non occorre il consenso dei condomini per il rilascio di concessione edilizia al singolo che interviene su parti comuni.

E’ caso frequente che l’Autorità Urbanistica pretenda dal condomino che richiede il rilascio di un titolo abilitativo la dimostrazione che gli altri condomini, o l’assemblea, siano favorevoli.

Si tratta di prassi non corretta, come si desume anche da recente sentenza del Consiglio di Stato (Cons. stato sez. IV 9 maggio 2017 n. 2118) nella specifica materia della soprelevazione.

Afferma l’organo giurisdizionale amministrativo”I signori Ma. e An. Di Do., proprietari nel Comune di Giulianova di un appartamento al primo ed ultimo piano di un fabbricato in precedenza coperto con un tetto a falde, hanno impugnato dinanzi al Tar dell’Aquila la concessione edilizia (n. 34394/2000) con la quale i signori Re., Pe., Si. e Al. Di Gr., hanno ottenuto il permesso di soprelevare la stessa copertura e di realizzare un sottotetto agibile”

Il Tar ha respinto il ricorso ed i soccombenti hanno proposto  appello, che il Consiglio di Stato rigetta non ritenendo fondate le ragioni addotte: “Il Comune di Giulianova avrebbe rilasciato la concessione impugnata omettendo di valutare che i contro interessati non erano i soli proprietari del fabbricato e quindi violando le disposizioni del codice civile con pregiudizio del loro diritto di proprietà.

Gli appellanti, infatti, non hanno prestato il consenso all’intervento, comunicando, con raccomandata inviata il 20 luglio 2001 al Comune, di essere disponibili a concorrere al ripristino del tetto nel suo stato originario, ma non alla sua sopraelevazione.

(...) L’appello non è fondato. I signori Al. Di Gr., An. Ma. Re., Ra. Pe. e Si. Di Gr., destinatari della concessione edilizia impugnata, come risulta in atti, sono proprietari esclusivi del lastrico solare del fabbricato di cui è causa e dunque, sia in forza delle disposizioni contrattuali (cfr. atto di acquisto del 3 luglio 1971), sia alla luce delle disposizioni di cui all’articolo 1127, comma 1, del c.c., sono titolari del diritto di sopraelevazione.

 Per l’esercizio di tale diritto non avevano la necessità del consenso da parte degli altri condomini giacché, come rilevato dal Tar nella sentenza impugnata, non appare compromessa la statica e l’architettura dello stabile e non sono presenti limitazioni alla luce o all’aria del sottostante appartamento (il Comune, in sostanza, poteva rilasciare la concessione essendo l’opposizione dei singoli condomini di carattere facoltativo in ragione dell’assenza di problemi statici – cfr. art. 1127, comma 3, c.c. e Cassazione civile, sez. II, 27 marzo 1996, n. 2708).”

Va osservato che nella stessa linea si pone Tar Liguria 9 luglio 2015 n. 651 (in tema di riedificazione a diversa quota del tetto comune), mentre di contratto avviso appare Tar Cagliari 1 marzo 2012 n. 207 che ritiene necessaria delibera assembleare ogni volta che i lavori, per cui si richiede titolo amministrativo, riguardino parti comuni.

Già in tempi risalenti (Consiglio di Stato, Sezione V, 23 giugno 1997, n. 699) si  è osservato che l’intervento del singolo avviene in forza dell’art. 1102 cod.civ. e non è compito della P.A. dirimere conflitti civilistici: In tal senso depongono sia il disposto dell’art. 1102 codice civile relativo all’uso della cosa comune da parte dei comunisti (Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto ), sia la regola sancita dal successivo art. 1105, sull’amministrazione della cosa comune (Tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere all’amministrazione della cosa comune ), sia, infine, nella materia del condominio negli edifici, la cui caratteristica è la compresenza di parti di proprietà esclusiva (unità immobiliari) e di parti necessariamente comuni, la specificazione apportata ai suddetti principi generali in materia di comunione dall’art. 1122 codice civile, secondo cui «Ciascun condomino, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio»: letta in forma positiva, la norma conferisce al condomino una sorta di disponibilità ordinaria delle parti comuni dell’edificio pertinenti alla sua unità immobiliare. Le suddette regole e principi lasciano concordemente dedurre che è in facoltà dei condomino eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni, siano strettamente pertinenti, sotto il profilo funzionale e spaziale, alla sua unità immobiliare, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere, a nome proprio, l’autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a tali opere… Quanto al fatto che l’opera possa esser contestata dagli altri condomini, l’assenza di danno altrui è un limite sostanziale che, per la sua natura negativa, è connessa con valutazioni soggettive ed esula, comunque, dalle possibilità di accertamento della pubblica amministrazione, la quale deve limitarsi al titolo formale di disponibilità della porzione immobiliare e rilascia le autorizzazioni sempre con salvezza dei diritti dei terzi (da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, n. 1341 dei 20 dicembre 1993).”

