in caso di vendita il parcheggio vincolato segue sempre l’appartamento.

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Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. II Civile,  9 settembre 2016, n. 17844, ribadendo un principio consolidato ma spesso misconosciuto.

La causa inizia nei lontani anni 90: “Nel 1994 gli odierni resistenti sigg. S. e A. hanno agito contro i signori F.N. e L.B.P. , per far dichiarare la nullità dell’atto di vendita con cui avevano acquistato dai convenuti un appartamento in XXXXXXX, nella parte in cui era stata omesso il trasferimento del diritto reale sul box destinato parcheggio”

LA domanda è accolta in primo e secondo grado.

Nel 2011, dopo appena 17 anni (!),  il procedimento arriva in Cassazione: “Vi si sostiene che i ricorrenti non avevano venduto il box che identificava l’area di parcheggio, perché (pag. 7): gli spazi condominiali già consentivano il parcheggio dell’auto in quanto superavano i 363 mq originariamente vincolati a parcheggio; il box individuato in favore dei F. era stato da essi destinato a magazzino con relativa variazione catastale; nell’atto di compravendita del 1991 non era stata evidenziata la alienazione del box. si sostiene che i ricorrenti non avevano venduto il box che identificava l’area di parcheggio, perché (pag. 7): gli spazi condominiali già consentivano il parcheggio dell’auto in quanto superavano i 363 mq originariamente vincolati a parcheggio; il box individuato in favore dei F. era stato da essi destinato a magazzino con relativa variazione catastale; nell’atto di compravendita del 1991 non era stata evidenziata la alienazione del box.”

il principio affermato dalla corte è netto: “La censura è infondata. La Corte di appello ha ispirato la decisione a una ineccepibile lettura dei principi giuridici in materia di aree di parcheggio disciplinare dalla L. n. 765 del 1967.
Come ha ricordato la memoria di parte resistente, la giurisprudenza di questa Corte (per uno svolgimento esauriente si può vedere Cass. 26252/20013) tiene fermo un vincolo di destinazione, di natura pubblicistica, per il quale gli spazi in questione sono riservati all’uso diretto delle persone che stabilmente occupano le singole unità immobiliari delle quali si compone il fabbricato o che ad esse abitualmente accedono. Si consente la riserva di proprietà in capo al costruttore venditore purché sia rispettato il vincolo di destinazione.
Si ritiene anche che qualora non vi sia stata alcuna riserva o sia stato omesso qualunque riferimento nei titoli di acquisto, gli spazi destinati a parcheggio vengono a ricadere – per effetto del vincolo pertinenziale – fra le parti comuni di cui all’art. 1117 c.c.”

Infine, afferma la Corte, neanche le variazioni di destinazione o consistenza successivamente apportate possono incidere sul quel vincolo: “Il silenzio dell’atto del 1991 circa la individuazione del box, o la sua variazione catastale, non rilevano a fronte della persistenza di vincoli urbanistici normativamente presidiati, che cagionano la nullità della eventuale riserva: il paradosso che si pretende è quello di voler far dire ad un atto notarile ciò che esso non potrebbe mai dire, cioè che vi era sottesa una clausola nulla, quali sono le clausole degli atti privati, di disposizione degli spazi stessi, difformi dal contenuto vincolato (Cass. 6751/03; 14355/04; 28345/13; v. anche 8220/16)”.

© massimo ginesi 13 settembre 2016 

parcheggi condominiali, valgono titolo e legge vigente all’epoca della costruzione

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Gli spazi destinati a parcheggio sono fra i temi di maggior constrasto nella vita condominiale, sia per ciò che attiene alla loro regolamentazione ed utilizzo che per la complessa legislazione che si è succeduta nel tempo, con  riflessi diversi anche sulla loro circolazione quali beni autonomi: Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 27 aprile – 30 giugno 2016, n. 13445 Presidente Migliucci – Relatore Bianchini.

I fatti: “L.E. citò innanzi al Tribunale di Bari la spa N.G.I., dalla quale aveva acquistato un appartamento e le relative parti comuni, nello stabile sito in (omissis) , perché fosse accertato il suo diritto all’utilizzo di uno spazio a parcheggio – alternativamente: a titolo di proprietà; di comproprietà condominiale; quale esplicazione di un diritto di servitù o come diritto reale d’uso di cui all’art. 18 delle legge 765/1967- sito nel seminterrato dell’edificio condominiale; chiese inoltre di esser risarcita dei danni subiti, atteso che la privazione dell’esercizio del diritto a parcheggio l’avrebbe costretta a prendere in affitto apposito spazio. La società convenuta si oppose all’accoglimento della domanda con l’osservare che nella vendita dell’appartamento non veniva fatta menzione del trasferimento di un qualsiasi diritto sullo spazio in questione. “

