l’assemblea non può dismettere l’impianto idrico comune.

Non è consentito all’organo collegiale decidere a maggioranza di dismettere l’impianto idrico comune, obbligando un condomino ad installare una linea privata o a gravarsi integralmente del costo dell’impianto una volta comune.

Lo afferma il giudice di legittimità (Cass.Civ. sez. VI 29 novembre 2017 n. 28626) che propone una lettura del tutto condivisibile dell’art. 1118 cod.civ.

Il fatto: “La Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, permanendo contrasto sul solo capo della pronuncia relativo alla compensazione delle spese processuali, accertato l’intervenuto giudicato quanto alla cessazione della materia del contendere, condannava – in applicazione del principio della soccombenza virtuale – il Condominio (omissis) , alla rifusione delle spese di primo grado in favore della condomina L.C.M. , la quale aveva impugnato, avanti al Tribunale di Lodi, ai sensi dell’art. 1137 c.c., la delibera condominiale assunta in data 11.05.2011 che al punto n.6 prevedeva di “richiedere nuovamente alla L. di provvedere all’installazione di una linea privata con contatore privato per la fornitura del servizio idrico esattamente come eseguito da tutte le restanti unità immobiliari; confermando altresì l’utilizzo esclusivo dell’ex impianto condominiale a carico della L. , l’assemblea dichiara che la linea è da intendersi di proprietà privata della L. e ad essa dovrà essere riconducibile ogni eventuale necessaria manutenzione”, trattandosi di delibera invalida in quanto non avrebbe potuto sottrarre alla destinazione originaria l’impianto centralizzato di proprietà comune di distribuzione dell’acqua potabile e di scarico, né deliberarne la soppressione per far luogo all’attivazione da parte dei singoli condomini di propri contatori ed autonomi contratti con l’ente gestore del servizio idrico, configurando una definitiva alterazione della cosa comune nella sua originaria destinazione, tale da integrare la fattispecie dell’art.1120, ultimo comma, c.c..”

Il condominio ricorre per cassazione, sostenendo che “ non vi sarebbe alcun impianto idrico condominiale, come ritenuto dalla Corte di appello, ma piuttosto un sistema di tubazioni principali dell’acqua potabile di proprietà comune, per cui l’Assemblea condominiale aveva deliberato la soppressione del servizio in comune di approvvigionamento idrico, fattispecie non riconducibile all’art. 1120 c.c., non avendo la delibera de qua alcuna portata innovativa. In altri termini sarebbe stata dall’assemblea deliberata, a maggioranza, la soppressione di un servizio divenuto oneroso, senza però incidere in alcun modo sui beni comuni, individuati appunto nelle tubature.”

Il giudice di legittimità ritiene del tutto infondato il motivo di ricorso, osservando che “la corte territoriale ha fatto buon governo del principio consolidato nella giurisprudenza di merito e di legittimità secondo cui l’impianto centralizzato (in questo caso, di distribuzione dell’acqua potabile) costituisce “un accessorio di proprietà comune”, circostanza che obbliga i condomini a pagare le spese di manutenzione e conservazione dell’impianto idrico condominiale, salvo che il contrario risulti dal regolamento condominiale, ipotesi quest’ultima che non ricorre nella caso in esame (si veda Cass. n.7708 del 2007; Cass. n. 19893 del 2011).

Infatti, anche a ritenere ammissibile il distacco degli appartamenti dall’impianto idrico centralizzato, laddove non comporti squilibrio nel suo funzionamento, né maggiori consumi, alla legittimità del distacco consegue al più il solo esonero dei condomini dal pagamento delle spese per il consumo ordinario, non certo i costi di manutenzione.

In tal senso, sebbene anche in relazione ad altri servizi condominiali, si è affermato che (così Cass. n. 28679 del 2011) è legittima la rinuncia di un condomino all’uso dell’impianto centralizzato di riscaldamento – anche senza necessità di autorizzazione o approvazione da parte degli altri condomini – purché l’impianto non ne sia pregiudicato, con il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell’art. 1123, secondo comma, c.c., dall’obbligo di sostenere le spese per l’uso del servizio centralizzato; in tal caso, egli è tenuto solo a pagare le spese di conservazione dell’impianto stesso.”

Osserva infine la corte che non ha pregio neanche “la questione del venir meno per gli altri condomini dell’interesse a contribuire alle spese di conservazione e manutenzione dell’impianto comune di distribuzione dell’acqua che invece permarrebbe solo per la L. , senza considerare invece che gli altri condomini ben potrebbero in futuro tornare a riutilizzare l’impianto condominiale, ragione per la quale essi sono comunque tenuti a contribuire alla sua conservazione.”

© massimo ginesi 1 dicembre 2017

procedimento per convalida di sfratto e il mancato esperimento della mediazione obbligatoria

I procedimenti sommari, quali il ricorso per decreto ingiuntivo e la convalida di sfratto, sono esclusi dall’obbligo di preventiva mediazione stabilito dall’art. 5 comma I bis del d.lgs 28/2010 per alcune materie.

Lo prevede la stessa norma, al comma IV:” I commi 1-bis e 2 non si applicano:

a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione;

b) nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’articolo 667 del codice di procedura civile”.

Terminata la fase sommaria, tuttavia, la condizione di procedibilità – per le materie ove questa è obbligatoria – torna ad essere un vincolo imprescindibile.

