art. 659 cod.pen.: il disturbo alle persone in condominio

La Suprema Corte detta i limiti del reato di disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone in ambito condominiale (Cass. pen. III sez. 29 dicembre 2016 n. 55096).

In primo luogo la corte chiarisce che la fattispecie penale è tuttora vigente: “ Il reato previsto dall’articolo 659 codice penale non risulta depenalizzato; non rientra tra le ipotesi di depenalizzazione del d. lgs. n.7 e n. 8  del 2016. La previsione della depenalizzazione nella legge numero 67 del 2014 all’articolo 2  non è sufficiente per ritenere depenalizzato il reato. Il reato previsto dall’articolo 659 codice penale, disturbo dell’occupazione di riposo delle persone, non può ritenersi abrogato per effetto diretto della legge 28 aprile 2014, numero 67, posto che tale atto normativo ha conferito al Governo una delega, implicante la necessità del suo esercizio per la depenalizzazione di tale fattispecie”

Il giudice di legittimità delinea poi i limiti del reato all’interno di un fabbricato plurifamiliare: “Trattandosi di condominio la configurabilità del reato è realizzata solo se il disturbo non sia limitato gli appartamenti sovrastanti e sottostanti a quello del disturbatore: “perché sussista la contravvenzione di cui all’articolo 659 codice penale relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante sottostante la fonte di propagazione ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio… Integra la contravvenzione di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone l’organizzazione di feste e cerimonie all’interno di uno scantinato di edificio condominiale che si protraggano  per ore, con schiamazzi,  rumori e abuso di strumenti sonori idonei a diffondersi all’interno e all’esterno dello stabile, con pregiudizio della tranquillità di un numero indeterminato di persone”

Decisamente verificata l’ipotesi nel caso all’esame della corte: “Nel nostro caso l’intensità dei rumori, che ha costretto intere famiglie uscire dalla casa per trovare un po’ di pace, e la lettera esposto la curia, con richiesta di intervenire quale proprietario dell’appartamento, inducono a ritenere, come adeguatamente motivato la sentenza impugnata, che il disturbo sia venuto nei confronti di un numero indeterminato di persone, o comunque era potenzialmente idonea di infastidire tutto lo stabile ed anche oltre”

© massimo ginesi 31 dicembre 2016

more solito: contabilizzazione, la proroga dell’ultimo minuto…

il c.d. decreto milleproroghe ha rinviato al 30 giugno 2017 il termine per adeguarsi alla normativa in tema di contabilizzazione, intervenendo sulle scadenze già previste nel d.lgs 102/2014.

Il nuovo termine è previsto per le lettere a) e b) dell’art. 9 comma 5 del D.Lgs 102/2014, ha quindi per oggetto le sole due ipotesi che seguono:

“5. Per favorire il contenimento dei consumi energetici attraverso la contabilizzazione dei consumi di ciascuna unita’ immobiliare e la suddivisione delle spese in base ai consumi effettivi delle medesime individuale (9):
a) qualora il riscaldamento, il raffreddamento o la fornitura di acqua calda ad un edificio o a un condominio siano effettuati tramite allacciamento ad una rete di teleriscaldamento o di teleraffrescamento, o tramite una fonte di riscaldamento o raffreddamento centralizzata, e’ obbligatoria, entro il 31 dicembre 2016, l’installazione, a cura degli esercenti l’attivita’ di misura, di un contatore di fornitura in corrispondenza dello scambiatore di calore di collegamento alla rete o del punto di fornitura dell’edificio o del condominio (10);
b) nei condomini e negli edifici polifunzionali riforniti da una fonte di riscaldamento o raffreddamento centralizzata o da una rete di teleriscaldamento o da un sistema di fornitura centralizzato che alimenta una pluralita’ di edifici, e’ obbligatoria l’installazione entro il 31 dicembre 2016, a cura del proprietario, di sotto-contatori per misurare l’effettivo consumo di calore o di raffreddamento o di acqua calda per ciascuna unita’ immobiliare, nella misura in cui sia tecnicamente possibile, efficiente in termini di costi e proporzionato rispetto ai risparmi energetici potenziali. L’efficienza in termini di costi puo’ essere valutata con riferimento alla metodologia indicata nella norma UNI EN 15459. Eventuali casi di impossibilita’ tecnica alla installazione dei suddetti sistemi di contabilizzazioneo di inefficienza in termini di costi e sproporzione rispetto ai risparmi energetici potenziali, devono essere riportati in apposita relazione tecnica del progettista o del tecnico abilitato;”

è invece rinviata al 31.12.2017 la durata degli incentivi per i progetti energetici di grandi dimensioni di cui all’art. 14 comma 11 D.lgs 102/2014.

Con buona pace di coloro che si erano diligentemente attivati per rispettare la scadenza stabilita.

© massimo ginesi 30 dicembre 2016 

supercondominio e scale: servitù di passo o bene condominiale?

