distacco e regolamento contrattuale, la Cassazione da una lettura diversa

A pochi giorni dalla pronuncia con cui ha ritenuto nulla la clausola del regolamento contrattuale che vieti il distacco (o lo consenta obbligando comunque il condomino al pagamento  delle spese di consumo), sull’assunto  che  la legislazione pubblica in tema di energia abbia carattere cogente anche per l’autonomia privata, la corte di legittimità offre una diversa chiave di lettura.

Una discrasia  che dovrà necessariamente vedere nel prossimo futuro una composizione.

Cass. civ. Sez. VI-2 18 maggio 2017 n. 12580 rel. Scarpa riconosce la legittimità delle clausole convenzionali del regolamento che dispongano in materia di distacco.

Nel caso di specie il regolamento di natura contrattuale prevedeva che “del regolamento condominiale di natura
contrattuale, il quale dispone che “la rinuncia al servizio di riscaldamento centrale può essere ammessa purché per un’intera stagione e con le opportune garanzie ed importa l’obbligo di pagare la metà del contributo che il rinunciante avrebbe dovuto pagare se avesse usufruito del servizio”.

Osserva la corte che “la disposizione regolamentare in esame, limitandosi ad obbligare il condomino rinunziante a concorrere parzialmente anche alle spese per l’uso del servizio centralizzato, non va intesa come clausola impeditiva del distacco (il che, ad avviso di precedenti decisioni di questa Corte, renderebbe il contratto non meritevole di tutela: Cass. Sez. 2, 29 settembre 2011, n. 19893; Cass. Sez. 2, 13 novembre 2014, n. 24209).

E’ stato, piuttosto, stabilmente affermato dalla giurisprudenza, con orientamento che deve trovare conferma e depone per l’infondatezza del ricorso, come sia legittima la delibera assembleare che disponga (proprio come nel caso in esame), in esecuzione di apposita disposizione del regolamento condominiale avente natura contrattuale posta in deroga al criterio legale di ripartizione delle spese dettato dall’art. 1123 c.c., che le spese di gestione dell’impianto centrale di riscaldamento siano a carico anche delle unità immobiliari che non usufruiscono del relativo servizio (per avervi rinunciato o essersene distaccati), tenuto conto che la predetta deroga è consentita, a mezzo di espressa convenzione, dalla stessa norma codicistica (Cass. Sez. 2, 23 dicembre 2011, n. 28679;
Cass. Sez. 2, 20 marzo 2006, n. 6158; Cass. Sez. 2, 28 gennaio 2004, n. 1558).

E’ del resto derogabile dai condomini, nell’esercizio della loro autonomia privata, anche la disciplina dell’art. 1118 c.c., che correla diritti ed obblighi dei condomini al valore millesimale di contitolarità, prescegliendo un accordo di valore negoziale che si risolve in un impegno irrevocabile di determinare quantitativamente le quote di contribuzione alle spese in un certo modo (cfr. Cass. Sez. 2, 26/03/2010, n. 7300).

Non è dunque ravvisabile nella previsione che il rinunziante all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento debba concorrere alle sole spese per la manutenzione straordinaria o alla conservazione dell’impianto stesso, una norma imperativa non derogabile nemmeno con accordo unanime di tutti i condomini, in forza di vincolo pubblicistico di distribuzione degli oneri condominiali dettato dall’esigenza dell’uso razionale delle risorse energetiche e del miglioramento delle condizioni di compatibilità ambientale, ed essendo perciò i condomini liberi di regolare mediante convenzione il contenuto dei loro diritti e dei loro obblighi mediante una disposizione regolamentare di natura contrattuale che diversamente suddivida le spese relative all’impianto, ferma l’indisponibilità del diritto al distacco

La tesi oggi avanzata appare maggiormente condivisibile alla luce dei principi generali in tema di energia e riscaldamento, atteso che la normativa imperativa è indubitabilmente volta alla ottimizazione dei consumi e alla riduzione dell’inquinamento atmosferico, sicche quello appare  lo scopo pubblico da  doversi ritenere inscalfibile dalla autonomia privata, potendo invece rimanere  nella disponibilità dei singoli la facoltà  di statuire sui  risvolti patrimoniali di vicende quali il distacco (che dovrà comunque rispondere alle norme tecniche in materia, anche e non solo per quanto stabilito dall’art. 1118 Iv comma cod.civ.).

massimo ginesi 19 maggio 2017

le spese per il cortile-lastrico si ripartiscono secondo l’art. 1125 cod.civ.