Le pronunce di merito: “il Tribunale riconobbe in favore della L. il solo diritto reale d’uso richiesto in via subordinata, liquidando anche il danno per la mancata disponibilità dell’area; respinse inoltre la domanda riconvenzionale subordinata, volta al riconoscimento alla venditrice di una integrazione del prezzo. La Corte di Appello di Bari, adita in via principale dalla N.G.I. ed in via incidentale dalla L., statuì non esservi stata una pronuncia ultra petita – in ragione del fatto che il primo giudice aveva riconosciuto in favore dell’attrice un diritto di uso oneroso e non già, come richiesto, a titolo gratuito- richiamando la interpretazione di legittimità sui diritti autodeterminati e sulla conseguente non vincolatività per l’interprete del titolo posto a base della domanda; negò che potesse applicarsi la sopravvenuta legge 246/2005 che stabiliva che gli spazi a parcheggio potessero essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle unità abitative; riconobbe in favore dell’appellante principale il diritto all’integrazione del prezzo di vendita, espressamente richiamando l’esigenza di ristabilire -se del caso, anche d’ufficio- il sinallagma contrattuale; aumentò altresì la stima del valore dello spazio a parcheggio, rispetto a quella formulata dal consulente di ufficio; riformò infine anche il capo di decisione relativo alla quantificazione del danno liquidato L. in quanto ritenne che il riconoscimento del danno emergente – commisurato al canone per la locazione di un parcheggio – non potesse essere aggiunto a quello per il lucro cessante, atteso che la originaria attrice, se avesse avuto tempestivamente la disponibilità del parcheggio, o non avrebbe sopportato le anzidette spese o avrebbe goduto di un reddito per la locazione a terzi dello spazio in questione, non potendo invece trovare realizzazione contemporanea le due ipotesi risarcitorie. Quanto all’appello incidentale – per quello che conserva di interesse in sede di legittimità – la Corte di Appello ritenne applicabile alla fattispecie il regime dettato dall’art. 2 della legge n. 122 del 1989 che stabiliva la inalienabilità degli spazi a parcheggio in modo autonomo rispetto all’unità abitativa alla quale appartenevano, in ciò distinguendosi dalla precedente disciplina – art. 18 della legge 765 del 1967 – così dunque escludendo, tra l’altro, la possibilità che gli spazi in questione potessero rientrare nella previsione di afferenza condominiale secondo quanto disposto dall’art. 1117 cod. civ. – nella formulazione all’epoca vigente – o che, come pure richiesto dall’appellata, potesse alla stessa riconoscersi la piena proprietà o comproprietà sugli stessi spazi.”

La Corte di legittimità cassa con rinvio ad altra sezione della corte di appello osservando che: ” Il primo motivo è fondato, atteso che la legge n. 122/1989 disciplina gli atti di disposizione relativi a spazi a parcheggio realizzati dopo la sua entrata in vigore, mentre nella fattispecie in esame è rimasto accertato che l’edificio in cui era stato ricavato il parcheggio era stato costruito nel 1968 e l’appartamento alienato alla ricorrente aveva formato oggetto di vendita del 7 agosto 1998; la contestata interpretazione avrebbe dunque comportato l’attribuzione di una efficacia retroattiva alla legge – così contravvenendosi al disposto dell’ars 11 delle c.d. preleggi – altresì violando le norme che stabiliscono un nesso pertinenziale tra bene principale e spazio a parcheggio (artt. 26, comma V della legge 47/1985). L’erronea individuazione del referente normativo, in luogo dell’art. 18 della legge n. 765/1967, lascia dunque aperta la possibilità, per il giudice del rinvio, cassata in parte qua la gravata decisione, di una divergente delibazione dell’atto di trasferimento dell’appartamento alla L. , al fine di verificare se la inesistenza di una riserva di proprietà in capo al venditore degli spazi a parcheggio, unita alla considerazione della locazione a terzi dell’intero piano seminterrato, da epoca precedente alla compravendita (per come riportato a fol. 37 del controricorso ed a fol. 5 delle memorie ex art. 378 cpc), consentano il riconoscimento del più ampio diritto di comproprietà ex art. 1117 cod. civ. (v. ex militis Cass. Sez. II n. 11261/2003; Cass. Sez. TI n 730/2008; Cass. Sez. II n. 1214/2012).”

© massimo ginesi 4 luglio 2016

 

art. 1117 cod.civ., per stabilire se il bene è condominiale vale il titolo originario

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Principio consolidato, che la Suprema Corte ( Cass. Civ. II sez.  Sentenza 30 giugno 2016 n. 13450, relatore Scarpa)  declina con grande chiarezza e alcune interessanti precisazioni.

Il nucleo centrale della decisione ha richiardo ad un corridoio conteso dai condomini, in ordine al quale alcuni rivendicano la titolarità esclusiva ed altri ne affermano la condominialità.

Osserva la Corte che “Ora, ai sensi dell’art. 1117, n. 1, cod.civ. , rientrano tra le parti comuni spettanti ai proprietari delle singole unità site nell’edificio condominiale, tra l’altro, le scale, i vestiboli, gli anditi, ovvero comunque tutte le parti necessarie all’uso comune ed essenziali alla funzionalità del fabbricato, e quindi anche gli annessi pianerottoli, passetti, corridoi, pur se posti in concreto al servizio di singole proprietà. Per sottrarre tali beni alla comproprietà dei condomini e dimostrarne l’appartenenza esclusiva al titolare di una porzione esclusiva, è necessario un titolo contrario, contenuto non già nella compravendita o nella donazione delle singole unità immobiliari (come suppone il ricorrente, menzionando gli atti d i cui alle pagine 16 e seguenti di ricorso), bensì nell’atto costitutivo del condominio. Titolo idoneo a vincere la presunzione di condominialità ex art 1117 e.e., infatti, è non l’atto di acquisto del singolo appartamento condominiale, quanto ilnegozio posto in essere da colui o da coloro che hanno costituito il condominio dell’edificio, in quanto tale
negozio, rappresentando la fonte comune dei diritti dei condomini, ne determina l’estensione e le limitazioni reciproche. Pertanto, per accertare se ilcorridoio di accesso ai singoli appartamenti delle parti in lite fosse escluso dalla comunione e riservato in proprietà esclusiva di alcuno o altro dei condomini titolari di essi, ilricorrente avrebbe dovuto decisivamente indicare, piuttosto, quale fosse stato l’atto costitutivo del condominio di via M., di Locorotondo, spettando certamente al proprietario, che rivendichi la proprietà esclusiva di un bene presuntivamente attribuito al condominio, l’onere di dare la prova del proprio diritto individuale sulla res.”

quanto alla pbiettiva destinazione del bene e alla sua attitudine a rendere una utilità comune, è giudizio di fatto rimesso al Giudice di merito: “Costituisce, peraltro, apprezzamento di fatto dei giudici di merito incensurabile in sede di legittimità – ove, come nel caso in esame, risulti pure compiutamente motivato – l’accertamento, in base ad elementi obiettivamente rilevati, che il corridoio serva, per sue caratteristiche strutturali e funzionali, ali’uso comune di più appartamenti, e non sia, piuttosto, destinato, al godimento di una parte soltanto dell’edificio avente accesso da esso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3159 del 14/02/2006; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1498 del 12/02/1998; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1776 del 23/02/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2070 del 22/03/1985; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 673 del 09/03/1972).”