Una pronuncia di merito (Tribunale Massa 5 dicembre 2016) affronta una vicenda peculiare, ma non così infrequente, e tratta  diversi aspetti di sicuro interesse: l’esistenza  e la nascita del supercondominio, la possibilità di creare servitù all’interno dello stesso, la natura delle scale.

I fatti: un condomino è proprietario di immobile sito in un fabbricato complesso, composto da più corpi di fabbrica e con due diversi accessi dalla strada pubblica, e può fruire di due scale, che servono la sua unità immobiliare accedendo da ciascun numero civico.

Il Condominio delibera di effettuare lavori straordinari ad una delle due scale ed il condomino impugna la delibera sull’assunto che su detta scala abbia soltanto  una servitù di passo e non un diritto di comproprietà ex art. 1117 cod.civ.:  per tale motivo non devono essergli addebitati i relativi costi. La domanda, assai articolata in principali e subordinate,  attiene non solo alla impugnativa dei deliberati ma anche all’accertamento dei diritti sulle parti comuni e alla determinazione giudiziale delle tabelle, comportando dunque  la necessaria integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini ai sensi dell’art. 102 cod.proc.civ.

Non si tratta di corpi di fabbrica del tutto distinti, poiché le strutture murarie e i tetti di copertura sono in parte comuni e la stessa unità dell’attore si estende attraverso diversi di questi.

Osserva il giudice di merito che l’intero complesso può ricondursi alla fattispecie oggi delineata dall’art. 1117 bis cod.civ.: “E’ stata espletata CTU descrittiva e disposto accesso giudiziale, adempimenti dai quali non può non rilevarsi come il complesso edilizio denominato oggi Condominio C. debba essere ascritto al genus dei fabbricati edilizi complessi, disciplinati dall’art. 1117 bis cod.civ. (così come introdotto dalla legge 220/2012) fattispecie in precedenza delineata – con esiti pressoché coincidenti – dalla prevalente giurisprudenza.

Si tratta indubbiamente di fabbricato dalle caratteristiche peculiari, con parti destinate a fornire utilità maggiore (o esclusiva) ad alcuni dei condomini, ma tale ultimo aspetto – ove esistente e rilevante – dovrà essere risolto nell’ambito dell’art. 1123 III comma cod.civ., senza che possa  fungere quale presupposto logico e necessario per affermare l’esistenza di condominii distinti.
Risulta infatti che l’intero complesso immobiliare, per ciò intendendo l’intero involucro edilizio cui si accede dai civici 7 e 13 della via R. A., seppure articolato su più corpi di fabbrica e con coperture parzialmente autonome, non si distingua in unità edilizie funzionalmente autonome e separate dalle altre ma comporti una commistione delle strutture murarie principali, delle falde di copertura, degli ingressi e delle parti comuni che risultano, di volta in volta, destinate a fornire una utilità indistinta all’intero complesso, cui – in forza della norma sopra richiamata – devono ritenersi comuni per funzione ex art. 1117 nn. 1 e 3 cod.civ. , ove ciò già non risulti dal titolo.
La stessa unità immobiliare della attrice risulta posizionata in maniera trasversale rispetto ai due civici contraddistinti dal 7 e dal 13, sicché può accedere da entrambi gli androni e fruire delle scale posizionate in ciascuno, così come – elemento che si rivela ulteriormente qualificante – si estende, seppure parzialmente, anche sotto la copertura della porzione di edificio riconducibile al civico 13 e servita dalla scala oggetto di contesa (poco importa se con verande o portici o stanze, rilevando a tal fine unicamente il perimetro della proprietà esclusiva servita dalle parti comuni).
Tali elementi sarebbero sufficienti a considerare l’immobile un organismo edilizio complesso (c.d. supercondominio), che vede in comune – a mente del disposto di cui agli artt. 1117 e 1117 bis cod.civ. – le parti comuni necessarie alla sua stessa sussistenza.”

Quanto alla condominialità delle scale il Tribunale afferma che “Non vi è dubbio che , fra queste (le parti necessariamente comuni, n.d.r.), vi siano – per costante giurisprudenza – le scale, che non solo servono di accesso alle singole unità, ma sono ritenute elemento necessariamente comune negli edifici multipiano: “Le scale e i relativi pianerottoli, negli edifici in condominio, costituiscono strutture essenziali del fabbricato e rientrano, in assenza di una diversa disposizione, fra le parti comuni, anche se sono poste a servizio solo di alcuni proprietari dello stabile.” Cassazione civile, sez. VI, 09/03/2016,  n. 4664
Nel caso di specie non risultano titoli, anche alla luce di quanto si dirà in appresso, che attribuiscano le scale in proprietà specifica ad alcuni condomini, mentre esiste con ogni evidenza una destinazione funzionale delle scale oggetto di contesa ad accedere alla unità della attrice, nonchè al tetto che in parte la copre in quella porzione di fabbricato. Ad ulteriore connotazione della funzione collettiva dell’androne del civico 13 e delle scale che dallo stesso si dipartono, va osservato che diversi impianti funzionali all’unità della attrice trovano ivi allocazione.
Non potrà dunque non ritenersi comune anche a detta unità sia l’androne che le scale che hanno accesso dal civico 13 di via R.A. e che svolgono funzione comune all’interno del Condominio C. complessivamente inteso.
Semmai, per quelle parti che risultino unicamente destinate a servire solo alcuni condomini, varrà l’esclusione in forza dell’art. 1123 III comma cod.civ. e della conseguente giurisprudenza che – in tal caso – ravvisa anche una proprietà limitata ai soli soggetti che se ne giovano: “Le scale danno accesso alle proprietà esclusive e per tale ragione sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo, essendo necessarie all’uso comune. Le obiettive caratteristiche strutturali, per cui dette scale servono in modo esclusivo all’uso o al godimento di una parte dell’immobile, ne fanno venire meno in questo caso il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene vince l’attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario.” Cassazione civile, sez. II, 19/04/2016,  n. 7704″

