è nulla la delibera che decida su balconi di proprietà esclusiva

La Suprema Corte ribadisce un principio consolidato (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 15 marzo 2017 n. 6652, Rel. Scarpa): i balconi aggettanti sono di rporità esclusiva, salvo che rivestano funzione decorativa nel più ampio contesto della facciata dell’edificio.

Ove non si dia questa ultima ipotesi, restano beni di proprietà individuale e la delibera che li riguardi è affetta da nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice.

Nel caso di specie “l’intervento deliberato dall’assemblea condominiale comprendeva anche lavori riguardanti principalmente ed essenzialmente l’impermeabilizzazione dei balconi mediante la demolizione della preesistente pavimentazione, degli stangoni e dei sottostanti massetti, opere che nulla avevano a che vedere con l’estetica e l’aspetto architettonico dell’edificio”.

Afferma la Corte che “poiché l’assemblea condominiale non può validamente assumere decisioni che riguardino i singoli condomini nell’ambito dei beni di loro proprietà esclusiva, salvo che non si riflettano sull’adeguato uso delle cose comuni, nel caso di lavori di manutenzione di balconi di proprietà esclusiva degli appartamenti che vi accedono, è valida la deliberazione assembleare che provveda al rifacimento degli eventuali elementi decorativi o cromatici, che si armonizzano con il prospetto del fabbricato, mentre è nulla quella che disponga in ordine al rifacimento della pavimentazione o della soletta dei balconi, che rimangono a carico dei titolari degli appartamenti che vi accedono (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14576 del 30/07/2004; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6624 del 30/04/2012; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7603 del 30/08/1994). E alle deliberazioni prese dall’assemblea condominiale si applica il principio dettato in materia di contratti dall’art. 1421 c.c., secondo cui è comunque attribuito al giudice, anche d’appello, il potere di rilevarne d’ufficio la nullità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12582 del 17/06/2015; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 305 del 12/01/2016).”

© massimo ginesi 16 marzo 2017 

art. 1117 cod.civ. : il sottotetto.

La Suprema Corte, con recente sentenza, ripercorre il consolidato orientamento in tema di sottotetti: la pronuncia non costituisce lettura innovativa, poiché i principi affermati sono da tempo nelle corde della Cassazione, ma rappresenta un ottima sintesi della disciplina in materia.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 10 marzo  2017 n. 6314, Rel. Scarpa: “La situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e seguenti del Codice Civile, si attua sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto. Secondo le emergenze documentali del giudizio, il Condominio di Via S.M., Pisa, deve intendersi sorto con l’atto di frazionamento dell’iniziale unica proprietà M. in data 29 novembre 1989.

Originatasi a tale data la situazione di condominio edilizio, dallo stesso momento doveva intendersi operante la presunzione legale ex art. 1117 c.c. di comunione “pro indiviso” di tutte quelle parti del complesso che, per ubicazione e struttura, fossero – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso, salvo che dal titolo del 29 novembre 1989 non risultasse, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente alla venditrice o ad alcuno dei condomini la proprietà di dette parti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 18/12/2014).

L’art. 1117 c.c. attribuisce, invero, ai titolari delle singole unità immobiliari dell’edificio la comproprietà di beni, impianti e servizi – indicati espressamente o per “relationem” – in estrinsecazione del principio “accessorium sequitur principale”, per propagazione ad essi dell’effetto traslativo delle proprietà solitarie, in quanto necessari all’uso comune, ovvero destinati ad esso, se manca o non dispone diversamente il relativo titolo traslativo.

Nella specie, si controverte ancora di soffitte-sottotetto e di un gabinetto posto tra il secondo ed il terzo piano dell’edificio. Si tratta di beni tutti non espressamente nominati nell’elenco esemplificativo contenuto nell’art. 1117 c.c. (formulazione applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220). Secondo consolidata interpretazione di questa Corte, sono comunque oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, agli effetti dell’art. 1117 c.c. (in tal senso, peraltro, testualmente integrato, con modifica, in parte qua, di natura interpretativa, dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220) i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6143 del 30/03/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8968 del 20/06/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7764 del 20/07/1999).

Altrimenti, ove non sia evincibile il collegamento funzionale, ovvero il rapporto di accessorietà supposto dall’art. 1117 c.c., tra il sottotetto e la destinazione all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, giacchè lo stesso sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, esso va considerato pertinenza di tale appartamento.

La proprietà del sottotetto si determina, dunque, in base al titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è destinato in concreto: nel caso in esame, la Corte di Appello di Firenze, con apprezzamento di fatto spettante in via esclusiva al giudice del merito, ha accertato che i locali sottotetto fossero posti in destinazione pertinenziale a servizio del terzo piano e sottratti all’uso comune. Con analogo apprezzamento di fatto, insindacabile in questa sede, la Corte di merito ha accertato che non rientrasse tra le parti necessarie, o che comunque servono all’uso e al godimento comune, il gabinetto posto al piano ammezzato. Non sussistendo, pertanto, i presupposti di fatto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria dei sottotetti e del gabinetto, e dunque non operando la presunzione di attribuzione al condominio ex art. 1117 c.c., non ha senso interrogarsi sulla necessità di rinvenire un titolo contrario per derogarvi.”

