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no alla mediazione obbligatoria per la nomina e la revoca giudiziale dell’amministratore?

E’ quanto sembra emergere da una recentissima pronuncia di legittimità (Cass.Civ. sez.  VI 18 gennaio 2018 n. 1237 rel. Scarpa) che, pur limitandosi agli aspetti procedurali della vicenda e dichiarando – per tali ragioni – inammissibile il ricorso, contiene un importante obiter dictum, che pare sconfessare alcune tendenze già emerse in pronunce di merito.

Il Tribunale di Padova 24.2.2015 e il Tribunale di Vasto 4.5.2017 hanno ritenuto che anche l’azione giudiziale volta alla nomina (o alla revoca) dell’amministratore dovesse sottostare alla obbligatoria condizione di procedibilità, prevista dall’art. 5 del D.lgs 28/2010.

La tesi dei giudici di merito appare assai poco convincente e frutto di un automatismo interpretativo non condivisibile.

Ampie riflessioni sulla inopportunità di procedere in tal modo sono state espresse, con larghezza di argomenti, anche in dottrina .

Oggi la Suprema Corte sembra avvallare la lettura negativa:  il giudice di legittimità si trova a valutare il ricorso avverso il provvedimento della corte di appello e risolve il problema dichiarando l’inammissibilità della impugnazione, trattandosi di provvedimento che è ricopribile per cassazione solo per la parte che attiene alle spese, secondo un consolidato orientamento.

La Corte d’Appello di Palermo ha aderito all’interpretazione del Tribunale, secondo cui il procedimento di mediazione obbligatoria è applicabile anche al giudizio di revoca dell’amministratore di condominio, nonostante si tratti di procedimento in camera di consiglio, stante la previsione dell’art. 71 quater disp. att. c.c.; ha quindi aggiunto che la mancata comparizione della ricorrente nell’incontro davanti al mediatore equivalesse a mancato avveramento della condizione di procedibilità”

Secondo consolidato orientamento di questa Corte, è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo avverso il decreto del tribunale in tema di revoca dell’amministratore di condominio, previsto dagli art. 1129 c.c. e 64 disp. att. c.c., trattandosi di provvedimento di volontaria giurisdizione; tale ricorso è, invece, ammissibile soltanto avverso la statuizione relativa alla condanna al pagamento delle spese del procedimento, concernendo posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo (Cass. Sez. 6 – 2, 23/06/2017, n. 15706; Cass. Sez. 6 – 2, 11/04/2017, n. 9348; Cass. Sez. 6 – 2, 27/02/2012, n. 2986; Cass. Sez. 6 – 2, 01/07/2011, n. 14524; Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957).

E’ dunque inammissibile la censura che E. B. rivolge al decreto impugnato, sotto forma di vizio in procedendo, diretta a sindacare la decisione sulla questione della soggezione del giudizio di revoca dell’amministratore di condominio al procedimento di mediazione ai sensi del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28.”

Risulta tuttavia di notevole interesse la riflessione che, comunque, la Corte compie in proposito: E’ vero infatti che l’art. 71-quater disp. att. c.c. (introdotto dalla I. 11 dicembre 2012, n. 220) precisa che per “controversie in materia di condominio”, ai sensi dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, si intendono, tra le altre, quelle degli articoli da 61 a 72 delle disposizioni per l’attuazione del codice (essendo l’art. 64 disp. att. c.c. relativo, appunto, alla revoca dell’amministratore).

Per contro, l’art. 5 comma 4, lett. f, (come sostituito dal d.l. n. 69/2013, conv. in I.n. 98/2013) del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28, è inequivoco nel disporre che il meccanismo della condizione di procedibilità, di cui ai commi 1-bis e 2, non si applica nei procedimenti in camera di consiglio, essendo proprio il giudizio di revoca dell’amministratore di condominio un procedimento camerale plurilaterale tipico.

Nell’interpretazione di questa Corte, di cui ai richiamati precedenti, si spiega, tuttavia, come il procedimento di revoca giudiziale dell’amministratore di condominio: 1) riveste un carattere eccezionale ed urgente, oltre che sostitutivo della volontà assembleare; 2) è ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, a fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore; 3) è perciò improntato a celerità, informalità ed ufficiosità; 4) non riveste, tuttavia, alcuna efficacia decisoria e lascia salva al mandatario revocato la facoltà di chiedere la tutela giurisdizionale del diritto provvisoriamente inciso, facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (pur non ponendosi questo come un riesame del decreto) (Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957; Cass. Sez. 6 – 2, 01/07/2011, n. 14524).