Quanto ai criteri di imputazione della spesa del bene ritenuto comune: “In sede di redazione delle tabelle il tecnico dovrà dunque valutare se dette scale, in quanto inidonee a rendere una funzione per taluni dei condomini (anche solo potenziale per l’accesso ad una porzione di tetto che li riguarda), debbano ritenersi di proprietà solo di alcuni, così come dovrà valutare – ai fini della effettiva caratura millesimale, l’effettiva entità della proprietà servita dalla parte comune (in ossequio ai principi stabiliti da Cass. 1451/2014).
Si tratta tuttavia di principi che attengono alla effettiva imputazione della spesa ai singoli condomini di parti comunque comuni e non già di circostanze che si rivelino idonee ad incidere sulla titolarità delle stesse.
Con la considerazione ulteriore che l’utilità deve essere valutata in senso ampio, astratto e potenziale, per quelle stesse ragioni che attribuiscono anche ai fondi che hanno accesso autonomo dalla strada le relative spese, seppure nella dimidiata misura di cui all’art. 1124 cod.civ. (Cass. n. 4419/2013; n. 15444/2007)”

Quanto alla asserita esistenza di servitù di passo, il Tribunale ritenuta la condominialità della scala e la relativa titolarità anche in capo alla attrice, deve necessariamente rifarsi alla nascita del condominio : “A superare tale qualificazione non valgono i titoli addotti dalla A., in forza dei quali l’attrice assumerebbe di essere mera titolare di una servitù di passo e di dover essere dunque esonerata dalle relative spese.
A tal proposito coglie nel segno la difesa della convenuta B., laddove ravvisa nell’atto notaio C. 1.7.1949 l’elemento costitutivo del Condominio C..
Con quella disposizione E.C.C., originaria unica proprietaria dell’intero complesso, cedeva per la prima volta ad un terzo – tal L. R. – una unità posta nel complesso immobiliare, creando così i presupposti per la nascita dell’edificio in condominio che sorge – senza necessità alcuna di atti costitutivi specifici o di regolamenti ad hoc – nel momento in cui almeno due unità immobiliari iniziano ad appartenere a soggetti diversi (Cass.Sez.II 19429/04).
In tale atto non emerge alcuna volontà della E.C.C. né di costituire servitù a favore della proprietà a lei rimasta (e che successivamente alienerà – in parte – al dante causa della odierna attrice) né tantomeno appare desumibile in alcun modo la volontà di dar luogo a più condomini separati, come afferma l’A., apparendo il richiamo al civico di accesso meramente descrittivo della unità effettivamente ceduta.
Non appare qualificante, in tal senso, neanche l’atto di vendita a CA. – dante causa della odierna attrice e che acquista con atto notaio C. del 24.10.1953 – in cui il termine “diritto di passo” appare utilizzato in modo atecnico e meramente descrittivo, volto a qualificare unicamente la facoltà di accesso e uso dell’unità venduta anche dalla scala che diparte dal civico 13, che non a caso non è definita appartenete ad altro edificio ma semplicemente “secondaria”, ovvero intesa come manufatto appartenente al medesimo complesso immobiliare ma destinata, per funzione ed uso, a rendere utilità anche a quella specifica unità immobiliare compravenduta e, quindi, anche a lei comune, seppur in affiancamento ad altro accesso che si ritiene principale (rectius, personale).
Del resto alla possibilità di costituire servitù sulle parti comuni da parte di E. C. C., una volta che il Condominio aveva iniziato ad esistere con l’atto del 1949, osta la circostanza che l’imposizione di pesi reali su beni ormai comuni non è più consentita all’originario unico proprietario senza del consenso degli altri condomini (ovvero, nella fattispecie, del R.).
Alla riconosciuta proprietà comune della scala de quo, consegue l’infondatezza della impugnativa delle delibere azionata con la domanda principale, anche alla luce dei seguenti principi:
– è sempre consentito al condominio disporre un riparto provvisorio delle spese, su base proporzionale, al fine di procedere alle necessarie opere di manutenzione
– le tabelle millesimali e comunque i criteri di riparto provvisori non richiedono approvazione all’unanimità, laddove si ispirino a criteri proporzionali assimilabili al disposto di cui all’art. 1123 cod.civ. (o, nella fattispecie, di cui all’art. 1124 cod.civ. ) e possono essere approvai con la maggioranza prevista dall’art. 1136 II comma cod.civ. (Cass. SS.UU 18477/2010), nel caso ampiamente raggiunta.
– tutte le delibere sono sempre state assunte in via provvisoria, in attesa di approvazione di tabella millesimale definitiva, ivi compresa quella del 27.5.2011 (come espressamente risulta dal relativo verbale), circostanza quest’ultima che rende priva di fondamento anche l’eccezione relativa a cessazione della materia del contendere sollevata dal convenuto condominio.