I problemi applicativi in tema di opposizione a decreto ingiuntivo  sono assai complessi e fonte di vivace dibattito.

Problematiche assai simili si pongono in tema di giudizio conseguente alla opposizione alla convalida di sfratto, con particolare riguardo alle conseguenze che comporta il mancato avveramento della condizione di procedibilità.

Il tema è affrontato da sentenza del Tribunale di Massa del 28 novembre 2017: il caso è peculiare poiché l’intimante, a seguito della opposizione, della conversione del rito e dell’assegnazione del termine per introdurre la mediazione, non da più alcuna indicazione al proprio difensore, che deposita istanza ma si ritrova da solo alla comparizione dinanzi al mediatore.

Come risulta dal verbale di mediazione, prodotto in giudizio, la parte intimante che ha instaurato il procedimento di mediazione, non si è presentata al primo incontro, al quale era presente unicamente il difensore, che ha peraltro manifestato l’assenza di qualunque mandato specifico a partecipare a detto incombente.

Tale circostanza appare già di per sè idonea a ritenere non espletato il procedimento poiché al procuratore non era stato conferito alcuno specifico potere, anche a non voler aderire alla ormai predominante giurisprudenza che ritiene indispensabile la partecipazione personale della parte (fra le tante Trib. Pavia 20.1.2017).

La circostanza che il difensore presente all’incontro non avesse né potere né indicazioni per gestire il procedimento e agisse in totale dissociazione dalla parte lascia intendere che il locatore abbia manifestato totale disinteresse alla sua apertura, resa di fatto impossibile dalla sua assenza prima ancora che da quella del convenuto, sì che la condizione si dovrà ritenere non avverata, esattamente come se l’istanza non fosse stata proposta.”

Quanto alle conseguenze del mancato esperimento, il Tribunale osserva che “sussistono posizioni assai plastiche in giurisprudenza, che oscillano da valutazioni drastiche in cui si accollano al locatore sia l’onere della mediazione che le conseguenze del suo mancato esperimento, con dichiarazione di improcedibilità e condanna alle spese in caso di mancato avveramento della condizione (Trib. Mantova 15.1.2015) sino a per pervenire a letture invece in totale favore della parte attrice, nelle quali – ritenuta improcedibile la domanda, si considerano comunque consolidati gli effetti del provvedimento provvosirio reso ex art. 665 c.p.c e sostanzialmente vittoriosa l’intimante a cui devono essere riconosciute le spese (Tribunale Bologna 17.11.2015 n. 21324) sino a posizioni intermedie che, pur a fronte del consolidarsi degli effetti del provvedimento interinale, ritengono sussistenti idonee ragioni per provvedere a totale compensazione delle spese ( Trib. Rimini 24 maggio 2016).

La pronuncia del Tribunale felsineo appare a questo giudice maggiormente condivisibile sotto il profilo delle argomentazioni sistematiche, in analogia con quanto già statuito – anche dalla corte di legittimità, in materia contigua quale l’opposizione a decreto ingiuntivo (Cassazione civile, sez. III, 03/12/2015, n. 24629 ) laddove riconosce ‘la la distribuzione dell’onere di attivazione della mediazione obbligatoria in capo ad entrambe le parti, seppure con diversi effetti stante la indiscutibile esistenza del provvedimento giurisdizionale consistente nella ordinanza di rilascio (tipico esempio di condanna con riserva, nella fattispecie con riserva delle eccezioni dell’intimato – opponente); l’improcedibilità del giudizio a cognizione piena originato dall’opposizione dell’intimato, stante la mancata instaurazione del procedimento di mediazione obbligatoria; il travolgimento (per improcedibilità) delle domande delle parti che siano ulteriori rispetto a quella proposta dal locatore intimante sfociata nell’ordinanza di rilascio; la preservazione dell’efficacia dell’ordinanza non impugnabile di rilascio, idonea a dispiegare i propri effetti al di fuori del processo, in quanto non travolta dalla declaratoria di improcedibilità; e ciò in quanto il provvedimento anticipatorio di condanna al rilascio è sottoposto alla condizione risolutiva consistente nella pronuncia di successiva sentenza di merito negativa (mentre la declaratoria di improcedibilità opera in rito)’.

Parimenti condivisibile, appare la conclusione, in linea con la ratio deflattiva dell’istituto della mediazione, cui perviene lo stesso giudice “Se il giudizio a cognizione piena (vuoi per estinzione anche se non espressamente richiamata dagli articoli 665667 c.p.c. vuoi per declaratoria di improcedibilità) non sfocia in una pronuncia di merito che prenda il posto dell’ordinanza di rilascio, ne deriva la stabilizzazione dell’ordinanza di rilascio in quanto difetta una pronuncia di merito che si saldi a detta ordinanza (assorbendola, se si tratta di pronuncia di accoglimento della domanda di condanna al rilascio; caducandola, se si tratta di pronuncia di rigetto della domanda di condanna al rilascio).

A carico dell’intimato opponente, non operoso in mediazione, resta l’effetto della scelta di non avere coltivato la propria opposizione e con essa le proprie eccezioni finalizzate a paralizzare la domanda di condanna al rilascio del locatore.

È ora possibile concludere nel senso che l’espressione “condizione di procedibilità della domanda” di cui al decreto legislativo 28/2010 va correttamente intesa con riferimento: alla domanda di accertamento negativo del diritto al rilascio proposta dall’intimatoopponente; alle ulteriori domande (diverse da quella originaria di condanna al rilascio stante l’intervenuta risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore) proposte dal locatore e/o dall’intimato (essenzialmente pagamento somme).

