come mera difesa ma quale eccezione in senso stretto.
Su tale tema pregiudiziale si focalizza la decisione della Cassazione, che rinvia al giudice di merito per nuova valutazione accogliendo il relativo motivo di ricorso: con ampia disamina la Corte evidenzia la natura della clausola che limiti il godimento del bene individuale posto in condominio, le modalità con cui deve esplicarsi la relativa pubblicità ai fini della opponibilità a terzi e la rilevabilità del difetto di trascrizione, ai fini della “giusta decisione”.
“Va innanzitutto confermato l’orientamento interpretativo cui è pervenuta questa Corte, nel senso che vada ricondotta alla categoria delle servitù atipiche la previsione, contenuta in un regolamento condominiale convenzionale, comportante limiti alla destinazione delle proprietà esclusive (quale appunto risulta, nella specie, l’invocato art. 5 del regolamento del Condominio P. F.), in modo da incidere non sull’estensione ma sull’esercizio del diritto di ciascun condomino.
Ne consegue che l’opponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti deve essere regolata secondo le norme proprie delle servitù e, dunque, avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, mediante l’indicazione, in apposita nota distinta da quella dell’atto di acquisto (in forza dell’art. 17, comma 3, della legge 27 febbraio 1985, n. 52), delle specifiche clausole limitative, ex artt. 2659, comma 1, n. 2, e 2665 e.e., non essendo, invece, sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale (Cass. Sez. 2, 18/10/2016, n. 21024; Cass. Sez. 2, 31/07/2014, n. 17493).
Non è, quindi, atto soggetto alla trascrizione nei registri immobiliari, ai sensi dell’art. 2645 cod.civ., il regolamento di condominio in sé, quanto le eventuali convenzioni costitutive di servitù che siano documentalmente inserite nel testo di esso.
Ove si tratti di clausole limitative inserite nel regolamento predisposto dal costruttore venditore, originario unico proprietario dell’edificio, con le note di trascrizione del primo atto di acquisto di un’unità immobiliare ivi compresa e del vincolo reale reciproco, si determina l’opponibilità di quelle servitù, menzionandovi tutte le distinte unità immobiliari, ovvero ciascuno dei reciproci fondi dominante e servente.
All’atto dell’alienazione delle ulteriori unità immobiliari, il regolamento andrà ogni volta richiamato o allegato e dovrà eseguirsi ulteriore trascrizione per le servitù che man mano vengono all’esistenza, fino all’esaurimento del frazionamento della proprietà originariamente comune.
In assenza di trascrizione, queste disposizioni del regolamento del regolamento, che stabiliscano i limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, valgono altrimenti soltanto nei confronti del terzo acquirente che ne prenda atto in maniera specifica nel medesimo contratto d’acquisto.
In mancanza, cioè, della certezza legale della conoscenza della servitù da parte del terzo acquirente, derivante dalla trascrizione dell’atto costitutivo, occorre verificare la certezza reale della conoscenza di tale vincolo reciproco, certezza reale che si consegue unicamente mediante la precisa indicazione dello ius in re aliena gravante sull’immobile oggetto del contratto.
Il quinto motivo di ricorso comporta, allora, la necessità di verificare come possa entrare nel processo la questione dell’inopponibilità delle servitù reciproche che siano contenute nel regolamento di condominio, ma non indicate in apposita nota di trascrizione.
Questa Corte, in alcuni precedenti, per lo più remoti, aveva affermato che il difetto di trascrizione di un atto non sarebbe fatto rilevabile d’ufficio, costituendo, piuttosto, materia di eccezione riservata alla parte che dalla mancata trascrizione pretenda di ricavare conseguenze giuridiche a proprio favore (si vedano Cass. Sez. 2, 27/05/2011, n. 11812; Cass. Sez. 2, 18/02/1981, n. 994; Cass. Sez. 2, 11/10/1969, n. 3288).
Nel caso in esame, peraltro, le convenute, ed attuali ricorrenti, M. C. s.a.s. e La B. s.n.c., interessate a far valere la mancata trascrizione della clausola di cui all’art. 5 del regolamento del Condominio P. F., avevano svolto un’eccezione in tal senso, ma soltanto in sede di comparse conclusionali.
La Corte d’Appello di Bari, come già il Tribunale di Lucera, hanno sostenuto che una tale eccezione fosse tardiva, in quanto “eccezione in senso stretto”.