Lo ribadisce Cass. civ. sez. VI-2 16 maggio 2017 12177 rel. Scarpa, confermando un orientamento già espresso in precedenza. Laddove il cortile condominiale funga da copertura a locali di proprietà esclusiva rimasti danneggiati da infiltrazioni, il criterio di ripetizione applicabile alle spese necessarie risulta quello di cui all’art. 1125 cod.civ.

Ove poi le infiltrazioni derivanti da detta copertura derivino da omessa manutenzione della struttura, il condominio ne risponde ai sensi dell’art. 2051 cod.civ., norma che – essendo ascrivibile all’area della responsabilità da fatto illecito – comporta solidarietà fra gli obbligati.

“Ora, questa Corte ha già precisato che, qualora si debba procedere, come nel caso di specie, alla riparazione del cortile o viale di accesso all’edificio condominiale, che funga anche da copertura per i locali sotterranei di proprietà esclusiva di un singolo condomino, ai fini della ripartizione delle relative spese non si può ricorrere ai criteri previsti dall’art. 1126 c.c., ma si deve, invece, procedere ad un’applicazione analogica dell’art. 1125 c.c., il quale costituisce ipotesi particolare del principio generale dettato dall’art. 1123, comma 2, c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10858 del 05/05/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18194 del 14/09/2005).

Aggiunge la corte: ” il risarcimento dei danni da cosa in custodia di proprietà condominiale – trattandosi, nella specie, di infiltrazioni di acqua provenienti dalla corte comune a cagione della sua mancata manutenzione – soggiace alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, comma 1, c.c., norma che opera un rafforzamento del credito, evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori “pro quota”, anche quando il danneggiato sia – come ancora nella specie – un condomino, equiparato a tali effetti ad un terzo danneggiato rispetto agli altri condomini, sicché i singoli condomini devono intendersi solidalmente responsabili rispetto ai danni derivanti dalla violazione dell’obbligo di custodia (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1674 del 29/01/2015).

Nello stesso senso, poi, Cass. Sez. U, Sentenza n. 9449 del 10/05/2016, ha sostenuto l’ “attrazione del danno da infiltrazioni nell’ambito della responsabilità civile”, con conseguente applicazione di tutte le disposizioni che disciplinano la responsabilità extracontrattuale, ivi compreso l’art. 2055 c.c.“.

© massimo ginesi 18 maggio 2017

decreto ingiuntivo e fallimento

Il decreto ingiuntivo non provvisoriamente esecutivo,  non opposto, la cui esecutorietà sia stata richiesta dopo la dichiarazione di fallimento non è opponibile alla procedura concorsuale.

Lo ha stabilito Cass. civ. sez. VI-1  26/04/2017 n.10208in assenza di opposizione, il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c.

Tale funzione si differenzia dalla verifica affidata al cancelliere dall’art. 124 o dall’art. 153 disp. att. cod. proc. civ. e consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo.

Ne consegue che il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 cod proc civ venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito, deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’art. 52 legge fallimentare”

© massimo ginesi 17 maggio 2017

è nulla la clausola del regolamento che vieta il distacco o che obbliga comunque alle spese di consumo

Lo ha stabilito Cass. civ. Sez. II 12 maggio 2017 n. 11970 rel. Criscuolo.

il regolamento contrattuale che vieti il distacco del singolo dall’impianto centralizzato o che preveda, ove lo consenta, che costui rimanga comunque obbligato a pagare le spese di consumo deve ritenersi nulla per contrarietà a norme inderogabili e superata sia dalla L. 220/2012 che dalla L. 10(1991 e succ. mod.) nonché dalle norme sulla contabilizzazione del calore.

A fronte della sussistenza dei presupposti della assenza di squilibrio e di maggiori consumi dovuto al distacco, il condomino è esonerato ex legge dalle spese di consumo.

Nè può rilevare, in senso impediente, la disposizione eventualmente contraria contenuta nel regolamento di condominio, anche se contrattuale, essendo quest’ultimo contratto atipico meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell’ordinamento.

