la delibera di approvazione delle spese straordinarie ha valore costitutivo della relativa obbligazione

La Cassazione ribadisce – con ampio e analitico excursus –  un principio ormai reiteratamente espresso (Cass.civ. sez. VI-2 24 settembre 2020 n. 20003  rel. Scarpa) in tema di genesi dell’obbligazione del singolo di pagare la propria quota relativa alle spese straordinarie: la delibera assembleare è titolo sufficiente – anche nella fase a cognizione piena susseguente alla opposizione al decreto ingiuntivo – alla nascita dell’obbligo e ad assolvere l’onere probatorio in capo al condominio, a nulla rilevando che non sia stato approvato il relativo riparto (che ha mero valore dichiarativo ed eventualmente condizionerà la concessione della esecutorietà del decreto ex art 63 disp.att. cod.civ.).

Il Tribunale ha affermato che i lavori dedotti a fondamento della pretesa creditoria del condominio riguardassero non la sistemazione del cortile interno, come ritenuto nella sentenza di primo grado, ma la facciata dell’edificio condominiale, sulla base di una ricostruzione dei fatti di causa operata in via inferenziale dall’apprezzamento delle risultanze istruttorie. Ora, la facciata di prospetto di un edificio rientra nella categoria dei muri maestri, ed, al pari di questi, costituisce una delle strutture essenziali ai fini dell’esistenza stessa dello stabile unitariamente considerato, sicché, nell’ipotesi di condominialità del fabbricato, ai sensi dell’art. 1117 c.c., n. 1, ricade necessariamente fra le parti oggetto di comunione fra i proprietari delle diverse porzioni dello stesso e resta destinata indifferenziatamente al servizio di tutte tali porzioni, con la conseguenza che le spese della sua manutenzione devono essere sostenute dai relativi titolari in misura proporzionale al valore delle rispettive proprietà (Cass. Sez. 2, 30/01/1998, n. 945).


Occorre pertanto ribadire che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su esso gravante con la produzione del verbale dell’assemblea condominiale in cui sono state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. Sez. 2, 29 agosto 1994, n. 7569).

Il giudice, pronunciando sul merito, emetterà una sentenza favorevole o meno, a seconda che l’amministratore dimostri che la domanda sia fondata, e cioè che il credito preteso sussiste, è esigibile e che il condominio ne è titolare.

La delibera condominiale di approvazione dei lavori costituisce, così, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26629; Cass. Sez. 2, 23/02/2017, n. 4672).

Il giudice deve quindi accogliere l’opposizione solo qualora la delibera condominiale abbia perduto la sua efficacia, per esserne stata l’esecuzione sospesa dal giudice dell’impugnazione, ex art. 1137 c.c., comma 2, o per avere questi, con sentenza sopravvenuta alla decisione di merito nel giudizio di opposizione ancorché non passata in giudicato, annullato la deliberazione (Cass. Sez. 2, 14/11/2012, n. 19938; Cass. Sez. 6 – 2, 24/03/2017, n. 7741).

La sentenza del Tribunale di Cassino ha altresì negato che valesse come ragione di revoca del decreto ingiuntivo la mancata approvazione degli stati di riparto, è ciò esclude il vizio di omessa pronuncia sull’appello incidentale formulato dal P. , in quanto la decisione adottata comporta una statuizione implicita di rigetto dello stesso.
Anche sul punto, la decisione del Tribunale di Cassino risulta corretta.
Si ravvisa, invero, un duplice oggetto della deliberazione dell’assemblea condominiale che approvi un intervento di manutenzione delle parti comuni: 1) l’approvazione della spesa, che significa che l’assemblea ha riconosciuto la necessità di quella spesa in quella misura; 2) la ripartizione della spesa tra i condomini, con riguardo alla quale la misura del contributo dipende dal valore della proprietà di ciascuno o dall’uso che ciascuno può fare della cosa.

Se, allora, l’approvazione assembleare dell’intervento, ove si tratti lavori di manutenzione straordinaria, ha valore costitutivo della obbligazione di contribuzione alle relative spese, la ripartizione, che indica il contributo di ciascuno, ha valore puramente dichiarativo, in quanto serve solo ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore, secondo i criteri di calcolo stabiliti dalla legge (o da un’eventuale convenzione) (arg. da Cass. Sez. U, 09/08/2010, n. 18477; Cass. Sez. 2, 03/12/1999, n. 13505; Cass. Sez. 2, 15/03/1994, n. 2452; Cass. Sez. U, 05/05/1980, n. 2928).
L’approvazione assembleare dello stato di ripartizione delle spese è, piuttosto, condizione indispensabile per la concessione dell’esecuzione provvisoria al decreto di ingiunzione per la riscossione dei contributi, ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c., comma 1, giacché ad esso il legislatore ha riconosciuto un valore probatorio privilegiato in ordine alla certezza del credito del condominio, corrispondente a quello dei documenti esemplificativamente elencati nell’art. 642 c.p.c., comma 1 (Cass. Sez. 2, 23/05/1972, n. 1588).

