beni costituiti in trust ed esecuzione immobiliare.

 

L’istituto del Trust è sempre più diffuso e anche il Condominio deve ormai rapportavisi con frequenza, sia per quel che attiene alle modalità di convocazione del trustee, sia – soprattutto – per quel che attiene alle modalità di esecuzione ove sorgano morosità relative a tali beni.

La Cassazione ( Cass. civ. III sez. 27 gennaio 2017 n. 2043) affronta il problema in maniera approfondita: Questa premessa consente di affrontare la tematica delle modalità del pignoramento di beni conferiti in trust alla stregua della giurisprudenza già consolidata di questa Corte in ordine alla natura di quest’ultimo e che non si vede alcun valido motivo di modificare: istituto che è ivi costantemente definito non già quale ente dotato di   personalità giuridica, ma quale semplice insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’Interesse di uno o più beneficiari, formalmente intestati al trustee.

Infatti, con il trust alcuni beni vengono posti sotto il controllo di un fiduciario, il trustee, nell’interesse di uno o più beneficiari e per un fine determinato. Secondo quanto prevede l’art. 2 della Convenzione dell’Aja dell’lluglio 1985, resa esecutiva in Italia con la legge 16 ottobre 1989, n. 364, il vincolo di destinazione mantiene i beni in trust distinti dal patrimonio del trustee, cui è demandato di ‘amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee’ ; benché il trust non abbia personalità giuridica, dunque, il trustee è l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone   in esclusiva   del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione” (Cass. 22 dicembre 2015,   n. 25800).

Di conseguenza, è il trustee l’unica persona di riferimento con i terzi e non quale legale rappresentante, ma quale soggetto che dispone del diritto (Cass. 18 dicembre 2015, n. 25478; Cass. 20 febbraio 2015, n. 3456): e ciò in quanto l’effetto proprio del trust non è quello di dare vita ad un nuovo soggetto di diritto, ma quello di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito (Cass. 9 maggio 2014, n. 10105), sulla base delle ampie argomentazioni sviluppate nel precedenti di questa Corte, ai quali stima il Collegio opportuno dare continuità mediante un mero richiamo

Quale ulteriore conseguenza, va escluso che possa ritenersi in alcun modo il trust titolare di diritti e tanto meno destinatario di un pignoramento che abbia ad oggetto i medesimi: e l’applicazione di tale pacifica conclusione della giurisprudenza di questa Corte al campo delle esecuzioni civili porta all’ulteriore corollario che i beni conferiti nel trust debbono essere pignorati nei confronti del trustee, perfino a prescindere dall’espressa spendita di tale qualità, relegando ad una valutazione di mera opportunità – e quindi di mera facoltatività – un’apposita menzione dell’appartenenza di quelli ad una massa separata o segregata, quale in genere viene ricostruito il patrimonio che il trust compone.

Al   contrario,   un   pignoramento   che   colpisca   beni   che si prospettano nella – formale e separata – titolarità di un trust prospetta una fattispecie giuridicamente impossibile secondo il vigente ordinamento interno e, quindi, insanabilmente nulla per impossibilità di identificare un soggetto esecutato giuridicamente possibile, siccome inesistente e quindi insuscettibile tanto di essere titolare di diritti che – soprattutto e per quanto rileva ai fini della proseguibilità del relativo processo esecutivo – di subire espropriazioni (cioè coattivi trasferimenti) del medesimi.”

Le argomentazione spese sulla pignorabilità dei beni forniscono anche chiara ed inequivocabile riposa su chi sia il soggetto legittimato a partecipare attivamente alla vita condominiale.

© massimo ginesi 30 gennaio 2017 

il singolo condomino può pagare direttamente il terzo creditore del condominio?

Girando per il web alla ricerca di aggiornamenti si incappa, con inquietante frequenza, in letture approssimative delle pronunce che riguardano la materia condominiale.

Commenti imprecisi che tuttavia ci danno spunto – alcune volte – per riflettere su temi di deciso rilievo.

In realtà la sentenza 199/2017 , a firma di illustre relatore, rappresenta un interessante passaggio del percorso interpretativo – che da CAss. SSUU 9148/2008 arriva ai giorni nostri – sul tema della parziarietà  dell’obbligazione condominiale, cui devono oggi essere applicati i temperamenti di cui all’art. 63 disp.att. cod.civ.;  non contiene affatto il principio che si legge nella intestazione del commento.