Non sarà inutile rilevare che, anche ove per ipotesi si fosse voluto riconoscere l’esistenza di servitù a favore della attrice, non muterebbero le conseguenze concrete in ordine alla imputazione delle spese, circostanza comunque dirimente in ordine alla legittimità delle delibere impugnate: a mente dell’art. 1069 III comma cod.civ. ove le opere giovino anche al fondo servente costui deve partecipare alle spese (App.-Genova 5.1.2011) ed è plausibile che nel caso peculiare la modalità dei rispettivi contributi debba e possa essere modulata sul disposto dell’art. 1124 cod.civ. “

Quanto agli esiti del Giudizio, il Tribunale ha deciso con sentenza parziale in ordine alla titolarità del bene disponendo in rodine al proseguo del giudizio per la determinazione giudiziale delle tabelle millesimali definitive, domanda comunque avanzata in via subordinata dalla attrice: “Sussisteva indubitabilmente legittimazione necessaria dei singoli condomini in ordine alla domanda di accertamento relativa a diritti reali sulle parti comuni, mentre sussiste pacificamente legittimazione autosufficiente del condominio per il giudizio relativo alla impugnativa.
Parimenti sussiste interesse del singolo condomino a veder adottata una tabella millesimale definitiva, volta al riparto delle spese in accordo con i principi codicistici (Trib. PAlermo, 22 marzo 2011). ”

© massimo ginesi 28 dicembre 2016

mappe catastali, titolo e beni comuni ex art. 1117 cod.civ.

La Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 11 ottobre – 21 dicembre 2016, n. 26609) affronta  una interessante vicenda, che chiarisce la rilevanza delle planimetrie allegate agli atti di acquisto nella interpretazione della volontà delle parti nonché la funzione  di tali elaborati grafici nella individuazione dei beni comuni ai sensi dell’art. 1117 cod.civ.

I fatti “Il Comune di Sarzana è proprietario, per acquisto dall’originario costruttore, dell’intero fabbricato posto in via dei Mulini 42/D, in territorio comunale, ad eccezione di due appartamenti che il medesimo costruttore aveva trattenuto per sé e successivamente ha venduto, uno, ai signori A.C. e A.F. e, l’altro, ai signori P.B. e B.Z.. Nel porticato posto al piano terra del suddetto fabbricato il Comune ha realizzato delle unità abitative da destinare agli sfrattati. I condomini suddetti hanno chiesto al tribunale di La Spezia, per quanto qui ancora interessa, la condanna del Comune alla rimozione di tali unità abitative e alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi, deducendo la natura condominiale del porticato in cui dette unità erano state realizzate.
La domanda dei condomini, disattesa in primo grado, è stata accolta dalla corte d’appello di Genova, la quale ha ritenuto che la presunzione di condominialità del porticato ex art. 1117 cc risultasse vinta dal tenore letterale del titolo di acquisto del comune, nel quale, nella descrizione del piano terreno dell’immobile trasferito, si dava atto della presenza di un portico (senza precisare che avesse natura condominiale), ma si faceva riferimento (“il tutto come meglio individuato”) ad una planimetria allegata all’atto, sottoscritta dalle parti e dal notaio rogante, in cui detto portico veniva definito come “portico condominiale scala B mq 144,85”. La corte genovese ha altresì argomentato che nella perizia dell’ufficio tecnico comunale allegata come documento H all’atto notarile, e ivi richiamata, si faceva riferimento ad una “superficie di uso comune coperta posto al piano terra mq 144” e che, ai fini della valutazione di congruità del prezzo, la determinazione convenzionale di tale superficie (definita appunto, si sottolinea nella sentenza gravata, di uso comune) risultava diminuita di due dodicesimi, in evidente correlazione alla circostanza che due dei dodici appartamenti del fabbricato non erano di proprietà comunale.

