trascrizione ed opponibilità a terzi del trasferimento: quando nella nota mancano i dati catastali.

una ponderosa sentenza di legittimità (Cass.Civ.  sez. II 14 maggio 2018 n. 11687 rel. Scarpa) affronta una complessa e peculiare vicenda relativa alla opponibili ai creditori di un trasferimento immobiliare di un bene per il quale, al momento della cessione, era in corso variazione catastale.

Il bene era stato aggredito dai creditori e sia il Tribunale di Paola che la Corte di Appello di Catanzaro avevano respinto l’opposizione di terzo all’esecuzione, proposta da coloro che si ritenevano titolari del bene.

La Corte di Cassazione censura le valutazioni dei giudici di merito con ampia motivazione: “I due motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi, e si rivelano fondati. La Corte d’Appello di Catanzaro (avendo affermato che l’immobile, cui si riferiva il titolo della nota di trascrizione inerente alla donazione del 2 giugno 1989, non fosse sufficientemente identificato mediante il rinvio alla denuncia di variazione n. 6243/1985, attenendo tale denuncia “unicamente all’ampliamento della palazzina” e perciò occorrendo comunque l’indicazione dei dati catastali indicati nella formalità immediatamente precedente) ha deciso la questione di diritto in modo non conforme alla giurisprudenza di questa Corte, senza offrire in motivazione elementi idonei a mutare l’orientamento pure da essa richiamato.

Il precedente di questa Corte, citato nella stessa sentenza impugnata, affermava proprio che “per i fabbricati per i quali è stata presentata denuncia di variazione e ai quali il Catasto non ha ancora attribuito l’identificazione catastale definitiva, la mancata indicazione, nel Quadro B della nota compilata secondo i modelli approvati con Decreto Interministeriale 10 marzo 1995, dei dati catastali con i quali l’immobile era individuato nella formalità di trascrizione o iscrizione precedente, non incide sulla validità della trascrizione, allorché nella nota sia riportato il numero di protocollo della denuncia di variazione presentata per ciascun immobile” (Cass. Sez. 2, 19/10/2015, n. 21115).

Si ha riguardo, nella specie, a giudizio per opposizione di terzo, ex art. 619 c.p.c., proposto da M F F e B F, donatari degli immobili oggetto delle esecuzioni forzate promosse dalla Caricai s.p.a. e dal Banco di Napoli, i quali hanno dedotto di aver trascritto il 13 giugno 1989 il proprio titolo d’acquisto, costituito dalla donazione del 2 giugno 1989, anteriormente alla trascrizione dei pignoramenti eseguiti in danno della propria dante causa E. P., e fanno perciò valere il loro diritto di nuda proprietà sui beni in questione al fine di sottrarre gli stessi all’espropriazione.

E’ stato accertato in fatto, in particolare, che il bene donato consistesse in una palazzina di un solo piano con lastrico solare, sita in via G. di Tortora, località Impresa, composta da nove vani ed annesso garage ripostiglio.

Nella nota di trascrizione del 13 giugno 1989 l’immobile veniva descritto come non ancora rappresentato nel N.C.E.U. del Comune di Tortora, aggiungendosi, tuttavia, che erano state presentate le relative planimetrie in data 28 dicembre 1985 all’Ufficio Tecnico Erariale di Cosenza “con denuncia di variazione n. 6243/1985”.

La nota di trascrizione, pertanto, non riportava i nuovi dati catastali definitivi degli immobili, non ancora assegnati dai competenti uffici, ma indicava che era stata presentata denuncia di variazione.

La costante interpretazione degli artt. 2659 e 2665 c.c. conclude che, per stabilire se e in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci e di incertezze, gli estremi essenziali del negozio ed i beni ai quali esso si riferisce, in maniera che non sia nemmeno necessario esaminare il contenuto del titolo, il quale, insieme con la nota, viene depositato presso la Conservatoria dei registri immobiliari (cfr.Cass. Sez. 3, 31/08/2009, n. 18892; Cass. Sez. 2, 14/10/1991, n. 10774; anche Cass. Sez. 2, 07/06/2013, n. 14440).