Accadeva, nel caso all’esame della Corte, che un condomino avesse versato l’intero importo dei lavori all’appaltatore e pretendesse poi di agire, in via di regresso nei confronti degli altri condomini; tale azione presuppone la sussistenza di un obbligo solidale che la Suprema Corte ritiene non potersi  individuare in condominio  in virtù dei principi affermati dalle Sezioni unite del 2008, specie per vicende che sono regolate – ratione temporis – dalle norme non ancora modificate dalla L. 220/2012.

Tuttavia il problema del condomino che invece di versare all’amministratore la quota millesimale di propria competenza per alcuni lavori di manutenzione svolti nel condominio, la versi direttamente all’appaltatore – che ha svolto le opere e che vanta il relativo credito nei conforti del condominio – è stato espressamente affrontato dalla suprema corte in tempi non lontani.

La giurisprudenza non ha peraltro mai evidenziato un divieto quanto, semmai, l’inidoneità di quel pagamento a liberare il singolo.

Cassazione civile, sez. VI, 17/02/2014, n. 3636 ha affermato “Il condominio si pone, verso i terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei condomini, attinenti alle parti comuni, sicché l’amministratore è rappresentante necessario della collettività dei partecipanti, sia quale assuntore degli obblighi per la conservazione delle cose comuni, sia quale referente dei relativi pagamenti. Ne consegue che non è idoneo ad estinguere il debito “pro quota” il pagamento eseguito dal condomino direttamente a mani del creditore del condominio, se tale creditore non è munito di titolo esecutivo verso lo stesso singolo partecipante”.

Sul punto si è soffermato con interessanti riflessioni critiche, anche A. Scarpa in uno scritto del 2015 “Sempre la giurisprudenza (v. Cass., 17 febbraio 2014, n. 3636) ha affermato il principio secondo il quale, ponendosi il condominio, nei confronti dei terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini attinenti alle parti comuni, l’amministratore di esso assume la qualità di necessario rappresentante della collettività dei condomini, e ciò sia nella fase di assunzione degli obblighi verso i terzi per la conservazione delle cose comuni, sia, all’interno della medesima collettività condominiale, in quanto unico referente dei pagamenti ad essi relativi; se ne è fatta discendere la conclusione secondo cui il pagamento diretto eseguito dal singolo partecipante a mani del creditore del condominio non è idoneo ad estinguere il debito pro quota dello stesso relativo ai contributi ex art. 1123 c.c., a meno che il terzo creditore non si sia già munito di titolo esecutivo nei confronti del singolo condomino. Se allora il pagamento al terzo creditore deve indispensabilmente avvenire per il tramite dell’amministratore, dovrebbe per minima coerenza negarsi che il singolo condomino sia immediato debitore di quello, facendosi salva l’ipotesi in cui il terzo si sia ormai premunito di un titolo esecutivo verso quel determinato partecipante. Ove si ritenesse ancora che ciascun condomino sia direttamente obbligato verso il creditore della gestione condominiale, non si potrebbe obliterare l’interesse di quel debitore ad adempiere spontaneamente pro quota nelle mani del terzo, in modo da procurarsi la liberazione dal vincolo anche invito creditore, senza dover attendere, per assurdo, che questi consegua dapprima un titolo esecutivo, con modificazione aggravativa del debito (in relazione alla maturazione degli accessori), contrasto con il principio di correttezza e buona fede, nonché lesione del principio costituzionale del giusto processo, traducendosi l’ineliminabile soggezione del condomino alla domanda giudiziale del terzo, diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria, in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte pur sempre nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.” Quaderni SSM febbraio 2015  

innovazione o no? quando il commentatore è più realista del re…

La Cassazione, con sentenza 24960/2016, ha statuito che modificare la destinazione d’uso di una piccola parte del giardino condominiale per destinarlo a parcheggio costituisce innovazione, che tuttavia non deve ritenersi vietata ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1120 cod.civ. laddove non sottragga una parte significativa di verde al godimento collettivo e lasci sostanzialmente immutata la destinazione primaria del bene.

Questo il testo della pronuncia.

