a fronte di delibera nulla, il condomino può agire per il risarcimento del danno anche in via autonoma rispetto all’impugnativa.

Ove il condominio adotti una delibera nulla, l’amministratore non è tenuto a darvi esecuzione, la nullità è rilevabile anche d’ufficio dal giudice ed è facoltà del condomino leso dalla decisione agire per il risarcimento del danno subito in conseguenza dell’atto nullo (diverso ed ulteriore rispetto a quello che può essere reintegrato con la semplice ceduazione dell’atto viziato) anche in via autonoma rispetto al giudizio volto alla declaratoria di nullità della decisione assembleare.

E’ quanto ha statuito da Cass.Civ.  sez. II 26 settembre 2018 n. 23076 rel. Scarpa,   on una interessante sentenza in tema di innovazioni vietate (nella fattispecie l’installazione di un ascensore che ledeva i diritti di una condomina)  e che è pervenuta alla enunciazione del seguente principio di diritto: “La delibera dell’assemblea di condominio, che privi un singolo partecipante dei propri diritti individuali su una parte comune dell’edificio, rendendola inservibile all’uso e al godimento dello stesso, integra un fatto potenzialmente idoneo ad arrecare danno al condomino medesimo;

quest’ultimo, lamentando la nullità della suddetta delibera, ha perciò la facoltà di chiedere una pronuncia di condanna del condominio al risarcimento del danno, dovendosi imputare alla collettività condominiale gli atti compiuti e l’attività svolta in suo nome, nonché le relative conseguenze patrimoniali sfavorevoli, e rimanendo il singolo condomino danneggiato distinto dal gruppo ed equiparato a tali effetti ad un terzo.

Essendo la nullità della delibera dell’assemblea fatto ostativo all’insorgere del potere – dovere dell’amministratore di eseguire la stessa, l’azione risarcitoria del singolo partecipante nei confronti del condominio è ravvisabile non soltanto come scelta subordinata alla tutela demolitoria ex art. 1137 c.c., ma anche come opzione del tutto autonoma.”

Assai singolarmente il Tribunale di Trieste e, successivamente, la Corte di Appello della stessa città avevano ritenuto che la condomina potesse far valere i propri diritti solo in sede di impugnativa ex art 1137 cod.civ. (censura pacificamente riservata alle delibere annullabili, specie dopo la novella del 2012,  che ha espressamente circoscritto la norma all’ipotesi dell’annullamento).

i fatti: “Il giudizio ebbe inizio con atto di citazione notificato il 12 febbraio 2010. La signora G. , proprietaria di unità immobiliare compresa nell’edificio di Via (omissis) , convenne il Condominio (omissis) innanzi al Tribunale di Trieste per vedersi risarcire il danno cagionatole dalla realizzazione di un ascensore nella corte interna dell’edificio condominiale, danno consistente nella riduzione di luce e aria all’appartamento dell’attrice posto al piano terra, e nell’impedimento all’uso di una rilevante porzione della suddetta corte.

Avverso la sentenza del Tribunale, che rigettò la domanda, propose appello la G. , reiterando le domande risarcitorie prospettate in primo grado.

La Corte di Appello di Trieste, confermando la sentenza del giudice di primo grado, rigettò il gravame, sul presupposto che le delibere che avevano deciso l’installazione dell’impianto di ascensore non erano state impugnate precedentemente dall’appellante, a nulla rilevando l’omessa convocazione della stessa alle relative assemblee, in quanto soltanto in sede di impugnativa ex art. 1137 c.c. sarebbe stato possibile dedurre l’invalidità delle decisioni assembleari, causa del ravvisato pregiudizio della proprietà esclusiva della singola condomina. Tali delibere sarebbero perciò risultate tuttora valide e vincolanti anche per la signora G. , con conseguente carenza dei presupposti per l’azione di risarcimento, ex art. 2043 c.c.”

le motivazioni del giudice di legittimità: “In tema di condominio, l’installazione di un ascensore su area comune, allo scopo di eliminare le barriere architettoniche, costituisce un’innovazione che, ex art. 2, commi 1 e 2, della l. n. 13 del 1989, va approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, commi 2 e 3, c.c. (ovvero che, in caso di deliberazione contraria o omessa nel termine di tre mesi dalla richiesta scritta, può essere installata, a proprie spese, dal portatore di handicap), comunque osservando i limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c., secondo quanto prescritto dal comma 3 del citato art. 2 (Cass. Sez. 6 – 2, 09/03/2017, n. 6129; Cass. Sez. 2, 25/10/2012, n. 18334; Cass. Sez. 2, 24/07/2012, n. 12930).

Poiché resta dunque fermo il disposto dell’art. 1120, comma 2, c.c. (formulazione ratione temporis applicabile, antecedente alle modifiche apportate dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), sono vietate le innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell’utilità, secondo l’originaria costituzione della comunione.