Pertanto, il decreto con cui la Corte d’Appello in sede di reclamo su provvedimento di revoca dell’amministratore di condominio, dichiari improcedibile la domanda per il mancato esperimento del procedimento di mediazione ex art. 5, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, comunque non costituisce “sentenza”, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 111, comma 7, Cost., essendo sprovvisto dei richiesti caratteri della definitività e decisorietà, in quanto non contiene alcun giudizio in merito ai fatti controversi, non pregiudica il diritto del condomino ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, né il diritto dell’amministratore allo svolgimento del suo incarico.

Trattasi, dunque, di provvedimento non suscettibile di acquisire forza di giudicato, a nulla rilevando la motivazione del ritenuto ostacolo pregiudiziale all’esame della domanda giudiziale, atteso che la pronuncia di improcedibilità, comunque motivata, resta pur sempre inserita in un provvedimento non decisorio sul rapporto sostanziale e non impugnabile, e non può pertanto costituire autonomo oggetto di impugnazione.

Il ricorso va perciò dichiarato inammissibile”

Insomma, la Corte non entra nel merito ritenendo sufficienti le ragioni processali per respingere l’impugnazione e, tuttavia, scrive nero su bianco che la condizione di procedibilità obbligatoria – costituita dalla mediazione – non si applica ai procedimenti camerali, di cui quello per la nomina o la revoca dell’amministratore costituiscono ipotesi tipica.

Chi ha orecchie per intendere, intenda…

© massimo ginesi 20 gennaio 2018

il decoro architettonico dell’edificio e la sua alterazione

Un condomino realizza sul proprio terreno, antistante l’edificio condominiale, una piattaforma di oltre trenta metri quadri,  dotata di ombrelloni posta  in adiacenza all’ingresso condominiale e ancorata alla facciata dell’edificio, tale da inserirsi  quindi nell’equilibrio architettonico del prospetto.

La Corte di appello di Roma ha ritenuto tale opera lesiva della simmetria del fabbricato e ne ha ordinato la rimozione.

La vicenda giunge al giudice di legittimità che – ritenendo corretto l’operato del giudice di merito – coglie l’occasione per ripercorrere la disciplina in tema di decoro del fabbricato, confermando principi ormai consolidati (Cass.Civ. VI sez. 18 gennaio 2018 n. 1235 rel. Scarpa) .

Osserva la Cassazione che “ai fini della tutela prevista dall’art. 1120 cod.civ.  in materia di divieto di innovazioni sulle parti comuni dell’edificio condominiale, non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall’innovazione, abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale decoro sia stato già gravemente ed evidentemente compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano alterate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità.

La tutela del decoro architettonico – di cui all’art. 1120 cod.civ. – attiene a tutto ciò che nell’edificio è visibile ed apprezzabile dall’esterno, posto che esso si riferisce alle linee essenziali del fabbricato, per cui il proprietario della singola unità immobiliare non può mai, senza autorizzazione del condominio, esercitare una autonoma facoltà di modificare quelle parti esterne, a prescindere da ogni considerazione sulla proprietà del suolo su cui venga realizzata l’opera innovativa (Cass. Sez. 2, 19/06/2009, n. 14455; Cass. Sez. 2,
14/12/2005, n. 27551; Cass. Sez. 2, 30/08/2004, n. 17398).

Si configura, in astratto, peraltro, non una violazione dell’art. 1120, comma 2, cod.civ.  (testo antecedente alle modifiche introdotte con la legge n. 220/2012, qui operante ratione temporis), ma dell’art. 1102 cod.civ., disposizione invero applicabile a tutte le innovazioni che, come nella specie, non comportano interventi approvati dall’assemblea e quindi spese ripartite fra tutti i condomini; dovendosi del pari riaffermare che, in tema di condominio, è illegittimo l’uso particolare o più intenso del bene comune, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., ove si arrechi pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio condominiale (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712; Cass. Sez. 2, 22/08/2012, n. 14607).

Né, ai fini della verifica del danno estetico alla facciata dell’edificio condominiale, determinante agli effetti degli artt. 1102 e 1120 e.e., assume rilievo il fatto che la piattaforma sia stata realizzata “in aderenza” al muro comune.

