voto in assemblea e conflitto di interesse: va provato che sussiste uno sviamento dall’interesse collettivo

 

La Suprema Corte ( Cass.Civ. sez. VI 25 gennaio 2018 n. 1853 rel. Scarpa)  ritorna sul tema del voto in conflitto di interesse, nel caso di  specie legato alla volontà espressa da un condomino che era anche titolare della impresa designata dal condominio per l’esecuzione delle opere.

La corte chiarisce, riprendendo recenti orientamenti, che è ovviamente titolare del diritto di voto anche il condomino in conflitto e che non è sufficiente la sua mera posizione ambivalente a ritenere sussistente l’esistenza del conflitto, poiché chi impugna dovrà dimostrare che quel voto è stato determinante per la realizzazione di interessi diversi ed in contrasto con quelli  condominiali, unici invece a cui l’assemblea è tenuta a dare attuazione .

LA tesi aveva già trovato positivo accoglimento in grado di appello: La Corte d’Appello di Catania ha escluso che fosse ravvisabile, in relazione all’impugnata deliberazione assembleare, un conflitto di interessi (in analogia al disposto di cui all’art. 2373 c.c.) in capo al condomino S. L., in quanto titolare dell’impresa appaltatrice dei lavori di manutenzione dell’edificio condominiale, le cui spese erano state approvate appunto con la delibera del 19 febbraio 2010. Ha sostenuto la Corte d’Appello che fosse rimasta indimostrata la circostanza che i lavori condominiali, se affidati in appalto ad altra impresa, avrebbero comportato un risparmio di spesa rispetto al corrispettivo da versare all’impresa del condomino L., sicché mancava in concreto prova dello specifico conflitto di interessi denunciato.”

Osserva il giudice di legittimità che “.Si invoca dai ricorrenti, a parametro di legittimità della sentenza della Corte d’Appello di Catania, l’art. 1394 c.c., ma nella fattispecie astratta prevista da questa norma il conflitto di interessi si manifesta al momento dell’esercizio del potere rappresentativo, e verte sul contrasto tra l’interesse personale del rappresentato e quello, pure personale, del rappresentante, laddove, nel caso previsto dall’art. 2373 c.c., sul quale si è incentrata, piuttosto, la presente controversia, il conflitto di interessi si manifesta in sede di assemblea al momento dell’esercizio del potere deliberativo, e verte sul contrasto tra l’interesse proprio del partecipante al voto collegiale e quello comune della collettività (arg. da Cass. Sez. 1, 10/10/2013, n. 23089).”

Quanto al conflitto in sede di assemblea, la Corte intende riaffermare i prinpici già di recente espressi: “Si è chiarito come, in tema di condominio, le maggioranze necessarie per approvare le delibere sono inderogabilmente quelle previste dalla legge in rapporto a tutti i partecipanti ed al valore dell’intero edificio, sia ai fini del “quorum” costitutivo sia di quello deliberativo, compresi i condomini in potenziale conflitto di interesse con il condominio, i quali possono (e non debbono) astenersi dall’esercitare il diritto di voto, ferma la possibilità per ciascun partecipante di ricorrere all’autorità giudiziaria in caso di mancato raggiungimento della maggioranza necessaria per impossibilità di funzionamento del collegio (così Cass. Sez. 228/09/2015, n. 19131; Cass. Sez. 2, 30/01/2002, n. 1201).

E’ noto come tale orientamento discenda dal presupposto dell’ammissibilità, nella disciplina delle assemblee di condominio, di una “interpretazione estensiva” (o meglio, del ricorso ad un’applicazione analogica) dell’art. 2373 c.c., norma riguardante il conflitto di interessi del socio nelle deliberazioni della società per azioni.

Nel testo dell’art. 2373 c.c., conseguente alla riformulazione operatane dal d. Igs. n. 6 del 2003, è venuta meno la disposizione che portava a distinguere, in caso di conflitto di interesse, tra quorum costitutivo dell’assemblea e quorum deliberativo della stessa, e si afferma unicamente che la deliberazione approvata con il voto determinante di soci, che abbiano un interesse in conflitto con quello della società, è impugnabile, a norma dell’art. 2377 c.c., qualora possa recarle danno.

Nella ricostruzione da ultimo offerta da Cass. Sez. 2, 28/09/2015, n. 19131 (ma si veda anche Cass. Sez. 2, 16/05/2011, n. 10754), dunque, soltanto se risulti dimostrata una sicura divergenza tra l’ “interesse istituzionale del condominio” e specifiche ragioni personali di determinati singoli partecipanti, i quali non si siano astenuti ed abbiano, perciò, concorso con il loro voto a formare la maggioranza assembleare, la deliberazione approvata sarà invalida.

L’invalidità della delibera discende, quindi, non solo dalla verifica del voto determinante dei condomini aventi un interesse in conflitto con quello del condominio (e che, perciò, abbiano abusato del diritto di voto in assemblea), ma altresì dalla dannosità, sia pure soltanto potenziale, della stessa deliberazione.

Il vizio della deliberazione approvata con il voto decisivo dei condomini in conflitto ricorre, in particolare, quando la stessa sia diretta al soddisfacimento di interessi extracondominiali, ovvero di esigenze lesive dell’interesscondominiale all’utilizzazione, al godimento ed alla gestione delle parti comuni dell’edificio.

In ogni modo, il sindacato del giudice sulle delibere condominiali deve pur sempre limitarsi al riscontro della legittimità di esse, e non può estendersi alla valutazione del merito, ovvero dell’opportunità, ed al controllo del potere discrezionale che l’assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei partecipanti (si veda, ad esempio, Cass. Sez. 2, 20/06/2012, n. 10199).

L’impugnazione ex art. 1137 c.c., grazie anche al rinvio all’art. 1109 c.c. consentito dall’art. 1139 c.c., si amplia al più all’ipotesi in cui la delibera ecceda dai poteri dell’organo assembleare, non potendosi consentire alla maggioranza del collegio, distolta dal perseguimento di interessi particolari, di ledere l’interesse collettivo.