nel giudizio di legittimità il Giudice osserva che “come questa Corte ha avuto modo di chiarire (cfr. sent. n. 6764/03) le piante planimetriche allegate ai contratti aventi ad oggetto immobili fanno parte integrante della dichiarazione di volontà, quando ad esse i contraenti si siano riferiti nel descrivere il bene, e costituiscono mezzo fondamentale per l’interpretazione del negozio, salvo, poi, al giudice di merito, in caso di non coincidenza tra la descrizione dell’immobile fatta in contratto e la sua rappresentazione grafica contenuta nelle dette planimetrie, il compito di risolvere la quaestio voluntatis della maggiore o minore corrispondenza di tali documenti all’intento negoziale ricavato dall’esame complessivo del contratto. Nella specie la corte territoriale ha dato adeguatamente conto delle ragioni per le quali ha ritenuto – con accertamento di fatto sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto i profili del rispetto dei criteri legali di interpretazione e del difetto di motivazione (cfr. Cass. 12594/13) – che nell’atto di acquisto del Comune il portico per cui è causa sia stato considerato bene condominiale; nella sentenza gravata, infatti, si valorizza, per un verso, il rilievo che nel testo contrattuale si richiama espressamente, per la miglior identificazione del cespite compravenduto, la planimetria allegata all’atto (“il tutto meglio individuato con contorno di co/ore rosso nella planimetria, che, previa sottoscrizione delle parti con me notaio, si allega sub C”) e, per altro verso, il percorso argomentativo sviluppato nella perizia dell’ufficio tecnico comunale (pur essa richiamata nell’atto notarile ed al medesimo allegata) di stima della congruità del prezzo delle compravendita (nella quale, si evidenzia nella sentenza gravata, la superficie del porticato de quo risultava espressamente definita “di uso comune” e, ai fini della valutazione, veniva diminuita di due dodicesimi, pari al rapporto tra il numero delle unità immobiliari non vendute al Comune e il numero delle unità immobiliari costituenti il fabbricato).”

Di grande interesse anche la statuizione sul  momento qualificante per l’individuazione dei beni comuni. Tale natura e l’assetto dell’edificio condominiale assume connotazione irreversibile (se non con il consenso di tutti i partecipanti al condominio) con il primo atto di acquisto, che diviene dirimente e con riguardo al quale sono irrilevanti le successive attività dei singoli.

A tal proposito è opportuno approfondire il motivo di impugnazione addotto dai ricorrenti: “Col secondo motivo si deduce il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e di travisamento dei fatti di causa, con conseguente violazione dell’ articolo 1117 c.c., in cui la corte territoriale sarebbe incorsa non rilevando che la realizzazione degli alloggi del Comune risaliva ad epoca anteriore all’acquisto delle unità immobiliari degli altri condomini e che, quindi, al momento di tale acquisto la destinazione del portico all’uso comune era, secondo la prospettazione del ricorrente, già venuta meno

Il Giudice di legittimità sul punto è netto: ” Il motivo va disatteso.
Secondo il risalente insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. 3867/86), al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione sancita dalla norma dell’art. 1117 cod. civ., con riguardo ai beni in essa indicati, occorre fare riferimento ali’ atto costitutivo del condominio, cioè al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, indagando se da esso emerga o meno la volontà delle parti di riservare a uno dei condomini la proprietà di beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all’uso comune. Conseguentemente, quando, in occasione del primo atto di frazionamento della proprietà di un edificio, la destinazione obbiettiva di un bene potenzialmente comune non sia contrastata dal titolo (come, nella specie, accertato dal giudice territoriale con statuizione che ha resistito all’impugnativa proposta con il premo mezzo di ricorso), tale bene nasce di proprietà comune e la comunione sullo stesso non può più venire meno per effetto dell’ occupazione senza titolo da parte di un singolo condomino. Le circostanza che gli alloggi del Comune siano stati realizzati prima che gli altri condomini acquistassero le loro unità immobiliari risulta dunque ininfluente ai fini della decisione”

© massimo ginesi 27 dicembre 2016 

una nuova rubrica…

 

questa rubrica prende il posto di “non solo massime”, una rassegna di giurisprudenza che per molti anni ho curato, con grande piacere, su una rivista di settore.

“attenti a quei due” è stata una serie televisiva degli anni 70, con Tony Curtis e Roger Moore in forma strepitosa, che giocava su avventure, humor inglese e ironia.

La rubrica, in luogo della rassegna giurisprudenziale ormai ampiamente svolta in “news” e “approfondimenti”, diventerà una rassegna ironica e scanzonata sullo stupidario del condominio nel web (e non solo), per orientarsi fra professionisti del copia/incolla,   divulgatori di scemenze seriali e spacciatori di leggende metropolitane.

cooming soon…

 

 

invio convocazione e verbale a mezzo posta: la cassazione ci ripensa

La Corte di Cassazione, II sezione, con sentenza 14 dicembre 2016 n. 25791 fornisce una interpretazione decisamente più rigida rispetto ad un orientamento che sembrava ormai consolidato.

Afferma la Corte che, quando il destinatario della raccomandata è assente, non  può ritenersi avverata la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 cod.civ. con il recapito del plico al suo domicilio, poiché l’avviso che lascia il postino, relativo al deposito presso l’ufficio postale, non contiene alcuna indicazione sui contenuti della lettera e come tale è inidoneo a rendere edotto i destinatario.