In particolare, in virtù del richiamo alle indicazioni richieste dall’art. 2826 c.c. contenuto nell’art. 2659, comma 1, n. 4, c.c., alla nota di trascrizione è attribuita la funzione di consentire la inequivoca individuazione (oltre che del titolo trascritto e dei suoi estremi soggettivi, altresì) dei beni cui il titolo si riferisce, compresi proprio i dati di identificazione catastale, come espressamente voluto dall’art. 13 della legge 27 febbraio 1985, n. 52 (Cass. Sez. 2, 11/08/2005, n. 16853; Cass. Sez. 3, 08/03/2005, n. 5002; Cass. Sez. 3, 11/01/2005, n. 368).

La disciplina di riferimento è poi completata dall’appena richiamata legge 27 febbraio 1985, n. 52, la quale introdusse il sistema informatizzato di trascrizione basato su modelli standard di redazione delle note, specificati con d.m. 10 marzo 1994 ed illustrati nella Circolare del Ministero delle Finanze 128/T, recante le istruzioni per la relativa compilazione dei modelli.

Come già argomentava Cass. Sez. 2, 19/10/2015, n. 21115, tale Circolare del Ministero delle Finanze 128/T (dopo aver affermato al punto 2.3.4.1. che, per gli immobili aventi il codice di identificazione catastale definitivo, occorre indicare, negli appositi spazi del modello di nota, il foglio, la particella ed il subalterno), al punto 2.3.4.2.1., per i fabbricati in corso di accatastamento, ovvero, in particolare, per i fabbricati per i quali sia stata presentata denuncia di variazione ed ai quali il Catasto non abbia ancora attribuito l’identificazione catastale definitiva, richiede la descrizione degli immobili sulla nota “mediante l’indicazione del numero ed anno del protocollo ….della variazione”.

Per il periodo, allora, intercorrente fra la presentazione della denuncia di variazione e l’attribuzione della identificazione catastale definitiva, perché la nota di trascrizione adempia all’onere di contenuto di cui all’art. 2659, comma 1, n. 4, c.c., e così consenta di individuare gli estremi essenziali del bene al quale si riferisce il titolo, è dunque sufficiente l’indicazione del numero e dell’anno del protocollo della denuncia di variazione, senza che sia perciò comunque necessario, come sostenuto dalla Corte d’Appello di Catanzaro, riportare nell’apposito riquadro della medesima nota gli estremi identificativi dell’immobile nella formalità immediatamente precedente. 

Ciò a conferma di un’ancora più risalente interpretazione, secondo la quale, ai fini della trascrizione del bene alienato, l’indicazione del numero catastale e delle mappe censuarie è richiesta soltanto quando tali dati “esistono”, di tal che risultano soddisfatte le esigenze di individuazione del bene quando lo stesso sia sufficientemente individuato nel contratto (Cass. Sez. 2, 04/04/1981, n. 1914).

Siffatta interpretazione  trova conforto negli studi della dottrina, la quale osserva come nessuna norma vigente imponga che i dati catastali indicati nel titolo e nella nota di trascrizione siano già acquisiti al sistema della banca dati catastale. Questa conclusione è stata convalidata altresì alla luce della mancata emanazione del decreto ministeriale che, a norma dell’art. 9, comma 12, del d.l. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito con modificazioni in legge 26 febbraio 1994, n. 133, avrebbe dovuto segnare l’attivazione della completa automazione delle procedure di aggiornamento degli archivi catastali e delle conservatorie dei registri immobiliari, in maniera da consentire al conservatore di rifiutare, ai sensi dell’art. 2674 c.c., di ricevere note e titoli e di eseguire la trascrizione di atti tra vivi contenenti dati identificativi degli immobili oggetto di trasferimento o di costituzione di diritti reali, non conformi a quelli acquisiti al sistema alla data di redazione degli atti stessi, ovvero, nel caso di non aggiornamento dei dati catastali, di atti non conformi alle disposizioni contenute nelle norme di attuazione dell’art. 2, commi 1-quinquies e 1-septies del d.l. 23 gennaio 1993, n. 16, convertito dalla legge 24 marzo 1993, n. 75.

