ancora sui parcheggi pertinenziali: quando l’area è stata realizzata dal costruttore e ceduta a terzi.

Il tema dei parcheggi pertinenziali è assai complesso ed è stato oggetto di lunga elaborazione giurisprudenziale.

Si è più volte affermato in giurisprudenza che, ove il costruttore non provveda a realizzare le relative aree, al compratore dell’immobile non residui altro che azione risarcitoria nei suoi confronti.

Una pronuncia estiva di legittimità (Cass.civ. sez. II  22 agosto 2019 n. 21582 rel. Giusti) esamina invece l’ipotesi opposta, ovvero il caso in cui il costruttore dell’edificio condominiale abbia realizzato in concreto dette aree, disponendone poi l’alienazione a singoli, in violazione della destinazione imposta dalla norma di rilevanza pubblica (e che, come tale, è opponibile anche al terzo acquirente).

LA motivazione della sentenza è stringata ed in linea con l’orientamento della Corte Suprema, già più volte espresso;  interessante ed indispensabile ai fini di meglio comprendere la fattispecie, appare  la descrizione in fatto degli avvenimenti che hanno condotto al processo.

i fatti e il processo – “La controversia veniva promossa, con atto di citazione notificato il 4 marzo 1983, dinanzi al Tribunale di Roma da O.G. e altri contro la società Capitolina a r.l., lo.ma. , C.C. ved. Lo. , Lo.Me. e Lo.Ma. , nella qualità di eredi di Lo.Ar. , e L.A. .

Con patto d’obbligo del 16 febbraio 1968 la società Capitolina si era impegnata a destinare ad area di parcheggio una superficie di mq. 523,75; con atto di compravendita del 23 dicembre 1968 detta società trasferiva ad Lo.Ar. gli appartamenti di cui alla scala B con annessa autorimessa al piano interrato e a Lo.Ma. la proprietà dei restanti appartamenti; Lo.Ar. vendeva ad L.A. il locale autorimessa distinto con il n. 2 e il locale autorimessa con il n. 3; con successivi atti Lo.Ar. e Lo.Ma. trasferivano la proprietà dei singoli appartamenti agli attori.

Il Tribunale di Roma, a seguito della rimessione della causa dalla Corte d’appello ex art. 354 c.p.c., per difetto di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, con sentenza n. 17041 del 2001, non definitivamente pronunciando, così provvedeva: dichiarava che la società costruttrice si era impegnata irrevocabilmente e definitivamente a destinare e mantenere permanentemente a parcheggio la superficie asservita; dichiarava nullo l’atto con cui la società costruttrice aveva venduto ad Lo.Ar. un’autorimessa privata al piano interrato con un piccolo cortiletto di servizio e accessorio a confine da tutti i lati con terrapieno; dichiarava di conseguenza nullo in parte l’atto con cui Lo.Ar. aveva venduto ad L.A. i locali ad uso autorimessa privata siti al piano interrato e distinti con il n. 2 e il n. 3; dichiarava fondata l’azione degli attori tesa a ottenere uno spazio su cui esercitare in modo esclusivo e permanente il diritto di parcheggio come riconosciuto dal legislatore; dichiarava che il bene sul quale gli attori dovevano esercitare il diritto di parcheggio andava individuato nei due locali venduti da Lo.Ar. ad L.A. e precisamente nel locale ad uso autorimessa privata sito al piano interrato, distinto con il n. 2, confinante con il garage della palazzina A, nonché nel locale a uso autorimessa privata sito al piano interrato, distinto con il n. 3, confinante con il locale caldaia; dichiarava che si doveva procedere con separata sentenza a indicare la consistenza del bene da asservire, individuare la posizione dei luoghi, indicare i lavori da eseguire, stabilire le modalità di uso, quantificare i danni patiti da L.A. da porre a carico degli eredi del dante causa, provvedere alla liquidazione delle spese; ordinava altresì l’estromissione di Lo.Ma. e compensava le spese nei suoi confronti, rimettendo con ordinanza la causa sul ruolo per l’istruttoria.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 33031 del 2004, definitivamente pronunciando, accertava che l’area da adibire all’uso di parcheggio per gli attori era di mq. 215,82 e per l’effetto condannava L.A. al rilascio dell’area, nonché all’esecuzione dei lavori specificati dal c.t.u. e ritenuti necessari per l’adattamento dell’area all’uso, oltre che al pagamento delle spese di lite in favore della parte attrice, accoglieva la domanda di risarcimento dei danni proposta dal L. nei confronti degli eredi di Lo.Ar. e per l’effetto condannava Lo.Me. e Lo.Ma. al pagamento della somma di Euro 258.958, oltre rivalutazione e interessi legali, compensando le spese di lite tra di loro, mentre condannava questi ultimi a rivalere il L. delle spese di giudizio e di c.t.u. alle quali era stato condannato, rigettava la domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti della C. , nonché rigettava la domanda di manleva proposta dagli eredi di Lo.Ar. nei confronti della società Capitolina e rigettava le restanti domande.