Allorché la decisione dell’assemblea sia deviata dal suo modo di essere, perché viene formata con il voto determinante di partecipanti ispirati da finalità extracondominiali, al giudice non può quindi chiedersi comunque di controllare l’opportunità o la convenienza della soluzione adottata dal collegio, quanto, piuttosto, di stabilire che essa non costituisca il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell’organo deliberante (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, 21/02/2014, n. 4216; Cass. Sez. 2, 14/10/2008, n. 25128).

Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Catania ha fatto corretto uso di questi principi, motivatamente escludendo che, nell’approvare con la delibera del 19 febbraio 2010 le spese dell’appalto eseguito dall’impresa del condomino L., l’assemblea dei condomini, supportata dal voto dello stesso L., abbia perseguito apprezzamenti obiettivamente rivolti alla realizzazione di interessi incompatibili con l’interesse collettivo alla buona gestione dell’amministrazione.”

© massimo ginesi 31 gennaio 2018 

decreto ingiuntivo non opposto e principio del giudicato esterno discendente: una pronuncia in tema di sfratto

Di recente la Suprema Corte (Cass. 1502/2018) ha osservato che la mancata opposizione a decreto ingiuntivo impedisce successive contestazioni giudiziali  sulle somme portate in quel decreto ingiuntivo e che l’effetto di giudicato che acquista il decreto non opposto si estende a tutto il dedotto e deducibile che poteva essere fatto valere in sede di opposizione.

Analogo principio è seguito da recente sentenza del Tribunale di Massa 23 gennaio 2018 in tema di opposizione alla convalida di sfratto, che deve essere respinta laddove il conduttore non abbia proposto opposizione al decreto ingiuntivo per i canoni non versati ottenuto dal locatore con autonomo e separato ricorso.

Osserva il Tribunale apuano che “L’esistenza di un decreto ingiuntivo definitivo per i canoni impagati, ottenuto dal locatore nei confronti del conduttore per canoni che vanno a costituire la morosità sulla quale si fonda l’intimazione di sfratto, oggi convertita nel presente giudizio a rito ordinario, impedisce di riesaminare la vicenda dei rispettivi obblighi e della sussistenza di inadempimento, per il principio del giudicato implicito discendente.

L’esistenza di un titolo definitivo, che accerti che non è stato versato il corrispettivo della locazione per l’importo recato nel decreto non opposto, impedisce qualunque ulteriore valutazione sulla debenza di quelle somme e sulla sussistenza del relativo inadempimento.

Si è, con costanza, osservato in giurisprudenza che “la domanda di accertamento del canone di locazione costituisce un presupposto implicito ai fini della proposizione e dell’accoglimento della domanda di condanna al pagamento dei canoni scaduti e non pagati in cui si sostanzia il provvedimento di ingiunzione.

Sta di fatto che sul decreto ingiuntivo non opposto recante intimazione di canoni locativi arretrati accolto si forma il giudicato che fa stato perciò fra le stesse parti circa l’esistenza e validità del rapporto corrente inter partes e sulla misura del canone preteso, nonchè fa stato circa l’inesistenza di tutti i fatti impeditivi o estintivi, anche non dedotti, ma deducibili nel giudizio di opposizione, quali quelli atti a prospettare l’insussistenza totale o parziale del credito azionato in sede monitoria dal locatore a titolo di canoni insoluti, per effetto di controcrediti del conduttore per somme indebitamente corrisposte in ragione di maggiorazioni contra legem del canone (v. Cass. n. 5801/1998).

Evidente, pertanto, che, in applicazione del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, qualora i conduttori avessero voluto contestare la determinazione del canone, avrebbero dovuto proporre opposizione a decreto ingiuntivo, il che non hanno fatto, con la conseguenza che l’accertamento circa la misura del canone preteso e richiesto dai locatori è da ritenersi coperto dal giudicato.” Cass 16319/2017)”

Il Tribunale ha ritenuto infondate anche due eccezioni in rito dell’opponente, che assumeva il decreto ingiuntivo dovesse essere notificato nel domicilio eletto per il procedimento di sfratto: “Va perlatro osservato che appaiono prive di pregio anche le due obiezioni avanzate dal convenuto circa la asserita nullità della notifica del decreto ingiuntivo (tesi che perlatro dovrebbero legittimare – semmai un opposizione tardiva in quel procedimento e non possono essere oggetto di valutazione nel presente, se non in via meramente incidentale):
Per quanto possa qui rilevare, quanto alla notifica alla parte ai sensi dell’art. 140 c.p.c. appaiono rispettate tutte le formalità previste dalla norma e dalle successive interpretazioni rese dalla Consulta, posto che dalla copia depositata in via telematica risulta effettuata la notifica presso la dimora del convenuto (luogo che neanche egli stesso disconosce sia tale), è stato effettuato il deposito presso l’ufficio e il contestuale avviso raccomandato di cui risulta risulta – dall’avviso di ricevimento reso con l’atto – che il destinatario non abbia curato il ritiro per dieci giorni. Né peraltro l’opponente, aldilà di generiche riflessioni circa le modalità di notifica ai sensi dell’art 140 c.pc., ha spiegato in quali violazioni sarebbe incorsa la notifica del decreto.

Quanto la doglianza circa l’omessa notifica al domicilio eletto, è di tutta evidenza che tale norma sia volta favorire le comunicazioni in corso di causa alle parti costituite, e tale non può considerarsi la notifica alla parte – in vista della esecuzione – di un decreto ingiuntivo munito di formula esecutiva, che deve necessariamente essere notificato al debitore e non al suo procuratore domiciliatario e che – in ogni caso – è relativo a procedimento monitorio del tutto autonomo rispetto a quello di opposizione alla convalida per cui si discute e sarebbe, pertanto, escluso dagli atti soggetti a notifica nel domicilio eletto”.

© massimo ginesi 30 gennaio 2018

trasformazione del tetto e terrazza a tasca: la Cassazione fa chiarezza.