Peraltro tale giudizio di fatto dovrà arrestarsi a fronte di una statuizione del titolo, posto che i criteri previsti dall’art. 1117 cod.civ. – così come espressamente previsto dalla norma – hanno natura sussidiaria e secondaria rispetto al titolo” la presunzione di comunione, tra i condomini di un edificio condominiale, di un bene rientrante tra quelli indicati dall’art. 1117 e.e., può, invero, esser superata se il contrario risulta dal titolo, e non già se la situazione di fatto deponga per la possibilità di ottenere le medesime utilità fornite da quel bene attraverso il godimento di altre parti comuni, comunque strumentali alla medesima porzione esclusiva (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3409 del 22/03/2000). Né parimenti rivelano significato i richiami operati in ricorso all’espletata prova testimoniale sul transito operato in  passato dalla famiglia O. attraverso la porta dell’androne, in quanto l’esclusione, quale titolo contrario ex art. 1117 cod.civ., dal novero delle parti in condominio di alcune che, per presunzione di legge, sono di proprietà comune, incidendo sulla costituzione o modificazione di un diritto reale immobiliare, deve risultare necessariamente da atto scritto.

© massimo ginesi 4 luglio 2016

 

ART. 1117 COD.CIV. , l’elisione del bene dal novero delle parti comuni deve risultare dal titolo

Interessante pronuncia della Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 26 gennaio – 22 giugno 2016, n. 12980 ), sulla mai abbastanza chiarita questione della presunzione di condominialità e sulle condotte idonee al suo superamento.

L’originario unico proprietario dell’edificio ben potrà destinare  determinati beni (nella fattispecie alcuni locali destinati a stireria e lavanderia) a svolgere una funzione autonoma e non strumentale all’utilizzo delle altre porzione del fabbricato.

Se tuttavia si vorrà che tale destinazione, che contrasta con la usuale destinazione di tali beni ad una funzione comune, sia opponibile ai condomini una volta che l’edificio – per la cessione a terzi delle unità esclusive – sia divenuto un condominio, tale circostanza dovrà risultare negli atti di acquisto, che rappresentano l’unico titolo idoneo a superare le presunzioni dettate dall’art. 1117 cod.civ. ove già non risulti dalle caratteristiche intrinseche al bene.

Al medesimo risultato non potrà invece pervenire una delibera succesiva, atteso che si tratta di atto dispositivo che ha natura negoziale e che è dunque sottratto al meccanismo deliberativo a maggioranza.

 

Osserva la Corte “In sintesi, la ricorrente deduce l’erroneità dell’accertamento svolto dal giudice d’appello, il quale, pur avendo correttamente indicato l’art. 1117 c. c. quale fonte di una presunzione iuris tantum della destinazione condominiale dei beni indicati al secondo comma della medesima norma, avrebbe indebitamente escluso dal novero degli “atti contrari” idonei a superare tale presunzione l’atto di destinazione unilaterale posto in essere dal proprietario esclusivo di un immobile indiviso, ritenendo invece necessario che tale volontà sia esplicitata nell’ambito del titolo costitutivo del condominio, ossia nel primo negozio di trasferimento delle portoni dell’immobile”.

“La questione riguarda dunque l’idoneità della deliberazione del 9 dicembre 1977 a escludere i locali occupati alla ricorrente dall’insieme dei beni condominiali, dovendosi altrimenti presumere, in virtù dell’aut. 1117, secondo comma, c c. – fondato sul rilievo esperienziale secondo cui determinati beni risultano normalmente connessi da un vincolo di destinatone strumentale alle porzioni di proprietà esclusiva dei singoli condomini – la natura comune degli stessi.”

“Di certo, appare evidente che non può disconoscersi la facoltà dell’unico proprietario dell’immobile di destinare, nell’ambito dell’uso esclusivo dell’edificio, singole frazioni dello stesso a un fine particolare, ma perché tale volontà unilaterale possa imporsi agli eventuali acquirenti delle portoni dello stabile, ossia ai futuri condomini, è necessario che l’elisione del nesso pertinenziale tra la res principale e la res secondaria, laddove non esplicitato in forma chiara nell’atto pubblico di trasferimento, costitutivo del condominio, emerga quantomeno sul piano oggettivo, alla luce dei connotati strutturali o della particolare collocazione del singolo bene la cui natura è controversa.

“Tale principio, frutto di un approccio ermeneutico attento sia alle prerogative del proprietario sia alle esigenze di tutela degli acquirenti delle porzioni condominiali, trova conferma in numerosi precedenti di questa Corte, atti a tracciare un orientamento giurisprudenziale oggi dominante, in base al quale, laddove la genesi di un condominio avvenga mediante il successivo smembramento di una precedente proprietà individuale, la volontà dei contraenti di attribuire in via esclusiva la proprietà di un bene che, per sua struttura e ubicazione, dovrebbe considerarsi comune ai condomini, deve emergere in maniera chiara e trasparente dall’atto bilaterale di trasferimento delle singole frazioni condominiali.