E’ quindi piuttosto possibile inserire nella parte libera della nota di trascrizione informazioni pure diverse dagli identificativi catastali (essenzialmente allorché tali dati non si rivelino idonei, come quando la porzione immobiliare non sia ultimata o non risulti ancora censita o frazionata in catasto), che possano tuttavia rivelarsi utili, in un regime di pubblicità immobiliare su base personale, ai fini dell’opponibilità a terzi, nonché della validità della formalità eseguita, in maniera da far prevalere le esigenze della circolazione rispetto a quelle, pure rilevanti, della compiuta identificazione dei cespiti.”

Il ricorso è dunque ascolto e la causa rinviata ad altra sezione della stessa corte di appello per un nuovo esame alla luce dei principi esposti.

© massimo ginesi 17 maggio 2018

 

art. 2051 cod.civ. e caduta: spetta all’agente porre attenzione a dove cammina.

 

L’art. 2051 cod.civ. non è il grimaldello per ottenere sempre e comunque un risarcimento per danni occorsi in seguito a cadute accidentali, anche se nei Tribunali continuano ad abbondare controversie promosse da soggetti che asseriscono di essere inciampati in un gradino troppo alto oppure di essere scivolati nel vialetto condominiale in un giorno di pioggia.

Il primo caso è affrontato da Tribunale Massa 16 maggio 2018 e il secondo da Tribunale Pordenone 5 aprile 2018.

Due sentenze che pongono l’accento su un principio  consolidato nella giurisprudenza di legittimità: deve essere dimostrato il nesso causale fra la cosa oggetto di custodia e l’evento e , soprattutto, la condotta colposa dell’agente integra il caso fortuito idonea ad interromperlo.

Insomma vale il vecchio adagio di guardare bene dove si posano i piedi, perché solo ciò che non è prevedibile con l’ordinaria diligenza o contiene comunque una intrinseca insidiosità può costringere il custode a risarcire il danno.

A proposito della caduta sul vialetto bagnato dalla pioggia il tribunale friulano  afferma che : “In caso analogo a quello per cui è causa condivisibile giurisprudenza ha ritenuto che: “In tema di danno causato da cose in custodia, costituisce circostanza idonea ad interrompere il nesso causale e, di conseguenza, ad escludere la responsabilità del custode di cui all’art. 2051 cod. civ., il fatto della vittima la quale, non prestando attenzione al proprio incedere, in un luogo normalmente illuminato, inciampi in una pedana (oggettivamente percepibile) destinata all’esposizione della merce all’interno di un esercizio commerciale, con successiva sua caduta, riconducendosi in tal caso la determinazione dell’evento dannoso ad una sua esclusiva condotta colposa configurante un idoneo caso fortuito escludente la suddetta responsabilità del custode” (Cass. 993/2009).

Nel caso di specie il sig. B. afferma di essere caduto nel vialetto del Condominio in cui risiedeva già da quattro mesi, sicché deve ritenersi che lo stesso fosse a conoscenza sia dello stato dei luoghi che della asserita “pericolosità” degli stessi in caso di precipitazioni piovose.

Il B., pertanto, consapevole delle condizioni metereologiche e del contesto in cui si inseriva il vialetto e considerate le caratteristiche esteriori dello stesso (l’incidente si sarebbe verificato, secondo quanto allegato, in pieno giorno e con condizioni di visibilità ottimali), avrebbe dovuto prestare particolare attenzione alla pavimentazione bagnata e prevedibilmente scivolosa.”