Al riguardo, il ricorrente propone anche una questione di applicabilità dell’art. 877 cod.civ. , questione che però non viene affrontata nella sentenza impugnata, e che risulta quindi inammissibile in questa sede, non essendo stato indicato, ex art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., in quale atto del giudizio di merito essa venne posta, e trattandosi peraltro di questione di diritto implicante il necessario svolgimento di indagini ed accertamenti di fatto.

In ogni caso, per il giudizio sull’alterazione dello stile architettonico della parete esterna di un fabbricato condominiale, è privo di decisività il dato che il manufatto ivi realizzato si innesti nel muro comune o coesista con esso,rimanendone autonomo.

Del pari privo di significato determinante è che il manufatto non impedisse l’accesso allo stabile condominiale né la visibilità del suo numero civico (circostanze che la ricorrente assume nel suo quinto motivo come accertate in primo grado e non oggetto di specifica devoluzione al giudice d’appello, e perciò ormai coperte da giudicato), in quanto gli artt. 1120 e 1102 cod.civ.  individuano, quali limiti per la legittimità delle modificazione di uno stabile condominiale, la stabilità o la sicurezza del fabbricato, il decoro architettonico dell’edificio, appunto, nonché l’uso o il godimento delle parti comuni ad opera dei singoli condomini, limiti operanti, tuttavia, in via pure alternativa e non necessariamente concorrente.

Neppure è infine decisiva la doglianza sulla mancata specificazione della diminuzione di valore economico correlata alla modifica, in quanto, avendo la Corte d’Appello accertato una alterazione della fisionomia architettonica dell’edificio condominiale, per effetto della realizzazione di una piattaforma di oltre trenta metri quadrati ancorata alla facciata, il pregiudizio economico risulta conseguenza normalmente insita nella menomazione del decoro architettonico, che, costituendo una qualità del fabbricato, è tutelata – in quanto di per sé meritevole di salvaguardia – dalle norme che ne vietano l’alterazione (così Cass. Sez. 2, 31/03/2006, n. 7625; Cass. Sez. 2, 24/03/2004, n. 5899).”

© massimo ginesi 19 gennaio 2018

quando il condomino si attacca al contatore condominiale in maniera illecita: è appropriazione indebita.

La Cassazione Penale ( Cass. Pen. sez. V 28 dicembre 2017 n. 57749) qualifica la condotta del condomino che, in maniera clandestina, si appropria di energia elettrica comune all’acciandosi all’impianto condominiale a valle del contatore.

i fatti:

 

Non si tratta di furto ma di appropriazione indebita, conclusione che – sotto il profilo meramente giuridico – appare ineccepibile.

 

e non può neanche riconoscersi l’aggravante della coabitazione ex art. 61 . n 11 c.p.

la conseguenza più rilevante della diversa qualificazione giuridica del fatto e della inapplicabilità dell’aggravante emerge sotto il profilo della procedibilità: il reato diviene procedibile a querela di parte, nella fattispecie insussistente, sicchè la corte annulla senza rinvio, poichè l’azione penale non doveva essere esercitata.

Emerge dunque che, ove si verifichino tali ipotesi, è indispensabile che l’amministratore o taluno dei condomini non si limitino ad un mero esposto alla procura, ma propongano espressa querela.

© massimo ginesi 16 gennaio 2018

 

L’accettazione della nomina: una interessante ed esaustiva analisi della disciplina vigente

Sul numero di gennaio 2018 della rivista  “immobili&proprietà” appare un interessante articolo di Antonio Scarpa, finissimo studioso della materia condominiale e magistrato della seconda sezione civile della Corte di Cassazione,  su un tema che ha destato non pochi dubbi e riflessioni all’entrata in vigore della riforma del 2012: la nomina dell’amministratore e l’obbligo della sua accetazione oggi previsto dal novellato art. 1129 c.c.

Aldilà dei molti riflessi legati al compenso, che la norma riconnette alla accettazione, sotto il profilo meramente dogmatico non si è potuto non rilevare sin dallla approvazione della L. 220/2012  che il termine  accettazione – usato dal legislatore della novella –   introduce una specifca notazione relativa a momento perfezionativo del negozio, con riguardo alla disciplina generale dei contratti.