Deve quindi ritenersi che la condivisibile valutazione di nullità della clausola regolamentare impeditivo del distacco del singolo condomino, si estenda anche alla correlata previsione che obblighi il condomino al pagamento delle spese di gestione malgrado il distacco, dovendosi ragionevolmente sostenere che la permanenza di tale obbligazione di fatto assicuri la sopravvivenza della clausola affetta da nullità, impedendo il prodursi di quello che è il principale ed  auspicato beneficio che il condomino intende trarre dalla decisione di distaccarsi dall’impianto comune.”

osserva ancora la Corte: “Valga poi richiamo alla novellata previsione di cui all’articolo 1118 codice civile che, in relazione all’ipotesi che deve reputarsi ricorre anche nel caso di specie, di assenza di squilibrio termico in conseguenza del distacco, prevede l’obbligo di contribuzione alle sole spese di manutenzione straordinaria, conservazione e messa a norma, previsione che riveste chiara portata ricognitiva dello stato della giurisprudenza sul punto.

Inoltre non trascurabile, sempre al fine supportare la soluzione in esame, è il richiamo alle previsioni di cui all’articolo 26 della legge 10 del 1991 ( che al comma 5 prevede che “per l’innovazione relativa all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e del conseguente riparto degli oneri  di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato”, l’ assemblea di condominio delibera con le maggioranze previste dal secondo comma dell’articolo 1120 del codice civile”) nonché della legge n.102/2014, che impongono la contabilizzazione dei consumi per ciascuna unità immobiliare e la suddivisione delle spese in base consumi effettivi (articolo 9 comma 5, ancorché la relativa violazione preveda l’irrogazione di una sanzione amministrativa), atteso che emerge un quadro normativo che denota l’intento del legislatore di correlare il pagamento delle spese di riscaldamento l’effettivo consumo, consumo che chiaramente non sussiste nel caso di legittimo distacco.”

Da osservare che la soluzione della corte assume particolare rilevanza e significato laddove giunge a dichiarare la nullità della clausola regolamentare in forza di principi generali dell’ordinamento, pur essendo dichiarato inderogabile dall’art. 138 cod.civ. il solo secondo comma dell’art. 1118 cod.civ.

© massimo ginesi 15 maggio 2017

lastrico solare e art. 1126 cod.civ.: ai fini della spesa non rilevano le parti comuni coperte

 

L’art. 1126 cod.civ. prevede che, ove il lastrico solare sia di proprietà esclusiva, un terzo della spesa per la sua riparazione competa al proprietario e due terzi ai condomini cui il lastrico funge da copertura, quindi a coloro le cui unità immobiliari sono poste nella colonna sottostante.

A tal fine rileva unicamente la posizione delle unità poste nella proiezione verticale del lastrico, non avendo alcun rilievo la circostanza che in tale porzione siano ricomprese parti comuni. E’ dunque erronea la sentenza che ha condannato a contribuire alle spese tutti i condomini sull’assunto che il lastrico fungesse da copertura anche alle parti comuni.

Lo ha stabilito Cass. civ. Sez. VI-2 10 maggio 2017 n. 11484 rel Scarpa.

“L’art. 1126 cod.civ., obbligando a partecipare alla spesa relativa alle riparazione del lastrico solare di uso esclusivo, nella misura di due terzi, “tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve”, si riferisce evidentemente a coloro ai quali appartengono unità immobiliare di proprietà individuale comprese nella proiezione verticale del manufatto da riparare o ricostruire, alle quali, pertanto, esso funge da copertura, con esclusione dei condomini ai cui appartamenti il lastrico solare non sia sovrapposto.

Come meglio ancora spiegato da Cass. civ. sez. II  n. 2821 del 16/7/1976, l’obbligo di partecipare alla riparazione dei cennati due terzi della spesa non deriva, quindi, dalla sola, generica, qualità di partecipante del condominio, ma dall’essere proprietario di un’unità immobiliare compresa nella colonna d’aria sottostante alla terrazza o al lastrico oggetto della riparazione.

Del resto è  pressoché inevitabile che la terrazza a livello o il lastrico di uso esclusivo coprano altresì una o più parti che siano comuni a tutti condomini, e non solo a quelli della rispettiva ala del fabbricato, come ad esempio il suolo su cui sorge l’edificio, la facciata, le fondazioni, ma se bastasse ciò per chiamare a concorrere alle spese del bene di copertura tutti i condomini, l’articolo 1126 c.c. non avrebbe alcuna pratica applicazione.