Ove, tuttavia, sia mancata l’approvazione dello stato di ripartizione da parte dell’assemblea, l’amministratore del condominio è comunque munito di legittimazione all’azione per il recupero degli oneri condominiali promossa nei confronti del condomino moroso, in forza dell’art. 1130 c.c., n. 3. In tale evenienza, l’amministratore può agire in sede di ordinario processo di cognizione, oppure ottenere ingiunzione di pagamento senza esecuzione provvisoria ex art. 63 disp. att. c.c., comma 1.
Da ciò consegue che la lamentata carenza di una delibera assembleare di ripartizione delle spese occorrenti per la riparazione della facciata, ove comunque non sia in discussione l’approvazione dell’intervento manutentivo, poteva in astratto incidere sulle condizioni necessarie all’emissione del decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c., comma 1, e quindi sul regolamento delle spese della fase monitoria, senza tuttavia comportare l’infondatezza della pretesa del condominio di riscuotere i contributi dai condomini obbligati ai sensi degli artt. 1123 e ss. c.c.”

© massimo ginesi 28 settembre 2020

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Decreto ingiuntivo e mediazione, nubi all’orizzonte: aumenteranno le opposizioni meramente dilatorie?

La recente pronuncia delle sezioni unite chiarisce che l’onere di dare impulso al procedimento di mediazione nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo incombe al creditore e, ove questi non vi provveda, il giudice dovrà dichiarare improcedibile la domanda e revocare il decreto.

Una recente ordinanza del giudice di legittimità ha inoltre statuito che nel condominio l’amministratore deve essere sempre autorizzato dall’assemblea a partecipare (o a dare impulso) a procedimento di mediazione, non avendo poteri autonomi ai fini dell’art. 71 quater disp.att. cod.civ.

E’ evidente che l’effetto congiunto di tale due statuizioni comporta che i decreti ingiuntivi ottenuti dal condominio ex art 63 disp.att. cod.civ. nei confronti dei condomini morosi vedranno fiorire opposizioni fantasiose da parte di coloro che accampano mere pretese dilatorie, posto che a quel punto sarà onere del condominio promuovere la mediazione (a pena di revoca del decreto) e, come è noto, non sempre è semplice raggiungere la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 comma II c.c., così come richiesta dall’art. 71 quater disp.att. cod.civ. per autorizzare l’amministratore a partecipare al procedimento di ADR.

Ove il condominio non riesca deliberare in tal senso, al giudice non resterà che revocare il decreto e plausibilmente  condannare pure il condominio alle spese della fase di opposizione.

 

@ massimo ginesi 25 settembre 2020     

 

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il termine per impugnare la delibera è inderogabile

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI-2 21 settembre 2020 n. 19714 rel. Scarpa)  conferma un orientamento di legittimità consolidato  e ribadisce come le norme a presidio della dinamica della gestione condominiale e della amministrazione dell’edificio non possano essere derogate  neanche in via contrattuale, secondo quanto prevede l’art. 1138  ultimo comma  c.c.

Fra tali precetti certamente rientra l’art. 1137 c.c., che stabilisce  un termine di 30 giorni per proporre impugnativa della delibera annullabile.

Secondo consolidato orientamento di questa Corte, che la sentenza impugnata ha ignorato, il regolamento di condominio, anche se contrattuale, approvato cioè da tutti i condomini, non può derogare alle disposizioni richiamate dall’art. 1138, comma 4, c.c., né può menomare i diritti che ai condomini derivano dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle convenzioni (ad esempio, Cass. Sez. 2, 09/11/1998, n. 11268).

In particolare, l’art. 1138, ultimo comma, c.c., disposizione che regola la materia di causa e della quale la Corte d’appello non ha tenuto conto, contiene, invero, due diverse norme, di cui una generica e l’altra specifica. La prima esclude che i regolamenti condominiali possano menomare i diritti spettanti a ciascun condomino in base agli atti di acquisto o alle convenzioni. La seconda dichiara inderogabili le disposizioni del codice concernenti l’impossibilita di sottrarsi all’onere delle spese, l’indivisibilità delle cose comuni, il potere della maggioranza qualificata di disporre innovazioni, la nomina, la revoca ed i poteri dell’amministratore, la posizione dei condomini dissenzienti rispetto alle liti, la validità e l’efficacia delle assemblee, l’impugnazione delle relative delibere.