La lettura dell’intero articolo è di grande interesse, giova tuttavia rilevare un passaggio – del tutto condivisibile – che evidenzia proprio l’aspetto relativo al perfezionamento della nomina:

La nomina dell’amministratore è da ritenere realizzata, con la derivante efficacia nei confronti dei terzi, anche ai fini della rappresentanza processuale dell’ente, solo dal momento in cui sia adottata la rispettiva deliberazione dell’assemblea nelle forme di cui all’art. 1129 c.c. e ad essa consegua l’accettazione dell’amministratore designato.

Non rileva, quanto meno sotto l’aspetto dei rapporti con i terzi, il dato che l’amministratore possa anche essere nominato pure mediante una manifestazione di volontà diversa dall’espressa investitura nell’ufficio da parte dell’assemblea: la formale deliberazione di nomina, nelle modalità supposte dall’art. 1129, comma 1, c.c., e la sua conforme accettazione soddisfano le esigenze di certezza e di affidamento avvertite dagli estranei che debbano negoziare con il  condominio o agire in giudizio nei suoi confronti.”

 

© massimo ginesi 15 gennaio 2018

l’amministratore che reclama somme dal condominio non può notificare i relativi atti a sè stesso.

L’amministratore che reclami competenze non saldate dal condominio, e per quelle ottenga decreto ingiuntivo, non può provvedere alla notifica del decreto e del relativo precetto a sé stesso, per la sussistenza di un evidente conflitto di interesse e per la circostanza che tale notifica in realtà impedisce al condominio di venire a conoscenza dell’atto.

In tal caso l’amministratore avrebbe dovuto procedere alla richiesta di nomina di un curatore speciale per il condominio ai sensi degli artt. 65 disp.att.cod.civ. e  80 c.p.c.

Lo afferma una condivisibile pronuncia del Tribunale di Milano 30 novembre 2017.

Il giudice meneghino osserva:  “A riguardo, premesso che, secondo quanto è pacifico tra le parti, il decreto ingiuntivo in base al quale è stato notificato il qui opposto precetto risulta notificato dall’avv. P.F.M. allo stesso P., quale amministratore del condominio, non può non rilevarsi che la notifica è avvenuta ad un soggetto in palese conflitto di interessi, essendo in realtà necessaria (al fine della ricezione del decreto ingiuntivo) la nomina di un curatore speciale del condominio (argg. ex Cass. 19149/14, Cass. 20659/09, Cass. 8803/03).

La notifica del decreto ingiuntivo allo stesso ricorrente deve pertanto ritenersi inesistente in quanto effettuata a persona in palese conflitto di interessi ed in luogo che (con riferimento alla specifica notificazione che viene qui in rilievo) non è in alcun modo riconducibile al destinatario dell’atto.

L’accertamento dell’inesistenza della notifica del decreto ingiuntivo consente di non esaminare le questioni ulteriori alla base della proposta opposizione.”

© massimo ginesi 9 gennaio 2018

l’amministratore ha obbligo di comunicare i dati dei morosi al creditore che ne faccia richiesta

Lo ha stabilito, in linea con una consolidata giurisprudenza di merito, il Tribunale di Massa con provvedimento del 5 gennaio 2018, emesso a seguito di ricorso ex art 702 bis c.p.c. del creditore.

Il provvedimento fissa anche una somma ex art 614 bis c.p.c. per ogni giorno di ritardo nella esecuzione da parte del condominio.

Il tribunale rileva che, nonostante quanto osservato di recente dalla corte di legittimità in ordine alla possibilità di agire esecutivamente anche in assenza dei dati sugli effettivi condomini morosi, sia comunque interesse del creditore agire in via esecutiva senza esporsi al rischio di possibili opposizoni, ottenendo dall’amministratore le informazioni previste dall’art. 63 disp.att. cod.civ.

Da sottolineare come  tali informazioni debbano riguardare non i condomini morosi tout court ma quelli che siano inadempienti rispetto al credito espressamente vantato dal soggetto richiedente.

“Ritenuto che – pur potendo il creditore dar corso ad azione esecutiva anche senza conoscere le quote millesimali dei singoli condomini (Cass. 22856/2017) – sia suo pieno interesse, che lo legittima dunque all’azione oggi esperita, ottenere tali dati dall’amministratore onde procedere alla esecuzione dell’obbligazione parziaria che incombe in capo ai singoli obbligati senza il rischio di opposizione da parte dei singoli

Rilevato peraltro che l’obbligo della relativa comunicazione sia posto in capo all’amministratore da espressa previsione di legge (art. 63 disp.att. c.c.) e che pertanto costui debba comunicare al creditore insoddisfatto i dati dei condomini morosi nel pagamento delle rispettive quote del credito per il quale l’informazione è richiesta (Trib. Torre Annunziata 28.6.2017, Trib. Roma 1.2.2017).