Ne consegue che, bilanciando gli interessi del mittente con quelli del destinatario, ad avviso della Corte – applicando un principio analogo a quello degli atti giudiziari – potrà ritenersi  perfezionata la comunicazione decorsi dieci giorni di giacenza presso l’ufficio postale (oppure nel momento intermedio in cui il soggetto si reca a ritirare effettivamente il plico presso l’ufficio).

La vicenda nasce dall’invio  di un verbale di assemblea, successivamente impugnato da un condomino nei trenta giorni dal ritiro della relativa raccomandata:  i giudici di primo grado e di appello avevano considerato tardiva l’impugnazione, in applicazione del precedente orientamento che faceva decorrere il termine dal rilascio dell’avviso di giacenza, mentre l’odierna pronuncia ha ritenuto l’impugnativa tempestivamente promossa.

La sentenza, seppur con implicazioni pratiche di rilievo, afferma principi che paiono astrattamente condivisibili e garantisti – rispetto al precedente orientamento che indubitabilmente comprimeva molto i diritti del destinatario – e merita integrale lettura.

Rappresenta in ogni caso motivo di grande attenzione per  gli amministratori, che dovranno tenere conto di questa lettura – ove non rimanga episodio isolato – soprattutto nell’invio degli avvisi di convocazione, onde non incorrere nella violazione del termine previsto dall’art. 66 disp.att. cod.civ.

© massimo ginesi 22 dicembre 2016

mediazione e 1137 cod.civ. : un paio di interessanti riflessioni

Il Tribunale di Milano, con la sentenza  n. 13360/2016 pubbl. il 02/12/2016, ha ribadito alcuni passaggi cruciali in tema di mediazione ed impugnazione delle delibere condominiali annullabili, ossia quelle che vedono la possibilità di ricorrere al Giudice nel termine di trenta giorni previsto dall’art. 1137 cod.civ.

Le norme sulla mediazione (art. 5 VI comma D.Lgs 28/2010 e succ. mod.) prevedono che: ” Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresi’ la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo.”

La norma deve essere intesa nel senso che, una volta proposto (e comunicato all’altra parte) il procedimento di mediazione nel termine previsto dall’art. 1137 cod.civ., la relativa causa – ove la mediazione fallisca – dovrà essere proposta nel termine di trenta giorni dal deposito del verbale di mediazione.

La mediazione dunque interrompe e non sospende il termine per l’impugnativa, che ridecorrerà per intero ai fini dell’introduzione della causa.

In tal senso si sono già pronunciati molti giudici di merito (Tribunale di Monza, 12.1.2106 n.65), salvo  il Tribunale di Palermo che con  sentenza 19/09/2015 n° 4951 ha invece ritenuto l’effetto della mediazione solo sospensivo.

Il Tribunale lombardo ritorna sul punto con chiara motivazione: “instaurato tempestivamente il procedimento di mediazione, il predetto termine decadenziale di trenta giorni è stato interrotto salvo a riprendere nuovamente a decorrere, ai sensi dell’art. 5, comma sesto, del decreto legislativo n. 28 del 2010, a far data dal deposito del verbale presso la segreteria dell’organismo di mediazione avvenuto il 12 febbraio 2015; posto che l’atto di citazione è stato portato alla notifica il successivo 13 marzo 2015, non vi è chi non veda come il termine di trenta giorni – che deve decorrere nuovamente per una sola volta dal 12 febbraio 2015 – sia stato rispettato dal condomino attore, il che rende tempestivo l’odierno gravame e comporta l’infondatezza della superiore eccezione”

Interessante invece il corollario cui perviene lo stesso Giudice in ordine alla decadenza per quei motivi che non siano fatti valere nella istanza di mediazione, per i quali la delibera diverrà intangibile: La decadenza dall’impugnazione ex art. 1137 c.c. va piuttosto rilevata per i vizi scaturenti dalla violazione degli art. 1130 e 1130 bis c.c. che l’attore I.B. ha dedotto nei confronti dell’approvazione dei consuntivi per gli esercizi di gestione 2011, 2012 e 2013 stante il fatto che tali asseriti vizi non sono stati menzionati nella causa petendi prospettata in sede di mediazione obbligatoria: a fronte della specifica contestazione posta in essere dalla difesa di parte convenuta Supercondominio L.B. di P., la parte attrice nulla ha obiettato, di talché, in applicazione del principio di cui all’art. 115, primo comma, c.p.c. e in assenza di prova contraria desumibile dal vaglio del modello di presentazione della domanda di mediazione che non risulta allegato agli atti di causa, devesi pronunciare il rigetto della domanda attorea in parte qua per decadenza dal termine ad impugnare previsto dalle legge”.

© massimo ginesi 20 dicembre 2016

art. 2051 cod.civ. : attenzione al muschio sul vialetto di ingresso al condominio

Una signora cade e riporta lesioni mentre percorre il vialetto di accesso al Condominio, reso viscido dal muschio che si era formato in conseguenza della esposizione all’ombra e alle irrigazioni del giardino.