Pronunciando sull’appello principale di Lo.Me. e Lo.Ma. e sull’appello incidentale di L.A. , la Corte d’appello di Roma, con sentenza in data 14 maggio 2014, in parziale riforma della sentenza definitiva, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dal L. , ha confermato nel resto le sentenze gravate come in parte motiva e ha compensato tra le parti costituite le spese del giudizio.

Per quanto qui ancora rileva, la Corte distrettuale:
ha rigettato la doglianza del L. secondo cui agli attori avrebbe dovuto essere riconosciuta solo una tutela risarcitoria e non un diritto reale d’uso;
ha escluso la sussistenza del diritto al risarcimento in favore del L. , conoscendo costui, successivo acquirente, l’entità del suo acquisto e dunque il vincolo di destinazione d’uso;
ha affermato che l’asservimento dell’area deve ritenersi limitato al solo diritto d’uso in proporzione fatto valere dagli attori e che con riguardo all’uso dei soli attori ha pronunciato il Tribunale con la sentenza gravata;
ha rilevato che nessuna domanda di quantificazione del corrispettivo per il diritto d’uso è stata proposta dal L. .”

il principio di diritto espresso dalla CassazioneÈ bensì esatto, rispondendo ad un principio più volte affermato da questa Corte regolatrice (Cass., Sez. II, 22 febbraio 2006, n. 3961; Cass., Sez. II, 7 maggio 2008, n. 11202; Cass., Sez. II, 25 maggio 2017, n. 13210), che, in tema di spazi riservati a parcheggio nei fabbricati di nuova costruzione, il vincolo previsto al riguardo dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, è subordinato alla condizione che l’area scoperta esista e non sia stata adibita ad un uso incompatibile con la sua destinazione; ove lo spazio, pur previsto nel progetto autorizzato, non sia stato riservato a parcheggio in corso di costruzione e sia stato, invece, utilizzato per realizzarvi manufatti od opere di altra natura, non può farsi ricorso alla tutela ripristinatoria di un rapporto giuridico mai sorto ma, eventualmente, a quella risarcitoria, atteso che il contratto di trasferimento delle unità immobiliari non ha avuto ad oggetto alcuna porzione dello stesso ed il riconoscimento giudiziale del diritto reale d’uso degli spazi destinati a parcheggio può avere ad oggetto soltanto le aree che siano destinate allo scopo di cui si tratta nei provvedimenti abilitativi all’edificazione.

Sennonché da tale principio deriva che la configurabilità della sola tutela risarcitoria si ha quando lo spazio vincolato, pur previsto nel progetto autorizzato, non sia stato riservato a parcheggio in corso di costruzione e sia stato utilizzato per realizzarvi manufatti od opere di altra natura.

Ma non è questa la situazione che la Corte d’appello, confermando la sentenza del Tribunale, ha accertato, essendo risultato, alla luce delle emergenze tecniche, che la proprietà L. con la destinazione di autorimessa è localizzata all’interno della superficie destinata inderogabilmente a parcheggio (“l’area destinata a parcheggio di proprietà del L. indicata dal consulente in mq 215,82 è l’area sulla quale grava per legge il diritto d’uso”).

… La Corte d’appello si è correttamente attenuta al principio di diritto secondo cui il diritto reale d’uso di aree destinate a parcheggio, quale limite legale della proprietà del bene, deriva da norme imperative assistite, come tali, da una presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari, sì che il vincolo da esse imposto non può legittimamente qualificarsi come onere non apparente gravante sull’immobile secondo la previsione dell’art. 1489 c.c., e non è, conseguentemente, invocabile dal compratore come fonte di responsabilità del venditore che non lo abbia dichiarato nel contratto (Cass., Sez. II, 18 aprile 2000, n. 4977).”

© massimo ginesi 16 settembre 2019 

 

 

 

sottoscala: è comune ex art 1117 c.c. se il contrario non risulta dal titolo

Una pronuncia ( Cass.civ. sez. II ord. 9 settembre 2019, n. 22442) che potrebbe essere fraintesa, poichè al termine sottoscala possono essere ricondotte situazioni fra loro assai eterogenee, da vano chiuso e dotato di propria autonomia funzionale a semplice area aperta posta sotto la rampa.

