convocazione dell’erede: gli oneri dell’amministratore

Una recente pronuncia del Tribunale capitolino (Trib. Roma Sez.V 4 maggio 2020 n. 6847) appare interessante per l’amministratore che si trovi a gestire mutamenti nella compagine condominiale: il Giudice romano afferma che l’amministratore è tenuto a convocare i soggetti che risultano dai registri di anagrafe tenuti debitamente aggiornati, senza necessità di compiere ogni volta particolari ricerche immobiliari ed essendo onere dei condomini interessati comunicare eventuali mutamenti di titolarità. 

è stato più volte sostenuto, in giurisprudenza, che, nell’ipotesi di subingresso nella titolarità di una porzione particolare di edificio condominiale, affinché il nuovo proprietario si legittimi, di fronte al condominio, quale avente diritto a partecipare alle assemblee, occorre almeno, pur nel silenzio della legge al riguardo, una qualche iniziativa, esclusiva dell’avente causa o concorrente con quella del dante causa, che, in forma adeguata, renda noto al condominio detto mutamento di titolarità.

È ben vero, tuttavia, che (secondo il perspicuo chiarimento fornito da Cass., 30 aprile 2015, n. 8824): «come è stato affermato in più occasioni da questa Corte (sent. n. 7849 del 2001, n. 2616 del 2005, in coerenza con il principio enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 5032 del 2002), alle assemblee condominiali devono essere convocati solo i condòmini, cioè i veri proprietari e non coloro che si comportano come tali senza esserlo. Nei rapporti tra il condominio e i singoli partecipanti allo stesso, infatti, mancano le condizioni per l’operatività del principio dell’apparenza del diritto, volto, essenzialmente, alla tutela dei terzi di buona fede; e terzi, rispetto al condominio non possono essere ritenuti i condomini.

D’altra parte, e in generale, la tutela dell’apparenza del diritto non può essere invocata da parte del soggetto (nel nostro caso dal Condominio) che abbia trascurato di accertare l’effettiva realtà sui pubblici registri, contro ogni regola di prudenza. Del resto, il regime giuridico di pubblicità rappresenta un limite invalicabile all’operatività del principio dell’apparenza: pubblicità e apparenza sono, infatti, istituti che si completano l’un l’altro, rispondendo alle medesime finalità di tutela dei terzi di buona fede; ma, proprio per ciò, stesso alternativi. La tutela dell’apparenza non può tradursi in un indebito vantaggio per chi abbia colpevolmente trascurato di accertarsi della realtà delle cose, pur avendone la concreta possibilità». Orbene, quantunque non si possano, certamente, intendere i menzionati precedenti nel senso di affermare l’esistenza (fin quando non vi sia un’adeguata comunicazione dell’avvenuto mutamento di titolarità) di una legittimazione sostitutiva giustificata dall’apparenza (tale, cioè, che l’“ex” proprietario, da un lato, possa, a buon diritto, continuare a reclamare per sé lo status di condomino – con le annesse prerogative in ordine alla convocazione e alla partecipazione alle assemblee –; dall’altro, possa continuare a essere perseguito, anche giudizialmente, dall’amministratore per il pagamento dei contributi condominiali), nondimeno il “nuovo”, che (e fin tanto che) abbia omesso di assolvere l’onere di segnalare il proprio subingresso nella posizione dominicale, non può pretendere il riconoscimento della sua qualità dal Condominio e, soprattutto, dolersi di non essere stato invitato a partecipare all’assemblea ordinaria, impugnandone – soltanto se e quando gliene venga data formalmente “notizia” – le deliberazioni in merito alle spese condominiali (cfr. Cass., 29 maggio 1998, n. 5307).

L’attore ex art. 1137 cod. civ., infatti, ha pur sempre l’onere di dimostrare il vizio di cosostituzione: nel senso, però, non già di non aver materialmente ricevuto la comunicazione cui aveva senz’altro diritto (perché sarebbe, semmai, il condominio a dover provare di avergliela inviata – cfr., e pluribus, Cass. ord., 14 settembre 2017, n. 21311; Cass., 21 ottobre 2014, n. 22685 – e di averla recapitata al suo indirizzo – cfr. Cass., 25 marzo 2019, n. 8275 –), ma di essere egli effettivamente tra coloro che (a norma dell’art. 1136, 6° comma, cod. civ.) deve constare siano stati regolarmente invitati alla riunione, poiché il compito istituzionale dell’amministratore, da un lato, può considerarsi assolto e il procedimento di convocazione dell’assemblea, dall’altro, può considerarsi corretto, allorché l’invito alla partecipazione sia stato rivolto a tutti coloro (non già che siano stati individuati – in vista di ogni assemblea – con una puntuale ed esaustiva consultazione dei registri immobiliari, ma) che risultano nel registro anagrafico dei condòmini, adeguatamente tenuto e regolarmente aggiornato secondo le variazioni, di volta in volta, comunicate da chi ne abbia il titolo e l’onere ovvero, comunque, acquisite, con l’uso della normale diligenza, da chi lo gestisce e ne ha la custodia.