Tali domande restano travolte dalla pronuncia di improcedibilità del giudizio di opposizione proposta dall’intimato; e ciò in quanto non risultano sorrette da una pronuncia in sede di procedimento di convalida, che sia idonea a sopravvivere nella fase a cognizione piena. Invece l’ordinanza di rilascio, non impugnabile e idonea alla stabilizzazione, non risulta intaccata dalla pronuncia di improcedibilità (anche perché essa è definita non impugnabile dall’articolo 665 c.p.c., e quindi non è neppure modificabile revocabile). Identica sorte avrebbe l’ordinanza di rilascio, in caso di declaratoria di estinzione del giudizio a cognizione piena”

Non appare invece condivisibile la tesi della sostanziale soccombenza del convenuto a fronte del provvedimento di rilascio ottenuto dal locatore ai sensi dell’art. 665 c.p.c., poiché ove l’attore intenbda giovarsi unicamente degli effetti di tale ordinanza deve arrestarsi a quella fase, mentre ove intenda coltivare le ulteriori domande – ivi comrpesa quella di condanna alle spese – diviene egli stesso parte che aveva interesse ad introdurre la mediazione onde avverare la condizione la condizione di procedibilità, di talché laddove ciò non abbia fatto ed insista nella successiva fase di merito nel coltivare domande palesemente improcedibili, mostra di abusare dello strumento processuale, contravvenendo proprio alla ratio delle norme di cui al D.lgs 28/2010 ragione che impedisce di riconoscerli alcun titolo a vedersi liquidate spese ex art 91 c.p.c.”

© massimo ginesi 30 novembre 2017

 

nè l’amministratore nè l’assemblea possono addebitare costi ad un singolo condomino.

La suprema corte ( Cass.civ. sez. II  7 novembre 2017 n. 2630) ribadisce un principio ovvio e pacifico, eppure spesso misconosciuto nella vita pratica del condominio.

Non è consentito nè all’amministratore, che predispone il piano di ripartizione, nè alla assemblea, che lo approva, stabilire arbitrariamente che un costo è imputabile ad un solo condomino e addebitarglielo.

Nel caso di specie erano stati addebitati ad un singolo i costi per gli spurghi degli scarichi, ma il giudice di legittimità ha ritenuto del tutto illegittima tale iniziativa.

Osserva la corte che “L’assemblea condominiale del 13 ottobre 2005, con all’ordine del giorno “approvazione del consuntivo e riparto spese ordinarie” ha infatti deliberato di addebitare alla proprietà F. i costi dello spurgo “in quanto l’amministratore ritiene che i lavori di ristrutturazione della proprietà stessa abbiano causato l’intasamento”.

La relativa deliberazione è invalida. Il singolo condomino risponde infatti verso gli altri condomini dei danni da lui causati, ma fino a quando egli non abbia riconosciuto la propria responsabilità o questa non sia stata accertata in sede giudiziale “l’assemblea non può porre a suo carico detto obbligo, né imputargli a tale titolo alcuna spesa, non potendo l’assemblea disattendere l’ordinario criterio di ripartizione, né la tabella millesimale e dovendo, invece, applicare la regola generale stabilita dall’art. 1123 c.c.” (Cass. n. 7890/1999, e, più recentemente, Cass. n. 10053/2013).”

© massimo ginesi 29 novembre 2017 

 

appalto: se sussistono gravi vizi l’art. 1669 cod.civ. si applica anche se l’opera non è terminata.

La suprema corte (Cass.civ. sez. II  27 novembre 2017 n. 28233) chiarisce un importante aspetto della disciplina in tema di appalto:  riprendendo un consolidato orientamento, secondo il quale la garanzia prevista dall’art. 1669 cod.civ. ha natura extracontrattuale, chiarisce che non è applicabile alla fattispecie dei gravi vizi costruttivi la disciplina prevista dai principi generali in tema di inadempimento dei contratti (dettata dagli art. 1453 e segg. cod.civ.) dovendosi applicare unicamente quanto previsto dall’art. 1669 cod.civ. anche laddove l’opera non sia terminata ma presenti gravi difetti costruttivi.

la corte osserva che solo gli artt. 1667 e 1668 cod.civ. posso ritenersi integrativi della disciplina generale in tema di  inadempimento contrattuale

La pronuncia per le interessanti e articolate argomentazioni, merita integrale lettura

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© massimo ginesi 28 novembre 2017

nomina di amministratore giudiziario e ricorso in cassazione.

una recente pronuncia  del giudice di legittimità (Cass.Civ. sez. VI 16 novembre 2017 n. 27165 rel. Scarpa) ribadisce un consolidato principio, ovvero l’inammissibilità del ricorso in cassazione contro il provvedimento che statuisca sulla nomina di amministratore giudiziario del condominio da parte del giudice di merito, per inidoneità dello stesso a divenire cosa giudicata.

Contro la decisione del Tribunale è dunque ammesso reclamo alla Corte di appello, ma la statuizione di quest’ultima non è ulteriormente ricorribile in cassazione, se non  per il capo relativo alla condanna alle spese.

La pronuncia coglie l’occasione per delineare anche gli stretti confini dell’azione in sede di volontaria giurisdizione, in cui non possono trovare ingresso tematiche riservate invece all’ordinario giudizio contenzioso.