Cass.Civ. sez. VI 25 gennaio 2018 n. 1850 rel. Scarpa fornisce (finalmente) la corretta chiave di lettura di un orientamento  giurisprudenziale che in questi anni è stato, spesso immotivatamente e arbitrariamente, utilizzato dai singoli condomini in modo assai strumentale (e infondato).

Il tetto è un bene comune e non è consentita la sua trasformazione ad libitum, da parte del proprietario  del sottotetto, in una terrazza a proprio uso esclusivo.

Dopo lunghi anni in cui si era ritenuto che la destinazione ad uso esclusivo di una parte comune richiedesse il consenso di tutti gli aventi diritto, nel 2012 la Cassazione (Cass.civ. sez. II  3 agosto 2012 n. 14107) aveva dato una lettura dinamica delle norme in tema di proprietà, ritenendo lecita l’iniziativa ove avesse una modesta incidenza sul manufatto comune e fosse inidonea a distrarlo  dalla sua destinazione funzionale primaria.

Oggi la Corte sottolinea con rigore i limiti di ammissibilità dell’intervento: “Il precedente giurisprudenziale, che la ricorrente invoca e che cita la stessa sentenza impugnata, ha affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, ma sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione, e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14107; si veda anche Cass. Sez. 6 – 2, 04/02/2013, n. 2500). E

E’ evidente come l’accertamento circa la non significatività del taglio del tetto praticato per innestarvi la terrazza di uso esclusivo (non significatività, nella specie, del tutto negata dalla Corte di Venezia, la quale ha piuttosto accertato come fosse stata realizzata una terrazza avvolgente, corrente lungo i lati nord, est e sud dell’appartamento della ricorrente) e circa l’adeguatezza delle opere eseguite per salvaguardare, la funzione di copertura e protezione dapprima svolta dal tetto (adeguatezza del pari negata dalla Corte d’appello, la quale ha riscontrato l’apposizione sulla terrazza della stessa pavimentazione dei locali sottotetto) è riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 1102 c.c., ma soltanto nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.c.

Con riferimento all’utilizzazione della cosa comune da parte di un singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, il riscontro dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c. è frutto di un’indagine di fatto, mediata dalla valutazione delle risultanze probatorie, che non può essere sollecitata ulteriormente tramite il ricorso per cassazione, come se esso introducesse un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata.”

© massimo ginesi 29 gennaio 2018

 

art. 63 disp.att. cod.civ.: dalla Cassazione un’accurata disamina della natura dell’obbligazione e del suo operare fra venditore ed acquirente

E’ noto che l’art. 63 disp.att. cod.civ., sia nella formulazione anteriore alla novella del 2012 che in quella attuale, prevede solidarietà fra acquirente e venditore dell’unità immobiliare  per le somme dovute al condominio in forza dell’esercizio  in corso e di quello precedente all’atto del trasferimento.

Si tratta di norma che ha valenza nei conforti del condominio, ma non rileva nei rapporti interni fra venditore ed acquirente, che potranno regolare nell’atto le rispettive obbligazioni e che comunque saranno tenuti in forza di meri criteri cronologici legati al trasferimento, avendo riguarda – per le spese straordinarie – a chi era proprietario al momento della delibera che ne ha deciso l’esecuzione.

Tale rilevanza rimane  interna  anche riguardo ai rapporti con il terzo creditore, che non potrà fra conto sul vincolo di solidarietà fra venditore ed acquirente dell’unità condominiale .

La Suprema  Corte chiarisce inoltre che il vincolo previsto  dall’art. 63 disp.att. cod.civ. opera anche in caso di acquisto in sede di esecuzione immobiliare, ribadendo  una tesi abbastanza pacifica in dottrina e diffusa nella giurisprudenza di merito, ma che non aveva ancora trovato un recente e netto riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità, sì che non è raro trovare coloro che ancora sostengono la leggenda metropolitana dell’effetto purgativo dell’asta immobiliare.

Cass.Civ. sez. VI 25 gennaio 2018 n.   1847 rel. Scarpa sottolinea, con la consueta capacità di sintesi e approfondimento del relatore, alcuni passaggi essenziali della materia.

il motivo del contendere: “C. B., titolare di omonima impresa edile, aveva domandato tale ingiunzione di pagamento per ottenere dal condomino I. il pagamento del residuo corrispettivo (C 2.080,00) dei lavori di ristrutturazione del fabbricato condominiale di via F., Pozzuoli, approvati con deliberazione assembleare del 7 febbraio 2008. Lo Iacuaniello si era opposto al decreto ingiuntivo, deducendo di aver acquistato l’unità immobiliare compresa nel condominio di via F. solo per effetto di decreto di trasferimento del Tribunale di Napoli in data 23 gennaio 2009. Il Tribunale ha riformato la sentenza di primo grado, osservando come il vincole solidale  tra precedente e attuale  proprietario, previsto dall’art. 63 disp. att. c.c., riguardi soltanto le somme dovute al condominio, mentre nei confronti del terzo creditore, trattandosi nella specie di spese di manutenzione straordinaria, doveva ritenersi debitore unicamente chi fosse proprietario al momento della deliberazione di approvazione dell’assemblea.”

I principi di diritto affermati dalla Cassazione: quanto alla natura di lavoro straordinario, la corte rileva che si tratta di valutazione rimessa al giudice di merito, insindacabile in cassazione e tuttavia ribadisce che “questa Corte ha già spiegato come il criterio discretivo tra atti di ordinaria amministrazione ed atti di amministrazione straordinaria riposa sulla “normalità” dell’atto di gestione rispetto allo scopo dell’utilizzazione e del godimento dei beni comuni, sicché gli atti implicanti spese che, pur dirette alla migliore utilizzazione delle cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere economico rilevante, necessitano della delibera dell’assemblea condominiale (Cass. Sez. 2, 25/05/2016, n. 10865). Trattasi, peraltro, di valutazione da compiersi avendo riguardo non alla singola voce di spesa, ma all’intervento complessivamente approvato, sicchè non appare dubitabile che un intervento edilizio di ristrutturazione del fabbricato, quale quello oggetto della vicenda per cui è lite, si connoti come manutenzione straordinaria. L’accertamento della straordinarietà o ordinarietà dell’attività gestoria discende, in ogni modo, dall’apprezzamento di fatto rimesso ai giudici del merito”

Sulla natura dell’obbligazione ex art. 63 disp.att. cod.civ. e sul suo operare: “Trova applicazione ratione temporis, attesa l’epoca di insorgenza dell’obbligo di spesa per cui è causa, l’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., nella formulazione antecedente alla modificazione operata dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220. In forza di tale norma, chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo al pagamento dei contribut relativi all’anno in corso e a quello precedente.