 

Nel web tuttavia si  trova anche  chi  riesce a commentare la notizia  leggendo nella pronuncia il contrario di quanto vi è scritto,  ovvero che si tratterebbe di intervento non innovativo (piuttosto che di innovazione lecita).

Il diritto  è una materia complessa e può accadere che navigare per il web a volte  complichi le idee più che chiarirle …

Attenzione che  il fatto che la notizia venga resa da un qualche centro studi non sempre è sinonimo di attendibilità.

per chi volesse approfondire il tema, la pronuncia ha invece trovato un chiaro e approfondito commento sul sole24ore, con diversi utili riferimenti giurisprudenziali.

© massimo ginesi 19 gennaio 2017

mediazione: giurisprudenza di merito sempre più rigida sull’obbligo di partecipazione personale.

Una articolata sentenza del Tribunale di Pavia del 20 gennaio 2017  aderisce al sempre più diffuso orientamento dei giudici di merito sull’obbligo di partecipazione personale della parte al procedimento, pena l’improcedibilità del giudizio ove ciò non avvenga.
Le conseguenze sono particolarmente gravi, come nel caso di specie, ove è stata dichiarata improcedibile l’opposizione a decreto ingiuntivo poichè l’opponente non ha preso parte alla mediazione demandata dal giudice, limitandosi a comunicare i motivi di tale mancata partecipazione.

Il Tribunale ha ritenuto che  tale condotta fosse ingiustificata e risultasse avere conseguenze analoghe al mancato esperimento della mediazione, poichè la parte opponente “non partecipando al primo incontro avanti al mediatore  nella mediazione avviata dalla parte convenuta opposta – parte più diligente ma non onerata per legge – ha anch’essa posto in essere una inattività qualificata che determina il passaggio in giudicato del decreto opposto”

Afferma ancora il giudice lombardo che “se ne deve dedurre che l’opponente – onerato per legge dello svolgimento della mediazione, inteso non solo come avvio ma anche come corretta partecipazione – non ha voluto assolvere all’onere di realizzare la condizione di procedibilità, che si sostanzia nell’obbligo di iniziare e/o partecipare in modo attivo alla procura di mediazione, salvo il richiamo all’esistenza di ostacoli oggettivi che impediscono la sua partecipazione.”

Per il giudice la parte che ha solo mandato il difensore al primo incontro, incaricandolo di dichiarare che non intendeva aderire alla mediazione, ha così dimostrato di non con siderale la mediazione con sufficiente impegno e serietà; di ritenerla invece un mero e inutilmente costoso adempimento burocratico da assolvere con la semplice presenza avanti al mediatore del difensore munito di procura e per un semplice incontro informativo. Sintomo del comportamento della parte che, sottovalutando la mediazione, abusa invece del processo. Si ritiene che la sanzione applicabile nella specie, sia l’improcedibilità della domanda giudiziale, ex art. 5 comma 2 D.lgs 28/2010, intesa come domanda giudiziale che formula l’opponente verso i decreti ingiuntivi opposti”

La sentenza è assai articolata e merita integrale lettura per l’ampia disamina dell’istituto della mediazione e delle ragioni sottese ad un orientamento così  rigido.

Non può tuttavia dettare perplessità una giurisprudenza che sembra sacrificare sull’altare delle esigenze di speditezza e deflazione il diritto di difesa e accesso alla giurisdizione che l’art. 24 Costituzione garantisce come presupposto fondamentale dell’organizzazione sociale.

© massimo ginesi 25 gennaio 2017

anticipazioni effettuate dall’amministratore uscente: contro chi va promossa l’azione per il recupero?

E’ noto che la buona prassi amministrativa (e oggi anche i principi geniali sottesi alla L. 220/2012) sconsigliano l’amministratore dalla effettuazione di anticipazioni nell’interesse del Condominio.

Può tuttavia accadere, per ragioni assolutamente lecite, che al termine dell’incarico  risulti un credito dell’amministratore uscente nei confronti del Condominio.

E’ nota la giurisprudenza più recente (Cassazione n. 10153/2011) in cui si è osservato  che la differenza negativa risultante dal rendiconto non costituisce automaticamente prova dell’anticipazione da parte dell’amministratore, sicché costui dovrà dare prova piena degli esborsi sostenuti sia relativamente all’an che al quantum.