Per ciò che invece attiene alla caduta dovuta ad un gradino di diversa altezza il tribunale apuano rileva che: “Lo stato dei luoghi oggetto di causa è raffigurato da alcune fotografie, che peraltro rappresentano la scalinata della piscina comunale che non nasconde insidia di sorta, che è perfettamente visibile a chi la percorre e che – tuttavia – è ritenuta dalla attrice quale elemento generatore di danno per la differente altezza del suo ultimo gradino, su cui ella stessa  asserisce di essere caduta.

Già tali elementi, in ossequio alla copiosa giurisprudenza sul punto (ampiamente richiamata dal convenuto nella propria difesa finale), consentono di escludere qualunque responsabilità dell’Ente proprietario dell’impianto, poiché non vi è dubbio che è onere del soggetto che percorra un tracciato perfettamente visibile adeguare il proprio passo alle caratteristiche del terreno: appare quantomeno bizzarro sostenere che la caduta sia ascrivibile alle caratteristiche del bene quando un utente mediamente accorto e diligente avrebbe semplicemente adeguato il proprio passo all’ostacolo concreto da superare, né si può ritenere che l’attrice si muovesse con una sorta di camminata presuntiva, sulla scorta dell’altezza degli scalini precedentemente superati, poiché era suo ovvio e intuitivo onere valutare il terreno dinanzi a sè e adeguare allo stesso la propria camminata. ..

La caduta, stando così i fatti e alla luce di quanto testè evidenziato, pare dunque ascrivibile ad una mancata attenzione o ad una inadeguata condotta in capo alla attrice.

In ogni caso, come si è rilevato, i testi non descrivono il dinamismo della caduta, hanno solo riferito di aver visto (o addirittura sentito) cadere la L. e di aver poi verificato che in quel punto vi è un gradino di diversa altezza, sicchè difetta anche prova adeguata sul nesso fra bene ed evento: su caso del tutto analogo, Cassazione Civile, sez. III, sentenza 21/03/2013 n° 7112…

Quel nesso tuttavia ben può essere mitigato, sino ad eliderlo completamente, dalla concorrente  responsabilità dell’agente, condotta che laddove risulti  idonea – come nel caso di specie – ad essere da sola causa dell’evento, esclude la responsabilità del custode

L’elemento selettivo in base al quale limitare la portata dell’art. 2051 c.c. riguarda pertanto, esclusivamente, il nesso di causalità, essendo estraneo alla natura dell’imputazione il profilo del comportamento del custode.

Tuttavia, la prova del nesso causale si presenta particolarmente delicata nei casi in cui il danno non sia l’effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento (ad es. scoppio della caldaia, frana della strada etc.), ma richieda che al modo di essere della cosa si unisca l’agire umano ed in particolare quello del danneggiato, essendo essa di per sè statica ed inerte (cfr. Cass. 29.11.2006, n. 25243); pertanto, la buca nella strada, il tombino sporgente, il dislivello delle pertinenze stradali et similia non manifestano di per sè soli il collegamento causale – necessario ed ineliminabile – con la caduta del passante, ove questi non provi che lo stato dei luoghi presentava un’obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, la caduta.

In ipotesi di tal fatta, risultano dunque necessari ulteriori accertamenti quali la maggiore o minore facilità di evitare l’ostacolo, il grado di attenzione richiesto ed ogni altra circostanza idonea a stabilire se effettivamente la cosa avesse una potenzialità dannosa intrinseca, tale da giustificare l’oggettiva responsabilità del custode (cfr. Cass. 5.2.2013, n. 2660). Del resto, anche in relazione all’ipotesi di responsabilità gravante sul custode, la giurisprudenza ha più volte precisato che il comportamento colposo del danneggiato può – secondo un ordine crescente di gravità – atteggiarsi come concorso causale colposo, valutabile ai sensi dell’art. 1227 co. 1 c.c., ovvero addirittura giungere ad escludere del tutto la responsabilità del custode” (Tribunale Massa 16.6.2016 n. 623)”

© massimo ginesi 16 maggio 2018

 

casa di riposo in condominio: non è consentita se il regolamento vieta usi diversi dalla civile abitazione.