Appare quindi opportuno che, prima di applicare il principio  di diritto richiamato dalla Corte, peraltro già oggetto di consolidato orientamento, si ponga debita attenzione alla natura, struttura e destinazione funzionale del vano di cui si discute.

È pacifico che il sottoscala rientri tra le parti comuni dell’edificio condominiale, ex art. 1117 c.c., in quanto proiezione delle scale.
Incombe, pertanto, a chi rivendichi l’acquisto uti singuli di detta porzione di immobili l’onere di provare che questa venne avocata a sé dal venditore col primo atto di frazionamento.
Questa Corte, con orientamento consolidato al quale intende dare continuità, ha affermato che, al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto.

Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni (Cassazione civile sez. II, 09/08/2018, n. 20693; Cass. Civ., n. 11812 del 2011; Cass. Civ., n. 13450 del 2016; Cass. Civ., n. 5831 del 2017).

La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato da questa Corte e, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha accertato che G.L. aveva acquistato dalla SICE s.r.l., con atto del 14.10.1963 per notar T. , diversi locali terranei facenti parti del fabbricato in (OMISSIS) , con altro atto in pari data aveva acquistato alcuni quartini del medesimo fabbricato, nonché il locale garage, confinante – tra l’altro – con il locale in questione. Dall’esame dei titoli di proprietà e dalla CTU, riservata al giudice di merito, era emerso che la ditta costruttrice si era riservata la proprietà di alcuni sottoscala ma non di quello della scala X, ove era situato quello oggetto di lite, che era, pertanto di proprietà comune.

Ulteriore conferma della condominialità del bene veniva ravvisato nel contenuto del regolamento di condominio, che annoverava tra le proprietà esclusive della società costruttrice i box sottostanti al primo rampante delle scale (…) ma non della scala (…), che, doveva, pertanto ritenersi comune (pag.11-13 della sentenza impugnata).
In assenza del titolo contrario idoneo a superare la condominialità del sottoscala, il giudice d’appello ha ritenuto che si trattasse di bene comune.”

La corte osserva come sia onere di colui che invoca l’acquisto di detto vano per usucapione provare rigorosamente sia il termine iniziale che il decorso del ventennio: “Incombe su chi invoca l’acquisto per usucapione o ne eccepisce l’acquisto, l’onere di provare sia il momento iniziale del possesso ad usucapionem, sia la decorrenza del ventennio.
La corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto in tema di onere della prova, ritenendo che fosse onere del G. provare l’inizio della decorrenza dell’usucapione, coincidente con l’inizio dei lavori per l’accorpamento del vano scala.
Ha, quindi, ritenuto che, poiché i testi avevano genericamente fatto riferimento al periodo post-terremoto, fosse inverosimile che l’inizio dei lavori risalisse al 1980 e che nel 2000 il termine ad usucapire fosse decorso.”

© massimo ginesi 11 settembre 2019

 

attenzione all’uso improprio del box: se i VV.FF. non rilasciano il CPI all’autorimessa, il condomino risponde dei danni

E’ quanto statuisce  Cass.civ. sez. II  26 agosto 2019, n. 21699, rigettando il ricorso di un condomino contro la sentenza della “Corte di appello di Roma del 5.8.2014 che, in parziale accoglimento del gravame del Condominio, lo ha condannato alla riduzione in pristino del box di sua proprietà sia in relazione alle opere murarie, ripristinando l’originaria consistenza, sia in relazione alla destinazione d’uso ad autorimessa o uso compatibile anche ai fini del certificato prevenzione incendi.

Il giudizio era stato promosso dal condominio a seguito del denegato rinnovo della certificazione anticendi in quanto nel box 110 del Ma. si trovavano depositati macchinari di lavanderia ed altri materiali e lo stesso era stato inutilmente invitato a produrre l’autorizzazione al cambiamento di destinazione e diffidato a rimuovere la situazione impeditiva del rilascio della certificazione dei VV.FF.

Il condominio aveva chiesto la condanna alla riduzione in pristino, alla rimozione dei macchinari ed ai danni mentre il Tribunale, nella resistenza del convenuto che aveva dedotto l’avvenuto sgombero dei materiali di lavanderia, aveva rigettato la domanda.

La Corte di appello ha statuito che le modifiche dello stato dei luoghi ed il cambiamento di destinazione avevano determinato una situazione di pregiudizio alla proprietà comune acclarata dai documenti provenienti dai VV.FF.”

LA Corte di legittimità ritiene che le censure mosse siano inammissibili per ragioni eminentemente processuali e, tuttavia, non ravvisando alcun vizio di motivazione, conferma indirettamente la correttezza delle valutazione del  giudice  di appello capitolino, che ha ritenuto la condotta di colui che usa in maniera impropria il box, impedendo al condominio di ottenere la relativa certificazione antincendio dall’autorità competente, come condotta lesiva di beni ed interessi comuni che – come tale obbliga – oltre che alla riduzione in pristino – anche al risarcimento del danno.