Secondo consolidato orientamento di questa Corte, infatti, è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo contro il decreto del tribunale in tema di nomina dell’amministratore di condominio, previsto dall’art. 1129, comma 1, c.c., attesa la carenza di attitudine al giudicato di quest’ultimo, non essendo diretto a risolvere un conflitto di interessi ma solo ad assicurare al condominio l’esistenza dell’organo necessario per l’espletamento delle incombenze ad esso demandate dalla legge.

La mancanza di decisorietà del decreto non viene meno neppure in ragione della dedotta violazione di norme strumentali preordinate alla sua emissione, in quanto il carattere non definitivo di esso si estende necessariamente alla definizione di ogni questione inerente al procedimento nel quale viene reso. Tale ricorso è invece ammissibile esclusivamente avverso la statuizione relativa alla condanna al pagamento delle spese del procedimento, concernendo posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo rispetto a quello in esito al cui esame è stata adottata, e pertanto dotata dei connotati della decisione giurisdizionale con attitudine al giudicato, indipendentemente dalle caratteristiche del provvedimento cui accede (Cass. Sez. 2, 06/05/2005, n. 9516; Cass. Sez. 2, 11/04/2002, n. 5194;Cass. Sez. 2, 21/02/2001, n. 2517; Cass. Sez. 2, 13/11/1996, n. 9942).”

Quanto ai limiti del giudizio, la corte osserva che “Esulano, pertanto, dall’ambito del procedimento di nomina giudiziale dell’amministratore le questioni inerenti all’eventuale esistenza di conflitti, sia all’interno del condominio, da parte di quei condomini che ritengano che l’amministratore sia stato già eletto, sia all’esterno, da parte di chi sostenga di essere stato investito validamente dell’ufficio di amministratore, in quanto tali conflitti devono risolversi nell’appropriata sede assembleare, e lo strumento di tutela è quello giurisdizionale, secondo le regole ordinarie poste dall’art. 1137 c.c.

Né possono essere oggetto del procedimento di nomina giudiziale ex art. 1129 c.c. le irregolarità gestionali che si attribuiscano all’amministratore in carica.

Sono infine prive di ogni inerenza decisoria rispetto al proprium del procedimento ex art. 1129, comma 1, c.c., le questioni preliminari circa la configurabilità di un unico condominio, o di condomini separati ed autonomi seppur aventi parti comuni, sul modello attualmente contemplato dagli artt. 1117 bis c.c. e 67, commi 3 e 4, disp. att. c.c., trattandosi all’evidenza di questioni da risolvere in un giudizio contenzioso che veda quali legittimi contraddittori i comproprietari del bene.”

© massimo ginesi 27 novembre 2017

 

CONDOMINIO E SUPERCONDOMINIO NON SI COSTITUISCONO, SEMPLICEMENTE INIZIANO AD ESISTERE

E’ principio consolidato nella giurisprudenza della cassazione che il condominio non richieda alcuna formale costituzione, venendo semplicemente a sussistere  quando in un edificio due unità immobiliari iniziano ad appartenere a due soggetti distinti.

E’ principio che vale anche per il supercondominio, come di recente  affermato dal giudice di legittimità (Cass.Civ. II sez. 15 novembre 2017  n. 27094).

La Corte d’appello, nell’affermare la natura giuridica di supercondominio del Condominio(OMISSIS) si pone in coerenza con la giurisprudenza di questa Corte, che ha più volte affermato che “al pari del condominio negli edifici, regolato dall’art. 1117 c.c. e segg., anche il c.d. supercondominio, viene in essere ipso iure et facto, se il titolo non dispone altrimenti, senza bisogno d’apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni e tanto meno d’approvazioni assembleari, sol che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati, attraverso la relazione di accessorio e principale, con gli edifici medesimi” (così Cass. 17332/2011).

Il ricorrente rimprovera alla Corte d’appello di aver completamente prescisso dal regolamento condominiale, ma così non è avendo la Corte osservato che il regolamento già contemplava la nomina di singoli amministratori per i singoli edifici, ritenendo poi – sulla base di elementi di fatto non censurabili di fronte a questa Corte – che il complesso sia costituito da una “pluralità di (OMISSIS) che utilizzano alcuni servizi in comune con ciò ricalcando puntualmente il paradigma del supercondominio secondo l’accezione fattuale e giuridica” delineata da questa Corte.”

© massimo ginesi 23 novembre 2017

il condomino proprietario di due unità in edifici attigui non può collegarle.

E’ principio  consolidato nella giurisprudenza di legittimità che il soggetto proprietario di due unità immobiliari – poste in distinti edifici condominiali – non possa porle in collegamento per determinazione unilaterale, anche ove gli edifici siano attigui, poiché tale attività comporta la costituzione di una servitù a carico delle parti comuni, che richiede necessariamente il consenso di tutti i condomini.

Il tema è ripreso da una recente pronuncia (Cass.Civ. sez. VI ord. 16 novembre 27164 rel. Scarpa), che applica il principio anche ad una ipotesi apparentemente innocua, ovvero la semplice eliminazione di un setto divisorio fra due balconi appartenenti allo stesso proprietario e che tuttavia sono posti in due edifici distinti.