La prima di tali norme riguarda, dunque, i principi relativi alla posizione del condominio rispetto ai diritti dei condomini sulle parti comuni e sui beni di proprietà individuale e la disciplina di tali diritti, se non è modificabile da un regolamento comune, deliberato a maggioranza, può essere, invece, validamente derogata da un regolamento contrattuale.

La seconda norma, invece, concerne le disposizioni relative alla dinamica dell’amministrazione e della gestione condominiale. L’inderogabilità di queste ultime disposizioni è assoluta e, pertanto, la relativa disciplina non può subire modifiche neppure in base a regolamenti contrattuali o ad altre convenzioni intercorse fra le parti (cfr. Cass. Sez. 2, 03/08/1966, n. 2155).

Nel valutare la tempestività della impugnazione della deliberazione assembleare del Condominio di via (omissis…), approvata il 18 novembre 2014, avendo in particolare Mi. Pr. notificato la sua citazione il 15 dicembre 2014, la Corte d’appello di Milano avrebbe perciò dovuto rilevare la nullità della richiamata clausola contenuta nell’art. 25 lettera D del regolamento condominiale contrattuale, che stabilisce un termine di decadenza di quindici giorni, visto che l’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. vieta che con regolamento condominiale siano modificate le disposizioni relative alle impugnazioni delle deliberazioni condominiali di cui all’art. 1137 c.c. (così Cass. Sez. 2, 06/05/1964, n. 1082). Non ha fondamento la considerazione sulla novità della questione della nullità della clausola regolamentare, in quanto la stessa è rilevabile, ai sensi dell’art. 1421 c.c., anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, e quindi pure in sede di legittimità, purché siano acquisiti agli atti tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersene l’esistenza (cfr. Cass. Sez. U, 12/12/2014, n. 26243).

Deve pertanto enunciarsi il seguente principio:
E’ nulla la clausola del regolamento di condominio che stabilisce un termine di decadenza di quindici giorni per chiedere all’autorità giudiziaria l’annullamento delle delibere dell’assemblea, visto che l’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. vieta che con regolamento condominiale siano modificate le disposizioni relative alle impugnazioni delle deliberazioni condominiali di cui all’art. 1137 c.c.”

© massimo ginesi 23 settembre 2020

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mediazione e decreto ingiuntivo: per le sezioni unite l’onere è del creditore

La più recente giurisprudenza era orientata a ritenere che – in caso di opposizione a decreto ingiuntivo – l’onere di promuovere la mediazione, ove per materia la stessa costituisca condizione di procedibilità, incombesse all’opponente, con la conseguenza  che – in difetto di attivazione da parte di costui – veniva dichiarata l’improcedibilità dell’opposizione e la definitività del decreto.

Le Sezioni unite (Cass.civ. sez. un. 18 settembre 2020 n. 19596), cui la questione era stata rimessa a fronte di orientamenti non concordi, hanno invece statuito che – ove la mediazione non sia correttamente instaurata – non vada dichiarata improcedibile l’opposizione ma l’azione originaria, seppur proposta in via monitoria, con conseguente revoca del decreto poichè solo tale lettura pare essere conforme al dato normativo e costituzionalmente orientata.

La pronuncia, per l’ampia motivazione, merita integrale lettura.

19596

© massimo ginesi 22 settembre 2020

 

 

 

spese straordinarie e vendita immobiliare dell’unità in condominio, chi paga?

In caso di vendita di unità immobiliare posta in condominio, sorge spesso contenzioso fra acquirente e venditore per stabilire su chi debbano gravare le spese deliberate  per l’esecuzioni di lavori straordinari.

La giurisprudenza di legittimità ha ormai raggiunto un consolidato orientamento, individuando in colui che era condomino al momento in cui è stata assunta la deliberazione che ha deciso l’intervento il soggetto tenuto al pagamento.

Eventuali diversi accordi fra acquirente e venditore hanno valenza fra le parti ma sono inopponibili al condominio, che dunque potrà (rectius, dovrà) agire nei conforti di colui che risulti obbligato in forza dei rpinpci di diritto espressi dalla Corte.