Osserva infatti la Suprema Corte che “Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
Nel caso di specie non si ravvisano né l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, né un’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante.”

© massimo ginesi 9.9.2019

divisione condominio: deve comportare autonomia fisica dei complessi edilizi risultanti

Una recente pronuncia  della Suprema Corte ( Cass.civ. 3 settembre 2019, n. 22041  rel. Criscuolo)  ripercorre con grande precisione i presupposti in forza dei quali può essere disposta la divisione del condominio.

Si ribadisce un consolidato orientamento, secondo il quale la divisione di un complesso immobiliare in parti autonome può avvenire solo ove gli edifici risultanti abbiano autonomia strutturale pressoché totale, e non invece ove tale autonomia risulti solo sotto il profilo amministrativo.

”  Preliminarmente deve essere disattesa la censura di parte ricorrente quanto alla mancata considerazione ai fini del riconoscimento del quorum previsto dall’art. 61 disp. att. c.c., della titolarità in capo alla A.L.G. di un appartamento ubicato nel fabbricato individuato come Condominio n. 3, e ciò in ragione del fatto che in realtà la sua proiezione verticale interesserebbe in prevalenza la parte del fabbricato denominato, sempre nell’elaborato peritale, come Condominio n. 4.

Rileva in tal senso che la doglianza investe precipuamente un accertamento in fatto operato dal giudice di merito che proprio in relazione alla necessaria indagine finalizzata a verificare l’autonomia degli edifici, presupposto necessario, come si avrà modo di esporre oltre, per addivenire all’accoglimento della domanda di scioglimento del condominio, ha riscontrato che l’unità immobiliare di cui al motivo di ricorso, sebbene avente anche accesso dalle parti comuni del fabbricato denominato Condominio n. 3, nella realtà faceva parte di un diverso edificio, destinato, secondo la prospettazione dell’ausiliario d’ufficio, a dare vita ad un diverso condominio, con la conseguenza che dal computo dei condomini dell’edificio di cui si chiede la separazione, ed in relazione al Condominio n. 3 non poteva tenersi conto del bene in esame.

La contraria deduzione di parte ricorrente evidenzia che nel novero dei beni comuni ex art. 1117 c.c., rientrano anche le scale, gli ingressi, gli androni ecc., così che il bene che ne usufruisce in concreto non può che considerarsi incluso nel condominio.

L’errore che risiede in tale prospettazione parte in primo luogo dal fatto di avere riguardo a quella che è la situazione attuale di unitarietà dell’intero condominio del palazzo A.L., con la conseguenza che ogni singola unità immobiliare ivi inclusa può vantare diritti di comunione sui beni rientranti nel novero di cui all’art. 1117 c.c., laddove posti a servizio della stessa.

Trascura però di considerare la diversa conclusione alla quale dovrebbe approdarsi all’esito dello scioglimento del condominio, in quanto, avendo i giudici di merito accertato con verifica in fatto, non suscettibile di rivisitazione in questa sede, che l’unità immobiliare de qua in realtà appartiene al corpo di fabbrica denominato come Condominio n. 4 da parte del CTU, le scale, l’androne e l’ingresso del diverso condominio n. 3 non rientrerebbero più tra i beni comuni sui quali l’appartamento in questione possa vantare diritti ex art. 1117 c.c., potendo se del caso riconoscersi un perdurante diritto alla loro fruizione sulla base di un diverso regime giuridico, quale ad esempio quello fondato sull’esistenza di un diritto di servitù, occorrendo infatti avere riguardo ai fini che interessano, unicamente alla appartenenza o meno del bene ad un determinato edificio.

Disattesa tale censura, va altresì escluso che ricorra la dedotta violazione delle norme in tema di scioglimento del condominio.

A tal fine deve farsi richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte che, già a far data da Cass. n. 1964/1963, ha affermato che a norma degli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., lo scioglimento del condominio di un edificio o di un gruppo di edifici, appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi, in tanto può dare luogo alla costituzione di condomini separati, in quanto l’immobile o gli immobili oggetto del condominio originario, possano dividersi in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, quand’anche restino in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall’art. 1117 c.c..

Il tenore della norma, riferito all’espressione “edifici autonomi” esclude di per sé che il risultato della separazione si concreti in un’autonomia meramente amministrativa, giacche, più che ad un concetto di gestione, il termine “edificio” va riferito ad una costruzione, la quale, per dare luogo alla costituzione di più condomini, dev’essere suscettibile di divisione in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale, indipendentemente dalle semplici esigenze di carattere amministrativo.

