vietato scavare nel sottosuolo condominiale, che è comune ex art 1117 c.c.

La suprema corte (Cass.civ. sez. VI  ord. 18 novembre 2019 n. 29925 rel. Scarpa)  ribadisce orientamento consolidato: “L’art. 1117 c.c., ricomprende fra le parti comuni del condominio “il suolo su cui sorge l’edificio“.

Oggetto di proprietà comune, agli effetti dell’art. 1117 c.c., è, quindi, non solo la superficie a livello del piano di campagna, bensì tutta quella porzione del terreno su cui viene a poggiare l’intero fabbricato e dunque immediatamente pure la parte sottostante di esso.

Il termine “suolo”, adoperato dall’art. 1117 cit., assume, invero, un significato diverso e più ampio di quello supposto dall’art. 840 c.c., dove esso indica soltanto la superficie esposta all’aria.

Piuttosto, l’art. 1117 c.c., letto sistematicamente con l’art. 840 del codice cit., implica che il sottosuolo, costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio (seppure non menzionato espressamente dall’elencazione esemplificativa fatta dalla prima di tali disposizioni), va considerato di proprietà condominiale, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini.

Pertanto, nessun condomino può, senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione, procedere all’escavazione in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, verrebbe a ledere il diritto di proprietà degli altri partecipanti su una parte comune dell’edificio, privandoli dell’uso e del godimento ad essa pertinenti (Cass. 30 marzo 2016, n. 6154; Cass. 13 luglio 2011, n. 15383; Cass. 2 marzo 2010, n. 4965; Cass. 24 ottobre 2006, n. 22835; Cass. 27 luglio 2006, n. 17141; Cass. 9 marzo 2006, n. 5085; Cass. 28 aprile 2004, n. 8119; Cass. 18 marzo 1996, n. 2295; Cass. 23 dicembre 1994, n. 11138; Cass. 11 novembre 1986, n. 6587).

La condotta del condomino che, senza il consenso degli altri partecipanti, proceda a scavi in profondità del sottosuolo, acquisendone la proprietà, finisce, in pratica, con l’attrarre la cosa comune nell’ambito della disponibilità esclusiva di quello.
La Corte d’Appello di Genova ha valutato l’illegittimità dello scavo eseguito dalla F. non con riferimento ad una ipotizzata alterazione della destinazione del bene (sicché non ha rilievo invocare la verifica sotto il punto di vista della funzione di sostegno alla stabilità dell’edificio, o dell’idoneità dell’intervento a pregiudicare l’interesse degli altri condomini al pari uso della cosa comune, su cui si veda, ad esempio, Cass. 22 settembre 2014, n. 19915), quanto alla stregua della consistenza in sé dello scavo (55-60 centimetri di abbassamento del livello del pavimento).

Ciò ha dato luogo, stando al giudizio di fatto sul punto formulato dai giudici del merito – che non è sindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 -, ad un’appropriazione di una porzione rilevante del sottosuolo, che ha comportato una modifica significativa del bene condominiale, in rapporto alla sua estensione e alla destinazione della modifica stessa, e che perciò non si può spiegare soltanto come modalità di uso più intenso della cosa comune da parte del condomino, in prospettiva di migliore godimento della unità immobiliare di proprietà esclusiva.”

© massimo ginesi 20 novembre 2019  

marzo 2016 – niente talpe in condominio, il sottosuolo è comune

Ai sensi dell’art. 1117 c.c., il sottosuolo, da intendersi quale zona esistente in profondità al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio, va considerato di proprietà condominiale. Non è permesso, pertanto, ad alcun condòmino appropriarsi del bene in questione (come nella specie, eseguendo uno scavo) privandone gli altri condòmini di pari possibilità, anche solo teorica, di utilizzo.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 11 febbraio – 30 marzo 2016, n. 6154
Presidente Mazzacane – Relatore Scarpa