Dovendosi individuare, ai fini dell’applicazione dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni (ristrutturazione della facciata dell’edificio condominiale)”, deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento, avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione (Cass. Sez. 6 – 2, 22 giugno 2017, n. 15547; Cass. Sez 6 – 2, 22 marzo 2017, n. 7395; Cass. Sez. 2, 03/12/2010, n. 24654).  

Tale momento rileva anche per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, se gli stessi non si siano diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro.

L’obbligo del cessionario nei confronti del condominio si configura in capo a chiunque, sia pure, come nel caso in esame, in dipendenza di aggiudicazione forzata, succeda nella proprietà dell’immobile condominiale, non trovando applicazione il disposto dell’art. 2919 c.c. (Cass. Sez. 2, 09/07/1964, n. 1814).

Si tratta, quindi, di obbligazione solidale, ma autonoma, in quanto non propter rem, e, piuttosto, costituita ex novo dalla legge esclusivamente in funzione di rafforzamento dell’aspettativa creditoria dell’organizzazione condominiale, sicchè essa non opera in favore del terzo creditore del condominio.

La costruzione giurisprudenziale del principio della diretta riferibilità ai singoli condomini della responsabilità per l’adempimento delle obbligazioni contratte verso i terzi dall’amministratore del condominio per conto del condominio, tale da legittimare l’azione del creditore verso ciascun partecipante, poggia comunque sul collegamento tra il debito del condomino e la appartenenza di questo al condominio, in quanto è comunque la contitolarità delle parti comuni che ne costituisce il fondamento e l’amministratore può vincolare i singoli comunque nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli (Cass. Sez. U, 08/04/2008, n. 9148).

Non può pertanto essere obbligato in via diretta verso il terzo creditore, neppure per il tramite del vincolo solidale ex art. 63, disp. att. c.c., chi non fosse condomino al momento in cui sia insorto l’obbligo di partecipazione alle relative spese condominiali, nella specie per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni, ossia alla data di approvazione della delibera assembleare inerente i lavori.”

© massimo ginesi 26 gennaio 2018 

 

decreto ingiuntivo non opposto e principio del giudicato esterno discedente: in tema di spese di riscaldamento condominiali.

La mancata opposizione a decreto ingiuntivo e il suo divenire definitivo, con effetto di cosa giudicata, comporta che non possa più essere oggetto di successivo giudizio quanto poteva e doveva essere dedotto in quella sede.

Il principio, in materia condominiale, è ribadito da Cass.Civ. sez. VI 22 gennaio 2018 n. 1502 rel. Scarpa: “È fondato anche il secondo motivo di ricorso, non avendo il Tribunale di Verbania preso in esame l’eccezione di giudicato esterno formulata dal Condominio di (omissis) con riferimento ai decreti ingiuntivi n. 256/14 e n. 363/15.

Il ricorrente aveva posto in evidenza come tali decreti ingiuntivi fossero stati richiesti dal medesimo Condominio per ottenere dal M. il pagamento di spese ordinarie comprensive delle spese di riscaldamento.

Il Tribunale avrebbe pertanto dovuto verificare se i decreti ingiuntivi non opposti avessero dato luogo alla formazione tra le parti di un giudicato involgente altresì la ragione e la misura dell’obbligazione del condomino M. di concorrere alle spese di uso del riscaldamento centrale, nonché l’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi, non dedotti ma deducibili nel giudizio di opposizione, quali quelli atti a prospettare l’insussistenza, totale o parziale, del credito azionato in sede monitoria sul presupposto dell’esonero da tali spese del condomino che abbia distaccato le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto comune.

Ove quei decreti recassero l’accertamento della sussistenza dell’obbligo di M.L. di contribuire alle spese d’uso del riscaldamento centralizzato, la situazione ivi accertata non potrebbe in radice formare oggetto di valutazione diversa nel presente giudizio, permanendo immutati gli elementi di fatto e di diritto preesistenti.

Occorre infatti considerare come il giudice, nell’indagine volta ad accertare l’oggetto ed i limiti del giudicato esterno discendente da un decreto ingiuntivo non opposto, debba dare rilievo non unicamente al contenuto precettivo del provvedimento monitorio pronunziato, quand’anche agli elementi di fatto ed alle ragioni di diritto su cui era fondata la domanda di ingiunzione.

Questa Corte ha sostenuto, del resto, che il giudice che emette il decreto ingiuntivo, accogliendo le ragioni del ricorrente, ne fa propri i motivi, per cui il riferimento a questi – portati a conoscenza dell’ingiunto mediante la notificazione sia del ricorso che del decreto, prevista dal secondo comma dell’art. 643 c.p.c. – è sufficiente ad integrare per relationem la motivazione del provvedimento, necessaria ai sensi del combinato disposto degli artt. 641, comma 1, e 135, comma 2, dello stesso codice di rito (Cass. Sez. L, 16/06/1987 n. 5310; Cass. Sez. 5, 20/08/2004, n. 16455).

Ne consegue che il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo si estende pure alla causa petendi indicata a sostegno del credito azionato, abbracciando i fatti costitutivi esposti nel ricorso per ingiunzione come l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al medesimo ricorso e non dedotti con l’opposizione, mentre non si estende soltanto ai fatti successivi al giudicato, ovvero a quelli che comportino un mutamento del petitum e della causa petendi articolati in seno alla domanda accolta.