Del resto, in assenza di un esplicita manifestazione della volontà delle parti, all’atto meramente unilaterale dell’originario proprietario non potrebbe riconoscersi alcuna efficacia costitutiva o probatoria, potendosi al più rilevare l’esistenza di circostanze oggettive tali da escludere ragionevolmente la natura condominiale del bene, qualora i connotati strutturali o la collocazione dello stesso rendano evidente, al momento della compravendita, la destinazione nell’interesse esclusivo del proprietario originario o di un numero limitato di condomini (in tal senso, Cass., nn. 26766 del 2014; 3257 del 2004; 16292 del 2002; 11877 del 2002; 2670 del 2001; 5442 del 1999; 9221 del 1994; 9062 del 1994; 6103 del 1993; 3679 del 1987; 1806 dei 1984). Pertanto, guardando alle peculiarità del caso di specie, appare doveroso riconoscere che il giudice di secondo grado ha fatto buona applicazione dei suddetti principi rilevando che le caratteristiche strutturali dei locali contestati ne evidenziano l’obiettiva destinazione condominiale, atteso che il lavatoio e lo stenditoio non appaiono strutturalmente separati dalle altre superfici condominiali, costituendo, peraltro, ricovero per il serbatoio comune dell’acqua e per la comune caldaia. Ne è derivata, pertanto, l’esclusione de/l’assenta proprietà esclusiva della ricorrente, non potendosi la stessa dedurre né dal tenore degli atti di trasferimento succedutisi nel tempo, i quali operano una distinzione ristretta ai soli locali destinati al servizio di portineria, né dalla delibera richiamata, il cui contenuto non ha trovato eco nei negozi traslativi delle singole frazioni condominiali (v. pag. 5 della sentenza impugnata).”

© massimo ginesi giugno 2016  

il Condominio parziale, anno 2016 – parte prima

 

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L’ISTITUTO DEL CONDOMINIO PARZIALE AFFRONTATO IN UNA RECENTISSIMA PRONUNCIA DELLA CASSAZIONE

Cassazione civile II sezione civile 17 giugno 2016 n. 12641

La seconda Sezione civile della Cassazione affronta il tema del condominio parziale con una sentenza il cui relatore è un noto ed illustre cultore della materia condominiale.

I FATTI: il titolare di un esercizio commerciale in Genova subisce danno dal crollo di un muro che fa parte del vicino caseggiato, composto dal tre distinti numeri civici e cita in giudizio il numero 13, assumendo che a tale porzione si riferisca il manufatto oggetto di danno. Si costituisce l’amministratore di tale numero civico unicamente per far valere il difetto di legittimazione passiva, affermando che il muro crollato è di pertinenza del civico 15.

I giudici di merito di primo e secondo grado (Tribunale e Corte di Appello di Genova) accolgono l’eccezione e respingono la domanda, così che il danneggiato ricorre in Cassazione.

Assai interessante appare già la ricostruzione dei fatti effettuata dal giudice di legittimità: “E’ pacifico che la domanda di risarcimento dei danni fosse stata portata da G. B. con la citazione del 26 giugno 2001 nei confronti del condominio di via B. I. n. 13″. L’attore esponeva che nell’edificio di tale condominio erano in corso lavori di ristrutturazione, nel corso dei quali si era verificato un crollo che aveva cagionato gravi danni all’esercizio commerciale da lui condotto. Era stato quindi proprio il B. a prospettare in domanda una legittimazione passiva del Condominio di via B. I. n. 13, agendo nei confronti dello stesso a titolo di responsabilità extracontrattuale quale custode e proprietario del muro crollato. Com’è stato autorevolmente chiarito da Cass. sez. un. 16 febbraio 2016, n. 2951, ai fini di valutare la sussistenza della legittimazione a contraddire, ciò che rileva è la prospettazione contenuta nella domanda, la quale individua un soggetto come titolare dell’obbligo o della diversa situazione soggettiva passiva dedotta in giudizio. La legittimazione passiva manca, allora, solo allorchè dalla stessa prospettazione della domanda emerga che il dovere o l’obbligo azionato non appartiene al convenuto. Nel caso in esame, pertanto, impropriamente si è discusso di difetto di legittimazione passiva del Condominio di via B. I. 13. Questo era il reale destinatario della pretesa risarcitoria intentata dal B., e questo si era costituito davanti al Tribunale di Genova per eccepire che il muro crollato sul Bar S. di proprietà dell’attore appartenesse al vicino edificio ed a diverso condominio edilizio. 61. Il Condominio di via B. I. 13 aveva, quindi, disconosciuto, stricto sensu, non la propria legittimazione passiva quanto la riferibilità ad esso della titolarità della posizione soggettiva passiva dedotta in giudizio a sostegno della richiesta di danni. La relativa questione attiene, pertanto, al merito della causa e non alla legittimazione: ovvero, se il muro crollato nel corso dei lavori di ristrutturazione rientrasse tra i beni comuni ex art. 1117 e.e. appartenenti al Condominio di via B. I. 13. All’esito del giudizio di merito, Tribunale e Corte d’Appello hanno dato per accertato che la parte crollata sull’immobile del B. durante i lavori eseguiti dalla I.G.C. rientrasse nella proprietà del diverso Condominio di via B. I. 15, e quindi che la parte convenuta non fosse titolare dell’obbligo risarcitorio che l’attore aveva prospettato come suo”

La Corte rileva anche il mutamento della domanda avanzata dall’attore: “Mutando la sua iniziale strategia difensiva, l’attore aveva quindi dedotto che, in realtà, la citazione si dovesse intendere rivolta all’unico Condominio di via B. I. 13, 15 e 17, trattandosi di complesso edilizio unitario.”

