il sottotetto si presume comune, salvo il titolo contrario

schermata-2016-10-11-alle-06-31-55

un recente sentenza che ribadisce principi consolidati.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 6 luglio – 6 ottobre 2016, n. 20038 conferma l’esito dei giudizi di primo e secondo grado, affermando che “Secondo i principi affermati dalla giurisprudenza, l’appartenenza del sottotetto di un edificio va determinata in base al titolo, in mancanza o nel silenzio del quale, non essendo esso compreso nel novero delle parti comuni dell’edificio essenziali per la sua esistenza o necessarie all’uso comune, la presunzione di comunione ex art. 1117 c.c. è, in ogni caso, applicabile nel caso in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risulti oggettivamente destinato all’uso comune oppure all’esercizio di un servizio di interesse condominiale, quando tale presunzione non sia superata dalla prova della proprietà” esclusiva”.

Spetterà dunque a chi intenda vantare un  proprio diritto esclusivo su  un vano che sia suscettibile, anche astrattamente, di fornire una utilità comune fornire la prova del diritto esclusivo che intende vantare, adducendo i titoli in forza dei quali tale diritto gli è pervenuto.

Il principio risulta consolidato in giurisprudenza e non pare toccato dalla novella del 2012, che nell’introdurre nell’art. 1117 cod.civ. la locuzione “i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune” da la misura della matrice giurisprudenziale della L. 220, con la quale  il legislatore ha  attinto a piene mani – spesso senza grande consapevolezza – al diritto vivente generato dalle massime della suprema corte.

La pronuncia, per l’ampia disamina di fatto e diritto, merita lettura integrale.

© massimo ginesi 11 ottobre 2016 

art. 1117 cod.civ., per stabilire se il bene è condominiale vale il titolo originario

Schermata 2016-07-04 alle 07.45.36

Principio consolidato, che la Suprema Corte ( Cass. Civ. II sez.  Sentenza 30 giugno 2016 n. 13450, relatore Scarpa)  declina con grande chiarezza e alcune interessanti precisazioni.

Il nucleo centrale della decisione ha richiardo ad un corridoio conteso dai condomini, in ordine al quale alcuni rivendicano la titolarità esclusiva ed altri ne affermano la condominialità.

Osserva la Corte che “Ora, ai sensi dell’art. 1117, n. 1, cod.civ. , rientrano tra le parti comuni spettanti ai proprietari delle singole unità site nell’edificio condominiale, tra l’altro, le scale, i vestiboli, gli anditi, ovvero comunque tutte le parti necessarie all’uso comune ed essenziali alla funzionalità del fabbricato, e quindi anche gli annessi pianerottoli, passetti, corridoi, pur se posti in concreto al servizio di singole proprietà. Per sottrarre tali beni alla comproprietà dei condomini e dimostrarne l’appartenenza esclusiva al titolare di una porzione esclusiva, è necessario un titolo contrario, contenuto non già nella compravendita o nella donazione delle singole unità immobiliari (come suppone il ricorrente, menzionando gli atti d i cui alle pagine 16 e seguenti di ricorso), bensì nell’atto costitutivo del condominio. Titolo idoneo a vincere la presunzione di condominialità ex art 1117 e.e., infatti, è non l’atto di acquisto del singolo appartamento condominiale, quanto ilnegozio posto in essere da colui o da coloro che hanno costituito il condominio dell’edificio, in quanto tale
negozio, rappresentando la fonte comune dei diritti dei condomini, ne determina l’estensione e le limitazioni reciproche. Pertanto, per accertare se ilcorridoio di accesso ai singoli appartamenti delle parti in lite fosse escluso dalla comunione e riservato in proprietà esclusiva di alcuno o altro dei condomini titolari di essi, ilricorrente avrebbe dovuto decisivamente indicare, piuttosto, quale fosse stato l’atto costitutivo del condominio di via M., di Locorotondo, spettando certamente al proprietario, che rivendichi la proprietà esclusiva di un bene presuntivamente attribuito al condominio, l’onere di dare la prova del proprio diritto individuale sulla res.”

quanto alla pbiettiva destinazione del bene e alla sua attitudine a rendere una utilità comune, è giudizio di fatto rimesso al Giudice di merito: “Costituisce, peraltro, apprezzamento di fatto dei giudici di merito incensurabile in sede di legittimità – ove, come nel caso in esame, risulti pure compiutamente motivato – l’accertamento, in base ad elementi obiettivamente rilevati, che il corridoio serva, per sue caratteristiche strutturali e funzionali, ali’uso comune di più appartamenti, e non sia, piuttosto, destinato, al godimento di una parte soltanto dell’edificio avente accesso da esso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3159 del 14/02/2006; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1498 del 12/02/1998; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1776 del 23/02/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2070 del 22/03/1985; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 673 del 09/03/1972).”