La sola estensione che può consentirsi a tale interpretazione è quella prevista dall’art. 62 citato, il quale fa riferimento all’art. 1117 c.c. (parti comuni dell’edificio in quanto destinate in modo permanente al servizio generale e alla conservazione dell’immobile, riguardato sia nel suo complesso unitario che nella separazione di edifici autonomi).

In questo ultimo caso, l’istituzione di nuovi condomini non è impedita dalla permanenza, in comune delle cose indicate dall’art. 1117, la cui disciplina d’uso potrà formare oggetto di particolare regolamentazione riferita alle spese e agli oneri relativi.

Al di fuori di tali interferenze di carattere amministrativo espressamente previste dalla legge, se la separazione del complesso immobiliare non può attuarsi se non mediante interferenze ben più gravi, interessanti la sfera giuridica propria di altri condomini, alla cui proprietà verrebbero ad imporsi limitazioni, servitù o altri oneri di carattere reale, è da escludere, in tale ipotesi che l’edificio scorporando possa avere una propria autonomia strutturale, pur essendo eventualmente autonoma la funzionalità di esso riferita alla sua destinazione e gestione amministrativa.

Trattasi di principi assolutamente condivisibili e che sono stati ripresi anche dalla più recente giurisprudenza che ha ribadito che (Cass. n. 27507/2011) l’autorità giudiziaria può disporre lo scioglimento di un condominio solo quando il complesso immobiliare sia suscettibile di divisione, senza che si debba attuare una diversa ristrutturazione in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale, mentre, laddove la divisione non sia possibile senza previa modifica dello stato delle cose mediante ristrutturazione, lo scioglimento e la costituzione di più condomini separati possono essere approvati soltanto dall’assemblea con un numero di voti che sia espressione di due terzi del valore dell’edificio e rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio.

In termini si veda anche Cass. n. 21686/2014 che ha affermato che l’espressione “edifici autonomi”, non consente di accedere all’esito interpretativo secondo cui il risultato della separazione si possa concretizzare in una autonomia meramente amministrativa, giacché, più che ad un concetto di gestione, il termine “edificio” va riferito ad una costruzione, la quale, per dare luogo alla costituzione di più condomini, deve essere suscettibile di divisione in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale, indipendentemente dalle semplici esigenze di carattere amministrativo.

Resta quindi preclusa la possibilità di attuare la separazione in caso di interferenze gravi, interessanti la sfera giuridica propria di altri condomini, alla cui proprietà verrebbero ad imporsi limitazioni, servitù o altri oneri di carattere reale, in quanto ciò porta ad escludere che l’edificio scorporando possa avere una propria autonomia strutturale, pur essendo eventualmente autonoma la funzionalità di esso riferita alla sua destinazione e gestione amministrativa.

Infine, tali principi hanno ricevuto ulteriore conferma da Cass. n. 16385/2018 che ha precisato come l’indagine circa la natura autonoma o meno degli edifici scorporandi dall’unitario condominio costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito.”

Appare interessante anche il rilievo relativo al collegamento di più edifici, effettuato da taluni condomini che avevano collegato le proprie unità immobiliari poste in corpi di fabbrica diversi:

“Nè appare pertinente rispetto alla vicenda in esame quanto affermato da Cass. n. 4439/1982, secondo cui, dato il valore di atto ricognitivo dello scioglimento del condominio di edificio, secondo la previsione degli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., con la costituzione di condomini separati per le parti di detto edificio che presentino i connotati di autonomi e distinti edifici, il singolo condomino, che quale proprietario di più appartamenti, ricadenti per l’avvenuto scioglimento in edifici distinti, li abbia unificati (abbattendo un muro divisorio) prima dello scioglimento stesso, possa ritenersi obbligato alla separazione degli appartamenti medesimi, ovvero autore di un’indebita imposizione di servitù, per il fatto di continuare ad utilizzare determinate cose comuni di ciascun distinto edificio per l’intera sua proprietà esclusiva, salvo che ricorra la dimostrazione dell’insussistenza della distinzione degli edifici, e la ricorrenza, in realtà, di un unico edificio, in quanto nel caso in esame non è dimostrato che la condizione di sovrapposizione delle unità immobiliari sia frutto di una condotta illegittima dei proprietari delle singole unità stesse, o se piuttosto non risalga alle originarie modalità costruttive dell’edificio, che invece denoterebbe in maniera evidente la volontà di far perdere ai vari corpi di fabbrica la connotazione dell’autonomia.
Ne discende quindi che, non potendosi discutere circa la legittimità della condizione attuale dei fabbricati (trattandosi in ogni caso di questione che esula dal novero di quelle solevate dai ricorrenti), la permanenza dello stato di fatto attuale e quindi della sovrapposizione in più condomini delle medesime unità immobiliari preclude il riconoscimento del carattere dell’autonomia degli edifici, mentre ove si opinasse per addivenire alla separazione degli appartamenti, al fine di ricondurli nelle proiezioni verticali dei vari edifici, si verrebbero in tal modo ad imporre alle proprietà individuali delle limitazioni che appaiono incompatibili con i presupposti che la legge richiede per addivenire allo scioglimento del condominio”