L’orientamento è confermato da recente pronuncia della Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI 10 settembre 2020 n. 18793 rel. Scarpa):

I due motivi di ricorso, che possono esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, rivelano diffusi profili di inammissibilità e risultano comunque infondati.
I motivi di ricorso deducono la questione della individuazione del soggetto obbligato a sostenere le spese per la manutenzione straordinaria dell’edificio condominiale nei rapporti tra alienanti ed acquirente di una unità immobiliare.

A differenza di quanto sostenuto in motivazione dalla Corte di Campobasso, che ha però poi deciso correttamente sul punto in dispositivo, secondo ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, deve farsi riferimento non al momento della concreta attuazione dell’attività di manutenzione, quanto alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione dell’intervento di riparazione straordinaria, avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione (Cass. Sez. 2, 14/10/2019, n. 25839; Cass. Sez 6-2, 22 marzo 2017, n. 7395; Cass. Sez. 2, 03/12/2010, n. 24654).

Tale momento, che la Corte d’appello ha individuato con riferimento alla deliberazione del 1 marzo 2007, allorchè venne scelta l’impresa esecutrice tra più preventivi, rileva dunque per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, se gli stessi non si siano diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al condominio (che agisca in solido verso entrambi ai sensi dell’art. 63 c.c., comma 4, disp. att.) i patti eventualmente intercorsi tra costoro.

Non rileva a tal fine, viceversa, la data in cui siano stati approvati gli stati di ripartizione delle spese inerenti quei lavori.

Occorre, invero, l’autorizzazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1135 c.c., comma 1, n. 4 e con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 4, per l’approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell’edificio condominiale (si vedano indicativamente Cass. Sez. 2, 21/02/2017, n. 4430; Cass. Sez. 2, 25/05/2016, n. 10865).

La delibera assembleare in ordine alla manutenzione straordinaria deve in ogni caso determinare l’oggetto del contratto di appalto da stipulare con l’impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi ed il prezzo dei lavori, non necessariamente specificando tutti i particolari dell’opera, ma comunque fissandone gli elementi costruttivi fondamentali, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa, non avendo rilievo per l’insorgenza del debito di contribuzione l’esistenza di una deliberazione programmatica e preparatoria (Cass. Sez. 2, 26 gennaio 1982, n. 517; Cass. Sez. 2, 02/05/2013, n. 10235; Cass. Sez. 2, 21 febbraio 2017, n. 4430; Cass. Sez. 62, 16 novembre 2017, n. 27235; Cass. Sez. 6-2, 17 agosto 2017, n. 20136; Cass. Sez. 2, 20 aprile 2001, n. 5889).

Correttamente, pertanto, la Corte d’appello di Campobasso ha ritenuto che l’obbligo di contribuzione alla manutenzione straordinaria dell’edificio fosse insorto soltanto allorchè, nell’assemblea del 1 marzo 2007, successiva dunque alla compravendita inter partes stipulata il 19 dicembre 2006, venne definitivamente individuata l’impresa prescelta.

A tale apprezzamento di fatto compiuto dai giudici del merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente contrappone nel primo motivo di impugnazione un denuncia di violazione e falsa applicazione di norma di diritto, che è in realtà volta ad ottenere dalla Corte di cassazione una diversa ricostruzione delle vicende di causa, sollecitando una inammissibile delibazione immediata delle risultanze di alcune precedenti delibere assembleari (in particolare, quelle del 19 giugno 2016 e del 7 settembre 2016), delle quali neppure risulta specificato il contenuto decisivo, agli effetti dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6. Essendo il debito per il pagamento dei contributi di manutenzione straordinaria divenuto esigibile soltanto il 1 marzo 2007 (allorchè era condomino, e perciò legittimato alla partecipazione alla relativa assemblea, proprio L.G., subentrato il 19 dicembre 2006 nel diritto di condominio), non è ravvisabile alcuna violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto di compravendita da parte dei venditori dell’unità immobiliare, a titolo di dolo incidente ex art. 1440 c.c., non potendo ravvisarsi in capo a questi ultimi un obbligo informativo, nè dunque prospettare un malizioso occultamento, causa di un “maggior aggravio economico” del compratore, con riguardo all’intenzione dei condomini di procedere alla futura approvazione dei lavori in questione (arg. da Cass. Sez. 2, 16/04/2012, n. 5965).

© massimo ginesi 17 settembre 2020 

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parcheggi pertinenziali: l’amministratore può compiere atti conservativi.

Le aree esterne all’edificio condominiale, destinate a parcheggio e che non  vedano una attribuzione specifica di proprietà in forza del titolo devono ritenersi comuni ex art 1117 c.c. e gravate dal vincolo di destinazione – ove ne abbiano le caratteristiche – di cui alla speciale normativa urbanistica, dettata dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, in forza della quale le stesse – anche se rimaste in proprietà del costruttore – sono gravate da un diritto reale d’uso in favore dei condomini.

