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l’assemblea non può maggiorare le spese di ascensore per l’unità immobiliare destinata ad ufficio

E’ quanto ribadisce Cass.civ. sez. II  ord. 18.7.2023 n. 20888 rel. Scarpa, facendo applicazione di principi consolidati in materia.

Osserva la Corte che “E’ dunque nulla la delibera condominiale adottata a maggioranza degli aventi diritto (quale quella di cui al punto 3 della riunione del 5 novembre 2008 oggetto di causa), con cui l’assemblea (nella specie, “preso atto dei disagi provocati dall’ufficio” sito in una delle unità immobiliari di proprietà esclusiva) stabilisca un onere maggiorato di contribuzione alle spese di gestione dell’impianto di ascensore, sul presupposto della più intensa utilizzazione, rispetto agli altri, del bene comune, in quanto la modifica dei criteri legali (nella specie, ex art. 1124 c.c.) o di regolamento contrattuale di riparto delle spese richiede il consenso di tutti i condomini, e perciò una convenzione (eventualmente tradotta in una delibera assembleare totalitaria, conclusa con l’intervento e con il consenso di tutti i componenti del condominio), ed anche perché il criterio di riparto in base all’uso differenziato, derivante dalla diversità strutturale della cosa, previsto dal comma 2 dell’art. 1123 c.c., non è applicabile alle spese generali, né in particolare alle spese di funzionamento dell’ascensore, con riguardo alle quali l’applicazione dell’art. 1124 c.c. già consente di tener conto del più intenso uso in proporzione all’altezza dei piani.

Il comma 2 dell’art. 1123, allorché disciplina il riparto delle spese “in proporzione all’uso”, riguarda il caso in cui la cosa comune sia oggettivamente destinata a permettere ai singoli condomini di goderne in misura diversa, inferiore o superiore al loro diritto di condominio, e non dipende, invece, dal godimento effettivo che il singolo partecipante tragga in concreto dal bene in dipendenza del soddisfacimento delle proprie esigenze abitative o professionali, correlate all’attuale destinazione impressa all’unità immobiliare di sua proprietà esclusiva (cfr. Cass. n. 1511 del 1997; n. 6359 del 1996; n. 5179 del 1992; n. 13160 del 1991).

12. Sempre in base ai principi enunciati da Cass. Sez. Unite 14 aprile 2021, n. 9839, nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità di tale deliberazione, a condizione che quest’ultima sia dedotta mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione, ai sensi dell’art. 1137, comma 2, c.c.; ne consegue l’inammissibilità, rilevabile d’ufficio, dell’eccezione con la quale l’opponente deduca soltanto vizi comportanti l’annullabilità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione senza chiedere una pronuncia di annullamento.”

appare interessante il corollario che deriva da tale interpretazione, con riguardo ai rendiconti che risultino successivamente predisposti in forza di una criterio di imputazione in deroga alla legge e, quindi,  derivante da delibera nulla La dichiarazione di nullità della delibera dell’assemblea condominiale con cui si approva a maggioranza un criterio derogatorio al regime legale di ripartizione delle spese non genera, quindi, una nullità per propagazione dei rendiconti successivi ad essa che abbiano fatto applicazione di tale criterio. Piuttosto, una volta conseguita la dichiarazione di invalidità di un rendiconto che abbia suddiviso le spese facendo applicazione di un criterio convenzionale illegittimo, sorge in sede di predisposizione dei rendiconti per gli esercizi successivi l’onere per l’amministratore di tener conto delle ragioni di detta invalidità, ovvero di correggere i bilanci successivi a quello annullato, sottoponendo quelli rettificati nuovamente all’approvazione dell’assemblea (come può argomentarsi dall’art. 2434-bis c.c., dettato in tema di società).”

© MG 4.9.2023

regolamento contrattuale, modifiche apportate dal singolo e sindacato dell’autorità giudiziaria.

E’ noto che il singolo condomino, ai sensi dell’art. 1102 c.c., può apportare alla cosa comune ogni modifica che renda più comodo o proficuo il suo utilizzo, purché non alteri la destinazione e non impedisca l’altrui pari uso.

Ove l’intervento rimanga entro tali parametri, il condomino può intervenire in autonomia e l’assemblea non ha alcun titolo ha rilasciare autorizzazioni, previsione che invece può essere contenuta in un regolamento di natura contrattuale.

Ove il regolamento negoziale preveda la preventiva autorizzazione dell’assemblea all’intervento del singolo, è consentito al Giudice (che per costante orientamento non può intervenire sulle valutazioni discrezionali dell’organo collegiale) sindacare la sussistenza della violazione del decoro opposto dall’assemblea per negare il consenso.

E’ quanto emerge da una recente pronuncia di legittimità (Cass.civ. sez. II  28.12.2022 n. 37852 rel. Scarpa) che, per ampiezza e accuratezza dell’analisi, merita integrale lettura e che giunge ad affermare il seguente principio di diritto: “allorché una clausola del regolamento di condominio, di natura convenzionale, obblighi i condomini a richiedere il parere vincolante della assemblea per l’esecuzione di opere che possano pregiudicare il decoro architettonico dell’edificio, la deliberazione che deneghi al singolo partecipante il consenso all’intervento progettato, ritenendo lo stesso lesivo della estetica del complesso, può essere oggetto del sindacato dell’autorità giudiziaria, agli effetti dell’art. 1137 c.c., soltanto al fine di accertare la situazione di fatto che è alla base della determinazione collegiale, costituendo tale accertamento il presupposto indefettibile per controllare la legittimità della delibera.”

Cass_2022_37852

© Massimo Ginesi 9.1.2023