© massimo ginesi 15 marzo 2017

supercondominio: nascita e parti comuni.

 

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 10 marzo  2017 n. 6313, Rel. Scarpa.

La vicenda attiene a contestazioni circa la titolarità di alcune aree esterne in un complesso supercondominiale in quel di Pietra Ligure.

La Suprema Corte ripercorre i principi  in tema di nascita del supercondominio e della individuazione della parti comuni a tutti i partecipanti a tale organismo: “Non è stata oggetto di censure in questa sede la qualificazione del contesto proprietario come condominio di edifici, nella specie costituito da una pluralità di edifici ricompresi in una più ampia organizzazione condominiale, legati tra loro dall’esistenza di talune cose in rapporto di accessorietà con i singoli fabbricati. La situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e seguenti del Codice Civile, si attua sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto. Secondo le emergenze documentali del giudizio, il Supercondominio di Pietra Ligure (SV), composto dai condomini A M, D, T, S e R, deve intendersi sorto con l’atto di frazionamento dell’iniziale unica proprietà P. in data 4 marzo 1972.

Originatasi a tale data la situazione di condominio edilizio, dallo stesso momento doveva reputarsi operante la presunzione legale ex art. 1117 c.c. di comunione “pro indiviso” di tutte quelle parti del complesso che, per ubicazione e struttura, fossero – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso, salvo che dal titolo del 4 marzo 1972 non risultasse, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente alla venditrice o ad alcuno dei condomini la proprietà di dette parti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 18/12/2014).

Nella specie, si ha riguardo ad aree cortilizie destinate a verde o a posti auto. Tanto il cortile, quanto gli spazi destinati a verde, le zone di rispetto, i parcheggi, le aree di manovra o di passaggio delle autovetture (sia pure oggetto del vincolo di natura pubblicistica imposto dall’art.41 sexies, legge n. 1150/1941, come introdotto dall’art. 18, legge 765/1967), fanno parte delle cose comuni di cui all’art. 1117 c.c. (Cass. 9 giugno 2000, n. 7889). Tali beni, pertanto, ove manchi un’espressa riserva di proprietà o sia stato omesso qualsiasi univoco riferimento, al riguardo, nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, devono essere ritenuti parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi del medesimo art. 1117 c.c., cedute in comproprietà pro quota, quali pertinenze delle singole unità immobiliari secondo il regime previsto dagli artt. 817 e 818 c.c. (altresì in considerazione del relativo vincolo pertinenziale pubblicistico: Cass. 28 gennaio 2000, n. 982; Cass. 18 luglio 2003, n. 11261; Cass. 16 gennaio 2008, n. 730). 

Ne consegue che, nel caso in esame, la Corte d’Appello di Genova non ha considerato come, essendo sorto il supercondominio del complesso dei condomini A M, D, T, S e R, “ipso iure et facto”, nel momento in cui l’originario proprietario e costruttore P. ebbe ad alienare a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata, lo stesso avrebbe perso, in quello stesso momento, la qualità di proprietario esclusivo delle pertinenze e delle cose e dei servizi comuni ai singoli edifici (tra i quali rientravano le aree destinate a verde ed a parcheggio delle autovetture), in mancanza di titolo diverso, non servendo affatto a tal fine un espresso trasferimento in proprietà agli acquirenti. Conseguentemente, lo stesso P. non avrebbe potuto in seguito più disporre quale proprietario unico di detti beni, giacché ormai divenuti comuni, nè concedere o creare su di essi diritti reali limitati come le servitù.”

© massimo ginesi 13 marzo 2017

installazione ascensore: la suprema corte ribadisce il principio solidaristico in condominio.

L’installazione di un ascensore in condominio risponde a principi di solidarietà sociale che affondano le proprie radici nella funzione sociale della proprietà prevista dall’art. 42 Cost.

La Suprema Corte ( Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza  9 marzo 2017, n. 6129 Rel. Scarpa) tale principio e lo estende ad  caso specifico deciso dalla Corte di Appello di Trieste, che aveva invece avuto riguardo al mero dato letterale della norma.

Il Giudice di secondo grado aveva riformato la sentenza del Tribunale che aveva invece ritenuto che l’imapindo dovesse essere ricondotto alle previsioni della L. 13/1989: “S.T. , A.O. , L.D. ed F.A. (quest’ultima anche quale procuratrice di F.L. ) hanno proposto ricorso articolato in tre motivi avverso la sentenza 4 agosto 2015, n. 483/2015, resa dalla Corte d’Appello di Trieste, che ha riformato la sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di Trieste l’11 febbraio 2014, accogliendo l’impugnazione principale di B.N. , S.E. , O.F. e Ba.Ag. .
Il Tribunale di Trieste, in accoglimento della domanda degli attuali ricorrenti, aveva accertato il diritto degli stessi, ai sensi dell’art. 2 delle legge 9 gennaio 1989, n. 13, ad installare un ascensore occupando una parte del sedime del giardino comune, a ridosso della facciata, ove è ubicato il portone d’ingresso del Condominio di via (omissis) . La domanda degli attori conseguiva al rigetto espresso due volte dall’assemblea condominiale alla proposta di installazione dell’ascensore e deduceva la difficoltà di deambulazione di due condomine.
La Corte d’Appello, riformando la sentenza impugnata e rigettando le domande degli appellati, osservava che “l’ascensore è manufatto diverso dal concetto di servoscala o altre strutture mobili e facilmente amovibili”, di cui all’art. 2, comma 2, legge n. 13/1989, e che l’ascensore per cui è causa comunque non avrebbe consentito alle condomine L. ed O. di raggiungere senza problemi i rispettivi appartamenti, dovendo fermarsi sul pianerottolo dell’interpiano con dieci gradini da percorrere a piedi. La Corte di Trieste ha perciò ritenuto l’installazione dell’ascensore lesiva dell’art. 1102 c.c., ed in particolare della destinazione a giardino dell’area comune, e quindi illegittima in difetto di deliberazione assembleare approvata con il quorum di cui all’art. 1136 c.c.”