Ove si tratti di decreto ingiuntivo per le rate maturate di un’obbligazione periodica, l’autorità del giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni tendenti ad una nuova decisione di quelle già risolte con provvedimento definitivo, il quale, pertanto, esplica la propria efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione, con l’unico limite di una sopravvenienza, di fatto o di diritto, che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento (cfr. Cass. Sez. 2, 2016, 06/06/2016, n. 11572; Cass. Sez. L, 23/07/2015, n. 15493; Cass. Sez. 3, 11/05/2010, n. 11360).”

LA sentenza affronta anche altro tema ormai più che consolidato, ribadendo principi ferrei e condivisibili in ordine all’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, nel quale non si potranno far valere vizi della  delibera posta a fondamento della richiesta monitoria, non tempestivamente impugnata, salvo che gli stessi risultino tutt’ora idonei ad incidere sulla sua efficacia (ed esempio la nullità della stessa): “Occorre peraltro ribadire che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su esso gravante con la produzione del verbale dell’assemblea condominiale in cui sono state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. Sez. 2, 29 agosto 1994, n. 7569).

Il Tribunale di Verbania non si è uniformato al costante orientamento di questa Corte, secondo il quale, nello stesso giudizio di opposizione, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla validità della delibera condominiale di approvazione dello stato di ripartizione (nella specie, per aver l’assemblea posto a carico anche del condomino che si era distaccato dall’impianto di riscaldamento centralizzato le spese di gestione dello stesso), ma solo questioni riguardanti l’efficacia di quest’ultima.

Per quanto detto, tale delibera costituisce, infatti, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non soltanto la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è, dunque, ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26629; Cass. Sez. 2, 23/02/2017, n. 4672).

Il giudice deve quindi accogliere l’opposizione solo qualora la delibera condominiale (nella specie, quelle approvate dal Condominio di (omissis) nelle assemblee dell’ottobre 2009, del marzo e del maggio 2010) abbia perduto la sua efficacia, per esserne stata l’esecuzione sospesa dal giudice dell’impugnazione, ex art. 1137, comma 2, c.c., o per avere questi, con sentenza sopravvenuta alla decisione di merito nel giudizio di opposizione ancorché non passata in giudicato, annullato la deliberazione (Cass. Sez. 2, 14/11/2012, n. 19938).

La dedotta mancata comunicazione delle delibere assembleari di approvazione e ripartizione delle spese ai condomini assenti ex art. 1137 c.c. al condomino M. , in quanto vicenda del tutto estranea al procedimento formativo della volontà collegiale, può essere ragione che abbia impedito il decorso del termine di impugnazione stabilito da detta norma, ma non comunque motivo di invalidità da introdurre per la prima volta nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione dei relativi oneri, ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c. (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, 11/08/2017, n. 20069; Cass. Sez. 2, 22/05/1974, n. 1507).

Né il condomino M. potrebbe lamentare l’annullabilità delle deliberazioni poste a fondamento dell’ingiunzione di pagamento per non essere stato proprio convocato a quelle riunioni, trattandosi di vizio invocabile comunque con l’impugnazione ex art. 1137 c.c., e non di doglianza che possa formare oggetto di eccezione nel giudizio di opposizione (Cass. Sez. 2, 07/11/2016, n. 22573; Cass. Sez. 2, 01/08/2006, n. 17486). ” 

© massimo ginesi 25 gennaio 2018

nella causa fra condomino e condominio, se quest’ultimo soccombe non può ripartire le spese di lite anche al vittorioso.

Sembrerebbe un principio ovvio:  se tuttavia la Suprema Corte è costretta ancora una volta a ribadirlo ( Cass.Civ. sez.  II 23 gennaio 2018 n. 1629 Rel. Scarpa),  vi è evidentemente qualche amministratore e qualche assembela che ancora non lo hanno recepito.

Il Condomino che è contrapposto in una causa contro il condominio e la vince, con il favore delle spese. non può essere chiamato a partecipare pro quota alle spese di lite, cui il condominio è stato condannato dal giudice in virtù del principio  di soccombenza previsto dall’art. 91 c.p.c.

La ragione è ovvia sotto il profilo pratico, ancor prima che giuridico: il condomino vittorioso rappresenta la controparte processuale  vittoriosa del condominio, controparte  che ha diritto di vedersi rimborsare le spese di lite dal condominio che, in tal caso, ne risponderà nei limiti di tutti coloro che hanno partecipato alla lite quali condomini, tranne il condomino controparte.

la Corte d’Appello di Trento ha fatto corretta applicazione dell’orientamento secondo cui è nulla la deliberazione dell’assemblea condominiale che, all’esito di un giudizio che abbia visto contrapposti il condominio ed un singolo condomino, disponga anche a carico di quest’ultimo, pro quota, il pagamento delle spese sostenute dallo stesso condominio per il compenso del difensore nominato in tale processo, non trovando applicazione nella relativa ipotesi, nemmeno in via analogica, gli artt. 1132 e 1101 c.c.

Questo orientamento spiega come nell’ipotesi di controversia tra condominio e uno o più condomini, la compagine condominiale viene a scindersi di fronte al particolare oggetto della lite, per dare vita a due gruppi di partecipanti al condominio in contrasto tra loro, nulla significando che nel giudizio il gruppo dei condomini, costituenti la maggioranza, sia stato rappresentato dall’amministratore (Cass. Sez. 2, 18/06/2014, n. 13885; Cass. Sez. 2, 25/03/1970, n. 801).

E’ quindi da considerare nulla per impossibilità dell’oggetto la deliberazione dell’assemblea che, con riferimento ad un giudizio che veda contrapposti il condominio ed un singolo condomino, ponga anche a carico di quest’ultimo, pro quota, l’obbligo di contribuire alle spese sostenute dallo stesso condominio per il compenso del difensore o del consulente tecnico di parte nominati in tale processo, trattandosi di spese per prestazioni rese a tutela di un interesse comunque opposto alle specifiche ragioni personali del singolo condomino, e neppure, perciò, trovando applicazione in tale ipotesi l’art. 1132 c.c.”