In senso conforme Tar Campania 22/06/ 2015 n. 1409.

Diversa l’ipotesi della richiesta di concessione in sanatoria,  in cui è stato ritenuto legittimo che  l’amministrazione possa richiedere se sussista il consenso degli altri comproprietari dell’area interessata dall’intervento edilizio (Tar Sicilia 14.6.2016 n. 1477, Consiglio di Stato, sezione V, 21 ottobre 2003, n. 6529, anche C.d.S., Sez. V, 20.9.2001 n. 4972)

© massimo ginesi 7 giugno 2017

riforma della magistratura onoraria e competenza in materia di condominio.

E’ noto che la sciagurata L. 57/2016 che ha delegato al governo l’attuazione della riforma della magistratura onoraria, fra le varie storture, preveda anche l’integrale attribuzione al Giudice onorario della intera materia condominiale, sia in sede contenziosa che di volontaria giurisdizione.

Forse non è altrettanto noto che l’attuazione di quella legge procede per decreti legislativi che di fatto, in spregio anche alle indicazioni della Corte di Giustizia europea, renderanno definitivamente il giudice onorario una figura di operatore della giustizia precario, chiamato a svolgere ruoli delicatissimi e pagato non più di 7/800 euro al mese (con buona pace di tutte le guarentigie costituzionali sulle figure che esercitano la giurisdizione).

Vero è che il Consiglio di Stato, espressamente interpellato dal Governo, ha espresso parere in data 7.4.2017 in cui ha previsto la possibilità di un corretto impiego e della valorizzazione di una figura di giudice onorario – per coloro che sono già in servizio da decenni – che sia in linea con l’esperienza maturata e le funzioni che gli vengono richieste, sotto il profilo della professionalità, indipendenza, corretta retribuzione e correttezza del trattamento previdenziale e lavorativo, ponendo come unica pregiudiziale la necessità di intervenire con specifico provvedimento di legge e l”impossibilità di attendere a tale razionalizzazione attraverso l’attuazione della legge delega.

Il governo ha tuttavia inteso procedere lungo la strada intrapresa, licenziando un decreto legislativo che tiene in nessun conto le legittime istanze dei giudici onorari già in servizio e che è attualmente in attesa dei pareri, non vincolanti, delle commissioni giustizia della camera e del senato.

A fronte di tale modus operandi si è levato, per il vero, un generale appello delle componenti apicali della magistratura togata, dal nord al sud nonché delle componenti più illuminate della ANM, che vedono nella riforma così come impostata e concepita fortissime criticità per il corretto funzionamento  del sistema giustizia.

Un panorama esaustivo degli accadimenti e delle perplessità  sull’intero impianto della riforma può essere letto qui  .

Lo stesso Governo, chiamato ad attuare la delega, deve avere forti perplessità sulla sensatezza di una riforma siffatta, se fissa  – nella bozza di decreto licenziata – l’entrata in vigore delle norme sulla competenza in tema di diritti reali, comunione e condominio al 2021.

Ancor più deve averne la Commissione parlamentare della Camera, il cui relatore On. Guerini (PD), ha proposto una bozza di parere favorevole che contiene modestissime e marginali osservazioni, fra le quali spicca l’invito ad escludere l’attribuzione della competenza al giudice onorario in tema di diritti reali e comunione e a posticipare l’entrata in vigore di quella in tema di condominio al 30.10.2025.

