niente bed & breakfast se il regolamento vieta attività commerciali

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  ord. 7 ottobre 2020 n. 21562), con pronuncia particolare  e che pare apparentemente porsi in contrasto con precedente orientamento, afferma che l’attività di affittacamere deve ritenersi vietata nel condominio in cui il regolamento di natura contrattuale vieti la destinazione di unità immobiliari ad esercizio commerciale.

La pronuncia trae spunto dalla peculiare motivazione con cui il giudice di merito aveva accolto la domanda e – per le motivazioni addotte – pare in realtà assai più convincente delle precedenti che riconducevano l’attività al perimetro della civile abitazione, consentendone l’esercizio anche in quei fabbricati in cui era vietata la destinazione degli appartamenti ad esercizi commerciali: non vi è dubbio che tale attività ricettiva finisca per introdurre nel contesto condominiali parametri di frequentazione del tutto diversi dalla civile abitazione e decisamente assimilabili, ormai, per estensione e diffusione nelle località turistiche, a quelle delle attività alberghiere.

-la corte d’appello ha riconosciuto che l’attività svolta nell’unità immobiliare era contraria alla previsione del regolamento condominiale alla stregua di una valutazione oggettiva, condotta esclusivamente in base al confronto fra la stessa attività e la previsione regolamentare;
– è evidente che la teorica conformità al regolamento condominiale dell’uso dichiarato nel contratto di locazione non esclude che il regolamento possa poi essere di fatto ugualmente violato;

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-l’art. 28 del regolamento Condominiale dispone: “gli appartamenti potranno essere destinati esclusivamente a civili abitazioni, studi o gabinetti professionali, restando espressamente vietati destinazioni e uso ad esercizio o ufficio industriale o commerciale, a uffici pubblici, dispensari sanatori, case di salute di qualsiasi genere, gabinetti per cure di malattie infettive, contagiose o ripugnanti, ad agenzie di qualunque specie, a ufficio depositi di pompe funebri, a ufficio di collocamento, ristoranti, cinematografi, magazzini, scuole di qualunque specie, chiese, accademie (..).”;
– la ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la destinazione per civile abitazione prevista dalla norma regolamentare è pienamente compatibile con l’attività di affittacamere, costituendone anzi un suo presupposto (Cass. n. 24707/2014; n. 16972/2015);
– il rilievo non tiene conto che la corte d’appello ha riconosciuto la violazione del regolamento condominiale anche in base a un argomento diverso e ulteriore rispetto a quello addotto dal giudice di primo grado;
– secondo il tribunale il riferimento all’espressione “uso abitativo” sottintendeva l’utilizzo dell’immobile come dimora stabile e abituale, con esclusione della prestazione di alloggio per periodi più o meno brevi in vista del soddisfacimento di esigenze abitative di carattere transitorio;
– la corte d’appello ha seguito una logica diversa;
-ciò che rende l’attività ricompresa fra le attività vietate è il suo caratterizzarsi quale attività commerciale, assimilabile a quella alberghiera, “esplicantesi a scopo di lucro da parte di società di capitali mediante la prestazione sul mercato di alloggio dietro corrispettivo per periodi più o meno brevi”;
-una simile attività, secondo la corte d’appello, è in contrasto con l’art. 28, “essendo tale destinazione commerciale incompatibile con l’uso abitativo ed espressamente vietata”;
– la ricorrente pretende di riferire il divieto di svolgere attività commerciali a quelle attività espressamente vietate dalla norma del regolamento;
-secondo la ricorrente, il “divieto di destinazioni e uso ad esercizio o ufficio industriale o commerciale” non avrebbe quindi alcuna autonomia, ma introdurrebbe l’esemplificazione proposta di seguito dalla norma regolamentare, mentre ogni altra e diversa attività commerciale dovrebbe ritenersi lecita;
– così identificato l’autentico significato della censura è chiaro che il problema che si pone nel caso in esame è un problema squisitamente interpretativo della previsione regolamentare, laddove fa divieto di destinare gli appartamenti “ad esercizio o ufficio industriali o commerciale”;
– è pacifico che l’interpretazione del regolamento condominiale integra un giudizio di fatto, rimesso alla competenza esclusiva del giudice di merito; – al pari di qualsiasi giudizio di fatto è soggetto, in sede di cassazione, a controllo, e quindi a censura, non per la sua sostanziale esattezza o erroneità, da verificarsi in base a rinnovata interpretazione della dichiarazione considerata, bensì soltanto per ciò che attiene alla sua legittimità, e cioè alla conformità a legge dei criteri ai quali è adeguato e alla compiutezza, coerenza e conformità a legge della giustificazione datavi (Cass. n. 5393/1999; n. 9355/2000; n. 20712/2017);
– la corte di merito ha riconosciuto che il divieto di svolgere attività commerciali, posto dal regolamento, si riferiva alle attività suscettibili di essere considerati tali secondo il significato giuridico della espressione, così attribuendo al divieto un ambito di applicazione specifico e autonomo e non meramente introduttivo della susseguente elencazione di specifiche attività vietate;
-tale rilievo, di per sé, non rileva errori giuridici o vizi logici, tenuto conto che il divieto di attività commerciali e i divieti susseguenti sono posti letteralmente sullo stesso piano (restando espressamente vietati destinazioni e uso ad esercizio o ufficio industriale o commerciale, a uffici pubblici, dispensari sanatori, case di salute di qualsiasi genere (…)) e che, fra le specifiche attività oggetto di espresso divieto, ve ne sono alcune che non hanno certamente carattere commerciale: uffici pubblici, uffici di collocamento, chiese, accademie;
-d’altronde il ricorrente censura tale interpretazione ma non indica il canone ermeneutico in concreto violato, risolvendosi la censura nella proposta di una diversa interpretazione del regolamento, inammissibile in questa sede (Cass. n. 641/2003; n. 11613/2004);
-ciò posto la seconda considerazione da farsi è che la assimilazione dell’attività di affittacamere a quella imprenditoriale alberghiera, proposta dalla corte d’appello, è coerente con la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale “tale attività, pur differenziandosi da quella alberghiera per sue modeste dimensioni, presenta natura a quest’ultima analoga, comportando, non diversamente da un albergo, un’attività imprenditoriale, un’azienda ed il contatto diretto con il pubblico”;
-essa, infatti, richiede non solo la cessione in godimento del locale ammobiliato e provvisto delle necessarie somministrazioni (luce, acqua, ecc.), ma anche la prestazione di servizi personali, quali il riassetto del locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da bagno (Cass. n. 704/2015);
– il ricorrente richiama il Regolamento n. 8 della Regione Lazio del 7 agosto 2015, in base al quale gli appartamenti da destinare a affittacamere non sono soggetti a cambio di destinazione d’uso a fini urbanistici;
– neanche tale richiamo è idoneo a rilevare un errore della corte d’appello nella riconduzione dell’attività svolta dalla conduttrice a quelle commerciali vietate dal regolamento, posto che la stessa previsione regionale, invocata dalla ricorrente, definisce l’affittacamere come “strutture gestite in forma imprenditoriale” (art. 4);
– insomma, rinterpretazione del regolamento contrattuale di condominio, operata nel caso di specie da parte del giudice del merito, non rileva nel suo complesso errori giuridici o vizi logici: essa è perciò insindacabile in questa sede (Cass. n- 17893/2009; n. 1306/2007)”

© massimo ginesi 13 ottobre 2020

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