Peraltro tale giudizio di fatto dovrà arrestarsi a fronte di una statuizione del titolo, posto che i criteri previsti dall’art. 1117 cod.civ. – così come espressamente previsto dalla norma – hanno natura sussidiaria e secondaria rispetto al titolo” la presunzione di comunione, tra i condomini di un edificio condominiale, di un bene rientrante tra quelli indicati dall’art. 1117 e.e., può, invero, esser superata se il contrario risulta dal titolo, e non già se la situazione di fatto deponga per la possibilità di ottenere le medesime utilità fornite da quel bene attraverso il godimento di altre parti comuni, comunque strumentali alla medesima porzione esclusiva (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3409 del 22/03/2000). Né parimenti rivelano significato i richiami operati in ricorso all’espletata prova testimoniale sul transito operato in  passato dalla famiglia O. attraverso la porta dell’androne, in quanto l’esclusione, quale titolo contrario ex art. 1117 cod.civ., dal novero delle parti in condominio di alcune che, per presunzione di legge, sono di proprietà comune, incidendo sulla costituzione o modificazione di un diritto reale immobiliare, deve risultare necessariamente da atto scritto.

© massimo ginesi 4 luglio 2016

 

ART. 1117 COD.CIV. , l’elisione del bene dal novero delle parti comuni deve risultare dal titolo

Interessante pronuncia della Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 26 gennaio – 22 giugno 2016, n. 12980 ), sulla mai abbastanza chiarita questione della presunzione di condominialità e sulle condotte idonee al suo superamento.

L’originario unico proprietario dell’edificio ben potrà destinare  determinati beni (nella fattispecie alcuni locali destinati a stireria e lavanderia) a svolgere una funzione autonoma e non strumentale all’utilizzo delle altre porzione del fabbricato.

Se tuttavia si vorrà che tale destinazione, che contrasta con la usuale destinazione di tali beni ad una funzione comune, sia opponibile ai condomini una volta che l’edificio – per la cessione a terzi delle unità esclusive – sia divenuto un condominio, tale circostanza dovrà risultare negli atti di acquisto, che rappresentano l’unico titolo idoneo a superare le presunzioni dettate dall’art. 1117 cod.civ. ove già non risulti dalle caratteristiche intrinseche al bene.

Al medesimo risultato non potrà invece pervenire una delibera succesiva, atteso che si tratta di atto dispositivo che ha natura negoziale e che è dunque sottratto al meccanismo deliberativo a maggioranza.

 

Osserva la Corte “In sintesi, la ricorrente deduce l’erroneità dell’accertamento svolto dal giudice d’appello, il quale, pur avendo correttamente indicato l’art. 1117 c. c. quale fonte di una presunzione iuris tantum della destinazione condominiale dei beni indicati al secondo comma della medesima norma, avrebbe indebitamente escluso dal novero degli “atti contrari” idonei a superare tale presunzione l’atto di destinazione unilaterale posto in essere dal proprietario esclusivo di un immobile indiviso, ritenendo invece necessario che tale volontà sia esplicitata nell’ambito del titolo costitutivo del condominio, ossia nel primo negozio di trasferimento delle portoni dell’immobile”.

“La questione riguarda dunque l’idoneità della deliberazione del 9 dicembre 1977 a escludere i locali occupati alla ricorrente dall’insieme dei beni condominiali, dovendosi altrimenti presumere, in virtù dell’aut. 1117, secondo comma, c c. – fondato sul rilievo esperienziale secondo cui determinati beni risultano normalmente connessi da un vincolo di destinatone strumentale alle porzioni di proprietà esclusiva dei singoli condomini – la natura comune degli stessi.”