La corte ribadisce anche un altro principio  importate in tema di spese: non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, ma la misura della compensazione – in caso di reciproca soccombenza – rimane una valutazione di esclusiva competenza del giudice di merito.

“la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, ovvero la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbano eventualmente ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, e restano perciò sottratte al sindacato di legittimità, essendo questo limitato ad accertare soltanto che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (cfr. Cass. Sez. 2, 31/01/2014, n. 2149).”

© massimo ginesi 24 febbraio 2018

 

opposizione allo sfratto e mediazione obbligatoria: un tema controverso

Ove il convenuto in un procedimento per convalida di sfratto proponga opposizione, il giudice deve mutare il rito e il procedimento proseguirà secondo le norme richiamate dall’art. 447 bis c.p.c., onde pervenire ad una ordinaria sentenza che, accertato l’inadempimento del conduttore, pronunci sulla  risoluzione del contratto di locazione.

All’atto del mutamento del rito, trattandosi di materia sottoposta obbligatoriamente a mediazione ai sensi dell’art. 5 D. lgs 28/2010, il giudice disporrà affinché si proceda all’esperimento della mediazione, rinviando la causa  a nuova udienza per la verifica della condizione di procedibilità.

Può accadere che nessuna delle due parti si attivi; a quel punto il giudice dovrà necessariamente pronunciare sentenza con cui dichiara l’improcedibilità della domanda: ovviamente la domanda è quella  di risoluzione per inadempimento, azionata originariamente dal locatore in via sommaria nelle forme della intimazione di sfratto e citazione per convalida.

Diverse sono  le conclusioni  cui pervengono i giudici di merito sulla disciplina delle spese di lite in tale ipotesi, soluzione che comporta necessariamente una valutazione su chi avesse interesse alla mediazione e su chi debba ritenersi parte soccombente.

Il tema è affrontato da una recente sentenza del Tribunale di Massa 19 gennaio 2018.

Esaurita la fase sommaria e disposto il mutamento del rito, è stato concesso termine per l’inizio del procedimento di mediazione, termine da ritenersi seppur non perentorio(Corte di Appello di Milano24 maggio 2017) comunque non reiterabile (Tribunale, Firenze, sez. III civile09/06/2015,Tribunale di Vasto, sentenza del 09.03.2015). Va ancora ritenuto che è onere di chi abbia interesse a coltivare il procedimento dare impulso alla condizione di procedibilità.

Nel caso di specie non risulta che la mediazione sia stata introdotta né dall’attore nel dal convenuto, di talchè la domanda dovrà necessariamente essere dichiara improcedibile.

Ai fini della liquidazione delle spese, assume tuttavia rilevanza la posizione delle parti chiamate ad avverare la condizione di procedibilità, onde valutare se vi sia tecnicamente soccombenza.

A differenza del procedimento per decreto ingiuntivo, ove si discute degli effetti del mancato avveramento della condizione di procedibilità sul provvedimento monitorio, con esiti che – anche in sede di legittimità – hanno sottolineato all’interesse dell’opponente a coltivare il giudizio di opposizione, va osservato che la proposizione di opposizione alla convalida di sfratto determina il mutamento del rito con passaggio a giudizio a cognizione piena ove l’assetto processuale e l’interesse astratto ad agire delle parti andrà valutato secondo gli ordini criteri, avuto riguardo alle domande delle parti.

Si è dunque affermato che è il locatore, che ha introdotto il procedimento con rito sommario, ad avere interesse a coltivare la domanda, ove intenda ottenere accertamento nel merito dell’inadempimento del conduttore, onde ottenere sentenza che statuisca sulla l’intervenuta risoluzione e pronunci sulle spese; tali pronunce hanno rilevato come al convenuto opponente tale interesse possa riconoscersi solo ove lo stesso abbia, a propria volta, avanzato domanda riconvenzionale, di talchè abbia un effettivo ed autonomo interesse alla prosecuzione del giudizio (e, dunque, all’avveramento della condizione di procedibilità); ne consegue che, per parte della giurisprudenza di merito sul punto (Trib. Mantova 20.1.2015, Trib. Napoli 3.6.2015) le spese andrebbero poste a carico dell’intimante quale parte tecnicamente soccombente rispetto alla domanda inizialmente introdotta con rito sommario.

La tesi non appare tuttavia del tutto convincente, specie laddove sia stata emessa ordinanza di rilascio ex art 665 c.p.c.; tale provvedimento presuppone una sommaria delibazione del giudice sulla fondatezza delle ragioni delle parti, con positiva valutazione dei presupposti posti a fondamento della domanda attrice e con corrispondente 4 delibazione negativa in ordine alle ragioni poste a sostegno della opposizione: appare pertanto irragionevole condannare alle spese e ritenere soccombente tout court l’attore che abbia ottenuto un provvedimento favorevole e tendenzialmente stabile, relativamente alla domanda di rilascio, solo perché non ha dato corso a procedimento di mediazione; in tal caso costui potrebbe ragionevolmente ritenere di non aver interesse a proseguire il giudizio, sì che manterrà il provvedimento provvisorio assumendosi i relativi rischi circa la mancata pronuncia di sentenza sul merito e scegliendo di non vedersi liquidate le spese; mentre appare invece inutilmente gravatorio condannare addirittura alle spese di lite colui che – in prima battuta – appare meritevole di tutela provvisoria (arg. Tribunale Tribunale 17.11.2015 n. 21324) .