copyright massimo ginesi 6 settembre 2019

impugnazione di delibera e rito: una bizzarra sentenza estiva della Cassazione

E’ ormai dato acquisito che l’impugnativa di delibera condominiale vada proposta con atto di citazione, così come ha inequivocabilmente statuito la Suprema Corte a Sezioni unite ( Cass. civ. Sez. Un. 14 aprile 2011 n. 8491)   e come oggi si desume anche dal novellato  art. 1137 c.c.

La tesi ha trovato pacifica conferma anche per l’appello.

Cio nonostante la Corte di legittimità  (Cass.civ. sez. II  23 agosto 2019 n. 21632)  ritorna sulla forma dell’atto introduttivo del giudizio di appello, laddove la fase di primo grado sia stata introdotta con corso, introducendo – tra l’altro – la questione dell’ultrattività del rito, che poco appare pertinente posto che la forma dell’atto introduttivo non necessariamente condiziona il rito applicabile.

“Posto che, in applicazione della regola generale dettata dall’art. 163 cod. proc.  civ.,  le  impugnazioni  delle  delibere dell’assemblea, vanno proposte con citazione (Cass., S.U. 8491/2011), questa Suprema Corte  ha  avuto  modo  di  statuire che “se l’impugnazione di una sentenza relativa alla validità delle deliberazioni assembleari sia stata effettuata con la forma del ricorso, il termine per la notificazione è rispettato col deposito in cancelleria del ricorso e non, invece, con la notificazione  del  ricorso stesso” (Cass. 18117/2013).

È ben vero che, nella giurisprudenza di questa Corte è stato affermato anche il contrario principio secondo cui l’appello avverso la sentenza che abbia pronunciato sull’impugnazione di una deliberazione dell’assemblea di condominio (nonostante il primo giudizio fosse stato introdotto con ricorso), ai  sensi  dell’art. 1137 c.c., va proposto, in assenza di specifiche  previsioni di legge, mediante citazione in conformità alla regola generale di cui all’art. 342 cod. proc. civ., sicché la tempestività del gravame va verificata in base alla data di notifica dell’atto e non a quella di deposito dello stesso nella cancelleria del giudice “ad quem” (Cass., n. 8839/2017).

Il Collegio ritiene, tuttavia, di aderire al  primo  degli  orientamenti qui richiamati, dovendo ritenersi che,  ove  la  controversia  sia  stata erroneamente trattata in  primo  grado  con  il  rito  speciale  del lavoro, anziché con quello ordinario,  la  proposizione dell’appello segue le forme della cognizione speciale.

Tale conclusione è imposta dal principio della “ultrattività  del rito”, che – quale specificazione del più generale principio per cui l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell’apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione, anche implicita, dell’azione e del provvedimento compiuta dal giudice – trova specifico fondamento nel fatto che il mutamento del rito con cui il processo è stato erroneamente iniziato compete esclusivamente al giudice (cfr. Cass., n. 210/2019; 682/2005).

Pretendere che la parte che intenda appellare debba proporre  l’impugnazione adottando un rito diverso da quello con cui si è svolto il giudizio di primo grado, non solo attribuirebbe ad essa  un potere di mutamento del rito che le non compete, ma si porrebbe     in     contrasto     col      principio      costituzionale  del “giusto processo” e con la tutela dell’affidamento della parte nelle regole del processo, che ha ormai trovato riconoscimento nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., n. 279/2017; n. 10273/2014).

Sicché, nel caso di specie,  facendo applicazione del principio di cui sopra, sussiste la tempestività dell’appello; essa infatti deve essere computata con riferimento alla data del deposito del ricorso in appello e non a quella della sua notificazione, con conseguente ammissibilità dell’impugnazione”

per un autorevole commento a tale discutibile arresto: “Contenzioso: l’appello va proposto in base al rito iniziale, anche se è sbagliato

© massimo ginesi 4 settembre 2019 

comodato simulato e costituzione diritto di abitazione dissimulato

Cass. civ. sez. II, ord. 22 agosto 2019 n.21583 rel. Scarpa affronta una fattispecie peculiare: padre e figlio stipulano un contratto di comodato simulato su immobile di proprietà del secondo ed in favore del primo, con l’intento effettivo – formalizzato in controscrittura – di dar luogo invece alla costituzione del diritto di abitazione sul medesimo compendio immobiliare.