Il termine civile abitazione contenuto nei regolamenti condominiali di natura contrattuale, con ogni evidenza volto a impedire quelle attività che possano recare disturbo alla quiete dell’edificio, è inteso in senso decisamente ampio dalla giurisprudenza.

E’ noto l’orientamento in tema di bed&breakfast, oggi la Suprema Corte (Cass.Civ. sez.VI-2 14 maggio 2018 n. 11609 rel. Scarpa) si occupa invece di casa di ricovero  per anziani, con una sentenza che – pur ribadendo l’esclusiva competenza del giudice di merito nella interpretazione delle clausole regolamentari – apre interessanti spiragli sulla accezione “civile abitazione ” e sulla sua compatibilità con le destinazioni delle unità poste in condominio.

“Il Tribunale di Catania, sezione distaccata di Giarre, accolse la domanda del Condominio di via T…. 9, Giarre, contenuta nelle citazioni del 2 e del 13 settembre 2011 e volta alla cessazione dell’attività di comunità alloggio per anziani svolta da P. P. e dalla Cooperativa A. nelle rispettive unità immobiliari site nell’edificio condominiale, perché contrastante con la clausola n. 32 del regolamento di condominio. Tale clausola contempla, fra l’altro, l’obbligo di destinare gli appartamenti ad uso di civile abitazione o di studi o uffici professionali privati, nonché il divieto di adibire gli stessi a stanze ammobiliate d’affitto, pensioni e locande.

La Corte d’Appello ha così ritenuto non consentita l’attività di accoglienza per anziani esercitata da P. P. e dalla Cooperativa A., trattandosi di struttura ricettiva socio assistenziale qualificabile come di tipo residenziale (e non di civile abitazione), ovvero di un “pensionato”

 

Osserva in proposito la corte di legittimità, cui hanno fatto ricorso gli esercenti la casa di riposo:“Le medesime ricorrenti lamentano l’errore della Corte d’Appello di Catania, avendo la stessa operato un’interpretazione analogica, o estensiva, dell’art. 32 del regolamento condominiale, finendo per vietare l’attività di comunità alloggio per anziani espressamente prevista dalla normativa regionale siciliana. E’ tuttavia da ribadire come l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi, è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393).

Nella specie, l’interpretazione dell’art. 32 del regolamento del Condominio di via T….9, Giarre, non rivela le denunciate violazioni dei canoni di ermeneutica.

In particolare, l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente la prescrizione di adibire gli appartamenti ad uso di civile abitazione o di studi o uffici professionali privati, nonché il divieto di destinare gli stessi a stanze ammobiliate d’affitto, pensioni e locande, come intesa a consentire le sole abitazioni private, e non anche l’uso ad abitazioni collettive di carattere stabile, ivi comprese le residenze assistenziali rivolte agli anziani, in forma di case di riposo, case famiglia o anche comunità alloggio, non risulta né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l’intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’intepretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica possibile, né la migliore in astratto.

Il dato che le comunità alloggio per anziani debbano possedere i requisiti edilizi previsti proprio per gli alloggi destinati a civile abitazione non contrasta con la diversa considerazione che le medesime comunità alloggio si connotano come strutture a ciclo residenziale, le quali prestano servizi socioassistenziali ed erogano prestazioni di carattere alberghiero.”

© massimo ginesi 14 maggio 2018

avviso di convocazione dell’assemblea: dopo la riforma può essere solo formale.

Lo afferma Cass.Civ. sez.II ord. 7 maggio 2018 n. 10866, con riferimento alla prassi di immettere una copia dell’avviso nelle cassette dei condomini, ritenuta ammissibile solo con riferimento a condotte avvenute antecedentemente alla entrata in vigore della L. 220/2012.