E’ quanto afferma Cass.civ. sez. VI-2 10 settembre 2020 n. 18796 rel. Scarpa, che chiarisce come, relativamente a quei beni, l’amministratore possa lecitamente attivarsi con atti conservativi verso coloro che compiano atti diretti ad appropriarsene o comunque a sottrarli al godimento comune.

“La Corte d’Appello di L’Aquila ha dapprima ricapitolato i termini della questione, evidenziando come gli atti autorizzativi del Comune di Martinsicuro avessero individuato l’area in contesa come adibita a parcheggio, mentre poi alcuni atti di vendita e le schede di accatastamento indicavano tale area come pertinenza dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva sita al piano terra.

Di seguito, l’impugnata sentenza ha comunque ritenuto in via pregiudiziale di dover negare la legittimazione ad agire dell’amministratore del condominio con riguardo ad area gravata dal vincolo di destinazione a parcheggio.

In tal modo, la Corte di L’Aquila non si è uniformata alla consolidata interpretazione di questa Corte, secondo cui la speciale normativa urbanistica, dettata dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, si è limitata a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi in misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio, determinando, mediante tale vincolo di carattere pubblicistico, un diritto reale d’uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini dell’edificio, senza imporre all’originario costruttore alcun obbligo di cessione in proprietà degli spazi in questione.

In particolare, l’area esterna di un edificio condominiale, della quale manchi un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio (ovvero, nel primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, che possa perciò valere come titolo contrario alla presunzione di condominialità) va ritenuta parte comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Da ciò consegue la legittimazione dell’amministratore di condominio ad esperire, riguardo ad essa, le azioni contro i singoli condomini o contro terzi dirette ad ottenere il ripristino dei luoghi ed il risarcimento dei danni, giacché rientranti nel novero degli “atti conservativi”, al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130 c.c., n. 4 (Cass. Sez. VI-2, 21/02/2018, n. 4255; Cass. Sez. 6 2, 08/03/2017, n. 5831; Cass. Sez. 2, 16/01/2008, n. 730; Cass. Sez. 2, 18/07/2003, n. 11261).”

© massimo ginesi 14 settembre 2020 

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art. 1102 c.c. e facoltà di uso della cosa comune: un interessante excursus della Cassazione

E’ noto che l’art. 1102 c.c., applicabile al condominio in virtù del rinvio disposto dall’art. 1139 c.c., consente ai singoli di trarre maggiori utilità dal bene comune, purché sia rispettata la facoltà di pari uso degli altri condomini e non sia mutata la destinazione del bene.

Una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  28 agosto 2020 n. 18038 rel. Scarpa) affronta il tema in maniera esaustiva, con riguardo alla apposizione di alcune vetrine da parte di singoli condomini titolari di fondi commerciali nell’androne condominiale, m chiedendo come la valutazione circa il “pari uso” debba essere dinamica e come non sia consentita la determinazione giudiziale delle facoltà di godimento dei singoli, ma solo il rimedio negativo del divieto di uso non conforme al dettato della norma.

I fatti e il processo: “La Corte d’appello di Salerno, accogliendo il gravame avanzato in via principale contro la sentenza resa in primo grado in data 6 agosto 2008 dal Tribunale di Salerno, ha accolto le domande proposte da D.M.M., A.P. e A.F. (eredi di A.P.), S.M., S.S. e S.C., riconoscendo a costoro il diritto di utilizzare i muri dell’androne di ingresso del Condominio (OMISSIS), Salerno, e dichiarando illegittima, agli effetti dell’art. 1102 c.c., l’utilizzazione fatta di tale androne dalle condomine S.A. ed S.A.P., le quali si erano impossessate degli spazi dei muri più appetibili a fini commerciali. La Corte d’appello ha poi proceduto a determinare le superfici dell’androne di cui le parti in causa (tutte proprietarie di terranei ubicati all’interno del cortile condominiale, adibiti ad esercizio commerciale) possono disporre in ragione del valore millesimali delle rispettive proprietà. La Corte di Salerno ha altresì accolto in parte le domande di rimozione delle vetrine apposte sui muri dell’androne da S.A. ed S.A.P. e condannato le stesse al risarcimento dei danni in favore di ciascuno degli appellanti. E’ stata pure accolta la domanda di garanzia svolta da S.A.P. nei confronti di G.M., amministratrice della L’Ago Incantato s.r.l., in forza della scrittura privata inter partes del 31 marzo 1997.”

i principi espressi dalla Corte di legittimità “La prima domanda va ricondotta all’art. 1102 c.c.. La Corte d’appello di Salerno ha ritenuto che i muri condominiali posti nell’androne costituiscono parti comuni di sicura utilità per i locali terranei destinati ad esercizi commerciali siti nel cortile, sicchè essi non possono essere utilizzati solo da alcuni condomini con esclusione di altri. I giudici di secondo grado non hanno però dimostrato in motivazione se il principio, esattamente tratto a livello di proclamazione astratta, sia stato applicato ad una fattispecie concreta che effettivamente risulti in esso sussumibile.