Ammesso che tale prova sia fornita, è interessante ripercorrere i limiti e le modalità del recupero, così come delineate in una recente sentenza di merito (Trib. Massa  25/11/2016 n. 1095) : “il credito per le somme anticipate nell’interesse del Condominio dall’amministratore trae origine da un rapporto di “mandato” che intercorre con i condomini (cfr. per tutte: Cass. civile, sez. II, 04 ottobre 2005, n. 19348; Cass. civile, sez. II, 16 agosto 2000, n. 10815).
Precisamente, l’amministratore di condominio – nel quale non è ravvisabile un ente fornito di autonomia patrimoniale, bensì la gestione collegiale di interessi individuali, con sottrazione o compressione dell’autonomia individuale – configura un “ufficio di diritto privato” oggettivamente orientato alla tutela del complesso dei suindicati interessi e realizzante una cooperazione, in ragione di autonomia, con i condomini, singolarmente considerati, che è assimilabile, pur con tratti distintivi in ordine alle modalità di costituzione ed al contenuto ‘sociale’ della gestione, al “mandato con rappresentanza”, con la conseguente applicabilità, nei rapporti tra amministratore ed ognuno dei condomini, dell’art. 1720 comma 1 c.c., secondo cui il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni fatte nell’esecuzione dell’incarico: norma che, peraltro, esprime un principio comune nella disciplina dei rapporti di cooperazione, indipendentemente dalla loro peculiarità (cfr. in tal senso: Cass. civile, sez. II, 12 febbraio 1997, n. 1286; Cass. civile, sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530).
Tuttavia, l’amministratore di condominio non ha – salvo quanto previsto dagli artt. 1130 e 1135 c.c. in tema di lavori urgenti – un generale potere di spesa, in quanto spetta all’assemblea condominiale il compito generale non solo di approvare il conto consuntivo, ma anche di valutare l’opportunità delle spese sostenute dall’amministratore; ne consegue che, in assenza di una deliberazione dell’assemblea, l’amministratore non può esigere il rimborso delle anticipazioni da lui sostenute, perchè, pur essendo il rapporto tra l’amministratore ed i condomini inquadrabile nella figura del mandato, il principio dell’art. 1720 c.c. – secondo cui il mandante è tenuto a rimborsare le spese anticipate dal mandatario – deve essere coordinato con quelli in materia di condominio, secondo i quali il credito dell’amministratore non può considerarsi liquido ne’ esigibile senza un preventivo controllo da parte dell’assemblea (Cass., Sez. 2, 27 giugno 2011, n. 14197).
In particolare, si deve osservare che, nascendo l’obbligazione restitutoria a carico dei singoli condomini nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione legittima e per diretto effetto di essa, la situazione non muta in conseguenza della cessazione dell’anticipante dall’incarico di amministratore, con la conseguenza che la domanda dell’amministratore cessato dall’incarico diretta ad ottenere il rimborso di somme anticipate nell’interesse della gestione condominiale può essere proposta, oltre che nei confronti del condominio, anche nei confronti del singolo condomino inadempiente all’obbligo di pagare la propria quota (cfr. in tal senso la citata Cass. civile, sez. II, 12 febbraio 1997, n. 1286 in Giust. civ. Mass. 1997, 227 ed in Vita not. 1997, 190).
In conclusione, l’amministratore cessato dall’incarico può chiedere il rimborso delle somme da lui anticipate per la gestione condominiale sia nei confronti del condominio legalmente rappresentato dal nuovo amministratore (dovendosi considerare attinente alle cose, ai servizi ed agli impianti comuni anche ogni azione nascente dall’espletamento del mandato, che, appunto, riflette la gestione e la conservazione di quelle cose, servizi o impianti) sia, cumulativamente, nei confronti di ogni singolo condomino, la cui obbligazione di rimborsare all’amministratore, mandatario, le anticipazioni da questo fatte nell’esecuzione dell’incarico deve considerarsi sorta nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione e per effetto di essa e non può considerarsi estinta dalla nomina del nuovo amministratore, che amplia la legittimazione processuale passiva senza eliminare quelle originali, sostanziali e processuali (cfr. in tal senso: Cass. civile, sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530).”