Giacché, peraltro, l’articolo 1126 c.c. non è compreso tra le disposizioni inderogabili richiamate dall’articolo 1138 c.c., certamente il regolamento del condominio può stabilire la ripartizione delle relative spese in modo pattizio, pure ponendo le stesse a carico di tutti i condomini, ma a tal fine occorre che sia adottata una convenzione espressa di deroga al criterio legale.

© massimo ginesi 11 maggio 2017

dissenziente e impugnazione della delibera: un problema di prova.

La delibera annullabile ex art. 1137 cod.civ. è impugnabile solo dal condomino assente o dissenziente. Ove dal verbale non risulti tale sua posizione, costituisce suo onere  darne prova, ai fini di dimostrare la sussistenza del requisito  soggettivo che legittima l’azione.

Il verbale fa stato solo delle dichiarazioni provenienti da coloro che l’hanno sottoscritto e pertanto è ammessa la dimostrazione con ogni mezzo di fatti diversi da quelli in esso riportati.

Lo afferma Cass. civ. sez. VI-2 9 maggio 2017 n. 13757 rel. Scarpa, con illuminante e lucidissima motivazione.

L’art. 1137, comma 2, c.c. ammette, del resto, l’impugnazione della delibera assembleare soltanto da parte dell’assente, del dissenziente e dell’astenuto; pertanto, il condomino presente che abbia partecipato all’assemblea non può impugnare la deliberazione, se non è dissenziente (o non si sia astenuto) proprio in ordine alla deliberazione che impugna. Il dissenso dell’impugnante rispetto alla deliberazione deve essere provato ed incombe sullo stesso l’onere della relativa prova (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3060 del 05/09/1969; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1079 del 16/04/1973)”

Il verbale di un’assemblea condominiale ha natura di scrittura privata, sicchè il valore di prova legale del verbale di assemblea condominiale, munito di sottoscrizione del presidente e del segretario, è limitato alla provenienza delle dichiarazioni dai sottoscrittori e non si estende al contenuto della scrittura, e, per impugnare la veridicità di quanto risulta dal verbale, non occorre che sia proposta querela di falso, potendosi, invece, far ricorso ad ogni mezzo di prova (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 747 del 15/03/1973)”.

Incombe, tuttavia, sul condomino che impugni la delibera assembleare l’onere di sovvertire la presunzione di verità di quanto risulta dal relativo verbale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23903 del 23/11/2016). La ricorrente non fa riferimento in ricorso ad alcuna sua specifica deduzione istruttoria volta a sovvertire la risultanza del verbale che riportava l’approvazione senza dissensi della delibera. Col secondo motivo, si allega soltanto l’omesso esame non di un fatto storico, ma di un elemento istruttorio (il CD rom audio della riunione), peraltro prospettandone una valenza non decisiva, in quanto da esso si trarrebbe pur sempre che non vi fu “votazione”, il che contrasta col dato documentale che registrava l’approvazione della delibera, e comunque non varrebbe a giustificare la mancata espressione sia pur soltanto di un dissenso preventivo nell’ambito delle discussioni preliminari da parte del rappresentante in assemblea della B.S.D. s.r.l.”

magistratura onoraria: il governo tira dritto, sordo ad ogni istanza.

Approvato ieri, in prima lettura, il secondo decreto attuativo della legge delega per la riforma della magistratura onoraria.

Fra i vari  preoccupanti effetti di tale pessima normativa, vi è quello di devolvere alla competenza del  giudice di pace l’intera materia condominiale.

ASSOCIAZIONE 6 LUGLIO

 

 

IL SOLE 24 ORE

© massimo ginesi 6 maggio 2017

posto auto e vincolo di destinazione

La Cassazione ( Cass. civ. II sez. 3 maggio 2017 n. 10727) ritorna, con una recentissima sentenza, su un tema assai dibattito nelle aule di giustizia, affrontando un aspetto peculiare legato al vincolo di destinazione nei rapporti fra venditore ed acquirente dell’immobile cui il posto auto è vincolato.