La Suprema Corte riprende un orientamento consolidato e cassa la pronuncia: “La decisione dei giudici di appello si pone in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui l’installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui all’art. 27, comma 1, della legge 3 marzo 1971, n. 118, e all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27 aprile 1978, n. 384, e perciò costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2, legge 2 gennaio 1989, n. 13, è approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14384 del 29/07/2004). Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, le strutture occorrenti al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4, e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220). L’installazione di un ascensore, allo scopo dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata su parte di aree comuni (nella specie, un’area destinata a giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012). Di tal che, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18334 del 25/10/2012).

Ai fini della legittimità dell’intervento innovativo approvato ai sensi dell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, è sufficiente, peraltro, che lo stesso (pur non potendo, come nella specie accertato dalla Corte di Trieste, in ragione delle particolari caratteristiche dell’edificio, raggiungere l’ascensore direttamente gli appartamenti dei portatori di handicap, dovendosi fermarsi sul pianerottolo) produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione (Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 18147 del 26/07/2013).

Il ricorso va perciò accolto, limitatamente al suo secondo motivo, rimanendo assorbiti i restanti motivi. Conseguono la cassazione dell’impugnata sentenza ed il rinvio della causa alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai richiamati principi e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche sulle spese del giudizio di cassazione.”

© massimo ginesi 13 marzo 2017 

 

rappresentanza sostanziale e processuale dell’amministratore: i limiti.

La Cassazione (Cass.Civ. VI-2 sez. ord. 8 marzo 2017 n. 5833, rel. Scarpa) affronta un caso peculiare, che offre lo spunto per ripercorrere, alla luce delle SS.UU. del 2010, dell’art. 1131 cod.civ. e dei principi generali, il potere dell’amministratore di rappresentare il condominio, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale.

La vicenda riguarda una controversia relativa al pagamento delle spese di un cancello automatizzato, utilizzato dai condomini per accedere al fabbricato, ma che non  rientra fra le parti comuni ex art. 1117 cod.civ.

 La sentenza di secondo grado, in riforma della sentenza del Giudice di pace di Bologna: “Il Tribunale di Bologna ha ritenuto che il Condominio di via F. 6, si fosse obbligato a concorrere a tali spese di manutenzione del cancello carraio sul vicolo di proprietà di G. s.r.l. in conseguenza della missiva 8 febbraio 1991 inviata dalla stessa G s.r.l. allo Studio A-C, gestito anche da A Maria C, all’epoca amministratrice del Condominio di via F, 6. Quella lettera, sottolinea il Tribunale, reca una sottoscrizione per ricevuta dell’amministratrice condominiale e, si aggiunge in sentenza, “è pacifico che lo Studio A-C. ricevette in quell’occasione 4 chiavi e 4 telecomandi”. A partire dal 1991, scrive il Tribunale, il Condominio diede pacifica esecuzione all’accordo con G, senza che vi sia traccia di missive indirizzate singolarmente ai fruitori del cancello”

Preliminarmente la Corte affronta l’eccezione sulla legittimazione dell’amministratore ad impugnare: “Non è fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla controricorrente. L’amministratore di condominio, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea, può costituirsi in giudizio, nonché impugnare le decisioni che vedano soccombenti il condominio, per tutte le controversie che rientrino nell’ambito delle sue attribuzioni ex art. 1130 c.c., quali quelle aventi ad oggetto il pagamento preteso nei confronti del condominio da un terzo creditore in adempimento di un’obbligazione assunta dal medesimo amministratore per conto dei partecipanti, ovvero per dare esecuzione a delibere assembleari, erogare le spese occorrenti ai fini della manutenzione delle parti comuni o l’esercizio dei servizi condominiali (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16260 del 03/08/2016).”