© massimo ginesi 24 gennaio 2017 

 

 

si allungano i tempi per la nuova UNI 10200 in tema di contabilizzazione del calore.

I criteri tecnici che  regolano la ripartizione delle spese di riscaldamento sono noti  con la sigla UNI 10200: si tratta di una  norma che è stata elaborata dalla Commissione Tecnica 803 del C.T.I. (Comitato Termotecnico italiano) e che costituisce supporto ed integrazione della  legislazione  in tema  di ripartizione delle spese di riscaldamento.

La norma indica  i criteri per imputare  la spesa totale di riscaldamento e acqua calda sanitaria negli edifici in condominio, individuando i parametri necessari a contabilizzare  i consumi volontari di calore delle singole unità immobiliari e quelli c.d. involontari.

Il processo di approvazione e revisione della norma tecnica prevede diversi passaggi, fra i quali l’inchiesta pubblica: si tratta di una fase assai importante, nella quale il progetto elaborato e approvato dall’organo tecnico  viene posto a disposizione degli operatori del settore di interesse , affinché costoro possano esprimere  commenti che saranno raccolti ed esaminati dall’organo che poi emanerà la norma definitiva.

La norma Uni 10200 era già stata posta in inchiesta pubblica subito dopo l’entrata in vigore del D.lgs 102/2014: in data 14/04/2016 è stato posto in inchiesta pubblica UNI il testo del progetto E0208F600 “Impianti termici centralizzati di climatizzazione invernale, estiva e produzione di acqua calda sanitaria – Criteri di ripartizione delle spese di climatizzazione invernale, estiva e produzione di acqua calda sanitaria”.

A seguito dei commenti pervenuti, la commissione CTI preposta ha apportato modifiche al testo originario che, plausibilmente, comporteranno una nuova fase di inchiesta pubblica, sicché i tempi di definitiva emanazione della norma tecnica – in una materia che molto ha fatto discutere –  rischiano di allungarsi ulteriormente.

Peraltro il termine per l’adeguamento degli impianti ha subito di recente una proroga al 30 giugno 2017.

© massimo ginesi 24 gennaio 2017

la Cassazione ritorna sul rumore. l’accertamento della intollerabilità e il risarcimento del danno.

Abbiamo segnalato ieri una serie di pronunce sull’art. 844 cod.civ. in condominio e oggi se ne aggiunge un’altra, sempre in tema di immissioni.

La vicenda attiene ad una complessa controversia fra  parenti, proprietari di due unità immobiliari vicine, in una delle quali viene svolta attività di fabbro che – sostengono gli altri – arreca grave pregiudizio alla vita quotidiana.

Cass. civ. II sez. 20 gennaio 2017 n. 1606 rel. Scarpa  traccia i limiti probatori riguardo al giudizio relativo all’accertamento della tollerabilità: “Vertendosi in giudizio relativo ad immissioni (nella specie di rumori ed esalazioni provocati dallo svolgimento di attività di officina fabbrile), i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall’art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza tecnica d’ufficio con funzione “percipiente”, in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l’intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone. Mentre, in tale materia, la prova testimoniale rimane ammissibile soltanto quando verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, e non si riveli espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai testi: cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1245 del 04/03/1981; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2166 del 31/01/2006).”

Quanto alla intensità delle immissioni la Corte ribadisce un orientamento ormai consolidato, sulla  rilevanza degli accertamenti sotto il profilo civilistico e pubblicistico, chiarendo con motivazione ineccepibile la larga autonomia di giudizio del Giudice chiamato a valutare nel merito la intollerabilità delle immissioni fra privati: “in tema, appunto, di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o all’intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art. 844 c.c., e non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell’art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6223 del 29/04/2002; Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 2319 del 01/02/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10735 del 03/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5697 del 18/04/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 939 del 17/01/2011).

I criteri dettati dal d.m. 16 marzo 1998 attengono, piuttosto, al superamento dei valori limite differenziali di immissione di rumore nell’esercizio o nell’impiego di sorgente di emissioni sonore, di cui all’art. 6, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, e sono volti a proteggere la salute pubblica mediante predisposizione di apposito illecito amministrativo (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28386 del 22/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26738 del 13/12/2006).