“Di certo, appare evidente che non può disconoscersi la facoltà dell’unico proprietario dell’immobile di destinare, nell’ambito dell’uso esclusivo dell’edificio, singole frazioni dello stesso a un fine particolare, ma perché tale volontà unilaterale possa imporsi agli eventuali acquirenti delle portoni dello stabile, ossia ai futuri condomini, è necessario che l’elisione del nesso pertinenziale tra la res principale e la res secondaria, laddove non esplicitato in forma chiara nell’atto pubblico di trasferimento, costitutivo del condominio, emerga quantomeno sul piano oggettivo, alla luce dei connotati strutturali o della particolare collocazione del singolo bene la cui natura è controversa.

“Tale principio, frutto di un approccio ermeneutico attento sia alle prerogative del proprietario sia alle esigenze di tutela degli acquirenti delle porzioni condominiali, trova conferma in numerosi precedenti di questa Corte, atti a tracciare un orientamento giurisprudenziale oggi dominante, in base al quale, laddove la genesi di un condominio avvenga mediante il successivo smembramento di una precedente proprietà individuale, la volontà dei contraenti di attribuire in via esclusiva la proprietà di un bene che, per sua struttura e ubicazione, dovrebbe considerarsi comune ai condomini, deve emergere in maniera chiara e trasparente dall’atto bilaterale di trasferimento delle singole frazioni condominiali.

Del resto, in assenza di un esplicita manifestazione della volontà delle parti, all’atto meramente unilaterale dell’originario proprietario non potrebbe riconoscersi alcuna efficacia costitutiva o probatoria, potendosi al più rilevare l’esistenza di circostanze oggettive tali da escludere ragionevolmente la natura condominiale del bene, qualora i connotati strutturali o la collocazione dello stesso rendano evidente, al momento della compravendita, la destinazione nell’interesse esclusivo del proprietario originario o di un numero limitato di condomini (in tal senso, Cass., nn. 26766 del 2014; 3257 del 2004; 16292 del 2002; 11877 del 2002; 2670 del 2001; 5442 del 1999; 9221 del 1994; 9062 del 1994; 6103 del 1993; 3679 del 1987; 1806 dei 1984). Pertanto, guardando alle peculiarità del caso di specie, appare doveroso riconoscere che il giudice di secondo grado ha fatto buona applicazione dei suddetti principi rilevando che le caratteristiche strutturali dei locali contestati ne evidenziano l’obiettiva destinazione condominiale, atteso che il lavatoio e lo stenditoio non appaiono strutturalmente separati dalle altre superfici condominiali, costituendo, peraltro, ricovero per il serbatoio comune dell’acqua e per la comune caldaia. Ne è derivata, pertanto, l’esclusione de/l’assenta proprietà esclusiva della ricorrente, non potendosi la stessa dedurre né dal tenore degli atti di trasferimento succedutisi nel tempo, i quali operano una distinzione ristretta ai soli locali destinati al servizio di portineria, né dalla delibera richiamata, il cui contenuto non ha trovato eco nei negozi traslativi delle singole frazioni condominiali (v. pag. 5 della sentenza impugnata).”

© massimo ginesi giugno 2016  

il regolamento contrattuale e il decoro architettonico

Il regolamento di condominio di natura contrattuale, proprio per la sua idoneità ad incidere anche sui diritti dei singoli condomini, può porre limiti alle innovazioni o delineare un concetto di decoro architettonico più  restrittivo rispetto ai limiti usuali delle innovazioni.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, seconda sezione,  con sentenza  n. 10272, pubblicata il 18 maggio 2016 in cui ha affermato che  ai sensi dell’art. 1120 u.c. cod.civ. «sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino» e che ben può il re regolamento contrattuale di condominio imporre  il mantenimento delle linee estetiche e della regolarità dell’immobile, per come originariamente edificato.

La corte in particolare sottolinea come  “il regolamento del condominio abbia inteso limitare le innovazioni anche oltre la previsione di cui all’articolo 1120 del Codice civile avendo subordinato all’autorizzazione dell’assemblea ogni lavoro che interessasse “comunque” la stabilità, l’estetica e l’uniformità esteriore dei singoli fabbricati. La clausola in questione, che prescinde da una vera e propria alterazione del decoro architettonico, vieta ai condòmini, in assenza di autorizzazione assembleare, qualsiasi lavoro che interessi “comunque”, oltre all’estetica, anche l’uniformità esteriore dei singoli fabbricati”.

qui  la sentenza per esteso

© massimo ginesi giugno 2016