Quanto al principale motivo si ricorso, ritenuto assorbente: “A norma dell’art. 1131 c.c., l’amministratore ha la rappresentanza dei condomini nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’art. 1130 c.c. o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio. Il limite della rappresentanza sostanziale dell’amministratore di condominio è dunque costituito dall’inerenza dell’affare alle “parti comuni” dell’edificio. Il contratto con cui un amministratore di condominio intenda assumere l’obbligo dei partecipanti allo stesso di sostenere le spese relative ad un bene non rientrante tra le parti comuni, oggetto della proprietà dei titolari delle singole unità immobiliari, a norma dell’art. 1117 c.c. (nella specie, oneri di manutenzione di un cancello elettrico utilizzato dai condomini per il transito su di un’area di proprietà esclusiva di un terzo), suppone, pertanto, uno speciale mandato conferito all’amministratore da ciascuno dei singoli condomini, ovvero la ratifica del pari effettuata da ciascuno, sicchè è irrilevante la spendita della qualità di amministratore condominiale, trattandosi di verificare la sussistenza di un potere di rappresentanza convenzionale estraneo all’ambito di operatività degli artt. 1130 e 1131 c.c. (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21826 del 24/09/2013; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5147 del 03/04/2003; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4623 del 03/08/1984).”

La Corte, dunque, cassa con rinvio ad altra sezione del Tribunale di Bologna, che dovrà attenersi ai principi enunciati.

© massimo ginesi 9 marzo 2017

Ampliamento del balcone e trasformazione in veranda rispettando le regole d’uso delle parti comuni

E’ quanto afferma la Suprema Corte (Cass.Civ. II sez. 28 febbraio 2017 n. 5196, rel. Scarpa) nel giudizio di legittimità al termine di una vicenda processuale nata in terra siciliana: un condomino provvede ad ampliare il proprio balcone e a trasformarlo in veranda, con chiusura sui tre lati, con ciò occupando in maniera significativa la colonna d’aria soprastante una chiostrina a servizio dell’unità immobiliare sottostante.
in primo grado il Tribunale di Palermo aveva ritenuto sussistente unicamente la violazione delle norme sulle distanze e ordinato la rimozione degli spuntoni di appoggio del balcone, che aggettavano sulla chiostrina.
La Corte di Appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, introduce il concetto di utilizzo non consentito della facciata dell’edificio ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., ordinando tuttavia la sola demolizione della veranda, ritenendo che l’attore – pur avendo lamentato anche l’ampliamento del balcone – avesse concluso solo per tale richiesta.
La Cassazione conferma la lettura del giudice di appello “ Il consolidato orientamento di questa Corte (ribadito anche con riguardo ad ipotesi analoghe a quella per cui è causa, nella quale, per quanto in specie accertato, un condomino ha trasformato il proprio balcone in veranda, altresì debordando dal suo perimetro originario) afferma che, allorché il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale esegua opere nella sua proprietà esclusiva facendo uso di beni comuni, indipendentemente dall’applicabilità delle norme sulle distanze nei rapporti tra le singole proprietà di un edificio condominiale, è comunque necessario verificare che il condomino stesso abbia utilizzato le parti comuni dell’immobile nei limiti consentiti dall’art. 1102 c.c. (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10563 del 02/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4844 del 04/08/1988; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 682 del 28/01/1984)”
Il giudice territoriale aveva accertato, tramite consulenza tecnica, che l’ampliamento del balcone, la costruzione della veranda e il mancato rispetto dell’allineamento con gli altri balconi avevano cagionato una riduzione spazio sovrastante la chiostrina nella misura dell’8,1 % e che “ciò ha comportato un danno per la funzionalità della chiostrina come essenziale dispositivo di aerazione ed illuminazione dei locali ad essa prospicienti”
Osserva la Corte che il giudice di appello, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, “nell’accogliere la domanda di riduzione in pristino della veranda dal balcone di proprietà esclusiva, ha affermato che le opere denunciate, in violazione dell’art. 1102 c.c., comportassero proprio una sensibile riduzione all’ingresso di luce ed aria nella proprietà inferiore G. conseguibile dalla facciata esterna comune dell’edificio (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10704 del 14/12/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1132 del 11/02/1985).”
La Suprema Corte ritiene anche che la domanda dell’attore riguardi l’intero manufatto realizzato e non solo il balcone: “Deve, al contrario, ritenersi che, come allega il ricorso incidentale, avendo il G. espressamente dedotto l’illegittimità dell’aumento di superficie del balcone realizzato dalla controparte e comunque richiesto il ripristino dello stato dei luoghi, la demolizione altresì di tale opera era da intendersi contenuta in modo implicito in detta domanda di riduzione in pristino, trovandosi con essa in rapporto di necessaria connessione”
La sentenza di merito è cassata e il processo rinviato ad altra sezione della corte di Palermo, che dovrà attenersi ai principi esposti.

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sottotetto, la cassazione fa il punto: titolo, funzione e usucapione.

Il sottotetto è da sempre vano con una travagliata identità: se  il titolo nulla dispone, deve ritenersi pertinenza dell’unità immobiliare  posta immediatamente aldisotto, ove la sua funzione sia limitata a mero vano tecnico (tendenzialmente impraticabile) volto all’isolamento dal tetto di quell’appartamento, mentre dovrà ritenersi condominiale se – per caratteristiche e funzioni – sia destinato ad assolvere ad una utilità comune.

Si tratta di un’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che la L. 220/2012 ha pedissequamente trasformato in (inutile) dato normativo, inserendo nell’art. 1117 cod.civ. l’espressione “i sottotetti destinati per le caratteristiche funzionali all’uso comune”, inciso che   obbliga comunque il giudice ad un apprezzamento di fatto sulle oggettive caratteristiche funzionali di ciascun sottotetto.