La vicenda giudiziaria trae spunto dalla causa, intentata dal padre nei confronti della nuora e della nipote, per veder riconosciuto il proprio diritto di abitazione: “Con citazione del 4 marzo 2009 C.B. convenne la nuora P. T. e la nipote J B., domandando dì accertare la simulazione relativa del contratto di comodato immobiliare concluso in data 24 settembre 1993 col proprio figlio R. B., nonché l’esistenza in suo favore di un diritto di abitazione ex art. 1022 c.c. inerente allo stesso immobile di via P. in F.

L’adito Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, accertò il diritto di C. B. di abitare la porzione dell’immobile contraddistinta in rosso nella planimetria allegata alla scrittura privata inter partes e condannò l’attore a risarcire P.T. e J. B. della somma di € 12.000,00, quale danno figurativo dovuto a causa dell’indebito utilizzo degli spazi dell’immobile non compresi in quelli descritti nel contratto di comodato.

Proposto gravame da C.B., la Corte d’appello di Venezia accolse lo stesso limitatamente al risarcimento del danno, perché non provato e non configurabile come in re ipsa.

I giudici di secondo grado, invece, confermarono che sia dal contratto simulato di comodato sia dal contratto dissimulato fosse inequivocabile la delimitazione dell’oggetto del diritto di abitazione con riferimento alla medesima porzione dell’immobile contraddistinta in rosso nella planimetria sottoscritta dai contraenti e facente parte integrante dei contratti stessi. Trattandosi, per di più, di contratto costitutivo di diritto reale su bene immobile, nessun rilievo poteva svolgere, secondo la Corte d’Appello, una manifestazione di volontà delle parti in contrasto col documento. La dedotta inidoneità della porzione di immobile a soddisfare il diritto di abitazione poteva, invece, avere rilevanza soltanto al fine di ritenere non costituito lo stesso diritto di abitazione, e non ad estenderne l’oggetto.”

L’attore ricorre in Cassazione, articolando diversi motivi, tutti volti a vedere ricondotto un contenuto del diritto reale più ampio di quello accertato dai giudici di merito, ma il ricorso è rigettato dalla corte di legittimità, con argomentazioni di grande chiarezza e ispirate ai principi fondamentali in tema di trasferimento di diritti reali su beni immobili: “Avendo l’attore C. B. domandato l’accertamento della simulazione relativa del contratto di comodato intercorso col figlio R. B., per dimostrare la sussistenza di un contratto costitutivo di un diritto di  abitazione  ex  art.  1022 e.e., di per sé soggetto alla forma scritta “ad substantiam” in forza dell’art. 1350, n. 4, c.c., lo stesso ha l’onere di provare la simulazione della convenzione relativa al diritto personale di godimento, nonché l’esistenza e l’estensione del proprio diritto reale immobiliare.

L’accertamento della simulazione relativa costituisce, in ogni modo, indagine  di fatto riservata  al giudice  del merito, il quale deve   stabilire,   attraverso   una   corretta   interpretazione del contratto  condotta  alla  stregua  dei  criteri ermeneutici  dettati dal Codice Civile e con motivazione immune da vizi logici e giuridici, se, in contrasto con la volontà di costituire un determinato rapporto espressa nell’atto negoziale, esista una concorde volontà delle parti tendente a porre in essere un diverso negozio vero e reale destinato a rimanere occulto (Cass. Sez. 2, 09/04/1987, n. 3501).

La domanda di C. B., per l’accertamento della simulazione relativa con riguardo ai contratti di comodato e di abitazione, implicava, del resto, attraverso il duplice accertamento dell’apparenza del negozio simulato e dell’esistenza di quello effettivamente voluto dalle parti, il mutamento di una medesima situazione giuridica.

Nella controscrittura intercorsa tra C. e R. B. le parti dichiaravano che avevano sottoscritto “un contratto di comodato relativo ad una porzione dell’immobile sito in F.; che tale contratto doveva intendersi simulato; che “in relazione al contratto di comodato” era stata “loro effettiva e reale volontà quella di concludere un contratto di abitazione ex art. 1022 c.c. , valevole per la durata della vita del beneficiario”.

La Corte d’Appello di Venezia ha fondato, così, la propria indagine interpretativa sulle espressioni letterali usate dai contraenti nel rispetto dell’art. 1362 e.e., ricostruendo la comune intenzione delle parti sulla base delle espressioni usate e dello spirito della convenzione.