La pronuncia si rivela interessante anche per la connotazione degli obblighi che incombono ex art. 1122 cod.civ. al singolo che intenda effettuare modifiche, seppur con riguardo alla formulazione della norma ante 2012 (la legge 22072012 ha reso ancor più stringenti gli oneri di comunicazione per il condomino che introduca modifiche nella propria unità, quando queste abbiano incidenza anche sulle pareti comuni).

il caso – “Il Tribunale di Ragusa ha rigettato la domanda di R.G., volta alla ricostruzione di un muretto e di una ringhiera di separazione dei balconi di due unità immobiliari, entrambe di proprietà di P. G. ma comprese in due distinti, seppur contigui, edifici condominiali (quello di via S. C. e quello di via M. S. 51), che il convenuto aveva posto in comunicazione rimuovendo gli indicati manufatti. Riformando la decisione del Giudice di pace, il Tribunale ha osservato che i balconi aggettanti non costituiscono parti comuni dei fabbricati condominiali, ma rientrano nelle rispettive proprietà esclusive, e sono perciò modificabili senza che possa sussistere violazione dell’art. 1102 c.c.”

i principi di diritto – il giudice di legittimità osserva che “E’ corretto evidenziare in premessa come, mentre l’art 1102 c.c. riguarda esclusivamente le opere compiute dal condomino sulla cosa comune, l’art. 1122 c.c. (nella formulazione qui applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge n. 220/2012) disciplina l’ipotesi in cui l’opera sia effettuata dal condomino sulla cosa propria (nella specie, i balconi aggettanti, costituenti un prolungamento dei due appartamenti di P. G.).

Anche peraltro la facoltà di eseguire opere sulle parti di proprietà esclusiva incontra, proprio nell’art. 1122 c.c., il limite consistente nel danno alle parti comuni dell’edificio, danno che comprende ogni diminuzione di valore riferito alla funzione della cosa, considerata nella sua unità (cfr. Cass. Sez. 2, 25/01/1995, n. 870; Cass. Sez. 2, 26/03/1963, n. 745).

Il ricorso di R.G. assume fondatamente che il Tribunale non ha preso in considerazione la sua specifica deduzione, riproposta nella comparsa di costituzione in appello, secondo cui l’aver reso i due edifici comunicanti, mediante la rimozione delle separazioni esistenti sui balconi di proprietà di P. G., ha comportato la illegittima costituzione di una servitù a favore dell’appartamento di via M S., se non a carico di quello di via S. C. (operando il principio nemini res sua servit), tuttavia a danno della proprietà condominiale di quest’ultimo fabbricato.

La sentenza del Tribunale di Ragusa non ha infatti valutato che anche un’opera su parte di proprietà esclusiva, che consenta ad un condomino la comunicazione tra il proprio appartamento ed altra unità immobiliare attigua, sempre di sua proprietà, ma ricompresa in un diverso edificio condominiale, può determinare la creazione di una servitù a carico di fondazioni, suolo, solai e strutture dell’edificio (per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i partecipanti al condominio), dando luogo ad un rapporto di pertinenzialità tra i beni comuni ex art. 1117 c.c. di ciascuno dei due condomìni messi in collegamento e un’unità immobiliare non partecipante in origine ad essi (arg. da Cass. Sez. 2, 14/12/2016, n. 25775 del; Cass. Sez. 2, 05/03/2015, n. 4501; Cass. Sez. 2, 14/06/2013, n. 15024 ; Cass. Sez. 2, 06/02/2009, n. 3035; Cass. Sez. 2, 26/09/2008, n. 24243; Cass. Sez. 2, 19/04/2006, n. 9036; Cass. Sez. 2, 07/03/1992, n. 2773 )”.

© massimo ginesi 22 novembre 2017

Alle Sezioni Unite la legittimazione ad impugnare del singolo condomino (e non solo…).

Importante ordinanza della Suprema Corte (Cass.Civ. II sez. 1 novembre 2017, n. 27101 rel. Scarpa)  che finalmente affronta il problema sollevato dalle Sezioni unite con la pronuncia 18 settembre 2014, n. 19663,  che “risolvendo un contrasto interpretativo tra precedenti decisioni della S.C., ha affermato che, in ipotesi di giudizio intentato dall’amministratore di condominio, pur autorizzato dall’assemblea, a tutela di diritti connessi alla situazione dei singoli condomini, ma senza che questi ultimi siano stati parte in causa, la legittimazione ad agire per l’equa riparazione, correlata alla violazione del termine ragionevole del processo, ai sensi della l. n. 89 del 2001, spetta esclusivamente al condominio, da intendere ormai quale autonomo soggetto giuridico”.

La sentenza del 2014, seppur ai limitati fini della c.d. Legge Pinto, affermava un principio dirompente e mai del tutto ripreso dalle successive pronunce anche di legittimità.

Oggi la corte affronta con ampia disamina lo stato della giurisprudenza ed invoca un intervento chiarificatore a fronte di una vicenda che nasce nel giudizio di cassazione dal “ricorso incidentale  tardivo proposto non dal Condominio (OMISSIS) , “parte” nei cui confronti è stata proposta l’impugnazione principale (la quale si è difesa notificando soltanto un controricorso), ma da un singolo condomino.La legittimazione al ricorso incidentale per cassazione della condomina A.A. , a fronte della soccombenza parziale del Condominio di via (omissis) , che in sede di legittimità si è limitato a contraddire al ricorso principale mediante notifica di controricorso, suppone, ad avviso del Collegio, la soluzione della questione di massima, di particolare importanza, della possibilità di considerare la stessa singola condomina già “parte” dei pregressi gradi di merito, in quanto comunque “rappresentata dall’amministratore”, senza peraltro contrastare il principio di diritto enunciato da Cass. Sez. U, 18/09/2014, n. 19663.”