Altro caposaldo giurisprudenziale riguarda il possesso idoneo ad usucapire, quando si eserciti su beni comuni: il godimento anche esclusivo da parte del singolo ben può essere espressione delle facoltà previste dall’art. 1102 cod.civ., sicché per usucapire è necessario un atto di interversione di particolare apprezzabilità, che trasformi con chiarezza  il compossesso in possesso esclusivo.

La Suprema Corte distilla tali principi, con grande precisione, in una recente sentenza (Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 2 marzo 2017, n. 5335-  Relatore Scarpa) che conclude una vicenda iniziata in terra ligure, con qualche interessante e didattica riflessione anche sulla nascita del condominio.

i fatti e il processo di merito “B.S. ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi avverso la sentenza n. 1170/2012 del 21 novembre 2012 della Corte d’Appello di Genova, che aveva rigettato l’appello proposto dalla stessa B.S. avverso la sentenza n. 4189/2005 del Tribunale di Genova ed invece accolto l’appello incidentale proposto dal CONDOMINIO (omissis) , ordinando alla B. di liberare le intercapedini perimetrali del sottotetto condominiale dalle masserizie ivi collocate. La causa era iniziata con citazione del 26 gennaio 1997 proposta dalla condomina Ca.Ol. (della quale B.S. è erede costituitasi in corso di giudizio) per impugnazione della deliberazione assembleare del 18 dicembre 1996, che invitava la signora Ca. a non utilizzare dette intercapedini perimetrali a livello del suo appartamento, in quanto di proprietà comune. Avendo l’attrice proposto altresì domanda di usucapione di tali locali, venivano chiamati in giudizio anche i condomini dell’edificio D.M.G. , C.A. , CE.LU. , R.P. , A.N. , I.G. , CI.MA. e D.F.E. “

in diritto la Corte di legittimità osserva che …“La Corte d’Appello di Genova ha affermato che la proprietà condominiale dei sottotetti si ricava dal “titolo pre-costitutivo del condominio a rogito not. S. in data 19.08.53, col quale tutti i soggetti interessati alla costruzione dell’edificio acquistarono pro quota l’area edificabile in vista della futura edificazione del caseggiato. L’atto conteneva già l’identificazione e la descrizione degli appartamenti che per effetto della descrizione del caseggiato sarebbero diventati di proprietà dei singoli condomini”. Alla condomina M.A. era attribuita la proprietà dell’appartamento interno 7 (poi divenuto di proprietà Ca. ), i cui confini venivano descritti come “porzioni condominiali del sottotetto e muretto attico sui terrazzini”.

IL MOMENTO IN CUI SORGE IL CONDOMINIO: “Per unanime interpretazione giurisprudenziale, in ipotesi di edificio costruito da una sola persona, la situazione di condominio edilizio si ha per costituita nel momento stesso in cui l’originario unico proprietario ne operi il frazionamento, alienando ad un terzo la prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione. Se, invece, si tratti, come nel caso in esame, di edificio costruito da più soggetti su suolo comune, il condominio insorge al momento in cui avviene l’assegnazione in proprietà esclusiva dei singoli appartamenti. Spetta, invero, al giudice del merito stabilire, in base al contenuto della convenzione ed all’interpretazione della volontà dei contraenti, se i comproprietari pro indiviso di un suolo, i quali stabiliscano di costruirvi un fabbricato condominiale, per conseguire la proprietà esclusiva dei singoli appartamenti senza necessità di porre in essere, a costruzione ultimata, ulteriori atti traslativi o dichiarativi, abbiano stipulato un negozio di divisione di cosa futura, ovvero una reciproca concessione ad aedificandum (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 102 del 15/01/1990; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4868 del 15/07/1983). Costituitosi, in ogni caso, il condominio, per effetto dell’assegnazione delle singole porzioni, insorge altresì la presunzione legale di comunione “pro indiviso” di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano, in tale momento, destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso, salvo che dal titolo non risulti, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad uno dei condomini la proprietà di dette parti e di escluderne gli altri (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 18/12/2014; Sez. 2, Sentenza n. 16292 del 19/11/2002).

IL SOTTOTETTO: Sono quindi oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, agli effetti dell’art. 1117 c.c. (in tal senso, peraltro, testualmente integrato, con modifica, in parte qua, di natura interpretativa, dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220) i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune (già così, peraltro, indipendentemente dall’integrazione dell’art. 1117 c.c. nel richiamato senso, disposta dalla Riforma del 2012: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23902 del 23/11/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6143 del 30/03/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8968 del 20/06/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7764 del 20/07/1999). Altrimenti, ove non sia evincibile il collegamento funzionale, ovvero il rapporto di accessorietà supposto dall’art. 1117 c.c., tra il sottotetto e la destinazione all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, giacché lo stesso sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, esso va considerato pertinenza di tale appartamento. La proprietà del sottotetto si determina, dunque, prioritariamente in base al titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è destinato in concreto. La Corte d’Appello di Genova si è attenuta a tali principi e, poiché l’indagine diretta a stabilire, attraverso l’interpretazione dei titoli d’acquisto, se sia o meno applicabile la presunzione di comproprietà ex art. 1117 c.c., costituisce un apprezzamento di fatto, essa non è censurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di un fatto storico decisivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83/2012, conv. in legge n. 134/2012 (applicabile nella specie ratione temporis).
Non può certamente rilevare, ai fini dell’interpretazione del contenuto del contratto e del suo programma obbligatorio (la quale consiste in apprezzamento tipico del giudice di merito volto a ricostruire l’intenzione delle parti), la qualificazione giuridica degli elementi dell’accordo che abbia raggiunto il consulente tecnico d’ufficio, trattandosi di accertamento che esula dai compiti delegabili all’ausiliare.