Da tale ricostruzione la Corte trae una lunga, articolata e interessante ricostruzione del fenomeno “condominio parziale”, che attiene ad aspetti sostanziali e processuali e  che trascendono il mero aspetto della ripartizione della spesa individuato dall’art. 1123 III comma cod.civ.: “E’ noto come il nesso di condominialità, presupposto dalla regola di attribuzione di cui all’art. 1117 cod.civ., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive, sia estese in senso verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente, purché le diverse parti siano dotati di strutture portanti e di impianti essenziali comuni, come appunto quelle res che sono esemplificativamente elencate nell’art. 1117 cod.civ., con la riserva “se il contrario non risulta dal titolo”. Anzi, la “condominialità” si reputa non di meno sussistente pur ove sia verificabile un insieme di edifici “indipendenti”, e cioè manchi un così stretto nesso strutturale, materiale e funzionale, ciò ricavandosi dagli artt. 61 e 62 disp. att. cod.civ. , che consentono lo scioglimento del condominio nel caso in cui “un gruppo di edifici … si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi”, sempre che “restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dell’articolo 1117 del codice”. Può, pertanto, ravvisarsi un autonomo condominio dei proprietari di uno o alcuni dei beni già comuni dell’originario intero edificio solo nel rispetto della disposizione eccezionale di cui all’art. 61 disp.att. cod.civ., la quale prevede la possibilità di scissione, in base a deliberazione assembleare adottata con la maggioranza ex art. 1136, comma 2, e.e., dell’unico condominio originario in più condomini, mediante atto ricognitivo postulante che le diverse parti del complesso edilizio presentino i connotati di strutture autonome e distinte. La natura eccezionale dell’art. 61 disp.att. cod.civ. discende dalla constatazione che essa deroga al principio secondo il quale la divisione può essere attuata solo con il consenso unanime dei partecipanti alla comunione. E’ dunque agevole ipotizzare come possano esservi, nell’ambito dell’edificio condominiale, delle parti comuni, quali, ad esempio, il tetto, o l’area di sedime, o i muri maestri, o le scale, o l’ascensore, o il cortile, che risultino destinati al servizio o al godimento di una parte soltanto del fabbricato. Secondo la giurisprudenza, è in siffatte ipotesi automaticamente configurabile la fattispecie del condominio parziale “ex lege”: tutte le volte, cioè, in cui un bene, come detto, risulti, per le sue obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato al servizio e/o al godimento, in modo esclusivo, di una parte soltanto dell’edificio in condominio, esso rimane oggetto di un autonomo diritto di proprietà, venendo in tal caso meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene (Cass. 24 novembre 2010, n. 23851).

Mancano i presupposti per l’attribuzione, ex art. 1117 cod.civ., della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali, appaiano necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero siano destinati all’uso o al servizio non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Di per sé, il condominio parziale non esige un fatto o atto costitutivo a sé, ma insorge ope legis, in presenza della condizione materiale o funzionale giuridicamente rilevante, finendo per coesistere nell’edificio con la più vasta organizzazione configurata dal condominio.

Può, tuttavia, ipotizzarsi pure un’apposita clausola del regolamento volta ad attribuire soltanto ad un gruppo di condomini la proprietà di un bene o di un impianto, ovvero ad accertarne la titolarità esclusiva in forza della destinazione oggettiva della cosa stessa, dando conto delle conseguenze gestionali di tale situazione di condominio parziale. Nessuna modifica relativa al regime delle cose comuni può, infatti, derivare da una delibera di istituzione di uno o più condomini parziali nell’ambito del fabbricato: la volontà della maggioranza assembleare non potrebbe validamente modificare le relazioni di comproprietà tra i singoli condomini e le parti comuni dell’edificio, né incidere sulla legittimazione dei partecipanti a decidere in ordine alla loro gestione.

Il fondamento normativo, che limita in tal senso la proprietà di cose, servizi ed impianti dell’edificio, si rinviene nell ‘ art. 1123, comma 3, cod.civ. Il primo comma dello stesso art. 1123 cod.civ. elabora il principio generale secondo cui l’obbligazione di contribuire alle spese per la conservazione e per il godimento delle parti comuni si suddivide in proporzione alle quote di ciascuno; il terzo comma consente allora di aggiungere che l’obbligazione di contribuire alle spese per la conservazione ed il godimento grava, invece, soltanto su taluni condomini, come conseguenza della delimitazione della loro appartenenza. A tale parziale attribuzione della titolarità delle parti comuni corrispondono conseguenze di rilievo per quanto attiene alla gestione, nonché all’imputazione delle spese. Relativamente alle cose, di cui non hanno la titolarità per i partecipanti al gruppo non sussiste il diritto di partecipare all’assemblea, dal che deriva che la composizione del collegio e delle maggioranze si modifica in relazione alla titolarità delle specifiche parti oggetto della concreta delibera da adottare. A carico dei medesimi condomini privi di contitolarità con riguardo a quel dato bene, neppure ovviamente si pone un problema di contribuire alle spese. (Cass. 17 febbraio 2012, n. 2363, peraltro, ha del tutto convincentemente negato una legittimazione processuale del condominio parziale, tale da poter sostituire il condominio dell’intero edificio, dichiarando inammissibile il ricorso proposto dal “Condominio della Scala D” avverso una sentenza pronunciata al culmine di un giudizio di merito del quale era stato in precedenza parte il Condominio globalmente inteso, e altresì specificando l ‘irrilevanza del fatto che l’amministratore del medesimo condominio parziale della singola scala fosse la stessa persona fisica investita di tale ufficio nel condominio dell’intero edificio). La negazione di un’ipotetica legittimazione e capacità processuale autonoma o sostitutiva del condominio parziale rispetto al condomino dell’intero edificio, ovvero della facoltà dello stesso di agire mediante un proprio distinto rappresentante a difesa dei diritti comuni inerenti alle parti oggetto della più limitata contitolarità di cui all’art. 1123, comma 3, cod.civ. , è corroborata dalla considerazione che i criteri di ripartizione delle spese necessarie per provvedere alla manutenzione delle parti comuni, stabiliti dagli artt. 1123, 1124, 1125 e 1126 cod.civ., non possono mai influire sulla legittimazione del condominio nella sua interezza, né sulla rappresentanza del suo amministratore estesa a tutti i condomini.”