Questa Corte ha più volte affermato che la nozione di pari uso della cosa comune, cui fa riferimento l’art. 1102 c.c., non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione.

Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto.

Pertanto, si è chiarito in giurisprudenza, con particolare riguardo, appunto, al muro perimetrale dell’edificio – anche in considerazione delle sue funzioni accessorie di appoggio di tubi, fili, condutture, targhe e altri oggetti analoghi -, che l’apposizione di una vetrina da esposizione o mostra sul detto muro da parte di un condomino, in corrispondenza del proprio locale destinato all’esercizio di attività commerciale, non costituisca di per sè abuso della cosa comune idoneo a ledere il compossesso del muro comune che fa capo come “jus possidendi” a tutti i condomini, se effettuata nel rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, 12/02/1998, n. 1499; Cass. Sez. 2, 20/02/1997, n. 1554; Cass. Sez. 2, 08/05/1971, n. 1309).

La destinazione della cosa comune – che, a norma dell’art. 1102 c.c., ciascun partecipante alla comunione non può alterare, divenendo altrimenti illecito l’uso del bene – dev’essere determinata attraverso elementi economici, quali gli interessi collettivi appagabili con l’uso della cosa, elementi giuridici, quali le norme tutelanti quegli interessi, ed elementi di fatto, quali le caratteristiche della cosa.

In mancanza di accordo unanime o di deliberazione maggioritaria che contenga norme circa l’uso delle parti comuni, la destinazione di queste ultime, rilevante ai fini del divieto di alterazione posto dall’art. 1102 c.c., può risultare anche dalla pratica costante e senza contrasti dei condomini, e cioè dall’uso ultimo voluto e realizzato dai partecipanti alla comunione, che il giudice di merito deve accertare (cfr. Cass. Sez. 2, 18/07/1984, n. 4195).

La Corte d’appello di Salerno non ha, allora, preso in considerazione le circostanze attestanti l’uso di fatto pregresso dei muri dell’androne ad opera delle condomine S., circostanze essenzialmente risultanti dai dati processuali richiamati nel secondo motivo del ricorso di S.A.P. e nel terzo motivo del ricorso di S.A., ed ha così valutato soltanto in astratto la conformità della installazione delle vetrine nell’androne alla destinazione della cosa stessa. Tali circostanze sull’uso praticato dell’androne, stando alle allegazioni delle ricorrenti, deporrebbero per la configurabilità di una servitù a carico dei muri comuni ed a vantaggio delle proprietà esclusive S., ove la risalente utilità tratta dall’apposizione delle vetrine apparisse diversa da quella normalmente derivante dalla destinazione impressa alla parte condominiale fruita da tutti i comproprietari; ove, invece, la medesima utilità procurata dalle vetrine alle proprietà S. derivasse unicamente dalla natura e dalla pregressa destinazione pratica dei muri comuni, queste ultime si porrebbero quali parametri di riferimento della disciplina, propria della comunione, di cui all’art. 1102 c.c..

E’ invece inammissibile la determinazione giudiziale in sede contenziosa delle superfici dell’androne utilizzabili dai condomini proprietari dei locali terranei del Condominio (OMISSIS), cui la Corte d’appello ha proceduto, peraltro, senza che al giudizio partecipassero nemmeno i restanti condomini, essendo l’androne di un edificio oggetto di proprietà comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., per tutti i partecipanti che ne traggano utilità.

L’accertamento, da parte del giudice, che l’uso del bene comune, fatto da uno dei partecipanti alla comunione, renda impossibile o menomi l’esercizio del diritto degli altri comproprietari, agli effetti dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c., legittima ciascuno dei condomini a chiedere la rimozione delle opere che alterino e sconvolgano il rapporto di equilibrio della comunione, al fine di veder tutelato il loro diritto reale sulla cosa comune e di impedire il consolidarsi di una situazione illegittima, oltre che a pretendere l’eventuale risarcimento del danno, così verificando, in negativo, un limite all’esercizio del potere del singolo di servirsi della res, ma non consente una pronuncia conformativa che contenga le norme circa l’uso futuro della cosa stessa.