Appare opportuno osservare che ratione temporis la fattispecie in esame va riferita alla normativa precedente alla L. n. 220 del 2012, (riforma del condominio) e cioè all’art. 1136 c.c., nella sua versione precedente alla riforma del condominio, e, comunque, ai principi espressi da questa Corte in materia.

Incidentalmente va detto che a norma dell’art. 66 disp. att. c.c., comma 3, così come modificato dalla L. n. 220 del 2012 (la così detta riforma del condominio) l’avviso di convocazione, contenente specifica indicazione dell’ordine del giorno, deve essere comunicato almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza in prima convocazione, a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, e deve contenere l’indicazione del luogo e dell’ora della riunione.

Prima di questa riforma. era orientamento pacifico in dottrina ed in giurisprudenza che ” in tema di condominio degli edifici, non è previsto alcun obbligo di forma per l’avviso di convocazione dell’assemblea, sicchè la comunicazione può essere fatta anche oralmente, in base al principio della libertà delle forme, salvo che il regolamento prescriva particolari modalità di notifica del detto avviso”.

Tuttavia, con l’ulteriore specificazione che l’eventuale previsione regolamentare in ordine alla forma della convocazione dei condomini all’assemblea condominiale, trattandosi di prescrizione a contenuto organizzativo, ovvero, propriamente “regolamentare”, poteva essere modificata ed anche per “facta concludentia” cioè, per una prassi seguita dagli amministratori del condominio.

D’altra parte, come è opinione della stessa giurisprudenza di questa Corte, la prescrizione regolamentare, per così dire, organizzativa, (e, non quindi, di contenuto contrattuale, ovvero, incidente sulla proprietà dei beni comuni o esclusivi), va interpretata ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, anche alla luce del comportamento posteriore avuto dai condomini al medesimo regolamento.

Correttamente, dunque, la Corte di Appello di Lecce ha ritenuto legittima la convocazione dei condomini mediante avviso immesso presso la cassetta postale dei singoli condomini posto che tale modalità di convocazione era la prassi seguita dagli amministratori del Condominio nonostante l’art. 14 del Regolamento condominiale prevedesse che la convocazione fosse effettuata mediante lettera raccomandata. “(…) Orbene, chiarisce la sentenza, non è stata contestata la prassi seguita dagli amministratori del condominio de quo di convocare le assemblee condominiali mediante avviso immesso presso la cassetta postale dei singoli condomini (…)”.

© massimo ginesi 11 maggio 2018

scivolata sulle scale condominiali: compete al danneggiato la prova del nesso di causalità.

Il condominio è custode dei beni comuni e risponde ai sensi dell’art. 2051 cod.civ. dei danni che derivino da tali beni; la norma prevede notoriamente un’inversione dell’onere della prova, sì che sarà il custode a dover dimostrare di aver fatto tutto quanto in proprio potere per evitare il danno (il.c.d. fortuito).

Rimane tuttavia in capo al danneggiato l’onere di provare il nesso  di causa fra il bene e il danno lamentato: in forza di tale principio la suprema corte (Cass.Civ. Sez. VI 8 maggio 2018 n. 10986) ha respinto il ricorso di un condomino che assumeva di aver subito lesioni in conseguenza di una caduta nelle scale condominiali, dovuta alla presenza di sostanza oleosa sui gradini, poichè risultava che lo stesso stesse percorrendo le medesime con entrambe le mani occupate dalle borse della spesa, adottando dunque  una condotta colposa che si inserisce quale elemento interruttivo del nesso causale fra la res e l’evento.

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© massimo ginesi 10 maggio 2018

 

inagibilità dell’appartamento, esonero dalle spese di riscaldamento ed interpretazione del regolamento contrattuale.

Un caso peculiare impegna i giudici di legittimità, chiamati a verificare le modalità di interpretazione di un regolamento contrattuale alla luce del mancato utilizzo di una unità abitativa per un apprezzabile lasso di tempo.