D’altro canto la circostanza che sia stata emesso l’ordinanza provvisoria di rilascio ex art 665 c.p.c. fa sorgere anche in capo al convenuto opponente l’interesse a coltivare il giudizio, al fine di pervenire ad una pronuncia di accoglimento della opposizione, che travolga nel merito il provvedimento interinale emanato dal giudice al termine della fase sommaria

Di tal chè, laddove sia stata emessa ordinanza provvisoria di rilascio, pare sussistere  interesse di entrambe le parti ad addivenire a pronuncia merito e, conseguentemente ,ad attivarsi affinché maturi  la condizione di procedibilità e possa pertanto applicarsi, in difetto di positiva condotta delle due parti, totale compensazione delle spese di lite: ( arg. Da Tribunale Pescara, 7 ottobre 2014).

Nel caso di specie va ancora rilevato che le conclusioni avanzate nella comparsa del convenuto del 12.7.2017 (essendo la prima, depositata all’udienza del 7.6.2017 in mero rito) contengono istanze che –seppur formulate in maniera sfumata e non espressamente qualificate come domande riconvenzionali – sono volte ad ottenere pronuncia sulla natura del contratto e la relativa simulazione nonché sulla restituzione delle somme relative alle opere compiute dal conduttore sul bene oggetto del contratto; e devono pertanto ritenersi autonome domande che, parimenti, fondano un interesse anche del convenuto alla prosecuzione del giudizio, ragione che vieppiù legittima la integrale compensazione delle spese”

© massimo ginesi

 

 

no alla mediazione obbligatoria per la nomina e la revoca giudiziale dell’amministratore?

E’ quanto sembra emergere da una recentissima pronuncia di legittimità (Cass.Civ. sez.  VI 18 gennaio 2018 n. 1237 rel. Scarpa) che, pur limitandosi agli aspetti procedurali della vicenda e dichiarando – per tali ragioni – inammissibile il ricorso, contiene un importante obiter dictum, che pare sconfessare alcune tendenze già emerse in pronunce di merito.

Il Tribunale di Padova 24.2.2015 e il Tribunale di Vasto 4.5.2017 hanno ritenuto che anche l’azione giudiziale volta alla nomina (o alla revoca) dell’amministratore dovesse sottostare alla obbligatoria condizione di procedibilità, prevista dall’art. 5 del D.lgs 28/2010.

La tesi dei giudici di merito appare assai poco convincente e frutto di un automatismo interpretativo non condivisibile.

Ampie riflessioni sulla inopportunità di procedere in tal modo sono state espresse, con larghezza di argomenti, anche in dottrina .

Oggi la Suprema Corte sembra avvallare la lettura negativa:  il giudice di legittimità si trova a valutare il ricorso avverso il provvedimento della corte di appello e risolve il problema dichiarando l’inammissibilità della impugnazione, trattandosi di provvedimento che è ricopribile per cassazione solo per la parte che attiene alle spese, secondo un consolidato orientamento.

La Corte d’Appello di Palermo ha aderito all’interpretazione del Tribunale, secondo cui il procedimento di mediazione obbligatoria è applicabile anche al giudizio di revoca dell’amministratore di condominio, nonostante si tratti di procedimento in camera di consiglio, stante la previsione dell’art. 71 quater disp. att. c.c.; ha quindi aggiunto che la mancata comparizione della ricorrente nell’incontro davanti al mediatore equivalesse a mancato avveramento della condizione di procedibilità”

Secondo consolidato orientamento di questa Corte, è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo avverso il decreto del tribunale in tema di revoca dell’amministratore di condominio, previsto dagli art. 1129 c.c. e 64 disp. att. c.c., trattandosi di provvedimento di volontaria giurisdizione; tale ricorso è, invece, ammissibile soltanto avverso la statuizione relativa alla condanna al pagamento delle spese del procedimento, concernendo posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo (Cass. Sez. 6 – 2, 23/06/2017, n. 15706; Cass. Sez. 6 – 2, 11/04/2017, n. 9348; Cass. Sez. 6 – 2, 27/02/2012, n. 2986; Cass. Sez. 6 – 2, 01/07/2011, n. 14524; Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957).

E’ dunque inammissibile la censura che E. B. rivolge al decreto impugnato, sotto forma di vizio in procedendo, diretta a sindacare la decisione sulla questione della soggezione del giudizio di revoca dell’amministratore di condominio al procedimento di mediazione ai sensi del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28.”

Risulta tuttavia di notevole interesse la riflessione che, comunque, la Corte compie in proposito: E’ vero infatti che l’art. 71-quater disp. att. c.c. (introdotto dalla I. 11 dicembre 2012, n. 220) precisa che per “controversie in materia di condominio”, ai sensi dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, si intendono, tra le altre, quelle degli articoli da 61 a 72 delle disposizioni per l’attuazione del codice (essendo l’art. 64 disp. att. c.c. relativo, appunto, alla revoca dell’amministratore).

Per contro, l’art. 5 comma 4, lett. f, (come sostituito dal d.l. n. 69/2013, conv. in I.n. 98/2013) del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28, è inequivoco nel disporre che il meccanismo della condizione di procedibilità, di cui ai commi 1-bis e 2, non si applica nei procedimenti in camera di consiglio, essendo proprio il giudizio di revoca dell’amministratore di condominio un procedimento camerale plurilaterale tipico.

Nell’interpretazione di questa Corte, di cui ai richiamati precedenti, si spiega, tuttavia, come il procedimento di revoca giudiziale dell’amministratore di condominio: 1) riveste un carattere eccezionale ed urgente, oltre che sostitutivo della volontà assembleare; 2) è ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, a fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore; 3) è perciò improntato a celerità, informalità ed ufficiosità; 4) non riveste, tuttavia, alcuna efficacia decisoria e lascia salva al mandatario revocato la facoltà di chiedere la tutela giurisdizionale del diritto provvisoriamente inciso, facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (pur non ponendosi questo come un riesame del decreto) (Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957; Cass. Sez. 6 – 2, 01/07/2011, n. 14524).

Pertanto, il decreto con cui la Corte d’Appello in sede di reclamo su provvedimento di revoca dell’amministratore di condominio, dichiari improcedibile la domanda per il mancato esperimento del procedimento di mediazione ex art. 5, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, comunque non costituisce “sentenza”, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 111, comma 7, Cost., essendo sprovvisto dei richiesti caratteri della definitività e decisorietà, in quanto non contiene alcun giudizio in merito ai fatti controversi, non pregiudica il diritto del condomino ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, né il diritto dell’amministratore allo svolgimento del suo incarico.