La vicenda è peculiare e vede ben due sentenze della Corte di Appello di Roma cui era stata rinviata dalla Suprema Corte all’esito del primo sindacato di legittimità: “X convenne dinanzi al tribunale di Roma la Y S.p.A. chiedendo in via principale che fosse accertato che, con l’atto con cui aveva acquistato in data 22 luglio 1998 dalla convenuta all’immobile sito in (…), le era stato trasferito, quale accessorio e pertinenza, anche il posto auto distinto con la lettera C, ubicato al piano seminterrato dell’edificio o, in alternativa, che la Y spa fosse condannata al relativo trasferimento e, in via subordinata, che fosse disposta la costituzione di un suo diritto reale sul detto  posto auto”

La Corte di legittimità, all’esito del tormentato iter processuale afferma “Il vincolo di destinazione posto dall’articolo 18 della legge 6 agosto 1967 numero 765 e dall’articolo 26 della legge 28 febbraio 1985 numero 47 comporta l’obbligo non già di trasferire la proprietà dell’area destinata a parcheggio insieme alla costruzione, ma quello di non eliminare il vincolo esistente, sicché esso crea  in capo all’acquirente dell’appartamento un diritto reale d’uso sull’area”

Ed ancora “al costruttore (venditore originario) è dovuto un apposito corrispettivo (o una integrazione del prezzo della unità abitativa compravenduta) per il diritto di uso dell’area a parcheggio (ex plurimis Cass. 18179/2010, casi. 10199/2010, Cass. 18691/2007, Cass. 5160/2006).

LA Corte afferma dunque l’ineludibilità del vincolo d’uso dello spazio a parcheggio, destinato a soddisfare le esigenze pubblicistiche legate alla sosta delle auto, ma chiarisce che ove le parti   abbiano espressamente previsto nell’atto di acquisto – come nel caso di specie – il mancato trasferimento del diritto sull’area destinata a parcheggio, la volontà delle stesse dovrà essere integrata dal disposto di legge, con l’obbligo dell’acquirente di versare comunque il corrispettivo anche per il posto auto.

 © massimo ginesi 4 maggio 2017 

approvazione dello stato di ripartizione e decreto ingiuntivo.

La mancata approvazione dello stato di ripartizione non attiene né alla sussistenza del credito né alla possibilità di ottenere decreto ingiuntivo, ma condiziona unicamente la concessione della provvisoria esecutorietà ex art. 63 disp.att. cod.civ.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. II Civile,  28 aprile 2017, n. 10621.

“Per il disposto degli artt. 1130 e 1131 cod. civ., l’amministratore del condominio ha la legittimazione ad agire in giudizio nei confronti del condomino moroso per la riscossione dei contributi, senza necessità di autorizzazione da parte dell’assemblea, mentre l’esistenza o meno di uno stato di ripartizione delle spese approvato dall’assemblea rileva soltanto in ordine alla fondatezza della domanda, con riferimento all’onere probatorio a suo carico (Cass. 2452/1994; 14665/1999).
Ed invero, l’obbligo del condomino di pagare al condominio, per la sua quota, le spese per la manutenzione e l’esercizio dei servizi comuni dell’edificio deriva dalla gestione stessa e quindi preesiste all’approvazione da parte dell’assemblea dello stato di ripartizione, che non ha valore costitutivo, ma solo dichiarativo del relativo credito del condominio.

Il verbale di assemblea condominiale, contenente l’indicazione delle spese occorrenti per la conservazione o l’uso delle parti comuni, ovvero, come nel caso di specie, la delibera di approvazione del “preventivo” di spese straordinarie, costituisce dunque prova scritta idonea per ottenere decreto ingiuntivo pur in mancanza dello stato di ripartizione delle medesime, necessario al solo fine di ottenere la clausola di provvisoria esecuzione del provvedimento ai sensi dell’art. 63 disp. Att.c.c.(Cass. 15017/2000).

Deve dunque escludersi che la delibera di approvazione assembleare del piano di ripartizione costituisca un presupposto processuale o una condizione dell’azione, posto che la legittimazione ad agire dell’amministratore per il pagamento della quota condominiale trova fondamento direttamente nelle disposizioni di cui agli artt. 1130 e 1131 c.c..

A seguito dell’opposizione al decreto dunque, si dà luogo ad un giudizio di cognizione ordinaria, con onere, in assenza della delibera di approvazione del piano di riparto, per l’amministratore di provare gli elementi costitutivi del credito nei confronti del condomino anche avuto riguardo ai criteri di ripartizione delle spese relative alle parti comuni dell’edificio e facoltà di quest’ultimo di contestare sussistenza ed ammontare del credito medesimo azionato nei suoi confronti.”

© massimo ginesi 2 maggio 2017