Perciò la Corte d’Appello di Venezia ha definito irrilevante accertare per quante ore al giorno venissero utilizzati gli strumenti da lavoro rumorosi, ed ha invece stimato decisiva la verifica, confortata dalle risultanze peritali, che ogni singola macchina adoperata nell’officina fabbrile cagionasse un rumore percepito nell’abitazione dei vicini come eccedente di 3 db rispetto al rumore ambientale di fondo. La sentenza impugnata ha correttamente considerato, in sostanza, prive di significatività le disposizioni ministeriali sulle modalità di rilevamento dei rumori cosiddetti “a tempo parziale”, valutando comunque illecite le immissioni sulla base di un giudizio di tollerabilità formulato ai sensi dell’art. 844 c.c., tenendo presente, fra l’altro, la vicinanza dei luoghi e i possibili effetti dannosi per la salute delle immissioni. Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c, diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale. Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa, supponendo tale accertamento un’indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame l’intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17051 del 05/08/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3438 del 12/02/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/08/2005).”

La corte affronta poi il tema del risarcimento al danneggiato per le  immissioni pregiudizievoli che il Giudice di merito abbia ritenuto sussistenti: “il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi a seguito della cd. “comunitarizzazione” della Cedu (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20927 del 16/10/2015; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26899 del 19/12/2014). La Corte di Venezia ha proprio affermato l’esistenza di un pregiudizio alla libera e normale esplicazione della personalità ed alla qualità della vita di B.P., M. Z., G. P.  e A. P., pregiudizio riconducibile allo stress ed al grave disagio provocato dalle immissioni sonore provenienti dalla vicina officina e percepibili nell’abitazione di quelli.”

La Corte si sofferma infine sulla rilevanza della riconoscibilità della situazione a fattispecie di rilevanza penale, ai fini del risarcimento del danno a norma dell’art. 2059 cod.civ. “Al riguardo, la Corte di Venezia ha ritenuto nella specie ravvisabili gli estremi del reato di cui all’art. 659 c.p. (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone), sussistendo la potenzialità del rumore ad investire tutti coloro che ne sono a contatto, mentre ha escluso la configurabilità dell’art. 674 c.p. (Getto pericoloso di cose), non essendo verificata l’attitudine del materiale per la verniciatura utilizzato da E. P. a creare offesa o molestia. Il sesto motivo del ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale sono infondati in quanto quel che rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale a norma dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 185 c.p., non è che il fatto illecito integri, in concreto, un reato piuttosto che un altro, né occorre una condanna penale passata in giudicato, ma è sufficiente che il fatto stesso sia soltanto astrattamente previsto come reato, sicché è sufficiente a tal fine l’accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza, secondo la legge penale, degli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13085 del 24/06/2015; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22020 del 19/10/2007).”

© massimo ginesi 21 gennaio 2017

rumori in condominio: un tema caldo nelle pronunce recentissime della cassazione.

La Cassazione affronta, in breve lasso di tempo, il tema delle immissioni rumorose in diverse pronunce, dettando  principi che è opportuno conoscere per azionare correttamente le tutele contro attività disturbanti.