La premessa in diritto consente di risolvere il caso all’esame della Corte, che sottolinea come l’accertamento di merito sulla sussistenza o meno di un unico edificio o di più condominii contigui ma autonomi è accertamento di fato insindacabile – ove adeguatamente motivato – in sede di legittimità.:

“Ove, come egli assume, il muro crollato e causa del danno da risarcire costituisse bene necessario all’uso comune soltanto relativo ad uno degli edifici dell’unico Condominio di via B. I. contraddistinto coi numeri 13, 15 e 17, in situazione di condominio parziale, e quindi inserito in un più ampio complesso condominiale abbracciante i tre numeri civici, comunque la domanda risarcitoria sarebbe risultata inammissibilmente rivolta nei confronti di uno solo di tali edifici (quello numero 13), ovvero di un condominio parziale, contravvenendo a quanto dapprima evidenziato nel richiamo al principio affermato da Cass. 17 febbraio 2012, n. 2363. Peraltro, col dedursi appunto che il muro crollato, e dal quale era disceso il danno all’esercizio commerciale del B., appartenesse, in realtà, all’unico condominio complesso, costituito dai tre fabbricati nn. 13, 15 e 17 di via B. I., in quanto gruppo di edifici che, seppur indipendenti, avessero in comune alcuni dei beni di cui all’art. 1117 e.e., si suppone una valutazione in fatto, sottratta ·al giudizio di legittimità. Spetta, infatti, all’accertamento del giudice di merito, non sindacabile dalla Corte di Cassazione ove, come nella specie, congruamente motivato, verificare l’esistenza di un unico condominio nell’ipotesi di fabbricati adiacenti orizzontalmente, in quanto dotati di strutture portanti o impianti comuni tra quelli indicati dal citato art. 1117 cod.civ. La Corte d’Appello di Genova ha argomentato al riguardo che mancassero elementi per ricavarne che i tre civici potessero essere considerati un unico edificio, essendo essi, anzi, del tutto distinti, con ingressi autonomi, sicchè la domanda risarcitoria andava rivolta al Condominio del civico 15, benché fosse rappresentato dallo stesso amministratore del civico 13 erroneamente evocato in lite. Allorchè il ricorrente censura l’affermazione della sentenza della Corte d’Appello secondo cui si tratterebbe di tre edifici del tutto distinti, perché essa non avrebbe tenuto conto del fatto incontestato della “continuità tra i tre civici”, ciò non equivale alla denuncia di un vizio di motivazione su un punto decisivo, denunziabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., in quanto tale doglianza postula che il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento, nel senso che, dopo aver percepito un fatto di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo, in modo che l’omissione venga a risolversi in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza del fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in modo insufficiente o illogico.”

Una sentenza interessante, che traccia – nell’anno 2016 – i contenuti ed i confini di un istituto peculiare quale il condominio parziale.

Nella seconda parte si esaminerà, con lo stesso criterio (l’evidenziazione dei passi cruciali del provvedimento), una pronuncia assai più risalente che rappresenta una pietra miliare nella disamina dello stesso istituto e che vede la firma – quale relatore – di Rafaele Corona (già presidente della Seconda Sezione della CAssazione), finissimo studioso del diritto condominiale.

Nella sentenza 7885/1994 si tracciano, con grande acutezza, non solo le linee del Condominio parziale, ma si giunge assai vicini all’essenza del diritto di condominio, un concetto che il legislatore ha disciplinato ma mai espresso.

segue…

© massimo ginesi giugno 2016

due edifici collegati non sono necessariamente un condominio

Cass. civ. Sez. II 4 maggio 2016 n. 8908 – sentenza interessante, che affronta due temi peculiari: l’uno in tema di tabelle millesimali l’altro, relativo alla conformazione del fabbricato e al fatto che due corpi di fabbrica distinti -seppur comunicanti – non sono necessariamente da intendere quale unico condominio, salvo che l’originario costruttore non avesse inteso dargli tale configurazione (tesi che la Suprema Corte ha più volte espresso anche relativamente al c.d. supercondominio).

Quanto alle tabelle millesimale la Corte riprende l’orientamento delle sezioni unite del 2010, ribadendo che la tabella millesimale ha mera natura regolamentare volta al riparto delle spese e non costituisce accertamento del diritto di proprietà, così “ restando irrilevante, ai fini della formazione della tabella, chi sia il proprietario dal bene cui compete una certa parte di millesimi…La decisione della Corte era quindi dovuta a prescindere dalla individuazione del titolare dell’unità immobiliare in questione: si verte infatti in giudizio sulla formazione delle tabelle e non sull’accertamento della proprietà”

L’altro aspetto di rilievo, affrontato dalla Corte, attiene alla configurazione dell’edificio: “un condominio può anche nascere come unico, se costituito da due fabbricati comunicanti, ma deve essere provato e risultare dagli atti che tale sia stata la conformazione di esso per scelta del costruttore voluta al momento della nascita del condominio. Se infatti i due fabbricati vengono messi in collegamanto successivamente, non sorge per questo solo fatto un regime di condominialità che li integri”

In ultimo la sentenza   merita lettura poiché si propone come un perfetto vademecum al difensore su come non confezionare un ricorso per cassazione.