La decisione dei giudici del merito non tiene però conto dell’orientamento, ormai consolidatosi, che questa Corte ha elaborato a seguito di Cass. Sez. U, 27/07/2005, n. 15661, secondo il quale nel nostro sistema processuale le eccezioni in senso stretto, cioè quelle rilevabili soltanto ad istanza di parte, si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto integratore dell’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e, quindi suppone il tramite di una manifestazione di volontà della parte per svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico (Cass. Sez. 3, 30/06/2015, n. 13335; Cass. Sez. 3, 05/08/2013, n. 18602; Cass. Sez. 3, 24/11/2009, n. 24680).
Più di recente, Cass. Sez. U, 07/05/2013, n. 10531, dando il giusto rilievo alla distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato in ordine alle regole di allegazione e prova, ha poi ulteriormente chiarito che il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati “ex actis”, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, valore che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto.
Ha osservato la sentenza n. 10531 del 2013 delle Sezioni Unite che, ove si ritenesse che le eccezioni in senso lato siano pur sempre “da allegare e provare entro il limite delle preclusioni istruttorie”, il regime di esse verrebbe quasi a coincidere con quello delle eccezioni in senso stretto, restando solo la differenza in ordine alla anticipata rilevazione di queste ultime in comparsa di risposta.
Da ultimo, Cass. Sez. U, 03/06/2015, n. 11377, ha concluso che “tutti i fatti estintivi, modificativi od impeditivi, siano essi fatti semplici oppure fatti-diritti che potrebbero essere oggetto di accertamento in un autonomo giudizio, sono rilevabili d’ufficio, e dunque rappresentano eccezioni in senso lato; l’ambito della rilevabilità a istanza di parte (eccezioni in senso stretto) è confinato ai casi specificamente previsti dalla legge o a quelli in cui l’effetto estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all’esercizio di un diritto potestativo oppure si coordina con una fattispecie che potrebbe dar luogo all’esercizio di un’autonoma azione costitutiva”.
Tali considerazioni inducono ad affermare che il potere-dovere del rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non può dirsi subordinato alla posizione difensiva assunta dal convenuto rispetto alla domanda, ovvero alla verifica della proposizione, ad opera della parte legittimata a contraddire, di contestazioni specifiche, rimanendo altrimenti vanificata, pur in difetto di un esclusivo diritto potestativo dei contendenti in ordine alla definizione del tema di lite, la finalità primaria del processo costituita dalla giustizia della decisione.
Sulla base del richiamato quadro giurisprudenziale, non vi è più ragione, come già si sosteneva da parte della dottrina, per ritenere il difetto di trascrizione di un atto (nella specie, di un regolamento di condominio) quale fatto impeditivo dell’apponibilità di esso, affidato, in quanto tale, unicamente all’espressa e tempestiva eccezione della parte interessata.
Deve quindi enunciarsi il seguente principio di diritto: “La questione relativa alla mancata trascrizione di una clausola del regolamento di condominio, contenente limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, ed alla conseguente inopponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti, non costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto, quanto di un’eccezione in senso lato, sicché il suo rilievo non è subordinato alla tempestiva allegazione della parte interessata, ma rimane ammissibile indipendentemente dalla maturazione delle preclusioni assertive o istruttorie”.
E’ quanto ha stabilito il TAR Bolzano sez. I 22 febbraio 2018 n. 62: ove il singolo proceda ad installare – senza titolo urbanistico – sulla facciata condominiale una canna fumaria a servizio della propria unità che, per tipologia e dimensioni esca dai parametri previsti dall’art. 1102 cod.civ., potrà ottenere sanatoria solo ove alleghi il consenso di tutti i condomini.
“Ritenendo che la canna fumaria, realizzata sulla facciata dell’edificio, costituisse un intervento impattante sull’estetica dell’immobile p.ed. (omissis), il Comune, nel richiedere con lettera dd. 5.3.2015, n. prot. 16887 l’integrazione della documentazione prodotta, chiedeva anche la produzione del consenso unanime dei condomini proprietari dell’edificio in argomento.
A tale richiesta l’interessata forniva risposta con lettera dd. 30.3.2015, dando dimostrazione del consenso da parte dei condomini proprietari nella percentuale, su base millesimale, dei 2/3 dell’intera proprietà della p.ed. (omissis) anziché, come richiesto dal Comune, del consenso unanime degli stessi.