“ j) All’articolo 27, in merito alle materie civili assegnate direttamente alla competenza del giudice onorario, sia escluso il trasferimento di competenza in materia di diritti reali e comunione, mentre, con riferimento alle cause in materia di condominio negli edifici di cui al comma 1, lettera c), n. 2, sia prevista l’entrata in vigore al 30 ottobre 2025”

Sfugge come possa oggi prevedersi una norma di legge destinata a produrre i propri effetti fra quasi dieci anni.

Sfugge come una commissione parlamentare possa  ritenere  troppo complessi per il giudice onorario i temi dei diritti reali (“In relazione alle materie dei diritti reali e della comunione si rileva che queste comportano di frequente questioni di diritto complesse a prescindere dal valore, si pensi, tra le altre, alle cause in materia di servitù e di usucapione, alle azioni di rivendicazione, alle negatorie“) e poi si ritenga  che il magistrato onorario possa e  debba decidere tutte le controversie in cui quei temi vengono applicati nella più complessa realtà condominiale.

Sfugge come si possano ignorare i richiami degli organi europei e l’invito generalizzato al ripensamento che arriva dall’intero pianeta giustizia.

Sfugge come relatore nella Commissione parlamentare chiamata a rendere parere su materie  così complesse e di rilevante impatto sulla vita sociale possa essere un politico la cui esperienza  sulla materia, almeno dal curriculum vitae, non pare essere propriamente derivante da competenze  scientifiche e professionali specifiche (laurea in scienze politiche con tesi sul pensiero del filosofo partigiano Alessandro Passerin D’Entreves, professione consulente assicurativo, dal 1995 politico a tempo pieno).

© massimo ginesi 7 giugno 2017

 

il comodato non sempre è precario.

 

Il contratto di comodato assume, nella accezione comune, il significato di una mera concessione in uso di un determinato bene, che avviene solitamente a titolo gratuito, che consente al beneficiario di godere del bene e al proprietario di averne la restituzione a semplice richiesta.

E’ in effetti questa la configurazione delineata dall’art. 1803 cod.civ.: “[I] Il comodato è il contratto col quale una parte consegna all’altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta.”[II]. Il comodato è essenzialmente gratuito.”

Tuttavia, ove il contratto sia destinato a soddisfare esigenze abitative del nucleo familiare del comodatario, la giurisprudenza è costantemente orientata a fornire della fattispecie una lettura meno favorevole al comodante, interpretazione che va ricondotta all’art. 1809 cod.civ.

In tal senso si è espressa anche di recente la giurisprudenza di legittimità (Cassazione civile, sezione III, sentenza 31 maggio 2017, n. 13716) che ritiene del tutto “: condivisibile l’assunto dei Giudici di merito, secondo cui il comodato, quando caratterizzato da vincolo di destinazione quale quello riscontrato nel caso in esame (destinazione dell’immobile alle esigenze abitative di un nucleo familiare), non può ritenersi “precario”. Va, infatti, sul punto data continuità all’orientamento secondo cui il comodato di un bene immobile, stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, ha un carattere vincolato alle esigenze abitative familiari, sicché il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento, anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno ai sensi dell’art. 1809, secondo comma, cod. civ., ferma, in tal caso, la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante”

 

Anche molta della giurisprudenza di merito segue tale linea interpretativa fra cui, di recente,  Tribunale Massa 15 maggio 2017, che si sofferma anche sulla prova della esigenza sottesa alla pattuizione, in un caso emblematico  dei delicati, sofferti e difficili equilibri (rectius, squilibri) familiari che spesso rendono l’applicazione delle norme di diritto un esercizio non meramente scientifico.

LA vicenda attiene ad un contratto di comodato in cui non si fa menzione  della esigenza  abitativa familiare, stipulato da un nonno – che ha appena acquistato il bene  immobile riservando a se l’usufrutto e intestando la nuda proprietà al nipote – che  concede contestualmente al proprio figlio detta abitazione  in comodato. Nel frattempo la famiglia del figlio si disgrega, il nipote vive nell’immobile con la madre, il padre viene allontanato dal Tribunale dei minori per condotte violente e, pochi anni dopo, muore improvvisamente. Il nonno lascia ancora diversi anni il nipote – e la di lui madre – a vivere nell’immobile, salvo richiederne improvvisamente la restituzione appena il nipote diviene maggiorenne.