Ritenuto che meriti accoglimento anche l’istanza dell’attore di fissare, ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c., una somma a carico dell’obbligato per ogni giorno di eventuale ritardo nella esecuzione del presente provvedimento; somma che, tenuto conto dell’importo del credito vantato e del significativo ritardo che la condotta dell’amministratore ha comportato per il soddisfacimento delle pretese del creditore, si determina in € 100 per ogni giorno di ritardo nella esecuzione del provvedimento

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in misura prossima agli importi medi per lo scaglione di valore di pertinenza ex dm 55/2014.

P.Q.M.

Visti gli artt. 702 bis e segg. c.p.c. condanna CONDOMINIO C. in persona amministratore pro tempore a comunicare al ricorrente i dati anagrafici dei condomini morosi rispetto al credito vantato dal ricorrente, nonché il valore millesimale riconducibile a ciascuno di costoro secondo la tabella di ripartizione in uso per tali spese.

Visto l’art. 614 bis c.p.c. dispone che tale comunicazione avvenga entro cinque giorni dalla notifica della presente ordinanza e fissa in cento euro la somma dovuta per ogni giorno di ritardo nella esecuzione del provvedimento

condanna CONDOMINIO C. al pagamento delle spese processuali sostenute dal ricorrente, liquidate in euro 76,50 per spese ed euro 2.200 per compenso professionale (applicati importi ex art 55/2014 in misura prossima a quelli medi previsti per il relativo scaglione di valore) oltre rimb. forf. Iva e Cpa come per legge”

© massimo ginesi 8 gennaio 2018

 

il giudice non può liquidare le spese in misura inferiore ai minimi tariffari

E’ il principio espresso da Cass.Civ. VI sez. 11 dicembre 2017 n. 29594 rel. Giusti .

La sentenza è lapidaria, ma rappresenta un fondamentale punto fermo  e  di garanzia per i difensori, che spesso vedono bistrattate le proprie ragioni nei giudizi di merito.

con il secondo motivo ci si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., e del D.M. n. 55 del 2004, art. 4, e delle tabelle 1-2 dei parametri ad esso allegate;

che con esso il ricorrente lamenta che siano state liquidate spese di giudizio in violazione dei minimi tariffari;

che il motivo è manifestamente fondato;

che va fatta applicazione del principio secondo cui il giudice del merito non può liquidare le spese di giudizio in misura inferiore ai minimi disposti dalla tariffa forense (Cass., Sez. 6^-2, 30 marzo 2011, n. 7293)”

Va osservato che la pronuncia del 2011, richiamata, pur affermando principi analoghi, aveva riguardo ancora alla liquidazione secondo diritti ed onorari e all’espunzione di alcune voci da parte del giudice nella nota depositata dal difensore: “l’abolizione dei minimi tariffari puo’ operare nei rapporti tra professionista e cliente, ma l’esistenza della tariffa mantiene la propria efficacia allorquando il giudice debba procedere alla regolamentazione delle spese del giudizio in applicazione del criterio della soccombenza. Nel caso di specie, il Tribunale di Roma e’ incorso nella denunciate violazioni sia perche’ ha liquidato cumulativamente le spese del giudizio di primo e di secondo grado, sia perche’ la misura complessivamente liquidata appare lesiva delle tariffe professionali specificate nel ricorso, sia infine perche’ lo scostamento dalla nota spese depositata dal difensore non e’ sorretto da alcuna motivazione. In tema di liquidazione di spese processuali, infatti, il giudice, in presenza d’una nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, non puo’ limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, in misura inferiore a quelli esposti, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione e della riduzione di voci da lui operata” (Cass.Civ. VI sez. 30 marzo 2011 n. 7293).

La pronuncia odierna ha invece riguardo alle tariffe secondo la nuova impostazione (vigente all’epoca il Dm 127/2004, che adottava criteri identici a quelli previsti  dall’attuale Dm 55/2014), riconoscendo  alla soglia inferiore delle stesse analoga   vincolatività per il giudice.

© massimo ginesi 5 gennaio 2018