In carenza di un tanto, il Comune, con lettera dd. 13.04.2015, n. prot. 19669, comunicava alla R. G. S.r.l. i motivi ostativi al rilascio della concessione in sanatoria”
…
“Osserva il Collegio che l’impugnato provvedimento di rigetto si fonda sul presupposto che “L’installazione della canna fumaria per dimensioni e struttura, risulta essere intervento in facciata lesivo del decoro architettonico dell’edificio, necessitando del consenso condominiale all’unanimità dei comproprietari, non prodotto. La modifica dell’utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale, che vede nell’installazione di un impianto tecnico e soprattutto, per quanto qui rilevante, di una canna fumaria un presupposto indispensabile, è conseguentemente respinta. Parimenti e per le stesse motivazioni respinta l’istanza di scissione del procedimento con rilascio di concessione edilizia parziale per la modifica di utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale”.
Il rigetto viene dunque motivato in ragione del non comprovato consenso unanime dei proprietari della p.ed. (omissis)in ordine all’istanza di sanatoria della canna fumaria di espulsione all’esterno dei fumi prodotti nel locale interrato p.m. 12, trattandosi di intervento in facciata lesivo del decoro architettonico dell’edificio.
Ravvisando un rapporto di pregiudizialità della sanatoria della canna fumaria rispetto alla sanatoria della modifica dell’utilizzazione della p.m. 12 da accessorio (cantine) a principale (locale ricettivo ad uso principale, id est sala da pranzo e cucina), il Comune ha conseguentemente denegato anche la seconda e non ha accolto l’istanza di scissione del procedimento.
La ricorrente contesta la richiesta del Comune di allegare il consenso “unanime” dei condomini ed invoca la previsione di cui al primo comma dell’art. 1102 cc che stabilisce che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”, deducendo che la maggioranza di 2/3 dei millesimi dei proprietari della p.ed. (omissis) (“Condominio (omissis)”) ha autorizzato il signor Ma. Ti. “al mantenimento dell’installazione del condotto di espulsione fumi ( ….. ) della cucina dell’attività ristorativa svolta nei locali ubicati nelle porzioni materiali n. 3 e n. 12 di proprietà dello stesso, in conformità alle prescrizioni dettate dall’Ufficio Igiene” (cfr. allegato al doc. n. 7).
Nel caso di specie, come dettagliatamente motivato nel contestato provvedimento, il Comune ritiene che la canna fumaria in argomento rechi pregiudizio al “decoro architettonico” dell’edificio p.ed. (omissis), trattandosi, diversamente dalle canne fumarie tradizionali, di un condotto di forma rettangolare avente le apprezzabili dimensioni di 700 x 350 mm. (con l’eventuale mascheratura proposta dalla ricorrente assumerebbe le maggiori dimensioni di 850 x 450 mm.), che si estende per un’altezza complessiva di 14,5 metri lineari.
Il suddetto condotto di espulsione fumi è stato realizzato “nell’angolo sud – est della facciata sud dell’edificio in p.ed(omissis), con fuoriuscita del condotto dalla p.m. 3 e con collegamento interno con la p.m. 12, p.ed. (omissis), (omissis), risp. nell’angolo nord – est della terrazza sulla p.ed. (omissis), tutte CC Merano” senza titolo abilitativo (cfr. doc. n. 4 del Comune).
Orbene, in base alla pacifica giurisprudenza, per “decoro architettonico” deve intendersi l’estetica dell’edificio, costituita dall’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico (cfr. Cass. Civ. 1718/2016; 10350/11; 27551/05), e per innovazione lesiva del decoro architettonico si intende non solo quella che alteri le linee architettoniche dell’edificio, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (cfr. Cass. Civ. n. 20985/2014).
In ordine alla collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio la giurisprudenza amministrativa afferma che “l’art. 1102 c.c., relativo all’uso della cosa comune, va interpretato (per altro conformemente al costante orientamento del giudice civile) nel senso che il singolo condomino può apportare al muro perimetrale tutte le modificazioni che consentano di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compreso l’inserimento nel muro di elementi estranei e posti al servizio esclusivo della sua porzione”, tuttavia non senza precisare “purché (un tanto n.d.r.) non impedisca agli altri condomini l’uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità” (cfr., Cassazione civ., 16.5.2000, n. 6341; Cons. Stato, V, n. 11/2006; TAR Veneto, Sez. II, n. 1540/2012; TAR Lazio – Latina, Sez. I, n. 413/2012; TAR Firenze, Sez. III, 28.10.2015, n. 1475).