Osserva il Tribunale apuano che: “Il contratto intercorso fra le parti deve essere ricondotto alla fattispecie di cui all’art. 1809 II comma c.c.,anche a mente di quanto statuito da Cass. SS.UU. 20448/2014.

E’ pur vero che l’onere della prova circa l’esistenza di un’esigenza abitativa deve essere assolto, ove non risulti esplicitamente dall’atto, da colui che la invoca e quindi –in questo caso – dai convenuti. 

Così come è vero quanto stabilito dalla suprema corte, nella sentenza citata, che non “ogni qualvolta un immobile venga concesso in comodato con destinazione abitativa, si debba immancabilmente riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorchè disgregata”.

Non sarà tuttavia inutile sottolineare che la stessa pronuncia evidenzia come, tuttavia, “la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica della intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti. Ciò significa che il comodatario, o il coniuge separato con cui sia convivente la prole minorenne o non autosufficiente, che opponga alla richiesta di rilascio la esistenza di un comodato di casa familiare con scadenza non prefissata, ha l’onere di provare, anche mediante le inferenze probatorie desumibili da ogni utile fatto secondario allegato e dimostrato, che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento. La prova potrebbe risultare più difficile qualora la concessione sia avvenuta in favore di comodatario non coniugato nè prossimo alle nozze, dovendosi in tal caso dimostrare che dopo l’insorgere della nuova situazione familiare il comodato sia stato confermato e mantenuto per soddisfare gli accresciuti bisogni connessi all’uso familiare e non solo personale. Trattasi sempre di un mero problema di prova, risolvibile grazie al prudente apprezzamento del giudice di merito in relazione agli elementi (epoca dell’insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.) che sono sottoponili al suo giudizio. Spetta invece a chi invoca la cessazione del comodato per il raggiungimento del termine prefissato, dimostrare il relativo presupposto.”

 

… Appare a tal proposito improbabile che il nonno che si determina ad acquistare un immobile per il nipote minore, riservando a se l’usufrutto, e che stipula contratto di comodato relativo a quello stesso immobile con il proprio figlio, padre di quel minore, non conosca a sufficienza la situazione sociofamilare dei propri più stretti congiunti e che tali elementi non sottendano la causa del contratto di godimento.

Vi è, a tal proposito, un altro fondamentale elemento, che consente di trovare ulteriore indizio di quanto testè prospettato e che induce vieppiù ad ascrivere la fattispecie contrattuale a quella delineata dall’art. 1809 II comma c.c.in ossequio a quella indagine sugli elementi connotativi che richiama la Corte di legittimità a sezioni unite “(epoca dell’insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.)”: le parti, seppure nell’ambito di una stesura contrattuale che è certamente approssimativa e atecnica, danno inequivocabilmente atto – all’art. 2 del contratto –che il “B. C. si obbliga a restituire detto immobile al termine del contratto”, di talchè le stesse parti mostrano di voler esulare dallo schema dell’art. 1810 cc per accedere ad un contratto che ha un termine che – a mente di quanto sopra evidenziato –appare del tutto ragionevolmente determinato per relationem alle esigenze abitative del nucleo familiare del comodatario B. C..

Non appare dirimente la dicitura “non appena ne verrà fatta richiesta”, contenuta nella stessa norma contrattuale, che è riferita comunque, per la sua stessa formulazione letterale, a richiesta da avanzare dopo la scadenza del termine contrattuale.

… Qualificato dunque il contratto nei limiti sopra evidenziati, ritenuto che per quanto emerso in giudizio (anche ex art. 115 c.p.c.) il B. G. – che ha oggi solo vent’anni –non sia ancor autosufficiente e conviva con la madre e che, pertanto, si debba  ritenere che il contratto non abbia ancor raggiunto il termine di scadenza in rapporto al fine per cui è stato stipulato, va analizzata la domanda relativa alle mutate condizioni dell’attore, che lo inducono a richiedere una risoluzione anticipata a mente dell’art. 1809 II comma c.c.

Va, a tal proposito, evidenziato quanto sostenuto dalle sezioni unite più volte richiamate: “il comodato a tempo determinato, soprattutto se con le connotazioni della lunga durata di cui ci si è occupati supra, nasce nella convinzione della piena stabilità del rapporto, anche tenendo conto della possibilità di risolverlo motivatamente in caso di bisogno.