© massimo ginesi giugno 2016

marzo 2016 – niente talpe in condominio, il sottosuolo è comune

Ai sensi dell’art. 1117 c.c., il sottosuolo, da intendersi quale zona esistente in profondità al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio, va considerato di proprietà condominiale. Non è permesso, pertanto, ad alcun condòmino appropriarsi del bene in questione (come nella specie, eseguendo uno scavo) privandone gli altri condòmini di pari possibilità, anche solo teorica, di utilizzo.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 11 febbraio – 30 marzo 2016, n. 6154
Presidente Mazzacane – Relatore Scarpa

Una sentenza ineccepibile, a firma di un relatore noto e illustre a cui vanno i nostri migliori auguri di buon lavoro quale giudice di legittimità: la chiarezza e nettezza della motivazione merita di riportarla senza commenti ulteriori, poiché delinea con grande nitidezza sia il fatto che il diritto: “Dall’esame del regolamento di condominio e dalla destinazione funzionale del terreno in oggetto, posto in rapporto di strumentalità col fabbricato principale, la Corte di Milano ha ricavato, “ad colorandam possessionem”, l’inclusione dello stesso fra le parti comuni dell’edificio ex art. 1117 c.c., così accertando che le denunciate utilizzazioni da parte della società R.G. & c. eccedessero i limiti segnati dalle concorrenti facoltà dei condomini compossessori. In base all’art. 1117 c.c., infatti, l’estensione della proprietà condominiale ad un immobile, quale quello oggetto di lite, che appare come corpo di fabbrica separato rispetto all’edificio in cui ha sede il condominio, può essere giustificata soltanto in ragione di un titolo idoneo a far ricomprendere il relativo manufatto nella proprietà del condominio stesso (avendo la Corte di merito inteso come tale il regolamento di condominio richiamato nell’atto di acquisto dei danti causa di Locat S.p.a.), qualificando espressamente tale bene come ad esso appartenente (articoli 1 e 2 del citato Regolamento). D’altro canto, la norma regolamentare che ricomprende nella proprietà comune “il terreno sul quale sorgono gli edifici” appare mera riproduzione della regola attributiva dell’art. 1117 c.c., la quale abbraccia pure “il suolo su cui sorge l’edificio”. Oggetto di proprietà comune, agli effetti dell’art. 1117 c.c., è non solo la superficie a livello del piano di campagna, bensì tutta quella porzione del terreno su cui viene a poggiare l’intero fabbricato e dunque immediatamente pure la parte sottostante di esso. Il termine “suolo”, adoperato dall’art. 1117 citato, assume, invero, un significato diverso e più ampio di quello supposto dall’art. 840 c.c., dove esso indica soltanto la superficie esposta all’aria. Piuttosto, l’art. 1117 c.c., letto sistematicamente con l’art. 840 dello stesso codice, implica che il sottosuolo, costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio (seppure non menzionato espressamente dall’elencazione esemplificativa fatta dalla prima di tali disposizioni), va considerato di proprietà condominiale in mancanza di un titolo, che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini. Pertanto, nessun condomino può, senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione, procedere all’escavazione in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, verrebbe a ledere il diritto di proprietà degli altri partecipanti su una parte comune dell’edificio, privandoli dell’uso e del godimento ad essa pertinenti (Cass. 13 luglio 2011, n. 15383; Cass. 2 marzo 2010, n. 4965; Cass. 24 ottobre 2006, n. 22835; Cass. 27 luglio 2006, n. 17141; Cass. 9 marzo 2006, n. 5085; Cass. 28 aprile 2004, n. 8119; Cass. 18 marzo 1996, n. 2295; Cass. 23 dicembre 1994, n. 11138; Cass. 11 novembre 1986, n. 6587). La condotta del condomino che, senza il consenso degli altri partecipanti, proceda a scavi in profondità del sottosuolo, acquisendone la proprietà, finirebbe, in pratica, con l’attrarre la cosa comune nell’ambito della disponibilità esclusiva di quello. Sicché, avendosi nella specie riguardo all’utilizzazione del sottosuolo di un fabbricato compreso nel condominio, la configurabilità di uno spoglio denunciabile con azione di reintegrazione dall’amministratore condominiale, al fine di conseguire il recupero del godimento della cosa, sottratto illecitamente, postula il riscontro di una situazione di compossesso del sottosuolo medesimo, qui desunta dalla destinazione funzionale del bene (la Corte di Milano afferma in proposito di aver accertato un “rapporto imprescindibile di strumentalità con il fabbricato principale”), oltre che, “ad colorandam possessionem”, dalla sua verificata inclusione fra le parti comuni dell’edificio, nonché il riscontro ulteriore che l’indicata utilizzazione ecceda, appunto, i limiti segnati dalle concorrenti facoltà del compossessore (cfr. Cass. 4 dicembre 1974, n. 3965; Cass. 28 gennaio 1985, n. 432; Cass. 16 dicembre 2004, n. 23453). Del resto, la prova dell’animus spoliandi può essere desunta, per via di logica astrazione, dallo stesso comportamento dell’agente, e tale consapevolezza di mutare lo stato di fatto preesistente contro la volontà del Condominio, secondo l’incensurabile valutazione del giudice di merito, sarebbe stata implicita nella “situazione di fatto dei luoghi”.
Merita riportare anche la statuizione sul ricorso incidentale proposto da uno dei convenuti, poiché interesserà marginalmente l’amministratore ma assai profondamente il suo difensore: “Va altresì rigettato il ricorso incidentale proposto da Unicredit Leasing s.p.a., la quale deduce il proprio difetto di legittimazione passiva, in quanto semplice concedente del bene in locazione finanziaria all’utilizzatrice R.G. & c. s.a.s. Certamente l’art. 1168 c.c. configura la legittimazione passiva all’azione di reintegrazione secondo uno schema di tipo personale, sicché la domanda è esperibile contro l’autore dello spoglio. Vi sono, tuttavia, fattispecie in cui il provvedimento di reintegrazione va eseguito nella sfera possessoria o proprietaria di un soggetto estraneo all’episodio lesivo, ma vincolato al bene da un unico ed inscindibile rapporto giuridico. Sicché, quando l’attuazione della richiesta tutela possessoria imponga la rimozione dello stato di fatto abusivamente creato, con l’abbattimento di opere appartenenti in proprietà anche a terzi non presenti in giudizio, sussiste la necessità di integrare nei loro confronti il contraddittorio; altrimenti, la sentenza resa nei confronti soltanto dell’autore dello spoglio, e non anche del proprietario dell’opera, sarebbe “inutiliter data”, giacché la demolizione della cosa pregiudizievole inciderebbe sulla sua stessa esistenza e necessariamente quindi sulla proprietà di quel terzo pretermesso, a nulla rilevando, in contrario, che costui possa poi fare opposizione all’esecuzione nelle forme previste dall’art. 615 c.p.c. (Cass. 20 gennaio 2010, n. 921). Ora, poiché nell’operazione di leasing finanziario, quale quella che si assume intervenuta tra la concedente Locat S.p.a. e l’utilizzatrice R.G. & c. s.a.s., la proprietà del bene rimane in capo al concedente, attribuendosi lo stesso all’utilizzatore in forma di detenzione autonoma qualificata fino al momento dell’eventuale esercizio della facoltà di riscatto, sussiste la necessaria legittimazione passiva del medesimo concedente nell’azione di reintegrazione proposta da un terzo, qualora il ripristino della situazione anteriore allo spoglio debba avvenire con la demolizione di un’opera concernente il bene dato in godimento.”