La disamina dell’ampio excursus giurisprudenziale che conduce al corte a ravvisare un contrasto fra orientamenti delle diverse sezioni è accuratissimo e di grande interesse.

Osserva la Seconda sezione che Secondo, infatti, il tradizionale orientamento giurisprudenziale di questa Corte, la legittimazione processuale dell’amministratore di condominio, accordata dall’art. 1131 c.c. nei limiti delle sue attribuzioni, in ordine alle liti aventi ad oggetto interessi comuni dei condomini, dà luogo unicamente ad una deroga rispetto alla disciplina generalmente valida per ogni altra ipotesi di pluralità di soggetti del rapporto giuridico dedotto in lite, sopperendo all’esigenza di rendere più agevole la costituzione del contraddittorio nei confronti del condominio, nel senso di evitare la necessità di promuovere il litisconsorzio nei confronti di tutti i condomini.

Questa ricostruzione tradizionale dei rapporti fra i condomini implica una forma di rappresentanza processuale reciproca, attributiva a ciascuno di una legittimazione sostitutiva, nascente dal fatto che ogni compartecipe non potrebbe tutelare il proprio diritto senza necessariamente e contemporaneamente difendere l’analogo diritto degli altri.

Su tali premesse dogmatiche, si è affermato, ad esempio, che il condomino che intervenga personalmente nel processo in cui sia già parte l’amministratore, ed in cui sia stata dedotta una situazione giuridica ascrivibile alla collettività condominiale, non si comporta come un terzo che si intromette in una vertenza fra estranei, ma appare come una delle parti originarie determinatasi a far valere direttamente le proprie ragioni, sicché tale intervento non conoscerebbe nemmeno le preclusioni segnate dall’art. 268 c.p.c. o, ove spiegato in grado di appello, dall’art. 344 c.p.c. (cfr. ad esempio Cass. Sez. 2, 27/01/1997, n. 826).

Così come, sempre in controversie tra condomini e condominio, rappresentato dall’amministratore, per tutelare i diritti della collettività, i singoli condomini potrebbero intervenire, a sostegno del condominio, anche nel giudizio di rinvio, seppur questo si connoti come giudizio essenzialmente “chiuso”, non solo con riferimento all’oggetto, ma anche con riferimento ai soggetti, e ciò sempre sull’assunto che i condomini intervenienti non sono terzi, ma si identificano sostanzialmente con la parte “condominio” già in giudizio (Cass. Sez. 2, 24/05/2000, n. 6813; Cass. Sez. 2, 30/06/2014, n. 14809).

Nella stessa prospettiva, si è altresì ritenuta in giurisprudenza l’incapacità a testimoniare dei singoli condomini nelle controversie in cui l’amministratore abbia assunto la rappresentanza del condominio a tutela delle cose o dei servizi comuni, essendo i primi comunque parti ab origine per il tramite del loro necessario rappresentante (Cass. Sez. 2, 23/08/2007, n. 17925; Cass. Sez. 2, 16/07/1997, n. 6483).

Coerenti con questa risalente impostazione sono altresì le soluzioni ermeneutiche secondo cui, ove la sentenza di primo grado sia stata notificata all’amministratore costituito per conto del condominio, tale notifica è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione anche rispetto ai condomini che non fossero costituiti di persona nel giudizio di primo grado (Cass. Sez. 6 – 2, 11/01/2012, n. 177); ovvero quelle secondo cui il giudicato, formatosi nel processo in cui sia costituito l’amministratore, faccia stato anche nei confronti dei singoli condomini non intervenuti uti singuli nel giudizio (Cass., Sez. 3, 24/07/2012, n. 12911; Cass. Sez. 2, 22/08/2002, n. 12343).

Ancora, considerazioni analoghe a quelle finora richiamate sono alla base pure del parallelo orientamento che ha sempre affermato che la sentenza (o il decreto ingiuntivo) recante condanna del condominio, per un credito vantato da chi abbia contratto con l’amministratore, equivalga a sentenza di condanna, e quindi funga da titolo esecutivo, nei confronti di tutti i condomini (a prescindere dal diverso profilo dell’attuazione solidale o parziaria), anche se essi non abbiano assunto le vesti di parti “in senso formale” del giudizio promosso dal terzo creditore nei confronti dell’amministratore, per non esser stati personalmente evocati in giudizio, e quindi non siano neppure individuati nominativamente nel provvedimento condannatorio (Cass., Sez. 3, 29/09/2017, n. 22856; Cass., Sez. U, 08/04/2008, n. 9148; Cass. Sez. 2, 14/10/2004, n. 20304; Cass. Sez. 2, 14/12/1982, n. 6866; Cass. Sez. 2, 11/11/1971, n. 3235).

Questo specifico aspetto della più complessa questione andrebbe, peraltro, ora verificato anche alla luce del vigente art. 63, comma 2, disp. att. c.c. (introdotto dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), il quale fa divieto ai creditori di agire nei confronti degli obbligati in regola coi pagamenti se non dopo aver preventivamente escusso i condomini morosi. Se, infatti, tale beneficio d’escussione non si ritenesse efficace unicamente come limite alla fase esecutiva, quanto impeditivo già dell’azione di condanna in sede di cognizione, potrebbe favorirne un’agevole elusione riaffermare genericamente che “conseguita nel processo la condanna dell’amministratore, quale rappresentante dei condomini, il creditore può procedere all’esecuzione individualmente nei confronti dei singoli”.