Questa eventualità è una componente intrinseca del tipo contrattuale e costituisce insieme espressione di un potere e di un limite del comodante, da questi accettato nel momento in cui concede il bene per un uso potenzialmente di lunghissima durata e di fondamentale importanza per il beneficiario.

Con l’implicazione che il comodante, contrariamente a quanto ipotizzato da una risalente dottrina, ritiene di poter rispettare il contratto per tutto il tempo di durata prevedibile.

A fronte di questa scelta, che fa ritenere che il comodante non prevedesse di volere o dovere alienare il bene, non può trovare tutela la sua intenzione, verosimilmente ritorsiva, di rimuovere l’occupante rimastone beneficiario. Trova invece tutela il sopravvenire di un urgente e impreveduto bisogno.

La giurisprudenza, significativamente, non ha dovuto occuparsi spesso di questa disposizione. Si conviene generalmente tuttavia, in dottrina e nei precedenti noti (Cass. 1132/87; 2502/63), che la portata di questo bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e urgente. L’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, nè capriccioso o artificiosamente indotto.Pertanto non solo la necessità di uso diretto, ma anche il  sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica, che obbiettivamente giustifichi la restituzione del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche se la destinazione sia quella di casa familiare.

E’ da notare soltanto che, essendo in gioco valori della persona, ed in particolare le esigenze di tutela della prole, questa destinazione, con più intensità di ogni altra, giustifica massima attenzione in quel controllo di proporzionalità e adeguatezza, sempre dovuto in materia contrattuale, che il giudice deve compiere quando valuta il bisogno fatto valere con la domanda di restituzione e lo compara al contrapposto interesse del comodatario.”

Sarà in proposito sufficiente notare che l’attore ha stipulato il contratto dieci anni fa, quando era già in età fortemente avanzata, riservando a sé l’usufrutto ma con l’ovvia prospettiva di far pervenire infine al nipote l’intera proprietà ed assicurando nel frattempo a costui, tramite il proprio figlio (e padre dell’allora nipote minore), un’adeguata abitazione.  L’attore non adduce improvvisi mutamenti nelle proprie condizioni economiche, ma solo uno stato di deterioramento fisiologico che gli imporrebbe maggiori spese. Si tratta peraltro di situazione non improvvisa né imprevedibile, atteso che il B. L. si è determinato alle proprie scelte contrattuali ad ottantrè anni, quando una simile evoluzione era più che prevedibile, mentre non risultano provate le ulteriori necessità né – soprattutto – i relativi maggiori esborsi necessari, atteso che per le testimonianze assunte, l’attore da tempo immemore vive con altri familiari che lo accudiscono quotidianamente.

Non risulta dunque raggiunta la prova della sussistenza dei requisiti di cui all’art. 1809 II comma c.c.”

Il Tribunale ha  rigettato la richiesta di risoluzione, ritenendo non provato il raggiungimento dello scopo contrattuale, il cui onere della prova era a carico dell’attore che domandava la restituzione del bene.

© massimo ginesi 6 giugno 2017 

 

 

la parte può impugnare la sentenza sul capo delle spese anche se vi è distrazione ex art. 93 c.p.c.

Lo afferma, con una sentenza (Cassazione, sez. III Civile, 30 maggio 2017, n. 13516) fa applicazione logica dei principi in materia di soccombenza, condanna alle spese e distrazione, la Cassazione.

Può accadere che un soggetto vinca la causa, che il suo difensore abbia fatto istanza di distrazione delle spese (ovvero di essere pagato direttamente dall’avversario) e che il giudice condanni il soccombente in tal senso, riconoscendo tuttavia una somma inferiore all’accordo intercorso fra cliente e professionista o a quanto previsto dalle tariffe forensi di cui al DM 55/2014..

La Suprema Corte chiarisce che la parte sostanziale vittoriosa mantiene interesse e legittimazione ad impugnare anche tale capo della sentenza, per la semplice ragione che il suo difensore – pur essendo beneficiario del provvedimento di distrazione – può comunque rivolgersi al proprio assistito per la parte di competenze che eccedono la liquidazione giudiziale.