© massimo ginesi marzo 2016

pubblicato su “amministrare immobili” marzo 2016

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marzo 2016 – paga e decide solo chi usa il bene

I beni destinati ad un uso limitato ad alcuni dei condomini devono essere gestiti e manutenuti esclusivamente da questi (fattispecie relativa alla delibera dell’assemblea condominiale che, con riferimento al cancello del cortile, era stata assunta ammettendo alla votazione i soli condomini comproprietari di quell’area).

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 18 dicembre 2015 – 2 marzo 2016, n. 4127
Presidente Mazzacane – Relatore Falabella

Paga e vota chi è proprietario dei beni: un cortile destinato a servire solo alcuni dei condomini non cessa di essere bene condominiale ma le decisioni e le relative spese competono solo a chi lo utilizza.
La sentenza offre una chiara e schematica disamina della disciplina del condominio parziale, del regime di accessorietà e delle ragioni che conducono ad applicare ad una fattispecie simile il regime del condominio e non quello della comunione.
Il fatto: “Con ricorso ex art. 1137 c.c. depositato avanti al Tribunale di Salerno, S.A.M. , nella qualità di proprietaria di appartamento facente parte del fabbricato ubicato in (OMISSIS) , impugnava la delibera condominiale assunta dall’assemblea in data 13 maggio 2002 con la quale, nell’approvare il bilancio consuntivo dell’anno 2000-2001 e quello preventivo dell’anno 2001-2002, erano stati inclusi tra i costi di gestione condominiali anche quelli inerenti alla manutenzione di un cancello di accesso ad un cortile posto in adiacenza al fabbricato condominiale, il quale era distinto rispetto ad esso perché oggetto di una comunione tra la stessa istante e taluni soltanto dei componenti del suddetto Condominio. Chiedeva quindi che, previo accertamento della proprietà, in capo ad essa istante, di una quota del cortile, fosse annullata la delibera sopra indicata assunta dal Condominio. Quest’ultimo si costituiva in giudizio e contestava le deduzioni attoree, rilevando come la costituzione di un condominio fosse compatibile con una comunione parziale laddove taluni beni fossero utilizzati per la loro struttura funzionale da un gruppo ristretto di condomini ed evidenziando, altresì, che la delibera impugnata aveva rettamente ripartito le spese di manutenzione del cancello tra i sei comproprietari dell’area di cortile, e non tra tutti i condomini “

Il Tribunale di Salerno ha dato torto alla ricorrente, e così la corte di Appello, ma costei ha proseguito per sentirsi dare torto anche in CAssazione.
Afferma infatti la Suprema Corte: “il cortile condominiale è definito dall’art. 1117, n. 1 c.c. bene di proprietà comune, in quanto dotato di una attitudine funzionale al servizio dello stabile condominiale nella sua interezza; la proprietà dello stesso in capo ad alcuni soltanto dei condomini implica che quell’area sia asservita non già all’edificio nel suo complesso, ma alle sole porzioni nella proprietà esclusiva dei soggetti che hanno la comproprietà del cortile. Pertanto, il fatto che un bene, rientrante tra quelli di cui all’art. 1117, appartenga solo ad alcuni condomini non modifica, nella sua essenza, la relazione funzionale tra il bene, che è pur sempre destinato ad un uso collettivo (ancorché limitato) e le singole unità immobiliari oggetto di proprietà esclusiva: in tal caso, infatti, deve presumersi che la proprietà comune serva quelle individuali, né più né meno come il bene condominiale serve le proprietà di tutti i condomini. Come si è detto, un cortile assoggettato alla parte dell’immobile che comprende le porzioni in proprietà esclusiva di un numero limitato di condomini è, in base alla previsione dell’art. 1123, 3 co. c.c., un bene soggetto al regime del condominio parziale. Il profilo funzionale che lega il bene ad alcune soltanto delle proprietà individuali non vale, dunque, a sottrarre lo stesso al regime di contitolarità proprio del condominio, anche se in questo caso opera una diversa modulazione dell’ambito soggettivo di quella contitolarità”
Interessante la chiusura sul condominio parziale: “Trova quindi giustificazione, con riferimento alla fattispecie in esame, la delibera dell’assemblea condominiale che, con riferimento al cancello del cortile, è stata assunta ammettendo alla votazione i soli condomini comproprietari di quell’area. Infatti il condominio parziale opera proprio sul piano della semplificazione dei rapporti gestori interni alla collettività condominiale, per permettere che, quando all’ordine del giorno dell’assemblea vi siano argomenti che interessino la comunione di determinati beni o servizi limitati soltanto ad alcuni condomini, il quorum, tanto costitutivo quanto deliberativo, debba essere calcolato con esclusivo riferimento alle unità immobiliari e ai condomini direttamente interessati (Cass. 17 febbraio 2012, n. 2363). Il ricorso è dunque respinto”

© massimo ginesi marzo 2016

pubblicato  su “amministrare immobili” marzo 2016

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