IL POSSESSO DI PARTI COMUNI E L’USUCAPIONE: “Quanto al terzo motivo di ricorso, riguardante la pretesa della ricorrente di aver usucapito le soffitte in contesa, la Corte di Genova ha negato che vi fosse prova di condotte di possesso esclusivo dei beni, a tanto non valendo la mera occupazione dei locali con vari oggetti. La censura lamenta la mancata considerazione del fatto che l’accesso ai vani per cui è causa possa avvenire soltanto attraverso l’appartamento della stessa ricorrente, sicché non v’era ragione di escludere gli altri dal possesso. La doglianza è infondata, atteso che il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei comproprietari, in ragione della peculiare ubicazione del bene e delle possibilità di accesso ad esso, non è comunque, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso “ad usucapionem”, essendo, per converso, comunque necessaria, a fini di usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla “res” da parte dell’interessato attraverso un’attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19478 del 20/09/2007) La valutazione degli atti di possesso, agli effetti indicati, è peraltro rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, sempre al di fuori dei limiti attualmente segnati dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”

© massimo ginesi 7 marzo 2017

lastrico solare: il titolo che ne determina l’appartenenza esclusiva può essere anche un testamento

Lo afferma, in una recentissima ordinanza, la Suprema Corte (Cass.Civ. II sez. 2 marzo 2017 n. 5337 rel. Scarpa), che affronta il peculiare caso di un condominio che trae origine da disposizioni testamentarie.

La Corte d’Appello di Bari, premessa la presunzione di comunione del lastrico solare ai sensi dell’art. 1117 c.c., ha tuttavia ritenuto titolo contrario ad essa, nel senso di desumere che il lastrico solare fosse stato ricompreso dal testatore nella quota del piano elevato attribuito a A, C e B B., la previsione testamentaria del diritto riconosciuto a F., V e V di usufruire della scala soltanto per andare sul terrazzo “a prendere il sole d’estate ed a sciorinare i panni”. Tale previsione, a giudizio della Corte di Bari, sarebbe stata del tutto superflua se il loro genitore G N. B. avesse considerato il lastrico come bene comune a tutti i coeredi.

Il ricorrente F. B. ha sostenuto la violazione degli artt. 1117 c.c. e 1362 c.c. perché, nella specie, mancava un’attribuzione chiara ed univoca della proprietà esclusiva del lastrico solare alle figlie del de cuius, e perchè la Corte d’appello avrebbe confuso tra proprietà ed uso esclusivo del terrazzo.

Anche questo motivo va rigettato.

E’ indubbio che il lastrico solare, ai sensi dell’art. 1117 c.c., è oggetto di proprietà comune dei diversi proprietari dei piani o porzioni di piano dell’edificio, ove non risulti il contrario, in modo chiaro ed univoco, dal titolo.

Il titolo idoneo a far insorgere la situazione di condominio ed a contenere le eventuali deroghe alla presunzione ex art. 1117 c.c. può essere evidentemente costituito anche da un testamento, allorchè il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento, dall’originario unico proprietario ad altri   soggetti, di alcune unità immobiliari, si determina mediante istituzioni ereditarie o attribuzioni in legato aventi ad oggetto le suddette parti del fabbricato.

Al fine di escludere la presunzione di proprietà comune di cui all’art. 1117 c.c., allorchè, in particolare, il titolo sia costituito da un testamento, è comunque sufficiente che da questo emergano elementi tali da farlo considerare in contrasto con l’esistenza di un diritto di comunione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2328 del 27/06/1969), preferendosi, alla luce del favor testamenti, qualora di una clausola di esso siano ammissibili più interpretazioni, comunque quella che consenta alla volontà del testatore di avere pratica e concreta attuazione.

Avendo la Corte d’Appello interpretato il testamento di G. N. B. come espressivo di elementi univoci in contrasto con l’esistenza di un diritto di condominio del terrazzo a livello, al fine di attribuire un effetto concreto alla clausola di esso che riservava ai figli maschi soltanto il diritto di accedere al terrazzo per prendere il sole e sciorinare i panni, essa si è attenuta ai ricordati principi di diritto, risolvendosi, quanto al resto, l’interpretazione del titolo negoziale di cui all’art. 1117 c.c. in un apprezzamento di fatto che è prerogativa del giudice di merito ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto per omesso esame di fatto decisivo e controverso ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”

per l’azione di nullità del regolamento contrattuale non vi è legittimazione passiva dell’amministratore

Il regolamento di natura contrattuale è una convenzione intercorsa fra più soggetti, nei cui unici confronti – e non dell’amministratore del condominio – va introdotta l’azione per farne dichiarare la nullità.