Cass.Civ.  sez. VI 3 maggio 2018, n. 10478 richiama gli ordinari canoni di interpretazione del contratto per verificare l’effettiva portata di clausole regolamentari di natura convenzionale, mettendo in luce come la ratio delle clausole regolamentari debba essere intesa in ottica ampia e complessiva e non alla luce del significato circoscritto della singola disposizione.

Nel caso in esame il regolamento prevedeva due norme distinte: l’una che , in caso di temporanea inagibilità del bene individuale, prevedeva una riduzione delle spese del 50% e l’altra che, viceversa, impediva al singolo di sottrarsi alla contribuzione in caso di omessa costante  utilizzazione del bene (disposizione peraltro in linea con quanto disposto dall’art. 1118 cod.civ.)

Nel caso di specie accade che “C.G. impugnava davanti al Tribunale di Roma la delibera del 14.10.2010 del Condominio (omissis) con cui erano stati approvati il bilancio consuntivo del 2009 e il bilancio preventivo del 2010, relativamente alle spese di riscaldamento e ad altri oneri condominiali. Affermava che, a seguito di un incendio sviluppatosi nell’appartamento di sua proprietà in data 19.04.2005, il Comando dei VV.FF. aveva dichiarato l’appartamento inagibile sino al ripristino delle condizioni di sicurezza, sicché aveva diritto alla riduzione del 50% della quota inerente alle spese di riscaldamento, come previsto dall’art. 5 del regolamento condominiale”

Il Tribunale di Roma accoglie la domanda e  la Corte d’Appello capitolina respinge la successiva impugnazione del Condominio, che ricorre in cassazione.

Il giudice di legittimità osserva che “Il Condominio lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto l’inagibilità dell’appartamento temporanea e dipendente dall’incendio.
La Corte d’appello ha ritenuto la fattispecie inquadrabile nell’art. 5 del regolamento condominiale secondo cui “se un’unità rimanesse disabitata durante il periodo invernale per un periodo superiore a due mesi il condomino interessato potrà ottenere una riduzione del 50 % della quota a suo carico facendone richiesta con lettera raccomandata chiudendo i corpi radianti e facendolo constatare all’amministrazione o a un suo incaricato”.
Secondo il Condominio tale disposizione andava coordinata con l’art. 13 del regolamento, secondo cui “nessun condomino può sottrarsi al pagamento della quota parte di spese che gli compete, nemmeno mediante abbandono o rinunzia delle proprietà comuni”.
Parte ricorrente sostiene che secondo una valutazione alla luce del principio di buona fede contrattuale la persistente mancata riattivazione dell’impianto di riscaldamento aveva mutato l’iniziale temporaneità dell’inagibilità in inagibilità permanente, tale da integrare “abbandono… delle cose comuni” ai sensi dell’art. 13 del regolamento e non temporanea inagibilità ai sensi dell’art. 5 del medesimo atto.
Parte ricorrente sostiene, in definitiva, che le disposizioni del regolamento condominiale e, in particolare, l’art. 5 e l’art. 13 dovevano essere interpretate in modo sistematico alla stregua dei canoni di ermeneutica contrattuale ex artt. 1362 e 1363 c.c..

Con il secondo mezzo, il Condominio deduce la violazione degli artt. 281 sexies, 132 n. 4 e 277, comma 1, c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c..

La Corte d’appello avrebbe omesso di confrontarsi con la circostanza della inagibilità permanente per scelta del condomino, obliterando così la valutazione su tale specifico punto.

I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro attinenza alla medesima problematica interpretativa del regolamento condominiale, sono fondati nei termini che seguono.

In tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 cod. civ. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. nn. 14460/2011;4670/09, 18180/07, 4176/07 e 28479/05).

Di qui l’erroneità dell’esegesi fissata esclusivamente su di una singola parola o frase, astratta dal resto della stessa o di altre clausole del contratto, cui pure deve applicarsi il medesimo canone interpretativo.