Al di là del passaggio contenuto in Cass. Sez. 2, 01/02/1993, n. 1218, che in realtà riguardava l’efficacia da riconoscere ai regolamenti condominiali comunque adottati in virtù di sentenza, merita, piuttosto, conferma l’orientamento, espresso da Cass. Sez. 2, 07/06/2011, n. 12291, secondo cui il regolamento di condominio è, in ogni caso, atto di produzione essenzialmente privata anche nei suoi effetti tipicamente organizzativi, incidenti, cioè, sulle sole modalità di godimento delle parti comuni dell’edificio. Ne consegue che – come si ritiene in dottrina – il giudice può eventualmente decidere sulla impugnazione ex art. 1137 c.c. della delibera che abbia rifiutato di approvare il regolamento, quando esso deve essere obbligatoriamente formato a norma dell’art. 1138 c.c., comma 1, ovvero annullare la norma regolamentare che sia stata impugnata a norma dell’art. 1107 c.c., ma non può modificare quest’ultima nel senso di dettare una diversa regola in sostituzione di quella annullata.

A differenza di quanto sostenuto dalla Corte d’appello di Salerno (per la quale la domanda di determinazione delle modalità di utilizzazione dei muri dell’androne era ammissibile, non essendo “perseguibile la diversa via di cui all’art. 1105 c.c., u.c.”, poichè “nel caso in esame… non vi erano provvedimenti da adottare per l’amministrazione della cosa comune…”), deve invece ribadirsi che i condomini possono:

1)convenire il giudizio il condominio, in persona dell’amministratore, per ottenere la sola determinazione in millesimi del valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare, agli effetti degli artt. 68 e 69 disp. att. c.c.; 2) oppure ricorrere all’intervento sostitutivo dell’autorità giudiziaria nell’interesse della res, ai sensi dell’art. 1105 c.c., comma 4 (dettato in materia di comunione, ma applicabile anche al condominio degli edifici per il rinvio posto dall’art. 1139 c.c.), se intendono evitare il pregiudizio che possa derivare alla cosa comune in presenza di una paralisi gestionale, perchè non si prendono i “provvedimenti necessari per l’amministrazione” della stessa o non si forma una maggioranza, ovvero perchè la deliberazione adottata non viene eseguita.

La previsione, ad opera del medesimo art. 1105 c.c., comma 4, dello specifico rimedio del ricorso, da parte di ciascun partecipante, all’autorità giudiziaria perchè adotti gli opportuni provvedimenti in sede di volontaria giurisdizione (ivi compresi gli atti di conservazione), preclude, dunque, al singolo partecipante alla comunione di rivolgersi al giudice in sede contenziosa per ottenere provvedimenti di gestione della res, ai fini della sua amministrazione nei rapporti interni tra i comunisti (così Cass. Sez. 3, 08/09/1998, n. 8876; Cass. Sez. U, 19/07/1982, n. 4213).

Non è, tuttavia, altrimenti consentito ricorrere al giudice per ottenere determinazioni finalizzate al “migliore godimento” delle cose comuni, ovvero (come nella specie fatto dalla Corte d’appello di Salerno, che ha dettato le quote di superficie spettanti ai proprietari dei locali terranei per l’uso frazionato dell’androne) l’imposizione di un regolamento contenente norme circa l’uso delle stesse, spettando unicamente al gruppo l’espressione delle volontà associativa di autorganizzazione contenente i futuri criteri di comportamento vincolanti per i partecipanti della comunione.”

© massimo ginesi 7 settembre 2020 

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distacco dall’impianto di riscaldamento, regolamento e sostituzione caldaia

una recente e articolata sentenza  della suprema corte (Cass.civ. sez. II  31 agosto 2020 n. 18131 rel. Scarpa) affronta temi ricorrenti in tema di riscaldamento e chiarisce due aspetti fonte di frequente contenzioso:

a) è nulla la clausola del regolamento – anche di natura contrattuale – che vieti tour court il distacco del singolo dall’impianto centralizzato

b) ove si provveda a sostituire la caldaia e da tale intervento derivi – pre invalicabili ragioni tecniche – che talune unità non sono più servite dall’impianto comune (né risulta possibile fruire in futuro), non si verterà più in tema di distacco o rinuncia ma cessa la contitolarità dell’impianto, sì che quei condomini non saranno ptenuti a contribuire in alcun modo e la delibera che addebiti loro alcuna spesa sarà affetta da nullità