Quel tipo di regolamento, proprio per la sua natura contrattuale, è idoneo anche ad identificare le parti comuni ai partecipanti al condominio, anche in deroga all’art. 1117 cod.civ., sicché anche un corpo di fabbrica esterno al condominio – che abbia in comune con questo solo un cortile – ben potrà essere soggetto alle spese per la manutenzione delle parti comuni, anche ove quelle non siano strumentali all’uso di quella unità, se così  sia previsto da quel tipo di regolamento.

Sono i due principi espressi da Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 n. 4432 rel. Scarpa: un regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l’azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell’amministratore), carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12850 del 21/05/2008).”

“la costituzione di un condominio, che comprenda eventualmente anche soggetti i quali non fossero già comproprietari dei beni che lo stesso art. 1117 c.c. attribuisce automaticamente per la loro accessorietà alle proprietà esclusive, è comunque possibile per effetto del consenso unanime di quelli, ovvero quale conseguenza dell’espressione di autonomia privata, che determini ex contractu l’insorgenza del diritto di comproprietà, e quindi anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlate. Perciò, con il regolamento di condominio di fonte e contenuto contrattuale ben può essere attribuita la comproprietà delle cose, incluse tra quelle elencate nell’art. 1117 cod. civ., a coloro cui appartengono alcune determinate unità immobiliari, indipendentemente dalla sussistenza di fatto del rapporto di strumentalità che determina la costituzione ex lege del condominio edilizio (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1366 del 10/02/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15794 del 11/11/2002)”.

© massimo ginesi 24 febbraio 2017 

art. 1135 cod.civ., appalto in condominio : anche le variazioni vanno approvate dalla assemblea

Una articolata sentenza della Cassazione fa il punto sul complesso tema dell’appalto e dei relativi poteri assembleari previsti  dall’art. 1135 cod.civ.

Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 . n. 4430 (rel. Scarpa): la causa nasce nel 2004 con una impugnazione di delibera con cui gli attori chiedono al Tribunale di Lanciano  di dichiarare invalida “la deliberazione dell’assemblea condominiale del 9 dicembre 2003, che aveva approvato il rendiconto dall’1.11.2002 al 31.10.2003 e la relativa ripartizione, comprensivi di un importo dei lavori di manutenzione della fogna per un importo di C 13.840,63, oltre I.V.A., maggiore di quello preventivato e pattuito con l’appaltatrice B.D. SRL, pari ad C 7.790,89. Gli attori avevano chiesto di dichiarare invalida la deliberazione dell’assemblea, per motivi inerenti alle carenze dell’ordine del giorno, al merito dei lavori effettivamente eseguiti dall’impresa ed alla ripartizione delle spese, effettuata sulla base di 986,42 millesimi anziché 1000 millesimi”

Osserva la corte, in primo luogo, che l’approvazione dell’appalto è materia di pertinenza dell’assemblea ai sensi dell’art. 1135 cod.civ. “E’ pacifico che occorra l’autorizzazione dell’assemblea (o, comunque, l’approvazione mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell’art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., e con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 4, c.c., per l’approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell’edificio condominiale (si veda indicativamente Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016).”

La decisione passa poi ad esaminare il contenuto della delibera di approvazione di contratto di appalto e il potere del sindacato del giudice, che non potrà mai estendersi al merito:  “Il contenutLa delibera assembleare in ordine alla manutenzione straordinaria deve determinare l’oggetto del contratto di appalto da stipulare con l’impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi ed il prezzo dei lavori, non necessariamente specificando tutti i particolari dell’opera, ma comunque fissandone gli elementi costruttivi fondamentali, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa.

Sono, peraltro, ammissibili successive integrazioni della delibera di approvazione dei lavori, pure inizialmente indeterminata, sulla base di accertamenti tecnici da compiersi. In ogni caso, l’autorizzazione assembleare di un’opera può reputarsi comprensiva di ogni altro lavoro intrinsecamente connesso nel preventivo approvato (arg. da Cass., Sez. 2, Sentenza n. 5889 del 20/04/2001). I condomini non possono, però, sollecitare il sindacato dell’autorità giudiziaria sulla delibera di approvazione dei lavori straordinari, censurando l’utilità dei lavori, l’adeguatezza tecnica dell’intervento manutentivo stabilito, o la scelta di un preventivo di spesa meno vantaggioso di quello contenuto in altra offerta. Il controllo del giudice sulle delibere delle assemblee condominiali è limitato al riscontro della legittimità, in base alle norme di legge o del regolamento condominiale, e giunge fino alla soglia dell’eccesso di potere, mentre non può mai estendersi alla valutazione del merito ed alla verifica delle modalità di esercizio del potere discrezionale spettante all’assemblea”.

Ove intervengano significative varianti nel corso della esecuzione dell’opera, queste dovranno formare oggetto di ulteriore specifica approvazione assembleare: Quanto detto in ordine all’approvazione delle modalità costruttive ed al prezzo vale, ovviamente, anche per le varianti dell’opera di manutenzione straordinaria appaltata dal condominio, dovendo parimenti le variazioni alle originarie modalità convenute essere autorizzate dall’assemblea del condominio, sempre ex artt. 1135, comma 1, n. 4, e 1136, comma 4, c.c. E’ tuttavia certamente consentito all’assemblea di approvare successivamente le varianti delle opere di manutenzione straordinarie appaltate, comportanti un aumento delle spese medesime, disponendone il rimborso, trattandosi di delibera riconducibile fra le attribuzioni conferitele dall’art. 1135 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6896 del 04/06/1992; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016, in motivazione). L’assemblea può, infatti ratificare le spese straordinarie erogate dall’amministratore senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, e, di conseguenza, approvarle, surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva di delibera di esecuzione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18192 del 10/08/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2864 del 07/02/2008).”