Peraltro, è stato contemporaneamente affermato il principio secondo cui, in caso di decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del condominio in persona dell’amministratore, ove il creditore voglia poi procedere in danno di un singolo condomino, quale obbligato pro quota, è necessaria la notifica del titolo a quest’ultimo, non operando la deroga di cui all’art. 654, comma 2, c.p.c., in quanto “il Condominio è soggetto distinto da ognuno dei singoli condomini, ancorché si tratti di soggetto non dotato di autonomia patrimoniale perfetta, e l’art. 654, comma 2, è da ritenere applicabile solo al soggetto nei confronti del quale il decreto ingiuntivo sia stato emesso ed al quale sia stato ritualmente notificato” (Cass., Sez. 6 – 3, 29/03/2017, n. 8150).

Quel che più, però, rileva, ai fini della questione di diritto posta dal ricorso incidentale di A.A. , è l’ulteriore conseguenza applicativa della tradizionale impostazione dei rapporti processuali tra condominio, condomini e terzi, inerente, appunto, la legittimazione reciproca e sostituiva all’impugnazione spettante al singolo condomino.

È stata infatti costantemente reputata ammissibile altresì l’impugnazione, da parte del singolo partecipante, della sentenza di condanna emessa nei confronti dell’intero condominio, sull’assunto che il diritto di ogni partecipante al condominio ha per oggetto le cose comuni nella loro interezza, non rilevando, in contrario, la circostanza della mancata impugnazione da parte dell’amministratore, senza alcuna necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei condomini non appellanti (o non ricorrenti), né intervenienti, e senza che ciò determini il passaggio in giudicato della sentenza di primo (o di secondo) grado nei confronti di questi ultimi (cfr., ad esempio, Cass., Sez. 2, 16/12/2015, n. 25288; Cass. Sez. 2, 03/09/2012, n. 14765; Cass., Sez. 3, 16/05/2011, n. 10717; Cass., Sez. 2, 19/05/2003, n. 7827; Cass., Sez. 2, 28/08/2002, n. 12588; Cass., Sez. 2, 25/05/2001, n. 7130; Cass., Sez. 2, 30/03/2000, n. 3900; Cass., Sez. 2, 12/03/1994, n. 2392; Cass., Sez. 2, 21/06/1993, n. 6856).

Sempre in coerenza con questo approccio interpretativo, proprio di recente, si è negato che la sentenza pronunciata nei confronti del condominio, in persona del suo amministratore, possa essere impugnata con l’opposizione ordinaria ex art. 404, comma 1, c.p.c. dai singoli condomini, appunto perché questi non potrebbero dirsi terzi titolari di un diritto autonomo rispetto alla situazione giuridica affermata con tale decisione, la quale, piuttosto, fa stato anche nei loro confronti, benché non intervenuti in giudizio (Cass. Sez. 2, 21/02/2017, n. 4436).

Un limitato distinguo veniva posto dal cospicuo indirizzo ad avviso del quale dovrebbe soltanto escludersi la legittimazione processuale del singolo condomino, sia pure in caso di inerzia dell’amministratore, allorché si controverta su deliberazioni dell’assemblea che perseguano esclusivamente finalità di gestione di un servizio comune, in quanto non idonee ad incidere, se non in via mediata, sull’interesse esclusivo di uno o più partecipanti (in tal senso, Cass., Sez. 2, 21/09/2011, n. 19223; Cass., Sez. 2, 04/05/2005, n. 9213; Cass., Sez. 2, 03/07/1998, n. 6480; Cass., Sez. 2, 29/08/1997, n. 8257; Cass., Sez. 2, 12/03/1994, n. 2393).

Altrimenti si è professata una generale ed indistinta legittimazione di ciascun condomino ad impugnare una sentenza pronunciata nei confronti dell’amministratore, al fine di evitare gli effetti sfavorevoli della stessa, affermandosi che sia priva di qualsiasi fondamento normativo quella distinzione tra incidenza immediata, oppure mediata, sulla sfera patrimoniale del singolo, derivante dalla caducazione di una decisione sulla gestione della cosa comune, operata allo scopo di identificare, appunto, i soggetti legittimati al relativo gravame (Cass. Sez. 2, 06/08/2015, n. 16562).

La pronuncia del 19663/2014 ha lanciato un pesantissimo sasso nello stagno della interpretazione sino ad allora dominante: “Le Sezioni Unite hanno ricordato come la giurisprudenza abbia costantemente riconosciuto ai singoli condomini il potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, nonché, quindi, la facoltà di intervenire nel giudizio in cui tale difesa fosse stata già assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti della soccombenza patita dal condominio.

Tuttavia, la sentenza delle Sezioni Unite n. 19663 del 2014 ha dapprima affermato che la nozione di “ente di gestione”, sovente adoperata nelle decisioni per descrivere la situazione di condominio, rischia di ingenerare equivoci, e poi, dall’analisi della Riforma del condominio (Legge 11 dicembre 2012, n. 220) ha tratto il convincimento della progressiva configurabilità in capo al medesimo condominio di una sia pur attenuata personalità giuridica, ovvero comunque sicuramente di una soggettività giuridica autonoma.