La Corte d’appello di Torino ha deciso la questione di diritto ad essa devoluta senza tener conto del consolidato orientamento giurisprudenzlale in base al quale, già prima dell’entrata in vigore del novellato art. 1118 c.c., comma 4, introdotto dalla L. n. 220 del 2012, si riconosce a ciascun condomino il diritto di rinunziare legittimamente all’uso del riscaldamento centralizzato e di distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto termico comune, senza necessità di autorizzazione od approvazione degli altri condomini, se sia provato che dal distacco non derivano nè un aggravio di spesa per gli altri condomini nè uno squilibrio di funzionamento, restando in tal caso fermo soltanto l’obbligo del concorso nel pagamento delle spese occorrenti per la conservazione e la manutenzione straordinaria dell’impianto.

Sono conseguentemente nulle, per violazione del diritto individuale del condomino sulla cosa comune, la clausola del regolamento condominiale, come la Delib. assembleare che vi dia applicazione, che vietino in radice al condomino di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento e di distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto termico comune, seppure il distacco non cagioni alcun notevole squilibrio termico nè aggravio di gestione per gli altri partecipanti. Secondo l’interpretazione giurisprudenziale di questa Corte, infatti, la disposizione regolamentare che contenga un incondizionato divieto di distacco si pone in contrasto con la disciplina legislativa inderogabile emergente dall’art. 1118 c.c., comma 4, L. n. 10 del 1991, art. 26, comma 5 e D.Lgs. n. 102 del 2014, art. 9, comma 5, (come modificato dal D.Lgs. 18 luglio 2016, n. 141, art. 5, comma 1, lett. i, punto i), diretta al perseguimento di interessi sovraordinati, quali l’uso razionale delle risorse energetiche ed il miglioramento delle condizioni di compatibilità ambientale, e sarebbe perciò nulla o “non meritevole di tutela” (Cass. Sez. 2, 11/12/2019, n. 32441; Cass. Sez. 2, 02/11/2018, n. 28051; Cass. Sez. 2, 12 maggio 2017, n. 11970; Cass. Sez. 6 – 2, 03/11/2016, n. 22285; Cass. Sez. 2, 29 settembre 2011, n. 19893; Cass. Sez. 2, 13 novembre 2014, n. 24209; Cass. Sez. 2, 30/03/2006, n. 7518).

E’ altrimenti incomprensibile la conclusione cui perviene la Corte d’appello di Torino, quando afferma che il condomino V. non poteva essersi legittimamente distaccato dall’impianto centralizzato di riscaldamento, e doveva perciò continuare a sostenerne le spese di funzionamento, in quanto, a seguito della sostituzione della caldaia avvenuta nel 2001, la proprietà V. non era proprio più collegata con il rinnovato impianto centrale condominiale: in sostanza, si legge nella sentenza impugnata: “l’impianto di riscaldamento V. non fu mai collegato “prima” (a caldaia sostituita) e distaccato “dopo” (sempre a caldaia sostiuita) dall’impianto di riscaldamento centrale”.

Di regola, si spiega che il condomino rimane obbligato a pagare le sole spese di conservazione dell’impianto di riscaldamento centrale (ad esempio, proprio quelle per la sostituzione della caldaia), anche quando sia stato autorizzato a rinunziare all’uso del riscaldamento centralizzato e a distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto comune, atteso che l’impianto centralizzato costituisce un accessorio di proprietà comune, al quale il predetto potrà comunque, in caso di ripensamento, riallacciare la propria unità immobiliare (Cass. Sez. 2, 29/03/2007, n. 7708).

Se, tuttavia, in seguito ad un intervento di sostituzione della caldaia dell’impianto termico centralizzato, il mancato allaccio di un singolo condomino non si intenda quale volontà unilaterale dello stesso di rinuncia o distacco, ma appaia quale conseguenza della impossibilità tecnica di fruizione del nuovo impianto condominiale a vantaggio di una unità immobiliare, restando impedito altresì un eventuale futuro riallaccio, deve ritenersi che tale condomino non sia più titolare di alcun diritto di comproprietà sull’impianto, e non debba perciò nemmeno più partecipare ad alcuna spesa ad esso relativa, essendo nulla la Delib. assembleare che addebiti le spese di riscaldamento ai condomini proprietari di locali cui non sia comune l’impianto centralizzato, nè siano serviti da esso (Cass. Sez. 2, 03/10/2013, n. 22634; Cass. Sez. 2, 10/05/2012, n. 7182).”

© massimo ginesi 3 settembre 2020

 

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