Una sentenza ineccepibile, a firma di un relatore noto e illustre a cui vanno i nostri migliori auguri di buon lavoro quale giudice di legittimità: la chiarezza e nettezza della motivazione merita di riportarla senza commenti ulteriori, poiché delinea con grande nitidezza sia il fatto che il diritto: “Dall’esame del regolamento di condominio e dalla destinazione funzionale del terreno in oggetto, posto in rapporto di strumentalità col fabbricato principale, la Corte di Milano ha ricavato, “ad colorandam possessionem”, l’inclusione dello stesso fra le parti comuni dell’edificio ex art. 1117 c.c., così accertando che le denunciate utilizzazioni da parte della società R.G. & c. eccedessero i limiti segnati dalle concorrenti facoltà dei condomini compossessori. In base all’art. 1117 c.c., infatti, l’estensione della proprietà condominiale ad un immobile, quale quello oggetto di lite, che appare come corpo di fabbrica separato rispetto all’edificio in cui ha sede il condominio, può essere giustificata soltanto in ragione di un titolo idoneo a far ricomprendere il relativo manufatto nella proprietà del condominio stesso (avendo la Corte di merito inteso come tale il regolamento di condominio richiamato nell’atto di acquisto dei danti causa di Locat S.p.a.), qualificando espressamente tale bene come ad esso appartenente (articoli 1 e 2 del citato Regolamento). D’altro canto, la norma regolamentare che ricomprende nella proprietà comune “il terreno sul quale sorgono gli edifici” appare mera riproduzione della regola attributiva dell’art. 1117 c.c., la quale abbraccia pure “il suolo su cui sorge l’edificio”. Oggetto di proprietà comune, agli effetti dell’art. 1117 c.c., è non solo la superficie a livello del piano di campagna, bensì tutta quella porzione del terreno su cui viene a poggiare l’intero fabbricato e dunque immediatamente pure la parte sottostante di esso. Il termine “suolo”, adoperato dall’art. 1117 citato, assume, invero, un significato diverso e più ampio di quello supposto dall’art. 840 c.c., dove esso indica soltanto la superficie esposta all’aria. Piuttosto, l’art. 1117 c.c., letto sistematicamente con l’art. 840 dello stesso codice, implica che il sottosuolo, costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio (seppure non menzionato espressamente dall’elencazione esemplificativa fatta dalla prima di tali disposizioni), va considerato di proprietà condominiale in mancanza di un titolo, che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini. Pertanto, nessun condomino può, senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione, procedere all’escavazione in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, verrebbe a ledere il diritto di proprietà degli altri partecipanti su una parte comune dell’edificio, privandoli dell’uso e del godimento ad essa pertinenti (Cass. 13 luglio 2011, n. 15383; Cass. 2 marzo 2010, n. 4965; Cass. 24 ottobre 2006, n. 22835; Cass. 27 luglio 2006, n. 17141; Cass. 9 marzo 2006, n. 5085; Cass. 28 aprile 2004, n. 8119; Cass. 18 marzo 1996, n. 2295; Cass. 23 dicembre 1994, n. 11138; Cass. 11 novembre 1986, n. 6587). La condotta del condomino che, senza il consenso degli altri partecipanti, proceda a scavi in profondità del sottosuolo, acquisendone la proprietà, finirebbe, in pratica, con l’attrarre la cosa comune nell’ambito della disponibilità esclusiva di quello. Sicché, avendosi nella specie riguardo all’utilizzazione del sottosuolo di un fabbricato compreso nel condominio, la configurabilità di uno spoglio denunciabile con azione di reintegrazione dall’amministratore condominiale, al fine di conseguire il recupero del godimento della cosa, sottratto illecitamente, postula il riscontro di una situazione di compossesso del sottosuolo medesimo, qui desunta dalla destinazione funzionale del bene (la Corte di Milano afferma in proposito di aver accertato un “rapporto imprescindibile di strumentalità con il fabbricato principale”), oltre che, “ad colorandam possessionem”, dalla sua verificata inclusione fra le parti comuni dell’edificio, nonché il riscontro ulteriore che l’indicata utilizzazione ecceda, appunto, i limiti segnati dalle concorrenti facoltà del compossessore (cfr. Cass. 4 dicembre 1974, n. 3965; Cass. 28 gennaio 1985, n. 432; Cass. 16 dicembre 2004, n. 23453). Del resto, la prova dell’animus spoliandi può essere desunta, per via di logica astrazione, dallo stesso comportamento dell’agente, e tale consapevolezza di mutare lo stato di fatto preesistente contro la volontà del Condominio, secondo l’incensurabile valutazione del giudice di merito, sarebbe stata implicita nella “situazione di fatto dei luoghi”.
Merita riportare anche la statuizione sul ricorso incidentale proposto da uno dei convenuti, poiché interesserà marginalmente l’amministratore ma assai profondamente il suo difensore: “Va altresì rigettato il ricorso incidentale proposto da Unicredit Leasing s.p.a., la quale deduce il proprio difetto di legittimazione passiva, in quanto semplice concedente del bene in locazione finanziaria all’utilizzatrice R.G. & c. s.a.s. Certamente l’art. 1168 c.c. configura la legittimazione passiva all’azione di reintegrazione secondo uno schema di tipo personale, sicché la domanda è esperibile contro l’autore dello spoglio. Vi sono, tuttavia, fattispecie in cui il provvedimento di reintegrazione va eseguito nella sfera possessoria o proprietaria di un soggetto estraneo all’episodio lesivo, ma vincolato al bene da un unico ed inscindibile rapporto giuridico. Sicché, quando l’attuazione della richiesta tutela possessoria imponga la rimozione dello stato di fatto abusivamente creato, con l’abbattimento di opere appartenenti in proprietà anche a terzi non presenti in giudizio, sussiste la necessità di integrare nei loro confronti il contraddittorio; altrimenti, la sentenza resa nei confronti soltanto dell’autore dello spoglio, e non anche del proprietario dell’opera, sarebbe “inutiliter data”, giacché la demolizione della cosa pregiudizievole inciderebbe sulla sua stessa esistenza e necessariamente quindi sulla proprietà di quel terzo pretermesso, a nulla rilevando, in contrario, che costui possa poi fare opposizione all’esecuzione nelle forme previste dall’art. 615 c.p.c. (Cass. 20 gennaio 2010, n. 921). Ora, poiché nell’operazione di leasing finanziario, quale quella che si assume intervenuta tra la concedente Locat S.p.a. e l’utilizzatrice R.G. & c. s.a.s., la proprietà del bene rimane in capo al concedente, attribuendosi lo stesso all’utilizzatore in forma di detenzione autonoma qualificata fino al momento dell’eventuale esercizio della facoltà di riscatto, sussiste la necessaria legittimazione passiva del medesimo concedente nell’azione di reintegrazione proposta da un terzo, qualora il ripristino della situazione anteriore allo spoglio debba avvenire con la demolizione di un’opera concernente il bene dato in godimento.”

© massimo ginesi marzo 2016

pubblicato su “amministrare immobili” marzo 2016

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