Il Condominio viene ritenuto responsabile sia in primo grado che in appello, “essendo stata accertata la intrinseca pericolosità della cosa, in seguito a c.t.u. che aveva verificato la esistenza delle formazioni muschiose sull’intero viale, e non essendo emerso alcun elemento circostanziale che consentisse di attribuire neppure in parte la causazione del sinistro alla danneggiata”

LA vicenda approda alla terza sezione della Cassazione, ove il Condominio tenta di sostenere che la responsabilità doveva ritenersi esclusa dalla condotta colposa della vittima, che non avrebbe utilizzato le zone del vialetto non invase dal muschio.

Cassazione civile, sez. III, 13/12/2016, n. 25483 conferma i giudizi di merito, ribandendo ancora una volta come sia precluso in Cassazione qualunque riesame dei fatti : “Il Condominio ricorrente censura la sentenza deducendo che l’evento dannoso sarebbe stato determinato da caso fortuito, e più esattamente dalla condotta negligente della stessa danneggiata: ma in tal modo attraverso il vizio di “error juris” viene piuttosto a censurare la sentenza per vizio attinente la valutazione dei fatti come provati nel giudizio di merito, con la conseguenza che il parametro del vizio di legittimità, alla stregua del quale si chiede alla Corte di sottoporre a verifica la sentenza, è da ritenersi manifestamente errato. La incompatibilità ontologica tra i due vizi di legittimità (l’error juris implica che la fattispecie concreta sia stata correttamente ricostruita in base ad i fatti dimostrati in giudizio; l’errore di fatto si situa invece a monte dell’attività di individuazione ed applicazione della norma di diritto nella quale è sussunta la fattispecie concreta) priva, pertanto, la censura di violazione o falsa applicazione di norme di diritto del necessario supporto argomentativo richiesto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), e determina la inammissibilità del motivo (cfr. Corte Cass. 2^ sez. 29.4.2002 n. 6224, id. 3^ Sez. 18.5.2005 n. 10385, id. 5^ Sez. 21.4.2011 n. 9185; id. 3^ sez. 7.5.2007 n. 10295).”

Quanto all’apporto colposo della vittima, la Suprema Corte osserva che: “il Condominio non deduce alcun fatto, dimostrato in giudizio, del quale la Corte d’appello abbia del tutto omesso l’esame, dovendo al proposito rilevarsi che l’assunto del ricorrente secondo cui il fenomeno muschioso che rendeva scivoloso il terreno interessava solo una parte del vialetto, non trova alcun riscontro nella motivazione della sentenza impugnata, dalla quale emerge, invece, che il vialetto era costeggiato nei due lati, rispettivamente, da un giardino e da piante in vaso, e che doveva, pertanto, presumersi che l’irrigazione del verde avesse creato lo strato di muschio notoriamente scivoloso, determinando la situazione intrinseca di pericolo della res.
Le altre considerazioni svolte dal ricorrente in ordine alla maggiore attenzione che avrebbe potuto richiedersi alla danneggiata, si risolvono in mere ipotesi ed allegazioni, prive di specifici riscontri, e comunque non evidenziano specifici “fatti storici” non considerati dal Giudice di appello, avendo questi esaminato ed escluso qualsiasi concorso di colpa della vittima, venendo pertanto a chiedere il Condominio a questa Corte una inammissibile rivalutazione nel merito dei fatti, non consentita in sede di legittimità (cfr. (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5024 del 28/03/2012; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014).”

Ed ancora: “Da qui la parte ricorrente trae la conclusione che la condotta della danneggiata, la quale non avrebbe individuato, percorrendo il viale, le parti non coperte da muschio e meno rischiose, ed il fatto omissivo dei terzi (i familiari che accompagnavano in quel momento la vittima) i quali non si sarebbero attivati per informare la danneggiata della situazione pericolosa, avrebbero entrambi concorso a determinare in via esclusiva o quanto meno concorrente l’evento dannoso.
Premesso che per giurisprudenza costante nella responsabilità ex art. 2051 c.c., per cose in custodia, l’attore deve offrire la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e l’evento lesivo nonchè dell’esistenza di un rapporto di custodia relativamente alla cosa, mentre il convenuto deve dimostrare l’esistenza di un fattore estraneo che, per il carattere dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso di causalità (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25243 del 29/11/2006), cioè il caso fortuito, in presenza del quale è esclusa la responsabilità del custode, il quale in particolare è tenuto a provare, quanto al fatto del terzo, che lo stesso riveste i requisiti dell’autonomia, dell’eccezionalità, dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità essendo, quindi, idoneo a produrre l’evento, escludendo fattori causali concorrenti (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25029 del 10/10/2008), osserva il Collegio che i fatti allegati dal Condominio risultano sprovvisti entrambi del carattere della “decisività”, in quanto non risultano caratterizzati da “imprevedibilità ed eccezionalità” e non integrano pertanto il fortuito.