Sicché, se la pregressa richiamata costruzione giurisprudenziale aveva ritenuto che il singolo condomino dovesse sempre considerarsi parte nella controversia tra il condominio ed altri soggetti, seppur rappresentato ex mandato dell’amministratore, proprio per la prospettazione dell’assoluta mancanza di soggettività del condominio, questa impostazione, ad avviso delle Sezioni Unite, entra in crisi ove ci soffermi sull’autonomia del condominio come centro di imputazione di interessi, di diritti e doveri, cui corrisponde una piena capacità processuale. In tal caso, infatti, il singolo condomino dovrà “essere considerato parte in quel processo solo se vi intervenga”, e non, invece, già “qualora sia rappresentato dall’amministratore”.

Il principio di diritto enunciato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 19663 del 2014, a norma dell’art. 384 c.p.c., ed al quale va riconosciuta l’efficacia di cui al comma 3 dell’art. 374 c.p.c., premette: “Nel caso di giudizio intentato dal condominio e del quale, pur trattandosi di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini al condominio, costoro non siano stati parti…”, mentre la motivazione, come visto, spiega che il singolo condominio non può più essere ritenuto parte in senso formale qualora sia rappresentato dall’amministratore.

Viene così tracciata una differenziazione tra la “parte condominio” (il quale rileva, ormai, sia come “soggetto dell’azione” che come “soggetto della lite”) e la “parte condomino intervenuto”, differenziazione che dovrebbe incidere sull’individuazione dei limiti soggettivi del giudicato, come anche su quelli oggettivi radicati nella domanda, riguardanti il petitum e la causa petendi fatti valere in causa.

Potrebbe altrimenti opinarsi che la peculiare legittimazione all’intervento, come all’impugnazione, riconosciuta ai singoli condomini in via reciproca, nonché sostitutiva di ogni precedente o diversa iniziativa dell’amministratore, possa tuttora trovare la sua ragione esclusivamente nella partecipazione degli stessi al diritto di proprietà sulle parti comuni dell’edificio, ovvero nel loro diritto esclusivo di proprietà sulla singola unità immobiliare.

Sicché il potere di intervento in giudizio e di impugnativa del singolo potrebbe limitarsi alla materia delle controversie aventi ad oggetto azioni reali, incidenti sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condomino, o anche delle azioni personali, ma se incidenti in maniera immediata e diretta sui diritti di ciascun partecipante; mentre si potrebbe negare l’impugnazione individuale, come l’intervento del singolo partecipante, relativamente alle controversie aventi ad oggetto la gestione o la custodia dei beni comuni, in nome delle esigenze plurime e collettive della comunità condominiale.

Nelle cause di quest’ultimo tipo, essendo la situazione sostanziale riferibile unicamente al condominio in quanto tale, la legittimazione ad agire e, quindi, anche ad impugnare, potrebbe spettare in via esclusiva all’amministratore, e la mancata impugnazione della sentenza da parte di quest’ultimo finirebbe per escludere la possibilità d’impugnazione da parte del singolo condomino.

L’autorevole precedente costituito dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 19663 del 2014 delinea, allora, la massima importanza della questione di diritto della legittimazione del singolo condomino (non costituitosi autonomamente) all’impugnazione della sentenza di primo o di secondo grado resa nei confronti del condominio, spettando la legittimazione all’impugnazione, fatta eccezione per l’opposizione di terzo, esclusivamente a chi abbia assunto la qualità di parte nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata e nei cui confronti la sentenza risulti emessa.

La decisione sul ricorso incidentale di A.A. pone altra questione correlata a quella già sinora riassunta.

Stante il principio della cosiddetta “rappresentanza reciproca” e della “legittimazione sostitutiva” (principio proprio del regime di comunione ordinaria, ed in verità adattato al condominio edilizio probabilmente trascurando la specialità della legittimazione processuale dell’amministratore ex art. 1131 c.c.), occorre interrogarsi altresì sull’ammissibilità dell’impugnazione incidentale proveniente da un singolo condomino in ipotesi di soccombenza parziale o reciproca del condominio, in primo o in secondo grado, ove lo stesso, a fronte di un appello o di un ricorso in cassazione della controparte, si sia, in realtà, difeso dall’impugnazione principale, seppur soltanto depositando una comparsa di risposta o notificando un controricorso mediante l’amministratore (ovvero tramite il proprio rappresentante unitario di tutti quei partecipanti che non abbiano già assunto individualmente l’iniziativa di appellare o di ricorrere in cassazione).

Nella specie, avendo il Condominio notificato un proprio controricorso in data 11 gennaio 2016, difendendosi dal ricorso principale mediante l’amministratore, potrebbe opporsi all’ammissibilità del ricorso incidentale, successivamente notificato il 12 gennaio 2016 dalla singola condomina A. , il disposto dell’art. 366 c.p.c.

Tale norma, che si applica anche al controricorso, impone, invero, che esso sia presentato con un unico atto, nel rispetto dei previsti requisiti di contenuto e forma, sicché è inammissibile la successiva notifica di un nuovo atto, a modifica od integrazione del primo, diretto alla proposizione di un gravame incidentale, ostandovi il principio della consumazione dell’impugnazione, che potrebbe qui riferirsi a tutti i condomini per conto dei quali era già avvenuta la preventiva costituzione unitaria dell’amministratore di condominio.

Il Collegio ritiene pertanto opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.”

© massimo ginesi 21 novembre 2017