L’assunta identità dell’oggetto del contratto simulato di comodato e di quello dissimulato di abitazione (inteso come limitato, in sostanza, alla medesima porzione dell’immobile contraddistinta in  rosso  nella planimetria  sottoscritta  dai  contraenti),  appare  pure  frutto di logica  inferenza  dell’azione  di  simulazione  relativa  intentata, la quale,  giacché diretta ad  individuare e  far valere  la  reale   volontà  delle  parti,  ossia  il  negozio  dissimulato  e, con esso, i diritti che dal medesimo discendono, trae derivazione effettuale dalla negazione dell’efficacia di quella determinata attribuzione patrimoniale divisata nel negozio simulato.

Va quindi affermato che la controscrittura redatta allo scopo di rettificare le risultanze di un contratto simulato,  inerente  ad una determinata consistenza immobiliare, nonché di comprovare il negozio dissimulato – sottoposto, come nella specie, alla forma scritta necessaria a pena di invalidità – si presume logicamente destinata a regolamentare lo stesso bene oggetto del precedente accordo tra le  parti,  salvo  che  la seconda scrittura documenti espressamente  la comune  volontà di comprendere una porzione o un immobile del tutto diversi.

D’altro canto, la Corte di Venezia ha dato il giusto rilievo al richiamo, fatto in contratto, della planimetria  sottoscritta  dalle parti e facente parte integrante della  convenzione,  atteso  che, nei contratti in cui è richiesta la forma scritta ad substantiam,  quale è quello diretto  alla  costituzione  del  diritto  di  abitazione di una casa, l’oggetto può dirsi determinato o determinabile mediante ricorso ad elementi estranei al documento solo  se, come appunto si è ritenuto nella specie, la planimetria risulti allegata all’atto, sia firmata dai contraenti e sia anche espressamente indicata nel contratto come parte integrante del contenuto dello stesso (cfr. ad esempio Cass.  Sez.  2, 05/03/2007, n. 5028).

 Allo scopo di determinare quale fosse la porzione di casa oggetto del diritto di abitazione, neppure possono trarsi elementi dal comportamento successivo delle parti, sulla base della regola ermeneutica stabilita dall’art. 1362, comma 2, e.e., non rivestendo tale comportamento una funzione integrativa  del testo scritto con riguardo agli elementi essenziali dei contratti per i quali è prevista la forma scritta “ad substantiam” (Cass. Sez. 2, 07/03/2011, n. 5385).

Né a diverse conclusioni porta la considerazione del ricorrente secondo cui l’estensione del diritto di abitazione concesso non poteva intendersi ristretta ai due locali previsti nel comodato, essendo altrimenti l’immobile inidoneo a soddisfare le esigenze abitative dell’habitator. 

Invero,  i  “bisogni”  del  titolare  e  della sua famiglia, contemplati nell’art. 1022 e.e., costituiscono unicamente limitazioni quantitative delle facoltà di servirsi della cosa imposte al titolare del diritto di abitazione (a differenza della facoltà accordate all’usuario), e non minimi inderogabili che comportano un’automatica eterointegrazione del contratto. Deve in proposito riaffermarsi che il diritto di abitazione, di cui all’art 1022 e.e., si estende sia a tutto ciò che concorre ad integrare la casa che ne è oggetto, sotto forma di accessorio o pertinenza (balconi, verande, giardino, rimessa, ecc), giacché l’abitazione non è costituita soltanto dai vani abitabili, ma  anche da tutto quanto ne rappresenta la parte accessoria, sia, in virtù del combinato disposto degli artt. 983 e 1026 e.e., alle accessioni (così Cass. Sez. 2, 17/04/1981, n. 2335), fermo tuttavia il rilievo primario che assume quanto previsto dal titolo costitutivo, il quale richiede la forma scritta ex art. 1350, n. 4, c.c.”

© massimo ginesi 3 settembre 2019  

pausa estiva

i mesi estivi sono tradizionalmente avari di significativa elaborazione giurisprudenziale e, quest’anno in particolare, forse complice il caldo sahariano, sembra  particolarmente scarsa  la pubblicazione di provvedimenti degni di nota.

Le attività dello studio e l’aggiornamento del sito dunque rallentano in conseguenza e, sino al 31 agosto 2019, proseguiranno per le sole urgenze, quanto alle prime, e solo ove sussistano novità degne di nota, quanto alle seconde. 

 

“Il miracolo non è quello di camminare sulle acque, ma di camminare sulla terra verde nel momento presente e d’apprezzare la bellezza e la pace che sono disponibili ora”

Thich Nhat Hanh

 

© massimo ginesi 25 luglio 2019