Nel caso di specie, l’intervento in sanatoria, riferentesi alla canna fumaria, non consiste nella mera sostituzione, sic et sempliciter, di una canna di espulsione fumi già esistente in passato, bensì nella realizzazione di un nuovo manufatto, che si differenzia decisamente, per dimensioni ed estensione, dal precedente, e tale da assumere rilevanza sia per la vastità dell’intervento, sia per l’impatto sull’aspetto esteriore dell’edificio p.ed. (omissis).
Si tratta, pertanto, di un manufatto che, invero, coinvolge gli interessi e i diritti degli altri condomini sia perché pregiudica l’armonia e il decoro della facciata dell’edificio p.ed. (omissis) (cfr. TAR Ancona, 9.1.2015, n. 10), sia perché la funzione della canna di espulsione – che è quella di convogliare verso l’esterno fumi, vapori e odori vari derivanti, nel caso di specie, dall’utilizzo della cucina ubicata al piano interrato – incide sugli interessi e diritti dei condomini circostanti (TRGA Bolzano, 26.2.2015, n. 57).
È del resto pacifico che l’intervento edilizio richiesto in sanatoria dalla ricorrente coinvolge la proprietà comune, insistendo anche sulla facciata della p.ed. (omissis), che, per l’appunto, è comune ai proprietari delle singole unità immobiliari (art. 1117, comma 1, n. 1 cc).
Come affermato dalla giurisprudenza, la necessità di acquisire il previo assenso dei condomini risponde (anche) all’esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie (cfr. TAR Reggio Calabria, 6.2.2017, n. 85).
In riferimento alla relativa censura, osserva il collegio che la dimostrazione della disponibilità del consenso unanime dei condomini rientra, invero, nell’ambito dell’istruttoria preliminare tesa alla verifica della sussistenza, in capo al richiedente, della necessaria legittimazione ad ottenere il titolo edilizio (è opportuno precisare, per inciso, che si tratta di un’attività che, conformemente all’insegnamento della giurisprudenza, non ha comportato, nel caso di specie, alcun onere istruttorio eccessivo a carico dell’amministrazione).
Pertanto tale attività, riguardando la mera regolarità formale dell’istanza di concessione edilizia (nel caso di specie in sanatoria), si distingue da quelle elencate all’art. 70 L.U.P., soggette ex lege al parere della commissione edilizia comunale, cui spetta esprimersi riguardo agli aspetti urbanistici, edilizi e architettonici del progetto presentato dall’istante.”
Il giudice di legittimità osserva che “A nulla poi rilevava che la S. non avesse un accesso diretto al lastrico, circostanza che a detta delle ricorrenti avrebbe permesso di vincere la presunzione di cui all’art. 1117 c.c..
Tale norma, con riferimento ai beni in esso indicati e a quegli altri che assolvano in vario modo alle medesime funzioni (tra i quali rientrano i tetti e i lastrici solari, v. art. 1117, n. 1), atteso il carattere non tassativo dell’elencazione, non sancisce una mera presunzione di condominialità, ma afferma in modo positivo detta natura condominiale, che può essere esclusa non già con qualsiasi mezzo di prova (come sarebbe nell’ipotesi di presunzione), ma solo in forza di un titolo specifico, inevitabilmente in forma scritta, riguardando beni immobili.
Correttamente i giudici di merito avevano concentrato la loro indagine sull’esistenza o meno di un titolo che riservasse la proprietà del lastrico solare ai danti causa nell’atto costitutivo del condominio, con la conseguenza che in assenza di un titolo siffatto, la proprietà era comune.
… In tal senso, la sentenza impugnata, nell’esaminare il quarto motivo di ricorso che appunto mirava a contestare la natura comune del bene, sul presupposto che fosse stato goduto in maniera esclusiva dalle B., ha evidenziato che il lastrico assolveva alla sua naturale funzione di copertura di un fabbricato comune, che vedeva la sovrapposizione delle proprietà esclusive sia dell’attrice che delle convenute.
Non esistevano quindi obiettive caratteristiche strutturali che potessero far propendere per un asservimento esclusivo del lastrico all’uso ed al godimento solo di una parte dell’immobile, ribadendosi quindi, a pag. 7, che deve essere tenuto ben distinto “il profilo della destinazione strutturale dei tetti e lastrici solari, che fonda la condominialità, da quello del godimento di fatto, che esclude la condominialità solo se il bene non esplichi nel contempo funzione essenziale (ad es. di copertura) anche per la porzione di immobile dal quale non vi si acceda direttamente”.