  1. tutela pubblica e privata non coincidono –   la Suprema Corte (Cass. civ.  VI sez.   18 gennaio 2017, n. 1069 – Rel. Scalisi) afferma  che tutto ciò che supera i limiti pubblici del rumore deve ritenersi civilisticamente illecito a mente dell’art. 844 cod.civ., ma non tutto ciò che rientra in quei limiti è necessariamente consentito anche sotto il profilo nella norma codicistica, che invece richiede singola indagine di fatto da svolgere di volta in volta da parte del giudice di merito: “Va qui premesso che sussistono due livelli di tutela di fronte all’immissione rumorosa, da una parte il regime amministrativo deputato alla P.A. (disciplinato dalla Legge n. 447 del 1995, e dal D.P.C.M. del 1991 con successive modifiche ed integrazioni) e dall’altro vigono i principi civilistici che regolano i rapporti tra privati riconducibili nell’ambito del codice agli articoli 844 e 2043 c.c., dotati di fondamento costituzionale e comunitario.
    Tuttavia, come ha avuto modo di affermare questa Corte in altra occasione (cfr. sent. n. 1151del 2003; n. 5697 del 2001), il superamento dei livelli massimi di tollerabilità determinati da leggi e regolamenti integrano senz’altro gli estremi di un illecito anche se l’eventuale non superamento non può considerarsi senz’altro lecito, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità essere effettuato alla stregua dei principi stabiliti dall’art. 844 cod. civ..
    Tale principio, nella sua prima parte, si basa sull’evidente considerazione che, se le emissioni acustiche superano, la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela di interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione le stesse, ove si risolvano in immissioni nell’ambito della proprietà del vicino, ancor più esposto degli altri, in ragione della vicinanza, ai loro effetti dannosi, devono per ciò solo considerarsi intollerabili, ai sensi dell’art. 844 c.c. e, pertanto, illecite anche sotto il profilo civilistico. Tanto non è stato considerato dal giudice di merito, che, pur avendo rilevato che il livello di rumorosità, di cui si dice, in alcuni spazi temporali (ore notturne, a finestre aperte e con uso dello scarico del WC), superava il valore previsto dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1 Marzo 1991, quale livello massimo, tuttavia, ha ritenuto che quell’inquinamento acustico fosse “modestissimo” e non superasse la normale tollerabilità.”
  2. il danno da rumore non è in re ipsa – una volta accertato che sussistono immissioni illecite ex art. 844 cod.civ. non consegue automaticamente un diritto al risarcimento del danno nei confronti della parte che le lamenta. Incombe infatti a costei l’onere di provarne la sussistenza e l’ammontare. Lo afferma in maniera ellittica la Suprema Corte in una recentissima pronuncia (Cass. civ. II sez. 18 gennaio 2017 n. 1363 rel. Giusti ), che in realtà risolve in rito l’impugnazione: “Non sussiste la  lamentata contraddittorietà, perché ben  può il giudice del merito, senza con ciò incorrere in  alcun vizio logico, rigettare la proposta domanda ex articolo 844 codice civile, per la cospirante  convergenza di una duplice ragione giustificativa, sia perché i rumori e le missioni non raggiungono il limite della intollerabilita, sia perché manca la prova sull’esistenza del patito danno“.
  3. niente risarcimento se il danno è ascrivibile allo stato ansioso del danneggiato: pur sussistendo immissioni illecite dall’appartamento del custode, che superano la normale tollerabilità ex art. 844 cod.civ. , ed essendo pertanto tenuto il condominio a fare cessare mediante insonorizzazione, non può essere riconosciuto risarcimento a chi quelle immissioni ha subito se lo stato ansioso in cui versa è ascrivibile ad una sua patologia ansiosa piuttosto che all’evento rumoroso, poiché in tal caso viene meno il nesso causale fra l’evento e il danno lamentato. Così ha statuito Cass. civ. II sez. 12 gennaio 2017 n. 667 rel. Giusti : “La corte di Milano ha ritenuto che dalle risultanze processuali emerge che la X e il Y pur non essendo soggetti  psicotici affetti da altre malattie diagnosticabili secondo la nosografia psichiatrica, sono individui dalla personalità disturbata, con difficoltà nelle relazioni interpersonali che sono la causa di una reazione abnorme a modeste sollecitazioni disturbanti, quali lo scorrere dell’acqua dei sanitari o le immissioni acustiche provenienti dal televisore delle persone presenti nell’appartamento adiacente, e non certo l’effetto di questi fattori ambientali, fermo restando che ove le imimissioni rumorose fossero state prodotte attraverso comportamenti emulativi,  la tutela risarcitoria avrebbe dovuto essere evocata non contro l’incolpevole condominio ma contro gli autori delle specifiche condotte illecite disturbanti. ” La sentenza, per l’ampia disamina della decisione di merito impugnata e le argomentazioni svolte, merita integrale lettura.

© massimo ginesi 20 gennaio 2017

il lastrico solare conteso da luogo ad azione di rivendicazione.

La Cassazione ( Cass. civ. II sez. 18 gennaio 2017 n. 1210 rel. Scarpa) affronta un tema complesso e che tocca il cuore della disciplina dei diritti reali: come va qualificata l’azione di colui che agisce per vedersi riconosciuto proprietario di un bene e per far cessare attività di terzi che ne pregiudicano l’utilizzazione esclusiva ?