Tale concetto di inservibilità della parte comune non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione – coessenziale al concetto di innovazione – ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della “res communis” secondo la sua naturale fruibilità, ovvero dalla sensibile menomazione dell’utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene (cfr. Cass. Sez. 2, 12/07/2011, n. 15308; Cass. Sez. 2, 25/10/2005, n. 20639).

Nella specie, la condomina G. assume, a fondamento della sua pretesa risarcitoria, che la realizzazione dell’impianto di ascensore nella corte interna dell’edificio condominiale, deliberata dall’assemblea, le impedisca di far uso di una rilevante porzione di tale area comune, ed abbia altresì ridotto la luce e l’aria fruibili dal suo appartamento, così prospettando che l’innovazione sia lesiva del divieto posto dall’art. 1120, comma 2, c.c., in quanto alla possibilità dell’originario godimento della cosa comune sarebbe stato sostituito un godimento di diverso contenuto.

È, allora, certamente da qualificare nulla la deliberazione, vietata dall’art. 1120 c.c., che sia lesiva dei diritti individuali di un condomino su una parte comune dell’edificio, rendendola inservibile all’uso e al godimento dello stesso, trattandosi di delibera avente oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea (arg. da Cass. Sez. U, 07/03/2005, n. 4806; Cass. Sez. 2, 24/07/2012, n. 12930; Cass. Sez. 6-2, 14/9/2017, n. 21339; Cass. Sez. 2, 25/06/1994, n. 6109).

La nullità di una deliberazione dell’assemblea condominiale comporta che la stessa, a differenza delle ipotesi di annullabilità, non implichi la necessità di tempestiva impugnazione nel termine di trenta giorni previsto dall’art. 1137 c.c. Una deliberazione nulla, secondo i principi generali degli organi collegiali, non può, pertanto, finché (o perché) non impugnata nel termine di legge, ritenersi valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio, come si afferma per le deliberazioni soltanto annullabili.

La nullità della deliberazione assembleare costituisce, perciò, fatto ostativo all’insorgere del potere-dovere dell’amministratore, ex art. 1130, n. 1, c.c., di darne attuazione, differentemente dalle ipotesi di mera annullabilità, non incidendo questa sul carattere vincolante delle decisioni del collegio dei condomini per l’organo di gestione fino a quando non siano rimosse con pronuncia di accoglimento dell’impugnazione proposta a norma dell’art. 1137 c.c.

Alle deliberazioni prese dall’assemblea condominiale si applica, peraltro, il principio dettato in materia di contratti dall’art. 1421 c.c., secondo cui è comunque attribuito al giudice, anche d’appello, il potere di rilevarne d’ufficio la nullità, ogni qual volta la validità (o l’invalidità) dell’atto collegiale rientri tra gli elementi costitutivi della domanda su cui egli debba decidere (con riferimento proprio ad azione risarcitoria, cfr. Cass. Sez. 2, 10/03/2016, n. 4726; inoltre, si vedano Cass. Sez. 2, 17/06/2015, n. 12582; Cass. Sez. 2, 12/01/2016, n. 305; Cass. Sez. 6 -2, 15/03/2017, n. 6652).

Non è perciò corretta l’affermazione della Corte d’Appello di Trieste secondo cui la violazione dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c. e la conseguente nullità della deliberazione assembleare siano deducibili “solo in sede d’impugnazione di detta delibera, nel caso di specie pacificamente mai proposta”.

L’accertamento dell’invalidità può costituire, infatti, una questione pregiudiziale rispetto al riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni soltanto nelle ipotesi di annullabilità della delibera, ovvero in ipotesi di vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, o al procedimento di convocazione o di informazione della stessa, o alle maggioranza occorrente in relazione all’oggetto.

Se la delibera annullabile non sia impugnata nel termine di trenta giorni previsto dall’art. 1137 c.c., il comportamento del condomino assume, invero, un significato di acquiescenza all’espressione di volontà collegiale, sicché la praticabilità dell’accesso alla tutela risarcitoria avverso una delibera assembleare annullabile in via complementare ed integrativa alla tutela demolitoria può affermarsi unicamente per quegli eventuali danni che non siano riparabili con l’eliminazione della delibera e delle modificazioni della realtà materiale da essa discendenti, salva poi la necessità della prova degli elementi oggettivi e soggettivi del danno, nonché del nesso di causalità tra questo e la delibera invalida.

Soluzione diversa va affermata quando la domanda di risarcimento dei danni avanzata dal singolo condominio si ricolleghi all’esecuzione di una deliberazione dell’assemblea nulla, e cioè che abbia oggetto impossibile, illecito, o non rientrante nelle competenze condominiali, o che incida sui diritti individuali inerenti alle parti comuni o alla proprietà esclusiva di ognuno dei partecipanti.”