Osserva la Corte “che il provvedimento di distrazione delle spese processuali instaura, fra il difensore della parte vittoriosa e la parte soccombente, un autonomo rapporto che, nei limiti della somma liquidata dal giudice, si affianca a quello di prestazione d’opera professionale fra il cliente vittorioso e il suo procuratore;

che, di conseguenza, rimane integra la facoltà di quest’ultimo non solo di rivolgersi al cliente per la parte del credito professionale che ecceda la somma liquidata dal giudice, ma anche di richiedere al proprio cliente l’intera somma dovutagli, per competenze professionali e spese, nonostante la distrazione disposta (Sez. 3, Sentenza n. 27041 del 12/11/2008, Rv. 605450);

che la parte sostanziale vittoriosa è, pertanto, legittimata ad impugnare il capo della sentenza di primo grado che, pur distraendo le spese processuali in favore del difensore, le ha liquidate in misura insufficiente, in quanto – essendo comunque tenuta a corrispondere al proprio difensore la differenza fra quanto liquidato dal giudice e quanto dovutogli in base agli accordi o al tariffario professionale – ha interesse a che la liquidazione giudiziale sia quanto più possibile esaustiva delle legittime pretese del professionista;

che il difensore distrattario delle spese assume la qualità di parte, sia attivamente sia passivamente, in sede di gravame solo quando l’impugnazione riguarda la pronuncia di distrazione in sé considerata (Sez. 1, Sentenza n. 6761 del 22/12/1981, Rv. 417650; Sez. 1, Sentenza n. 1204 del 17/04/1972, Rv. 357687), con esclusione delle contestazioni relative all’ammontare delle spese liquidate, giacché l’eventuale erroneità della liquidazione non pregiudica i diritti del difensore (che potrà rivalersi nei confronti del proprio assistito) bensì quelli della parte vittoriosa (che sarà tenuta al pagamento della differenza al proprio difensore)

tabelle millesimali: l’errore che da luogo a revisione.

La Corte di Cassazione ritorna su un tema ormai consolidato, ovvero la natura dell’errore che consente la revisione delle tabelle a mente dell’art. 69 disp.att. cod.civ., e lo fa con una pronuncia che fornisce qualche utile spunto di riflessione.

Cass. Civ. sez. II 11 maggio 2017 n. 11575  afferma che “discende da quanto rilevato che, benché il c.t.u. non si esprima in termini di errore, ciò opera la corte d’appello quale peritus peritorum nel momento in cui – in aderenza a un solido indirizzo giurisprudenziale secondo cui comportano la revisione delle tabelle gli errori nella determinazione del valore che siano indotti da quelli sugli elementi necessari al suo calcolo (cfr. ad es. Cass. n. 3001 del 10/02/2010) e non i mutamenti successivi dei criteri di stima della proprietà immobiliare – qualifica come erronea, con motivazione che si sottrae a censure di carattere logico e giuridico, la disomogenea parametrazione delle singole unità dell’edificio senza tener conto del coefficiente di altezza.”

La corte ritiene di dover “ dar seguito all’indirizzo giurisprudenziale (v. Cass. n. 21950 del 25/09/2013) per cui l’errore determinante la revisione del- le tabelle millesimali, a norma dell’art. 69 disp. att. cod. civ., è costituito dalla obiettiva divergenza fra il valore effettivo delle unità immobiliari e quello tabellarmente previsto.”

Interessante la notazione circa l’onere della prova: “La parte che chiede la revisione delle tabelle millesimali non ha, al riguardo, l’onere di provare la reale divergenza tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella, potendo limitarsi a fornire la prova anche implicita di siffatta divergenza, dimostrando in giudizio l’esistenza di errori, obiettivamente verificabili, che comportano necessariamente una diversa valutazione dei propri immobili rispetto al resto del condominio; mentre il giudice, sia per revisionare o modificare le tabelle millesimali di alcune unità immobiliari, sia per la prima caratura delle stesse, deve verificare – di norma  a mezzo di c.t.u. – i valori di tutte le porzioni, tenendo conto di tutti gli elementi oggettivi – quali la superficie, l’altezza di piano, la luminosità, l’esposizione – incidenti sul valore effettivo di esse e, quindi, adeguarvi le tabelle, eliminando gli errori riscontrati.”

© massimo ginesi 1 giugno 2017