La vicenda riguarda un lastrico solare conteso fra più condomini: “Con citazione del 20 aprile 2004 F.G. e Bo.Ro. convenivano davanti al Tribunale di Milano B.S. e il Condominio di via (omissis) , chiedendo che fosse accertato il diritto di proprietà indivisa, in capo agli attori stessi ed al B. , della terrazza costituita dal lastrico solare, soprastante una porzione al piano terreno dello stabile condominiale, terrazza alla quale avevano accesso, attraverso le rispettive porte finestre, gli attori e il convenuto B. , proprietari di unità immobiliari ad essa adiacenti”

Osserva la corte che “F.G. e Bo.Ro. hanno invocato nel presente giudizio la loro qualità di comproprietari, insieme al convenuto B.S. , del terrazzo esistente tra le unità immobiliari di loro rispettiva titolarità esclusiva, comprese nell’edificio condominiale di via (omissis) . Su tale terrazzo gli attori hanno lamentato che il convenuto avesse costruito arbitrariamente un lucernaio che pregiudicava il loro utilizzo del bene comune, e perciò ne chiedevano la demolizione con il ripristino dell’originaria pavimentazione.”

in forza di tale qualificazione viene tratteggiato il principio di diritto applicabile. Pare che la Suprema Corte si orienti verso una disciplina probatoria unitaria (e restrittiva) per ogni azione che presupponga una controversia sul diritto di proprietà, sfumando pressoché completamente il labile confine fra accertamento e rivendica: “Secondo, quindi, l’orientamento di questa Corte, erroneamente ritenuto non applicabile nel caso di specie dalla Corte d’Appello di Milano, gli attori dovevano soggiacere all’onere di offrire la prova rigorosa prescritta in tema di azione di rivendica della proprietà ex art. 948 c.c., avendo agito per ottenere – previo accertamento della comunione – il recupero della piena utilizzazione della terrazza, mediante demolizione del lucernaio costruito dal convenuto che pregiudicava il loro utilizzo del bene comune e ripristino della situazione dei luoghi, ovvero allo scopo di conseguire un provvedimento che consentisse loro l’esercizio dei poteri spettanti ai comunisti nell’uso del bene e quindi disponesse la modifica dello stato di fatto (cfr. da ultimo Cass. 11 maggio 2016, n. 9656, non massimata; Cass. 24 febbraio 2004, n. 3648).
È stato effettivamente affermato in passato da questa Corte che colui il quale proponga un’azione di mero accertamento della proprietà di un bene non abbia l’onere della “probatio diabolica”, ma soltanto quello di allegare e provare il titolo del proprio acquisto, quando l’azione non miri alla modifica di uno stato di fatto, bensì unicamente all’eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l’attore è già investito (Cass. 14 aprile 2005, n. 7777; Cass. 9 giugno 2000, n. 7894; Cass. 4 dicembre 1997, n. 12300). In altre pronunce, viceversa, si è negata ogni attenuazione dell’onere probatorio del titolo del preteso dominio della proprietà, rispetto all’azione di rivendica, per chi proponga un’azione di accertamento della proprietà di un bene (Cass. 22 gennaio 2000, n. 696). Quest’ultima più rigorosa interpretazione potrebbe ora trovare corroborazione pure negli argomenti posti da Cass. sez. un. 28 marzo 2014, n. 7305, nel senso di non ammettere alcuna elusione dall’onere della probatio diabolica ogni qual volta sia proposta un’azione, quale appare pure quella di accertamento, che trovi il proprio fondamento comunque nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione.
Rimane comunque che F.G. e Bo.Ro. , sia perché chiedono l’accertamento della (com)proprietà del terrazzo, sia perché comunque mirano ad ottenere una modifica dello stato di compossesso del bene, con ordine al convenuto B. di demolire un manufatto da questo realizzato, essendo soggetti al medesimo onere probatorio prescritto per l’azione di rivendica, debbano dare la prova della proprietà del bene, risalendo, anche attraverso i propri danti causa, con la sequela degli acquisti a titolo derivativo (inter vivos o mortis causa) fino a chi abbia acquistato in via originaria (ovvero dimostrando il compimento dell’usucapione, mediante il cumulo dei successivi possessi uti dominus).”

© massimo ginesi 20 gennaio 2016