Trattasi, dunque, di provvedimento non suscettibile di acquisire forza di giudicato, a nulla rilevando la motivazione del ritenuto ostacolo pregiudiziale all’esame della domanda giudiziale, atteso che la pronuncia di improcedibilità, comunque motivata, resta pur sempre inserita in un provvedimento non decisorio sul rapporto sostanziale e non impugnabile, e non può pertanto costituire autonomo oggetto di impugnazione.

Il ricorso va perciò dichiarato inammissibile”

Insomma, la Corte non entra nel merito ritenendo sufficienti le ragioni processali per respingere l’impugnazione e, tuttavia, scrive nero su bianco che la condizione di procedibilità obbligatoria – costituita dalla mediazione – non si applica ai procedimenti camerali, di cui quello per la nomina o la revoca dell’amministratore costituiscono ipotesi tipica.

Chi ha orecchie per intendere, intenda…

© massimo ginesi 20 gennaio 2018

il decoro architettonico dell’edificio e la sua alterazione

Un condomino realizza sul proprio terreno, antistante l’edificio condominiale, una piattaforma di oltre trenta metri quadri,  dotata di ombrelloni posta  in adiacenza all’ingresso condominiale e ancorata alla facciata dell’edificio, tale da inserirsi  quindi nell’equilibrio architettonico del prospetto.

La Corte di appello di Roma ha ritenuto tale opera lesiva della simmetria del fabbricato e ne ha ordinato la rimozione.

La vicenda giunge al giudice di legittimità che – ritenendo corretto l’operato del giudice di merito – coglie l’occasione per ripercorrere la disciplina in tema di decoro del fabbricato, confermando principi ormai consolidati (Cass.Civ. VI sez. 18 gennaio 2018 n. 1235 rel. Scarpa) .

Osserva la Cassazione che “ai fini della tutela prevista dall’art. 1120 cod.civ.  in materia di divieto di innovazioni sulle parti comuni dell’edificio condominiale, non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall’innovazione, abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale decoro sia stato già gravemente ed evidentemente compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano alterate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità.

La tutela del decoro architettonico – di cui all’art. 1120 cod.civ. – attiene a tutto ciò che nell’edificio è visibile ed apprezzabile dall’esterno, posto che esso si riferisce alle linee essenziali del fabbricato, per cui il proprietario della singola unità immobiliare non può mai, senza autorizzazione del condominio, esercitare una autonoma facoltà di modificare quelle parti esterne, a prescindere da ogni considerazione sulla proprietà del suolo su cui venga realizzata l’opera innovativa (Cass. Sez. 2, 19/06/2009, n. 14455; Cass. Sez. 2,
14/12/2005, n. 27551; Cass. Sez. 2, 30/08/2004, n. 17398).

Si configura, in astratto, peraltro, non una violazione dell’art. 1120, comma 2, cod.civ.  (testo antecedente alle modifiche introdotte con la legge n. 220/2012, qui operante ratione temporis), ma dell’art. 1102 cod.civ., disposizione invero applicabile a tutte le innovazioni che, come nella specie, non comportano interventi approvati dall’assemblea e quindi spese ripartite fra tutti i condomini; dovendosi del pari riaffermare che, in tema di condominio, è illegittimo l’uso particolare o più intenso del bene comune, ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., ove si arrechi pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio condominiale (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712; Cass. Sez. 2, 22/08/2012, n. 14607).

Né, ai fini della verifica del danno estetico alla facciata dell’edificio condominiale, determinante agli effetti degli artt. 1102 e 1120 e.e., assume rilievo il fatto che la piattaforma sia stata realizzata “in aderenza” al muro comune.

Al riguardo, il ricorrente propone anche una questione di applicabilità dell’art. 877 cod.civ. , questione che però non viene affrontata nella sentenza impugnata, e che risulta quindi inammissibile in questa sede, non essendo stato indicato, ex art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., in quale atto del giudizio di merito essa venne posta, e trattandosi peraltro di questione di diritto implicante il necessario svolgimento di indagini ed accertamenti di fatto.

In ogni caso, per il giudizio sull’alterazione dello stile architettonico della parete esterna di un fabbricato condominiale, è privo di decisività il dato che il manufatto ivi realizzato si innesti nel muro comune o coesista con esso,rimanendone autonomo.

Del pari privo di significato determinante è che il manufatto non impedisse l’accesso allo stabile condominiale né la visibilità del suo numero civico (circostanze che la ricorrente assume nel suo quinto motivo come accertate in primo grado e non oggetto di specifica devoluzione al giudice d’appello, e perciò ormai coperte da giudicato), in quanto gli artt. 1120 e 1102 cod.civ.  individuano, quali limiti per la legittimità delle modificazione di uno stabile condominiale, la stabilità o la sicurezza del fabbricato, il decoro architettonico dell’edificio, appunto, nonché l’uso o il godimento delle parti comuni ad opera dei singoli condomini, limiti operanti, tuttavia, in via pure alternativa e non necessariamente concorrente.

Neppure è infine decisiva la doglianza sulla mancata specificazione della diminuzione di valore economico correlata alla modifica, in quanto, avendo la Corte d’Appello accertato una alterazione della fisionomia architettonica dell’edificio condominiale, per effetto della realizzazione di una piattaforma di oltre trenta metri quadrati ancorata alla facciata, il pregiudizio economico risulta conseguenza normalmente insita nella menomazione del decoro architettonico, che, costituendo una qualità del fabbricato, è tutelata – in quanto di per sé meritevole di salvaguardia – dalle norme che ne vietano l’alterazione (così Cass. Sez. 2, 31/03/2006, n. 7625; Cass. Sez. 2, 24/03/2004, n. 5899).”

© massimo ginesi 19 gennaio 2018