Nel caso particolare, poi, del decesso del condomino, poiché, fra l’altro, non sarebbero sufficienti (per l’individuazione dei chiamati e – men che meno – degli eredi) neanche la notizia dell’apertura della successione o l’esame della relativa denunzia (che non implica accettazione della delazione ex lege o ex testamento) né si può ritenere sussistente, in capo all’amministratore, un dovere di provocare la nomina di un curatore dell’eredità giacente, è onere di chi sia subentrato, mortis causa, nella qualità di condomino in luogo del defunto (con la conseguente assunzione dei diritti e obblighi correlativi) darne idonea comunicazione, in mancanza della quale, pertanto, egli non può denunziare il vizio di costituzione dell’assemblea condominiale, così come convocata dall’amministratore sulla base dei dati in suo possesso (costui, anzi – secondo Cass., 22 marzo 2007, n. 6926 –, pur essendo «a conoscenza del decesso di un condomino, fino a quando gli eredi non gli manifesteranno la loro qualità, non avendo utili elementi di riferimento e non essendo obbligato a fare alcuna particolare ricerca, non sarà tenuto a inviare alcun avviso» ovvero – così la più risalente Cass., 29 luglio 1978, n. 3798 – invierà «l’avviso all’ultimo domicilio» noto, dove si possa verosimilmente trovare qualcuno – successore oppure no – in grado di portare l’avviso a conoscenza degli interessati, «sincerandosi, quindi, della [avvenuta] ricezione dell’avviso» medesimo «da parte di persona addetta a quel domicilio», senza che poi rilevi che la persona consegnataria lo recapiti effettivamente agli eredi)

La pronuncia affronta anche il tema della irrilevanza dei vizi di annullabilità della delibera, non tempestivamente impugnata nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, tema contiguo a quello più controverso  della rilevabilità d’ufficio della nullità della delibera in quella sede e del possibile contrasto di giudicati fra relativo al giudizio di opposizione a decreto e di impugnazione della delibera, questioni  rimesse alla valutazione delle Sezioni Unite nello scorso autunno.

L’ampia rassegna giurisprudenziale, richiamata dal Tribunale romano sul primo aspetto, può rendere interessante la lettura dell’intero provvedimento.

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© massimo ginesi 11 maggio 2020 

 

servitù in condominio: il bizzarro concetto di apparenza della Cassazione.

L’art. 1061 cod.civ. precede che siano apparenti le servitù per il cui esercizio vi sono opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio e che le servitù non apparenti non possono acquistarsi per usucapione o per destinazione del padre di famiglia.

Si tratta di una disposizione che fa evidente riferimento alla necessità che l’esercizio della servitù debba essere percepibile, affinché il possesso da parte del titolare o l’eventuale predisposizione dell’unico proprietario risulti manifesta al soggetto destinato a subirne il peso e possa dar luogo ai fenomeni acquisitivi descritti dalla norma.

Oggi la Cassazione afferma che è apparente anche la servitù di acquedotto in condominio, quando i tubi passano sotto il pavimento di una unità immobiliare per servirne altre.

Lo afferma Cass. civ. sez. II 8 giugno 2017 n. 14292: “La giurisprudenza di questa Corte è solita affermare, al riguardo, che, ai sensi dell’art. 1061 c.c., comma 1, è apparente soltanto la servitù al cui esercizio risultino destinate opere permanenti e visibili dal fondo servente, in modo da renderne presumibile la conoscenza da parte del proprietario di quest’ultimo (cfr. Cass. n. 2290/2004; Cass. n. 321/1998).

La precisazione per cui le opere permanenti devono essere “visibili dal fondo servente” non costituisce, tuttavia, una specificazione del concetto di apparenza,come tale insensibile a connotazioni puramente topografiche, come dimostra l’irrilevanza – costantemente affermata da questa Corte – del fatto che le opere siano collocate sul fondo servente, su quello dominante o sul fondo di un terzo (Cass. n. 7817/2006; Cass. n. 6357/1997).

Questa Corte ha avuto, così, occasione di precisare che la visibilità delle opere deve far capo ad un punto d’osservazione non necessariamente coincidente con il fondo servente, essendo essenziale, allo scopo, che queste rendano obiettivamente manifesta, per chi possegga detto fondo, la situazione di asservimento (Cass. n. 2994/2004; Cass. n. 2225/1976).

La visibilità dal fondo servente è, dunque, un’ipotesi normale ma non per questo esclusiva, essendo, piuttosto, sufficiente che le opere destinate all’esercizio della servitù siano visibili – anche se solo saltuariamente ed occasionalmente (Cass. n. 6522/1993) – da qualsivoglia altro punto d’osservazione, anche esterno al fondo servente, purchè il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una vicina via pubblica.

Non rileva, quindi, che l’opera sia a vista nè che il proprietario del fondo che si assume asservito abbia, in concreto, conoscenza dell’esistenza dell’opera.

L’apparenza della servitù, senza la quale non è possibile la costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia, si identifica, in definitiva, nell’oggettiva e permanente sussistenza di opere suscettibili di essere viste (anche se, in concreto, ignorate) che, per la loro struttura e consistenza, inequivocamente denuncino il peso imposto su un fondo a favore dell’altro (Cass. n. 3556/1995).

Non è, infine, necessario che l’apparenza, nei termini predetti, si estenda all’opera nel suo complesso: non è, quindi, l’entità dell’opera che rileva ma le opere in quanto segno obiettivo ed inequivoco della loro destinazione ad una determinata servitù (Cass. n. 9371/1992; Cass. n. 5020/1996).

A fronte di tali principi, appare, allora, evidente alla Corte come la tubatura idrica, pur se collocata al di sotto del pavimento dell’appartamento che funge da fondo servente – ed incontestatamente oggetto di proprietà comune (in tal senso, del resto, Cass. n. 7761/2010) – costituisca senz’altro un’opera oggettivamente visibile (sia pur occasionalmente: come, in effetti, il ricorrente ha confermato ammettendo di aver accertato l’esistenza della tubatura in occasione di lavori svolti nel suo appartamento), anche solo in parte, dal proprietario dello stesso, che, di fatto, inequivocabilmente (come, appunto, è il caso di una tubazione che trasporta acqua), rivela, per struttura e consistenza, l’onere che grava sull’appartamento servente a vantaggio dell’altro.

© massimo ginesi 20 giugno 2017