Nello specifico la sentenza impugnata ha adoperato in modo non conforme agli enunciati anzidetti i canoni ermeneutici dell’interpretazione complessiva della clausole (1363 c.c.) e dell’interpretazione secondo l’intenzione delle parti contraenti (art. 1362 c.c.).

L’interpretazione isolata dell’art. 5 del regolamento conduce a qualificare erroneamente il caso di specie come provvisoria sospensione dell’utilizzo dell’impianto di riscaldamento.

Dal complesso delle clausole contrattuali, artt. 5 e 13 del regolamento, raccordate tra loro, si evince chiaramente che lo scopo delle previsioni era nel senso di tutelare il singolo condomino in caso di temporaneo non utilizzo dell’impianto e, al contempo, salvaguardare le ragioni del Condominio da una eventuale mancata contribuzione alle spese condominiali per una scelta prolungata, si potrebbe dire “strutturale”, della proprietà quale l’abbandono o la rinuncia alla proprietà comune di un impianto.

In tale prospettiva, risulta operazione contraria alle regole di ermeneutica contrattuale sancite dagli artt. 1362 e 1363 c.c. ricondurre il caso in esame all’ambito di applicazione dell’art. 5 del regolamento condominiale, quando in base ai fatti accertati nei giudizi di merito, risultava all’evidenza integrata l’ipotesi contemplata dall’art. 13.

In tale operazione di qualificazione giuridica e esegesi sistematica occorreva tenere conto del fatto per cui la mancata riattivazione dell’impianto, perdurante nel tempo già per quattro anni al momento della delibera, alla stregua del principio di buona fede contrattuale, mutava l’iniziale situazione di temporaneità dell’inagibilità in inagibilità permanente.

Il limite alla qualificabilità di una sospensione temporanea con pagamento ridotto ex art. 5 Reg., era da trarre dalla connessione con l’art. 13 che negava la facoltà di trasformare la transitorietà di utilizzo in condizione permanente di esonero totale dal pagamento, tale da integrare “abbandono… delle cose comuni”.

Significativamente il ricorso evidenzia che in citazione la richiesta principale del condomino era di esonero totale ex art. 13, circostanza che è verificabile perché emerge dalla sentenza del tribunale 10 ottobre 2013.

Il tutto trova conferma anche nel comportamento complessivo tenuto posteriormente dal condomino. Condotta rilevante ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c..

A tal proposito, parte ricorrente deduce che già in appello aveva denunciato il fatto che dopo otto anni dal risarcimento assicurativo l’appartamento era ancora disusato per scelta, sicché se l’iniziale inagibilità non era imputabile al C. , non altrettanto poteva dirsi a seguito del risarcimento del danno che lo metteva nella condizione di ripristinare l’agibilità dell’appartamento.

Simile circostanza, acclarata nella sentenza di secondo grado, riscontra che già nel 2009 il comportamento di mancato ripristino dell’impianto equivaleva ad abbandono o rinunzia, con conseguente applicabilità dell’art. 13 del regolamento condominiale, nel cui perimetro ricade la fattispecie in esame.”

© massimo ginesi 7 maggio 2018 

lastrico solare di proprietà esclusiva o condominiale: l’accertamento della sua natura pertinenziale rispetto ad una unità individuale.

 

Ove il titolo non disponga espressamente circa la proprità di un lastrico solare, il giudice di merito, onde accertarne la natura condominiale verificare se – viceversa – sia attribuibile ad un condomino in via esclsuiva, deve compiere un accertamento di fatto volto a verificre se tale bene possa essere identificato come pertinenza dell’immobile di proprità del condomino che ne rivendica la titolarità.

E’ quanto afferma Cass.civ. sez. VI ord. 2 maggio 2018 n. 10411, sottolineando come la pertinenza debba configurarsi quale bene accessorio, destinato ad arrecare utilità al bene principale e non al suo propritario: osserva la corte che il giudice di secondo grado

 

operazione ermeneutica che appare perfettamente in liena con la consolidata giurisprudenza di legittimità:

© massimo ginesi 3 maggio 2018