Detta ratifica  ben potrà avvenire anche durante l’approvazione del rendiconto annuale, ove l’ordine del giorno sia sufficientemente esteso da poter comprendere tutti gli esborsi dell’esercizio (seppure, plausibilmente, la delibera sullo specifico punto sia da adottare con le diverse maggioranze richieste dalla materia straordinaria):  “Quanto detto in ordine all’approvazione delle modalità costruttive ed al prezzo vale, ovviamente, anche per le varianti dell’opera di manutenzione straordinaria appaltata dal condominio, dovendo parimenti le variazioni alle originarie modalità convenute essere autorizzate dall’assemblea del condominio, sempre ex artt. 1135, comma 1, n. 4, e 1136, comma 4, c.c. E’ tuttavia certamente consentito all’assemblea di approvare successivamente le varianti delle opere di manutenzione straordinarie appaltate, comportanti un aumento delle spese medesime, disponendone il rimborso, trattandosi di delibera riconducibile fra le attribuzioni conferitele dall’art. 1135 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6896 del 04/06/1992; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016, in motivazione). L’assemblea può, infatti ratificare le spese straordinarie erogate dall’amministratore senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, e, di conseguenza, approvarle, surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva di delibera di esecuzione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18192 del 10/08/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2864 del 07/02/2008).”

Da quella delibera sorge l’obbligo dei condomini di versare le proprie quote e non dalla stipulazione del contratto con l’appaltatore e, per le stesse ragioni,  non può darsi azione diretta del singolo condomino verso l’appaltatore: “Ritenuta la deliberazione dell’assemblea 9 dicembre 2003 utile ratifica dell’obbligo di spesa per i lavori di manutenzione della fogna nell’importo di C 13.840,63, oltre I.V.A., dovuto all’appaltatrice B. D. SRL, è da essa (salvi gli effetti invalidanti dell’impugnazione ex art. 1137 c.c.), e non dal rapporto contrattuale con l’appaltatrice, che discende l’obbligo dei singoli condomini di partecipare agli esborsi derivanti dall’esecuzione delle opere. Ponendosi il condominio (e non ciascun condomino) come committente nei confronti dell’appaltatrice (giacché unitario è l’interesse sottostante alla posizione dei singoli partecipanti al condominio, espresso nell’atto collegiale), la tutela del singolo condomino, riguardo agli effetti pregiudizievoli derivanti dalle obbligazioni assunte nei confronti della stessa appaltatrice, può concepirsi soltanto nell’ambito dell’impugnazione della deliberazione dell’assemblea di approvazione, e non sotto il profilo dei rimedi contrattuali.

E’ perciò sostanzialmente corretto quanto deciso dalla Corte d’Appello dell’Aquila, dichiarando inammissibile la pretesa dei condomini D.D.V. e M. P. di agire in via diretta verso l’appaltatrice per accertare il minor compenso spettante a quest’ultima.”

Il ricorso al Giudice di legittimità trova invece fondamento sulla ripartizione millesimale errata, che comporta rinvio al giudice di merito: “D.D.V. e M. P. avevano impugnato con specifico motivo la sentenza del Tribunale di Lanciano anche riproponendo la domanda di annullamento della deliberazione dell’assemblea condominiale del 9 dicembre 2003, perché il riparto era stato effettuato sulla base di 986,42 millesimi anziché 1000 millesimi, in quanto domanda su cui il primo giudice non aveva deciso. Su tale motivo di appello la Corte di L’Aquila ha omesso di pronunciarsi. Si impone pertanto la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, richiedendo la decisione nel merito accertamenti di fatto in ordine alla sussistenza nella deliberazione di ripartizione della spesa del valore delle unità immobiliari, espresso in millesimi, ragguagliato a quello dell’intero edificio.”

L’impugnazione risulta fondata anche per quel che attiene al tema delle spese, sullo spinoso problema della compensazione, soluzione con troppa frequenza adottata dai Tribunali (e su cui gli ultimi interventi legislativi hanno opportunamente posto qualche limite applicativo): “La Corte di L’Aquila ha altresì omesso di pronunciare sul motivo di impugnazione attinente all’omessa compensazione ed all’entità della liquidazione delle spese di primo grado operata in favore dei convenuti. Il giudice di appello, in presenza di una censura che investe la pronunzia del giudice di primo grado sulle spese, specificamente indicando giusti motivi di compensazione o un’eccessiva liquidazione di esse, ha il dovere di apprezzare, anche nel contesto di ogni altro elemento, la consistenza ed importanza dei fatti dedotti e di precisare, così, la ragione per la quale egli ritenga di condividere la decisione di primo grado (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9758 del 10/05/2005).”

© massimo ginesi 23 febbraio 2017