Se da un lato, infatti, non è affatto imprevedibile od eccezionale l’uso del vialetto da parte dei terzi per accedere allo stabile condominiale, i quali non possono che fare affidamento sulla sicurezza dello stesso in assenza di specifiche limitazioni di transito o segnalazioni di pericolo od altri presidi diretti a limitarne l’uso (altra e diversa questione è la oggettiva manifesta visibilità del pericolo che impone all’utente il minimo di attenzione necessaria ad evitare il danno: circostanza neppure dedotta nel motivo di ricorso e peraltro anche contestata nei precedenti gradi di merito); dall’altro difetta la prova di quale fosse la effettiva dimensione della copertura muschiosa che rendeva viscido il vialetto (del tutto generica in proposito è l’affermazione del teste, che il Condominio assume dirimente, secondo cui “tale patina….aveva coperto buona parte del vialetto”); neppure è ipotizzabile il “fatto del terzo” così come prospettato dal ricorrente, in quanto, indipendentemente dal rinvenimento del fondamento giuridico dell’obbligo di preventiva informazione circa le condizioni del vialetto posto a carico dei familiari accompagnatori, è appena il caso di osservare come la condotta omissiva viene a collocarsi al di fuori della fattispecie illecita individuata dalla norma dell’art. 2051 c.c., nella quale il fatto del terzo – sempre che imprevedibile ed eccezionale – produce invece direttamente la pericolosità della res (altrimenti inerte), ipotesi che non ricorre nella specie”.

Insomma non si può pretendere che, specie in assenza di avvisi, il terzo salti da una piastrella all’altra individuando quelle meno scivolose, mentre incombe al condominio l’onere di provare la colpa del danneggiato, che deve essere esclusiva ed in grado di provocare in maniera autonoma l’evento, spezzando in tal modo alò nesso causale con il bene oggetto di custodia.

Prova che non è stata fornita, con la conseguenza che il Condominio – quale custode della parte comune – è tenuto all’integrale risarcimento del danno.

© massimo ginesi 19 dicembre 2016 

il reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone in condominio

 

L’art. 659 cod.pen. prevede che : “Chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro”

La Suprema Corte ( Cass. pen. III sez. 15 dicembre 2016 n. 53102) ha delineato i limiti di applicabilità della norma in ambito condominiale, sia con riferimento alla natura del disturbo che con riguardo alla responsabilità del genitore  che non impedisca al figlio di arrecare quel disturbo, tenendo lo stereo troppo alto.

Quanto alla possibilità che il reato sussista in ambito condominiale, la corte afferma che non è sufficiente che il rumore interessi solo le unità contigue:  Affinché sussista la contravvenzione in oggetto relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei a recare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni  non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti medesimo edificio

Nel caso di specie il rumore si percepiva ben oltre l’ambito condominiale: “La sentenza impugnata ha chiaramente e analiticamente riportato elementi di prova dai quali doveva ritenersi che i rumori fossero stati percepiti ben al di là addirittura dell’ambito condominiale, in particolare richiamando le deposizioni dei testi, entrambi appartenenti alla polizia municipale, secondo cui la musica ad alto  volume si percepiva già ad 80 m di distanza dal condominio… Il fatto che sono due persone avessero ritenuto di denunciare il fatto non poteva evidentemente incidere sulla sussistenza del reato”

Assai interessante si rivela invece il passaggio sulla colpa attribuita al padre e sul concetto di posizione di garanzia, spesso richiamato in giurisprudenza anche per fondare la colpa per responsabilità omissiva dell’amministratore: ” aldilà dell’improprio richiamo effettuato per sostenere la responsabilità dell’imputato, agli obblighi discendenti dalla sua qualità di proprietario ed abitante dell’immobile dal quale i rumori si diffondevano, posto che il danno non è stato, nella specie, come correttamente rilevato del ricorrente, prodotto dall’immobile in sé (come richiesto dall’articolo 2051 codice civile) ma dagli apparecchi di riproduzione musicale attivati dal figlio, la sentenza ha posto in evidenza la posizione di garanzia data dall’esercizio della potestà genitoriale sul figlio minore autore, come appena detto, delle propagazioni rumorose”

A tal proposito rileva la Suprema corte che “Tale fonte di responsabilità è stata correttamente evocata dei giudici di merito. L’articolo 40 comma due codice penale prevede che “non impedire un evento che sia l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” e non può esservi dubbio che fra gli obblighi giuridici richiamati da tale norma debba ricomprendersi anche quello discendente dalla responsabilità genitoriale nei confronti dei figli minori, essendo i genitori responsabili del danno cagionato da fatto illecito dei figli minori secondo quanto previsto dall’articolo 2048 codice civile”

“Va infatti chiarito come da tale disposizione discenda un obbligo  di sorveglianza che, senza escludere la concorrente responsabilità del minore ultraquattordicenne e  capace di intendere di volere, non può non radicare una responsabilità anche del genitore in tutti casi in cui un tale obbligo sia rimasto inadempiuto, solo che restando salva la possibilità, espressamente consentita dal comma tre dell’articolo 2048 citato, di provare di non aver potuto impedire il fatto”

© massimo ginesi 16 dicembre 2016