impugnazione di delibera e rito: una bizzarra sentenza estiva della Cassazione

E’ ormai dato acquisito che l’impugnativa di delibera condominiale vada proposta con atto di citazione, così come ha inequivocabilmente statuito la Suprema Corte a Sezioni unite ( Cass. civ. Sez. Un. 14 aprile 2011 n. 8491)   e come oggi si desume anche dal novellato  art. 1137 c.c.

La tesi ha trovato pacifica conferma anche per l’appello.

Cio nonostante la Corte di legittimità  (Cass.civ. sez. II  23 agosto 2019 n. 21632)  ritorna sulla forma dell’atto introduttivo del giudizio di appello, laddove la fase di primo grado sia stata introdotta con corso, introducendo – tra l’altro – la questione dell’ultrattività del rito, che poco appare pertinente posto che la forma dell’atto introduttivo non necessariamente condiziona il rito applicabile.

“Posto che, in applicazione della regola generale dettata dall’art. 163 cod. proc.  civ.,  le  impugnazioni  delle  delibere dell’assemblea, vanno proposte con citazione (Cass., S.U. 8491/2011), questa Suprema Corte  ha  avuto  modo  di  statuire che “se l’impugnazione di una sentenza relativa alla validità delle deliberazioni assembleari sia stata effettuata con la forma del ricorso, il termine per la notificazione è rispettato col deposito in cancelleria del ricorso e non, invece, con la notificazione  del  ricorso stesso” (Cass. 18117/2013).

È ben vero che, nella giurisprudenza di questa Corte è stato affermato anche il contrario principio secondo cui l’appello avverso la sentenza che abbia pronunciato sull’impugnazione di una deliberazione dell’assemblea di condominio (nonostante il primo giudizio fosse stato introdotto con ricorso), ai  sensi  dell’art. 1137 c.c., va proposto, in assenza di specifiche  previsioni di legge, mediante citazione in conformità alla regola generale di cui all’art. 342 cod. proc. civ., sicché la tempestività del gravame va verificata in base alla data di notifica dell’atto e non a quella di deposito dello stesso nella cancelleria del giudice “ad quem” (Cass., n. 8839/2017).

Il Collegio ritiene, tuttavia, di aderire al  primo  degli  orientamenti qui richiamati, dovendo ritenersi che,  ove  la  controversia  sia  stata erroneamente trattata in  primo  grado  con  il  rito  speciale  del lavoro, anziché con quello ordinario,  la  proposizione dell’appello segue le forme della cognizione speciale.

Tale conclusione è imposta dal principio della “ultrattività  del rito”, che – quale specificazione del più generale principio per cui l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell’apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione, anche implicita, dell’azione e del provvedimento compiuta dal giudice – trova specifico fondamento nel fatto che il mutamento del rito con cui il processo è stato erroneamente iniziato compete esclusivamente al giudice (cfr. Cass., n. 210/2019; 682/2005).

Pretendere che la parte che intenda appellare debba proporre  l’impugnazione adottando un rito diverso da quello con cui si è svolto il giudizio di primo grado, non solo attribuirebbe ad essa  un potere di mutamento del rito che le non compete, ma si porrebbe     in     contrasto     col      principio      costituzionale  del “giusto processo” e con la tutela dell’affidamento della parte nelle regole del processo, che ha ormai trovato riconoscimento nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., n. 279/2017; n. 10273/2014).

Sicché, nel caso di specie,  facendo applicazione del principio di cui sopra, sussiste la tempestività dell’appello; essa infatti deve essere computata con riferimento alla data del deposito del ricorso in appello e non a quella della sua notificazione, con conseguente ammissibilità dell’impugnazione”

per un autorevole commento a tale discutibile arresto: “Contenzioso: l’appello va proposto in base al rito iniziale, anche se è sbagliato

© massimo ginesi 4 settembre 2019